Nato debole debole, nel clima di sfiducia pubblica generato da Tangentopoli, dotato di un’investitura politica estremamente limitata, il governo Amato era stato partorito nell’illusione di poter affrontare la difficilissima transizione verso il risanamento con mezzi scarsi, privi di contenuti politici stringenti: come se una crisi di sistema potesse essere trattata attraverso una sovrana neutralità tecnica. Giuliano Amato veniva percepito come un classico uomo di passaggio; più che agli obiettivi che avrebbe dovuto realizzare, si pensava generalmente a lui come un manovratore che per competenza culturale e per consumata abilità diplomatica avrebbe saputo assicurare il modesto cabotaggio politico concesso dalle condizioni agoniche del quadripartito. Per un certo periodo, in effetti, il governo sorto dalle ceneri provocate dall’incendio elettorale del 5 -6 aprile è sembrato un’elevata sintesi dello stile secondo cui si progetta bene e alla fine si opera così così. Quantunque oggi il giudizio sul governo sia sostanzialmente positivo, alcuni capitoli neri di questo Amato double-face dovrebbero essere ricordati: la manovra finanziaria del luglio scorso, che doveva farci arretrare «dall’orlo del precipizio», si risolse nell’ennesima punzecchia tura fiscale, un’ulteriore tortura con il pregio di infastidire tutti senza risolvere nulla. Anzi, il colpo di mano del prelievo della patrimoniale anomala sui conti correnti, un’autentica effrazione di Stato ai danni dei risparmiatori e degli operatori, avrebbe poi avuto un ruolo straordinario durante la crisi valutaria di settembre: se è vero l’assunto einaudiano che i risparmiatori hanno «memoria d’elefante e gambe di lepre», le fughe di capitali settembrine, gli smobilizzi a prezzi di liquidazione degli investimenti in titoli di Stato, gli acquisti trafelati di valuta straniera da sistemare in cassetta di sicurezza derivavano dal timore che il governo, così come aveva violato il santuario dei conti correnti, potesse per disperazione profanare il sacrario dei Bot. Ancora. La manovra-tampone di luglio era stata preceduta da un bla-bla di ministri che avevano soprattutto il dovere civile di stare zitti. Le misure annunciate venivano modificate mentre si annunciavano. Si commettevano oltretutto autentici misfatti, come nel caso dell’Efim, che sui mercati internazionali restituivano all’Italia un’immagine da magliari. Non si può tacere neppure l’enormità concettuale del caso delle «superholding», che nel progetto originario avrebbero dovuto controllare gli enti di Stato trasformati in società per azioni, e che vennero decapitate dal presidente del consiglio dopo una «notte tormentata». Ma come: si decide di mettere mano ai misteri dolorosi dell’economia pubblica e lo si fa improvvisando? Primi successi Il primo vero risultato di Giuliano Amato veniva conseguito siglando il protocollo di accordo sul costo del lavoro, il 31luglio, con la firma sofferta di Bruno Trentin e le sue dimissioni successive da segretario della Cgil. Nonostante il «non possumus» di Trentin, l’accordo sul costo del lavoro e l’impegno che Amato vi aveva dedicato, fino a minacciare ripetutamente le dimissioni per indurre il sindacato alla firma, definivano piuttosto precisamente lo sfondo operativo su cui si muoveva il capo del governo: era la classica «concertazione» triangolare fra esecutivo, imprenditori e sindacati, il tentativo di replica dello schema neocorporativo su cui aveva puntato Bettino Craxi il 14 febbraio del 1984 con il decreto di San Valentino (guarda caso, la Cgil era saltata per aria anche allora). Nelle prime settimane di attività, Amato dava l’impressione di agire piuttosto accademicamente. Predisponeva contesti, allestiva scenari, preparava metodologie. Tuttavia, per la prima volta da anni si assisteva al singolare spettacolo di un governo che manifestava l’intenzione di governare. Non accadeva dall’era Craxi; in seguito, gli ultimi fuochi della governabilità erano stati accesi sul campo del risanamento economico da Ciriaco De Mita con i ticket sulla sanità, e immediatamente spenti da una puntuale ondata populista. Da allora in poi, si era conosciuto soltanto il «tirare a campare», vale a dire un’azione di governo basata sulla fiducia nella possibilità perpetua di indebitamento. Nel torrido agosto del 1992 si assisteva invece al mezzo miracolo di un ornino che sembrava destinato a una durata per l’appunto «balneare» e che invece scendeva sull’ultima spiaggia e, fra lo stupore di quasi tutti (compresi probabilmente i suoi ministri), si muniva di paletta e secchiello e cominciava ad affrontare la montagna di sabbia della finanza nazionale. Nello stesso periodo giungeva però il cattivo segnale del declassamento dell’Italia operato da Moody’s, a ricordare che i rischi di crisi finanziaria erano ancora drammaticamente incombenti. Ma in quel momento dire crisi finanziaria significava alludere a qualcosa di astratto, non un trauma brutale per la collocazione dell’Italia nel contesto economico internazionale, una spinta violenta alla marginalizzazione della nostra industria, e neanche un’aggressione immediata e «cattiva» ai livelli di benessere della nostra società. Durante l’estate 1992, sembrava che nessuno avesse piena consapevolezza di che cosa avrebbe comportato uno shock finanziario di media gravità, che avvicinasse l’appuntamento, più volte acrobaticamente evitato, con la svalutazione della lira. Non avrebbe soltanto comportato un colpo durissimo per il governo Amato. Avrebbe voluto dire, in fondo, che nella comunità degli operatori internazionali, in politica e in economia, si stava scommettendo sulla non credibilità del tentativo di risanamento appena avviato, e più in generale sulla irrecuperabilità della nostra classe politica. A la guerre com me à la guerre: se il nostro sistema politico veniva giudicato inadeguato a mantenere l’Italia nella pattuglia dei Paesi industriali avanzati, se il nostro Paese costituiva un anello troppo debole per sostenere le configurazioni previste dalle eleganti geometrie dell’Europa di Maastricht (o viceversa se la sua debolezza rappresentava un’occasione troppo ghiotta per cercare di ostacolare il processo di unificazione europea), tanto valeva provocarne la resa, chiedendo implicitamente la sostituzione integrale dei responsabili della disfatta. Schema troppo rigidamente ottocentesco per essere realistico e credibile fino in fondo: in ogni caso, fra un’eventuale dichiarazione di guerra così congegnata e lo sfondamento finale di tutte le nostre difese c’era un solo diaframma politico, il quartier generale di Giuliano Amato. Grazie a una specie di triplice alleanza con il Quirinale e la Banca d’Italia, il governo riusciva a mettere sotto tiro un eccezionale volume di questioni. Tra eccessi di volontarismo, qualche gaffe confusionaria, e scontando la paurosa crisi di inefficienza della macchina burocratica, si cominciava a mettere le mani in quei grovigli che nessun governo aveva mai tentato di sciogliere. Grazie al fatto che gli stati maggiori dei partiti erano paralizzati, la banda Amato ha cominciato a vincere qualche battaglia. A quel punto è stato chiaro che, se non si poteva scommettere sul suo futuro, vale a dire sulla sua capacità di resistere a una congiuntura internazionale duramente sfavorevole, la sua azione permetteva invece di guardare con occhi diversi, e assai meno indulgenti, al passato. A un passato non lontano, in cui il risanamento non sarebbe stato l’esatto equivalente della fuga disperata da una tragedia incombente; in cui si sarebbe potuto governare nella decenza e nella razionalità, se si fosse voluto e saputo, se non si fosse puntato cinicamente sull’ «impossibilità di essere normali» degli italiani. Il caso del governo Amato diceva che governare si poteva, che le condizioni favorevoli alle decisioni potevano essere create. E a fine agosto l’azione di governo appariva l’unico motivo che impediva ancora di chiedere il processo per bancarotta fraudolenta del sistema politico, della classe politica. Probabilmente non sarebbe stata sufficiente come garanzia per la comunità internazionale; si poteva però sperare che per il momento bastasse alla nostra collettività. Scene da una crisi Il 4 settembre, in una giornata percorsa da lunghi, spasmodici brividi di crisi finanziaria, con la Banca d’Italia che mandava il tasso di sconto al 15 per cento, il presidente Scalfaro, dopo avere comunicato che per fronteggiare la straordinaria gravità della situazione scoccava l’ora di «una tensione e di una responsabilità collettive», spediva Amato in Tv, a ribadire che le condizioni del Paese erano disperate. Tuttavia il capo del governo commetteva l’errore di descrivere la malattia senza annunciare la terapia. Da quel momento sembra di entrare in un universo maligno, dominato dalla più disastrosa delle «leggi di Murphy»: se qualcosa può andare storto, andrà storto. Inevitabilmente, con una sorta di tensione interna automaticamente e beffardamente catastrofica. Sotto questo profilo, il modo in cui si giunse alla svalutazione della lira rappresenta probabilmente un caso da manuale della crisi di fiducia dei risparmiatori. Amato, che pochi giorni prima aveva proposto una legge che avrebbe conferito al presidente del consiglio i pieni poteri in economia, riusciva ancora ad argomentare con certosina finezza professorale le ragioni che lo avevano indotto a questa spericolata iniziativa: in tempi di decisioni brucianti, le scelte di politica economica rischiavano di venire appaltate in sostanza a un organo, la Banca d’Italia, non legittimato democraticamente; delegando i superpoteri al governo, si sarebbe avuto, dietro l’apparenza del decisionismo, un maggiore rispetto della volontà popolare espressa col voto … Tutto inutile: si arriva alla svalutazione, con la disastrosa scena televisiva del presidente del consiglio che illustra il crollo della lira con i toni grotteschi di una vittoria dell’Italia contro il resto del mondo, e a quel punto tutto sembra già scritto. Le ondate di vendite «speculative», effettuate tanto dalle anziane signore che si portano via nella borsa pacchetti di marchi tedeschi quanto dalle banche della «socialità» cooperativa emiliana che alla roulette del cambio puntano contro la lira, mettono in moto e alimentano un processo al cui termine sembra esserci inevitabilmente la bancarotta. Mentre sembra che l’unico antidoto alla gravità della crisi sia l’assuefazione psicologica (dopo pochi giorni, quando tutte le difese cedono, la sanguinosa e dogmatica difesa della lira entro il limite dello Sme, a 765,40 sul marco, assume retrospettivamente l’aspetto quasi di un’ubbia estiva della Banca d’Italia), Amato estrae dalla manica la supermanovra da 93.000 miliardi. Forse solo la disperazione poteva sbloccare la paralisi di fronte al marasma finanziario. La manovra infatti rappresenta un trauma violentissimo, non solo per i cittadini colpiti dalle misure del governo (che tuttavia avranno qualche mese per rendersi conto della botta) ma forse ancor più per la classe politica, che al momento estremo deve accettare di tagliarsi alle spalle i ponti attraverso cui si era mantenuta, a prezzi ormai insostenibili, un residuo di consenso sociale. Tagli alle spese per 43.500 miliardi, maggiori entrate per 42.500, più 7.000 miliardi di privatizzazioni. Ma ciò che risulta più spettacolare, al di là delle cifre, è l’intervento sui settori: sanità, sistema previdenziale, pubblico impiego, cioè i tradizionali pilastri del sistema di consenso all’italiana. E’ a questo punto che l’immaginazione politica del capo del governo comincia a prendere corpo: gli scenari, i contesti, i preparativi si condensano in linee operative e provvedimenti. L’azione di governo comincia ad acquisire un contenuto più immediatamente incisivo. Amato ha successo quando le condizioni si sono talmente degradate da sembrare impossibili. Fa approvare la legge finanziaria entro Natale, superando indenne la tortuosa procedura parlamentare con determinazione e puntiglio, ricorre al voto di fiducia ogni volta che occorre, comincia a speculare vittoriosamente sulla debolezza dei partiti della maggioranza e sui residui sensi di responsabilità delle forze di opposizione. Ma il relativo successo del governo, il successo di qualcuno che alla fine è riuscito a tamponare il guaio che aveva contribuito a creare, non è sufficiente a mascherare che il sistema italiano si trova a vivere una situazione di autentica e profonda schizofrenia. Da un lato, nell’anno di Di Pietro, la politica viene percepita soprattutto come corruzione, collusione, malaffare (oppure, tuttalpiù, come combinazione di trucchi per cambiare tutto per non cambiare nulla: vedi le fumisterie, le incomprensioni, i giri di valzer all’interno della Sala della Lupa, dove la Commissione bicamerale per le riforme celebra i suoi riti generalmente incomprensibili). E dall’altro lato la società sbanda, non riesce a individuare da sola né una via d’uscita né un traguardo razionale a cui indirizzarsi. Bullona i capi del sindacato, precipita nelle invidie corporative, barcolla fra sbalordimento e rancore, collera e rassegnazione. Forse oscuramente intuisce che qualcosa di straordinariamente importante (e probabilmente non preventivato) si sta verificando. Nella terra di nessuno fra una politica ormai sorda e una società pressoché ammutolita, c’è un governo che sta facendo, preparando o comunque promettendo provvedimenti di portata fuori dell’ordinario: forse sarebbe opportuno accorgersi in fretta che non si tratta soltanto di operazioni di bilancio, di ricuciture finanziarie, di aggiustamento dei conti a forza di chirurgie di spesa. Il fatto è che l’esecutivo guidato da Amato si è trovato ad affrontare un’emergenza mai vista: insieme alle misure-tampone, ai pannicelli caldi, alle imposte di bollo, ha dovuto adottare una serie di provvedimenti che sono destinati a incidere in misura estremamente rilevante sui meccanismi strutturali del sistema italiano. Ebbene: in questo modo si viene realizzando un paradosso addirittura clamoroso: un governo nato dall’impotenza dei partiti dopo le elezioni shock del5 aprile, dalla drammatica difficoltà di ricambio nella Dc e dalla vulnerabilità di Craxi in seguito all’inchiesta Mani pulite, per assicurare la sopravvivenza del Paese prende una serie di decisioni che possono cambiare non solo i conti di casa, bensì il Paese stesso. Il traghettatore non si limita a turare le falle e a remare volonterosamente verso la riva opposta, comincia anche a gettare le fondamenta di un edificio nuovo sulla sponda di arrivo. Con l’intervento sul pubblico impiego, le pensioni e la sanità, modificando ragguardevolmente lo Stato sociale all’italiana, il governo Amato sta ridisegnando il rapporto dei cittadini con lo Stato, e le aspettative della società rispetto alla mano pubblica. Con il programma di privatizzazioni, su cui dovremo tornare, ha avviato secondo alcuni una sostanziale riforma della costituzione economica del Paese. Con uno strumento come la minimum tax, grossolano fin che si vuole, ha infranto il patto scellerato fondato sull’ equazione «voto in cambio di evasione». Gli strumenti fiscali conferiti agli enti locali cominciano a delineare un ben più stringente rapporto di responsabilità e di controllo fra gli amministratori locali e i cittadini. Insomma, non sarà solo il fastidio per le tredicesime tagliate o il disagio per le maggiori tasse a qualificare il mutamento di rotta. Ciò che viene cambiato, attraverso la leva dei dispositivi di spesa, è il patto stabilito fra i cittadini, l’insieme delle regole che presiedono alla redistribuzione del reddito, le responsabilità per il futuro che ognuno di noi si assume di fronte a se stesso e agli altri: l’idea stessa di società a cui fare riferimento. Che tutto ciò sia avvenuto nel silenzio dei partiti, di fatto senza dibattito pubblico, rappresenta un fallimento della politica assolutamente senza precedenti. È come essere governati da un commissario straordinario, o da un consiglio d’amministrazione, anziché da un’istituzione legittimata dalla volontà popolare. Se ne apprezzano la buona volontà e le ottime intenzioni, ma si capisce definitivamente che mentre viene scelto il nostro domani c’è chi ha abdicato dal proprio ruolo di orientamento e di trasmissione della volontà collettiva. Se i partiti sono quelle entità a cui secondo l’articolo 48 della Costituzione ci si può associare «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», la medaglia assegnata al governo Amato ha come rovescio la constatazione che questi partiti non servono più a nulla. Governo d’ emergenza, non governo di programma E tuttavia, malgrado il salvataggio in extremis compiuto da Amato, il 1993 assomiglia a un congegno a tempo, in cui sia stato innescato un conto alla rovescia alla cui ora zero ci potrebbe essere l’esplosione di tutte le stridenti contraddizioni che hanno portato in spasmo la società italiana. Come si fa a interrompere questo spaventoso count down? Ed è davvero realistico pensare che si possa bloccarlo, a quel punto? Si tratta di domande che di settimana in settimana assumeranno scansioni implacabili, scadenze ultimative, ritmi padroneggiabili solo a patto di una perfetta consapevolezza della gerarchia di priorità.E la forbice per ritagliare la nuova fisionomia italiana ha due lame. Il primo compito spetterebbe al Parlamento, attraverso la Commissione bicamerale, e consiste nel produrre una riforma elettorale adeguatamente e accettabilmente severa: in modo che si possa votare prima possibile, che i partiti attuali passino attraverso la ghigliottina di un sistema elettorale che li trasformi radicalmente. E’ solo da questa «rivoluzione» democratica, un autentico bagno di sangue fatto con i numeri, che può in seguito nascere un metodo per dichiarare chiusa Tangentopoli, procedere all’epurazione dei responsabili e infine giungere a un provvedimento di normalizzazione della vita politica italiana. Si può negare che un sinedrio partitocratico come la Bicamerale sia in grado di produrre alcunché; ma in qualunque modo si giunga a una riforma del congegno elettorale, per via parlamentare o per via referendaria, occorre anche sapere che ciò servirà solo per completare la pars destruens rispetto al sistema politico attuale. È probabile infatti che le prime elezioni politiche del nuovo regime elettorale servano soltanto a distruggere, a scomporre, a disarticolare i partiti piuttosto che a ricomporre un quadro coerente. Non sarà una prospettiva particolarmente brillante, ma ne abbiamo bisogno, comunque. In questo momento serve molto di più la mazzata che scrolli via i partiti dalle posizioni di potere a cui sono abbarbicati che non il disegno perfetto di un nuovo e ponderato regime istituzionale. Perché questo sarà anche il modo per spazzare via tutti i luoghi comuni e tutte le fantasticherie sul «radicamento» dei partiti nelle fasce popolari, e sul loro grado di rappresentatività, e sul loro patrimonio storico e ideologico: tutti i paraphernalia da mercatino dell’usato a cui continuano a fare ricorso i redditieri del sistema proporzionale. L’altro obiettivo fondamentale riguarda invece ancora il governo, e si chiama semplicemente debito pubblico. Sappiamo ormai che c’è pochissimo spazio per ulteriori spremiture fiscali, per l’invenzione di altri balzelli e nuovi pedaggi. Quindi è giunta l’ora di prendere di petto la macchina dei titoli di Stato, la cui remunerazione in interessi raggiunge ormai i 200 mila miliardi su base annua. Si tratta di un’enorme idrovora, che sottrae risorse agli investimenti produttivi e li consegna alla rendita, grande e piccola che sia. Qualunque misura venga adottata per mutarne il funzionamento, non sarà indolore. E quindi che titolo avrebbe il governo Amato per affrontare un problema di queste dimensioni? Dopo le elezioni parziali del 13 dicembre 1992 è un esecutivo senza più maggioranza reale nel Paese, ed è privo di riconoscibile legittimazione. Occorre tenere presente che la questione del debito non è un problema da risolvere in astratto con originali e funambolici esercizi econometrici: ogni volta che si modifica un dato nel regno dei numeri si altera di conseguenza qualcosa nella società. E quindi, se la guerra è troppo seria per !asciarla fare ai generali, e la diplomazia ai diplomatici, sarà anche vero che l’economia è qualcosa di troppo decisivo nella vita di tutti per consegnarla nelle mani di qualche apprendista stregone. Perché sarebbe un’ironia troppo feroce guarire le poste di bilancio lasciando uccisa sul campo la società. D’altro canto, intervenire sull’economia costituisce lo strumento fondamentale per costruire la società che si ha in mente, per aggredire o consolidare posizioni di potere, per premiare o penalizzare chi compete nell’arena pubblica: appare sintomatico di conseguenza che le maggiori tensioni si siano sviluppate entro il governo sul tema delle privatizzazioni. Appartiene al folklore annotare che l’ultimo esercizio Andreotti aveva iscritto a bilancio introiti dalle privatizzazioni per 15.000 miliardi con risultato zero: i 15.000 miliardi previsti erano uno dei consueti capolavori di cosmesi sul volto di un cadavere, il bilancio dello Stato. Mentre il buco da 7.000 miliardi di mancate privatizzazioni nella gestione Amato rappresenta il risultato di una difficoltà che si è opposta a una volontà, di resistenze che si sono schierate contro un’intenzione esplicita. Anche questo testimonia che privatizzare non vuole dire limitarsi a vendere pro forma e alla spicciolata qualche banca o qualche azienda di Stato: significa piuttosto che una politica di privatizzazioni comporta il ridisegno dell’economia di un Paese, non è qualcosa di neutro, modifica la struttura del potere, favorisce alcuni e penalizza altri, sposta ricchezza, incide sull’occupazione. Anche il metodo stesso adottato per una politica di privatizzazioni non è neutrale. Quando Romano Prodi ha descritto su questa rivista il suo modello di privatizzazioni, aveva in mente la realtà tedesca, l’intreccio di banca e industria in una società corporata, omogenea e scarsamente conflittuale. Nel rispondergli, Filippo Cavazzuti poneva in evidenza la necessità di smantellare gli intrecci monopolistici che hanno consentito il controllo del potere politico sull’economia e a pochi operatori un vantaggio garantito dalla mancanza di concorrenza1. Ciò significa che anche le privatizzazioni, che pure rappresentano il secondo segmento della riforma politica dopo la riforma elettorale, non possono essere giocate a cuor leggero, in nome di mere necessità contabili, ma dovrebbero essere inserite a ragion veduta in un’ «idea di società» a cui riferirsi consapevolmente. In conclusione, l’intero panorama del 1993 sembra dominato da un forte squilibrio iniziale, quello fra la taglia smisurata dei problemi e i limiti oggettivi di un governo che ormai si basa più che altro sul prestigio personale guadagnato da Amato in questi mesi. Soltanto una forte rilegittimazione politica dell’istituzione-governo potrebbe ridurre questo divario, riunire le lame della forbice, ma abbiamo visto che essa non è conseguibile in tempi adeguatamente brevi. Mentre questo articolo viene scritto, le tensioni sull’esecutivo si stanno accentuando. In altri momenti, la soluzione dell’allargamento della base politica governativa sarebbe stata la prima via a essere esplorata. Oggi, essa potrebbe determinare instabilità anziché rafforzamento; inoltre, la politica attuale premia chi sta fuori piuttosto che chi partecipa; senza dimenticare che fra questo esecutivo e il «governo di svolta» che certe opposizioni chiedono con qualche demagogica ipocrisia (offrendogli invece di contrabbando qualche puntello in Parlamento) si dispiega uno scenario di crisi da incubo. E quindi, anche come esorcismo, tanto vale attribuire al bilancio positivo del governo Amato un auspicio di durata. Nella consapevolezza tuttavia che pur avendo fatto molto, e anche se riuscirà a resistere a lungo, per numerosi aspetti continuerà a essere il punto di riferimento per gestire un’emergenza, non un governo per applicare un programma o realizzare un progetto. E che probabilmente, date le condizioni in cui agisce, è meglio così: ciò che gli si è chiesto è il compito ingrato di salvare il salvabile, non ancora di rifare l’Italia. Nota 1 L’articolo di Romano Prodi, Un modello strategico per le privatizzazioni, è apparso nel «Mulino», XLI (settembre/ottobre 1992), n. 343, p. 851; il contributo di Filippo Cavazzuti, Privatizzare: alla ricerca di competizione tra padroni, nel n. 344, p. 1048.
01-02 1993
Osservatorio italiano