Alle elezioni del 2 giugno 1946 il Fronte dell’Uomo Qualunque conquistò il 5,3 per cento dei voti e 30 seggi, quasi tutti localizzati nel Centro Sud. Il successo vero, per il movimento di Guglielmo Giannini, sarebbe arrivato alle amministrative del novembre successivo: «Il Fronte ottenne buone affermazioni nei centri settentrionali, dove la sua presenza era stata, fino a pochi mesi prima, addirittura irrisoria. Ma il suo successo fu strepitoso nel Centro e soprattutto nel Meridione. A Palermo, Foggia e Lecce, le liste del torchietto risultarono prime in assoluto, così come a Bari, Catania, Messina e Salerno»1. A distanza di un anno e mezzo, con il voto popolare del 18 aprile 1948 dominato e plasmato politicamente dall’alternativa fra Dc e socialcomunisti, l’Uomo Qualunque fu praticamente spazzato via (alleato estemporaneamente con i liberali nel Blocco nazionale, Giannini vide eletti solo cinque dei suoi candidati). In pochissimi anni si era consumata un’avventura politica che oggi, per i suoi tratti sul filo del grottesco, per l’accanimento espressivo, per l’arcaismo della sua cultura, sembra concepibile soltanto situandola nel momento storico del primissimo dopoguerra: occorre immaginare un commediografo, giornalista, cineasta,giallista, canzonettista – Giannini per l’appunto – che entra in scena, sul palco principale della politica italiana, e da parvenu, con il suo giornale rissoso, si mette a parlare direttamente alla gente, anzi, alla «Folla» di un paese segnato drammaticamente dal crollo del fascismo e tragicamente dal disastro della guerra: e che si mette a propagandare idee sedicenti rivoluzionarie, cercando demagogicamente un ruolo di capopopolo mentre i protagonisti del patto di rinascita nazionale, De Gasperi, Nenni e Togliatti, sono al governo insieme, uniti da un disegno di ricostruzione che non si è ancora spezzato (come accadrà traumaticamente pochi mesi dopo). È superfluo ripercorrere qui l’immaginoso universo dei simboli e delle idee di Guglielmo Giannini, se non per identificare i punti focali del suo discorso pubblico. Il disprezzo per la politica e per i professionisti della politica, i «politicanti». La diffamazione sistematica dei protagonisti della vita pubblica, la messa in ridicolo degli avversari riempiti protervamente di insulti. La rivendicazione della libertà anarcoide per l’uomo della strada torchiato da poteri ostili e impenetrabili (ecco il simbolo del movimento, un pover’uomo messo sotto torchio e spremuto dagli uomini politici). E soprattutto un astio fortissimo, traboccante, irriducibile per la classe politica antifascista, che veniva dipinta come un nuovo regime, con le sue ipocrisie inedite, con le epurazioni che salvavano i potenti e mettevano nei guai i pesci piccoli, con la manipolazione partitica della volontà popolare. IL DOPOGUERRA Il clima che si era creato dopo la Liberazione era determinato da un lato da una classe politica emersa con l’antifascismo e la Resistenza, e dall’altro da una società profondamente divisa, se non lacerata: compromessa con il regime per ragioni di consenso o di interesse, con una borghesia atomizzata dal fascismo, che aveva annichilito le articolazioni della politica,e con una larga parte d’Italia che era rimasta inerte rispetto alla guerra di liberazione. Il messaggio di Giannini riusciva a fondere sentimenti e risentimenti in un vangelo antipolitico che permetteva di prendere le distanze sia dai nuovi «padroni » sia dalle proprie responsabilità o connivenze passate, così come dai sensi di colpa per avere fatto parte di un’esperienza finita nel discredito e, a partire dalle leggi razziali, nella vergogna. Una inclinazione non proprio e non ancora «revisionista», ma certamente relativizzatrice del fascismo, si era espressa subito dopo la conclusione della guerra. Si era manifestato subito con una certa chiarezza il tentativo di ridurre il fascismo a una vicenda provinciale, a una dittatura all’acqua di rose, anzi, «all’italiana», una fiera delle vanità dominata dalla personalità istrionica di Benito Mussolini: era il fascismo inteso come faccenda di faide tra romagnoli, su cui ironizzava Leo Longanesi; era il tentativo di risolvere nostalgicamente e catarticamente la catastrofe nazionale nella constatazione da rotocalco popolare che dalle tasche del Duce, appeso a piazzale Loreto, «non era caduto un soldo»; oppure la più sofisticata costruzione di un «anti-antifascismo» che conduce alla piccola ideologia del «Mussolini buonanima», fino al «buonuomo Mussolini» reinventato nel testamento apocrifo scritto nel 1947 da Indro Montanelli. Ha commentato uno storico senza inibizioni nei giudizi, Sergio Luzzatto: «Il successo di pubblico di Montanelli negli anni della ricostruzione molto doveva alla sua capacità di rivolgersi – da "cattiva coscienza d’Italia" – alla coscienza degli italiani che erano stati fascisti, non volevano più esserlo, ma nemmeno volevano sentirsi in colpa per esserlo stati»2. Che cosa proponeva a questa gente, Giannini? Che cosa prospettava agli epurati, ai ceti medi meridionali, agli attendisti, alla zona grigia, a tutti coloro che avevano vissuto nel fascismo, ma anche a tutti i moderati che avvertivano con fastidio il «mito» ciellenistico della Resistenza e i progetti di rigenerazione catartica dei partiti al governo? Naturalmente, un’estraneità assoluta, un’ostilità plebea verso l’insieme della classe politica uscita dai Comitati di liberazione. E, a seguire, una enfatica rivendicazione dell’inutilità della politica e dei partiti: «Noi non abbiamo bisogno che d’essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici». Il capo dell’Uomo Qualunque proponeva quindi ai vertici dello Stato «un buon ragioniere: non occorrono né Bonomi né Croce né Selvaggi né Nenni, né il pio Togliatti né l’accorto De Gasperi. Un buon ragioniere che entri in carica il primo di gennaio, che se ne vada al 31 dicembre, che non sia rieleggibile per nessuna ragione». La retorica della buona amministrazione contro la politica e i suoi schematismi ha poi avuto una storia lunga e per qualche aspetto non prevista, fino a diventare un topos di tutte le iniziative di destra (criptate ideologicamente ma di destra), che hanno cercato di fare saltare esperienze consolidate storicamente nelle realtà locali (ad esempio in una città come Bologna, dove la sinistra è stata battuta dal candidato «a trecentosessanta gradi», cioè apparentemente non politico, Giorgio Guazzaloca, autoproclamatosi erede del civismo comunista degli anni di Giuseppe Dozza). Invece il movimento qualunquista si è spento non appena lo spazio politico è stato occupato dallo scontro «d’epoca» del 1948: di fronte a un confronto politico che implicava una battaglia tra visioni del mondo, ma anche una scelta di campo esplicita fra i due blocchi internazionali contrapposti, il terzaforzismo maleducato di Giannini, insieme con le volgarità, le arguzie plebee, i soprannomi ingiuriosi, i «Fessuccio Parmi », i «demofradici cristiani», diventarono all’improvviso moneta fuori corso. L’impronta qualunquista Dopo di che, il qualunquismo sopravvive a lungo in Italia quasi solo come criterio di giudizio sugli atteggiamenti politici altrui. La Dc ha avuto un ruolo significativo nel formare alla democrazia i ceti medi usciti dal fascismo. Il suo anticomunismo è stato un cemento efficace anche nei confronti di quelle fasce di elettorato conservatore che cercava protezione ben più che slancio sociale, che nutriva un acuto senso di diffidenza nei confronti della progettualità sociale e delle preoccupanti intenzioni riformiste. In parallelo, il Pci organizzava il suo consenso mantenendo al proprio interno una robusta direttrice ideologica e organizzativa, che in linea di tendenza impediva escursioni populiste o qualificabili esclusivamente in chiave di protesta. Come immagine, il partito di Togliatti era un partito di militanza severa e di strenuo professionismo politico. La sua condanna all’opposizione, cioè a essere minoranza, confermava semmai uno stile di enunciata sobrietà, che più tardi sarebbe sfociata nella rivendicazione della «diversità » morale (Enrico Berlinguer: «Il Pci è l’unico partito pulito e diverso», 1980); ma anche in questo caso, che pure sotto il profilo politico poteva risultare suscettibile di sfumature extrapolitiche, e a indignazioni e denunce non sempre argomentabili come lineare conflittualità politica, l’impronta qualunquista non era visibile se non in alcune espressioni popolari, «antipadronali» e antidemocristiane e forse anche antisistema per necessità sostanzialmente pubblicitarie. Per un lungo periodo, va detto in ogni caso che la politica italiana fu orientata o da progetti di significativa caratura oppure da conflitti di particolare intensità. Ma dai binari ufficiali del confronto politico non si usciva. Gli aspetti più enfatici e folk dell’agonismo politico (il presidenzialismo ante litteram come espressione dell’autorità, la richiesta della pena di morte, insieme agli almirantiani temi «socializzanti», di evidente ascendenza fascista repubblicana) vennero assunti come istanze propagandistiche dall’estrema destra missina, non ancora riciclata in chiave liberalgollista, senza che ciò si trasformasse in una duratura corrente d’opinione osservabile nel corpo della società. Anche le ricorrenti evocazioni della «maggioranza silenziosa», a suo tempo qualificate come espressione di un intreccio fra impulsi qualunquisti e velleità autoritarie, si collocavano in realtà nei binari tracciati dallo scontro terroristico durante gli anni Settanta. Erano una risposta suscitata, e magari sollecitata, dall’esasperazione del conflitto politico e sociale, una richiesta di law and order, ben più che un potenziale manifesto antipolitico o poujadista. Anche perché mancava del tutto l’imprenditore politico, per l’eventuale vocazione qualunquista. Non esistevano soggetti in grado di coagulare fuori dal sistema dei partiti il disagio per la conflittualità sindacale: perfino un evento dirompente come la «marcia dei quarantamila» dell’ottobre 1980, nella Torino dell’ultimo grande conflitto sindacale, si ritrovò in breve orfano di referenti politici in grado di mettere a capitale la rottura di paradigma e l’inversione di consenso che si erano registrate. Sintomi di una disaffezione per i partiti e la politica così acuta da colorarsi di tratti qualunquisti si manifestarono durante il decennio Ottanta. Ma si parla di «tratti» qualunquisti, perché è piuttosto difficile, se non del tutto impossibile, individuare uno specifico «programma » qualunquista. Sarebbe più opportuno indicare il primo manifestarsi di un atteggiamento di rifiuto verso il funzionamento della politica italiana, con le sue formule usurate (l’arco costituzionale, la conventio ad excludendum, l’immobilità sostanziale dell’equilibrio di governo, gli assetti consociativi suggeriti e dettati dall’assenza di alternanza). Il primo segnale di rifiuto si era rivolto verso quella cultura «di sinistra» che aveva egemonizzato nel decennio precedente il discorso pubblico fino a configurarsi, essa sì, come una sorta di ideologismo qualunquistico, per quanto orientato in termini politically correct. Ma ben presto il rifiuto si era indirizzato verso il sistema dei partiti, cioè verso i soggetti giudicati responsabili di una democrazia bloccata. «PIOVE, GOVERNO LADRO» I confini fra qualunquismo e critica del sistema politico sono sottili. Talvolta permeabili. Si comincia infatti a parlare di «partitocrazia», adottando un termine che in precedenza veniva ascritto al lessico della destra non liberale. Ad un tratto, tutte le tradizioni e le abitudini che giustificavano anche i balletti della politica parlamentare, tutti gli echi di una storia che si cristallizzavano nelle cerimonie partitiche, avevano smarrito il loro senso: e con questa perdita si smarriva dunque anche la razionalità del processo politico, con una percezione via via più diffusa di un’autoreferenzialità che slittava progressivamente nell’insensatezza irrimediabile, tout court, della politica. La struttura cosiddetta «poliarchica» della Dc, con il conseguente equilibrio mobile delle correnti, cominciava a diventare peggio che incomprensibile. Il dilemma dell’alternativa, che aveva affascinato le menti migliori della sinistra, si trasformava in puro scontro fra socialisti e comunisti, proprio mentre l’assetto di governo, con il non dimenticato Caf, si proponeva nel segno dell’immutabilità. A quel punto, l’unica possibilità era cercare di capire se era nato prima l’uovo o la gallina. Vale a dire se era il cattivo funzionamento del sistema politico a generare il rifiuto e la presa di distanza da parte dei cittadini, oppure se esisteva e agiva una costante italiana qualunquista, riassumibile nel partito del «piove, governo ladro», già stigmatizzato da Emilio Lussu in un discorso all’Assemblea costituente nel 1946. Chi ha in antipatia il ricorso a categorie antropologiche che fissano la dimensione sociale sub specie aeternitatis dovrebbe rispondere tranquillamente al negativo. Anzi, si potrebbe ribattere che in realtà, nel momento della crisi più acuta del sistema politico, si è assistito a un mobilitazione piuttosto straordinaria, in termini politici, dell’opinione pubblica. Agli inizi degli anni Ottanta l’avvenimento politico principale non è tanto l’emersione della Lega di Umberto Bossi, quanto l’identificazione di una quota ampiamente maggioritaria della società italiana con le iniziative referendarie per la modificazione del sistema elettorale. Prima nel 1991 con il referendum sulla preferenza unica e poi nel 1993 con la consultazione contro il metodo proporzionale si è formato un consenso molto ampio sul tema delle regole e della loro trasformazione. Ciò significa che la critica condotta verso la politica trovava sbocco in strumenti dichiaratamente politicoistituzionali. Con un minimo di ottimismo, si poteva pensare perfino che lo slancio referendario contro la «Repubblica dei partiti» fosse animato almeno in parte da una coscienza «civica». Di sicuro c’è che in quella fase l’insofferenza per la politica effettuale e il desiderio di cambiamento si sono incrociati. Non che tutto fosse così limpido, dal momento che alcune venature qualunquiste erano visibili. Ma era altrettanto visibile, solo a volerlo, anche l’eccesso di aspettativa che veniva collocato sulla trasformazione della formula elettorale: un qualunquismo di secondo livello, se si vuole, che metteva in secondo piano il contenuto rispetto al metodo. Si è argomentata e diffusa l’idea che i referendum elettorali e il passaggio al maggioritario fossero la soluzione fatta e finita anziché la leva della trasformazione. D’altra parte, erano pochissimi gli esponenti politici che avevano il coraggio di rivendicare le ragioni della politica (la politica dei partiti) nel momento in cui queste ragioni erano screditate. Si aggiunga che nel frattempo era deflagrata Tangentopoli, che aveva rivelato un intrico estesissimo di politica e affari di cui tutti sapevano e tutti tacevano, nel rispetto rigoroso delle convenzioni. Ma anche il sostegno corale all’inchiesta Mani pulite, la trasformazione in eroe di Antonio Di Pietro e del pool di Milano, l’apparizione delle tricoteuse che si appassionavano alla telenovela della decapitazione di una classe politica, le monetine gettate a Craxi, sono tutti elementi che vanno interpretati all’interno di una crisi di sistema. Ovvero: ammettiamo pure per un momento che ci sia una vocazione qualunquista all’interno della società italiana. C’è sicuramente chi pensa che Andreotti fosse il capo della mafia e che la storia d’Italia sia una questione di complotti e di istituzioni deviate. Ma, fuori dalla dietrologia, in tutti i momenti cruciali della transizione italiana ha prevalso un impulso essenzialmente politico. La stessa ondata «giustizialista» era situata all’interno di una lotta politica accesa ma delineabile nel lessico della battaglia dichiaratamente politica; di più, perfino l’eventuale manipolazione della questione giudiziaria era uno strumento utilizzabile in termini politici, da una parte contro l’altra ma soprattutto dall’opinione pubblica contro gli attori di un sistema paralizzato. Una delle prove a contrario potrebbe essere questa: la tendenza referendaria ha avuto minor vigore nelle regioni meridionali, cioè proprio nelle aree più indiziabili di conformismo qualunquista e di rigetto anomico della politica. In cui invece gli apparati e le consuetudini clientelari hanno fatto in qualche misura da freno a una iniziativa di cambiamento politico che colpiva e penalizzava i soggetti tradizionali di mediazione e raccolta del consenso. Il qualunquismo, semmai, è tornato dopo, in una nuova veste. Non c’è da riferirsi soltanto ad alcuni stili esemplificati da Silvio Berlusconi, in cui comunque sono rilevabili tracce consistenti di antipolitica. È vero che il capo di Forza Italia si è definito «un sempliciotto» rispetto al deprecato «teatrino della politica »; e che la sua campagna per le elezioni del 2001 si è contraddistinta per lo sforzo continuo di connotarsi come l’uomo del «fare» (l’imprenditore, l’innovatore, l’operaio) a differenza dei «fannulloni» della sinistra, di quei professionisti del dire «che non hanno mai lavorato un giorno nella loro vita». Tuttavia la sfumatura antipartitica è ancora più identificabile, come si è segnalato in apertura, nelle campagne elettorali per le amministrazioni locali, dove spesso si assiste a candidature che si qualificano esplicitamente come una rottura delle convenzioni politiche, enfatizzando la distanza dai partiti e chiedendo il consenso proprio su programmi svincolati da una prospettiva esplicita: candidati per la città, né di destra né di sinistra, tenaci assertori della primazia dell’amministrazione sulle logiche dell’appartenenza politica. Di sicuro, piuttosto, c’è stato un contraccolpo nell’opinione pubblica, determinato dalla sfasatura tra le aspettative suscitate e dai risultati effettivi. D’altronde, allorché si muove dalla promessa del bipartitismo perfetto, e si giunge invece alla proliferazione di micro-formazioni parlamentari e a plateali fenomeni di trasformismo come nell’ultima legislatura, non riesce difficile immaginare le ragioni per cui due nuovi referendum elettorali sono falliti, e per quali motivi un terzo dell’elettorato, a ogni sondaggio, dichiara ormai senza infingimenti la propria distanza dalla politica. UNA POLITICA SBIADITA Dopo di che, e in conclusione, sembrerebbe eventualmente possibile trovare altri indizi di qualunquismo nell’atteggiamento verso la competizione politica e il confronto fra gli schieramenti attuali. Circola e ha successo l’idea che fra destra e sinistra «questa e quella per me pari sono». Si assiste alla rinuncia della presa di posizione, come se non esistessero più differenze rilevanti. Il residuo del qualunquismo è una vulgata aristocratica, socialmente elevata, in cui l’establishment non formula valutazioni, ma assiste alla lotta politica con l’atteggiamento distaccato di chi non si accalora per le parti in gioco. Ma non c’è un partito specifico, né un’istanza predominante, neppure per questo disimpegno di segno nuovo: ci sono compagni di viaggio, una politica usa e getta, un’autopercezione di superiorità vagamente postmoderna rispetto alle differenze novecentesche fra destra e sinistra. Un che di provinciale, questo sì. Come se il mezzo secolo abbondante di vita politica repubblicana non fosse riuscito a fissare un canone politico, una serie cogente di discriminazioni, di lealtà ideali, e l’unica modalità praticabile della politica fosse da un lato l’indifferentismo, e dall’altro l’utilizzo strumentale delle parti in gioco. Sconfitto nel campo storico e reso infrequentabile nel campo politico, il qualunquismo forse assume in avvio degli anni Duemila una veste inedita: nel senso che dipinge la politica come un’arena inessenziale, scolora i conflitti a scontro di fazioni, dipinge i programmi degli schieramenti come varianti di un pensiero omologato. Mentre sullo sfondo permangono straordinarie tensioni, svilite a guerricciole personalistiche; e interessi altrettanto conflittuali, che solo l’ottimismo di Pangloss può ridurre a giochi di ruolo fra gente che in fondo condivide, nel giardino della bipartisanship, le convinzioni generali, gli stereotipi formali, le insignificanze della politica come elementi di un auspicato fair play, non importa se ipocrita, e non importa nemmeno se continuamente infranto. n o t e 1 S. Setta, Il qualunquismo, in La politica italiana. Dizionario critico 1945-1995, a cura di G. Pasquino, Roma – Bari, Laterza, 1995, pp. 370-371. Setta è anche l’autore della principale ricostruzione storica in materia: L’Uomo qualunque. 1944-1948, Roma – Bari, Laterza, 19952. 2 Cfr. S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino, Einaudi, 1998, p. 125.
03-04 2001