Citazioni
Berselli al Caffè Letterario di Lugo su ravennatoday.com 26/9/2014
“Come d’autunno si levan le foglie” ricominciano gli incontri del Caffè Letterario di Lugo: lunedì infatti con il filosofo Ermanno Bencivenga si inaugurerà la undicesima stagione del Caffè Letterario di Lugo. Anche in questa nuova edizione, Caffè Letterario continuerà a preservare quelle caratteristiche di “contenitore” in cui coesistono incontri con l’autore, presentazioni di libri, letture poetiche e cene conviviali-musicali che saranno curati come nelle passate stagioni da Marco Sangiorgi e Patrizia Randi.
"Sono molto soddisfatto che riprenda l'attività del caffè letterario – ha dichiarato il sindaco Davide Ranalli - un luogo importante per la nostra città. Il caffè letterario oltre a essere un festival perpetuo affascina perché, in un ambiente unico e un clima conviviale, si incontrano autori importanti. Quando ho accettato l'impegno di sindaco di questa bella città ho indicato come priorità la valorizzazione della cultura, ed è per questo che come amministrazione abbiamo scelto di dare supporto a questa meritevole iniziativa”.
È ormai lontano quel 14 gennaio 2005, quando con lo psichiatra Paolo Crepet cominciò la sua avventura. Da allora, sono oltre 400 gli incontri che hanno visto protagonisti molti grandi nomi della cultura italiana e non solo in tutti i suoi campi possibili. Basti ricordare Tonino Guerra, Philippe Daverio, Gillo Dorfles, Luciano Canfora, Vincenzo Cerami, Folco Quilici, Margherita Hack, Emilio Gentile, Edmondo Berselli. Tutti incontri offerti gratuitamente al pubblico (escluse le serate conviviali).
Riprendono gli appuntamenti con il Caffè Letterario di Lugo
„Sono 16 gli appuntamenti in calendario fino al 19 dicembre; Dopo una pausa per le festività natalizie, la rassegna continuerà nel 2015 fino all’estate. Gli appuntamenti saranno curati come nelle passate stagioni da Marco Sangiorgi, Claudio Nostri e Patrizia Randi. Il calendario degli incontri, come già avvenuto lo scorso anno, sarà programmato stagionalmente, anziché mensilmente; il nuovo calendario prevede quindi una stagione autunnale (ottobre-dicembre), una invernale (gennaio-marzo) e una primaverile (aprile-giugno). Per ulteriori informazioni, chiamare lo 0545 22388, email claudio@aladoro.it, oppure consultare i siti internet www.caffeletterariolugo.blogspot.it e www.aladoro.it.“
Paola De Micheli su “Libertà di Piacenza” il 25/9/2014
Con Bonaccini per rinnovare l'orgoglio di sentirci emiliani
E' ancora fonte d'orgoglio sentirsi emiliani? Li Nonostante la crisi che ha investito le nostre cer¬tezze e i problemi che afflig¬gono anche il modello di governo di una Regione, capace di garantire per decenni il benessere e la qualità della vita?
Io credo proprio di sì. Lo cre-do da piacentina, apparte-nente a un territorio che ha sempre mantenuto uno sta¬tus un po' speciale di "emilianità". Siamo la porta occiden¬tale della nostra regione, con lo guardo volto verso Milano e le altre terre di confine, ma con le radici ben piantate in "un paese che - come diceva il compianto Edmondo
Berselli - è un frammento d'Europa, probabilmente una concentrazione razionale e furiosa di normalità, dove tutti odiano l'emergenza".
E' questa l'Emilia Romagna che può rilanciare il suo ruolo di Regione chiave per la ri-presa economica e sociale dell'intero Paese. E che avrà una guida salda e competen¬te in Stefano Bonaccini. I1 centrosinistra e il Partito Democratico hanno ancora una volta dato una grande dimostrazione di forza e di vitalità democratica, indicendo le primarie regionali del 28 settembre per la scel¬ta del proprio candidato alla presidenza della Regione. L'occasione di un confronto di idee e di una mobilitazione per offrire all'Emilia Ro-magna un orizzonte di svi-luppo e di crescita nei prossi-mi cinque anni. Stefano Bonaccini ha le qua¬lità e la cultura politica adeguata per raccogliere a pieno questa sfida. E soprattutto non la affronterà da solo: al suo fianco ci sono tanti am-ministratori, che hanno im-parato ad apprezzarlo - anche a Piacenza- per la sua at-tenzione al territorio e la sua conoscenza dei punti di forza, e anche dei singoli pro¬blemi locali.
Con Bonaccini c'è anche la parte più viva e radicata del nostro partito, una comunità pensante di donne e di uomini - dal primo dei dirigenti all'ultimo volontario - che soprattutto in questa Regione rappresentano un patrimo¬nio inestimabile: non certo una zavorra al cambiamento, ma una spinta democratica in grado di stimolarci e di mi-gliorare sempre la nostra a-zione.
Buon governo della cosa pubblica, qualità e interna-zionalizzazione delle impre¬se, coesione sociale, rispetto dei diritti e dell'ambiente, standard dei servizi sociali sono un patrimonio costruito negli anni che va persegui¬to e rilanciato con intelligenza, rigore e quell'autentico spirito riformista, che ha sempre contraddistinto noi emiliani.
Un riformismo pragmatico che guarda ai problemi e alle soluzioni possibili, rifuggendo gli slogan e le promesse generiche sul cambiamento, perchè - come è già stato sottolineato - l'innovazione è inscritta nel dna della nostra cultura politica e della nostra classe dirigente migliore. E noi non solo vogliamo innovare, ma sappiamo innovare. Una dose di cambiamento necessario che Stefano Bonaccini sarà in grado di intro-durre nel governo della Regione: anche nei confronti di Piacenza e per ripensare il rapporto con il nostro territorio.
Nel segno di una maggiore razionalizzazione amministrativa, con l'avanzamento del progetto legato alle unioni dei comuni; con più dina-mismo e competitività in economia, per mezzo dello sblocco delle risorse del patto di stabilità; per il rilancio del lavoro e dell'occupazione, con il contributo fondamentale dei fondi strutturali europei; con una grande opera di semplificazione burocratica, sulla base delle voca¬zioni e delle peculiarità di ciascuna provincia; e per consolidare le eccellenze del nostro sistema sanitario. Domenica prossima un voto per Stefano Bonaccini alle primarie è la miglior garanzia perchè il nostro orgoglio di sentirci piacentini ed emiliani trovi nuova forza, e anche la giusta strada che conduce al futuro.
“L’articolo 18 e il marketing politico” – Diamanti su “La Repubblica” il 22/9/2014
L'articolo 18 e il marketing politico
Il disegno di legge sul lavoro, approvato, nei giorni scorsi, in Commissione al Senato, rispetta una priorità del governo. Ma l’ipotesi di superare l’articolo 18, in particolare, risponde a un obiettivo politico — prima ancora che economico — di Matteo Renzi. Costruire il suo partito. Post- ideologico e post-berlusconiano. Il post-partito di Renzi. Il PPR oppure il PdR. Che vada oltre il Pd. Il dibattito sull’art. 18, infatti, ha ri-evocato e ri-sollevato antichi steccati. Fra la sinistra e il resto del mondo. Anche se l’art. 18, nella realtà, ormai, è poco utilizzato. Gran parte delle vertenze aziendali aperte su questa base si conclude con un accordo fra le parti. Senza considerare che il segno di questa norma è, quantomeno, ambiguo e ambivalente. Perché esclude ampi settori del mercato del lavoro. Peraltro, i più deboli: gli occupati delle piccole imprese, i precari e gli intermittenti. I giovani.
Non a caso, nel 2003 venne promosso un referendum per superarne i limiti. Per iniziativa di gruppi e soggetti di sinistra. Tuttavia, il valore dell’articolo 18 è ad alto contenuto simbolico. Costituisce, infatti, una sorta di bandiera della Legge 300. Lo Statuto dei lavoratori. Per questo ogni tentativo di metterci mano, non importa in che modo e a quale titolo, suscita tante reazioni. Com’è avvenuto, puntualmente, anche in questa occasione. Proprio per questo Renzi ha deciso di intervenire sull’art. 18. Proprio in questo momento. Al di là dell’efficacia e del contenuto del provvedimento. Perché è utile, funzionale a marcare confini e limiti del “suo” partito. Contro i nemici interni ed esterni.
I GRAFICI
Penso, peraltro, che egli non abbia in mente di riprodurre l’esperimento di Tony Blair, come molti hanno osservato. Non gli interessa, cioè, costruire un NewPd, più lib che lab. Ma andare “oltre” il Pd e il suo tradizionale bacino elettorale di Centro-Sinistra. Un po’ com’è avvenuto alle recenti elezioni europee, quando il “suo” Pd ha conquistato quasi il 41% dei voti. Quattro su dieci: “orientati al leader”. Circa il 17%, sul totale dei votanti, cioè, ha votato per Renzi piuttosto che in base all’appartenenza al partito (indagine post-elettorale Demos- LaPolis, luglio 2014). E ciò gli ha permesso di sconfinare rispetto ai territori di caccia della sinistra. Non a caso, è risultato primo partito praticamente dovunque, in Italia (con le sole eccezioni di Sondrio, Isernia e Bolzano). Ma soprattutto, ha sfondato nelle province del Nord e nel Nord Est. Dunque, fra i lavoratori autonomi: artigiani e commercianti, tradizionalmente attratti dai forzaleghisti (per echeggiare, una volta di più, Edmondo Berselli). Oltre che fra le componenti sociali popolari: operai e disoccupati. Che alle politiche del 2013 avevano privilegiato il M5s. Renzi, dunque, ha rotto il muro anticomunista. E quello della protesta (anti) politica. Per questo il suo consenso personale, all’indomani delle europee, si è allargato, ben oltre il livello, molto ampio, del voto. Ha raggiunto, cioè, il 74%. Mentre la fiducia nel governo ha sfiorato il 70%. Cioè, oltre il 90% fra gli elettori del Pd, ma tra il 55% e il 60% anche nella base dei partiti di Destra: Fi, Lega e Fdi.
Oggi, però, le cose sembrano cambiate. Dopo l’estate, infatti, il consenso nei confronti del governo e del premier ha subito un brusco e sensibile arretramento (Atlante Politico di Demos, settembre 2014). Superiore a 10 punti. Così, Renzi appare ancora forte, nel Paese. Ma soprattutto nel centrosinistra. Fra gli elettori del Pd resta vicino al 90%. Ma crolla (soprattutto) a destra: nella base di Fi e degli altri partiti di centrodestra (20-30 punti in meno). Oltre che fra gli elettori del M5s (dal 36% a 20%).
Allo stesso tempo, nelle stime di voto, il Pd resta saldamente attestato al 41%. In altri termini, come abbiamo sostenuto nei giorni scorsi, Matteo Renzi oggi appare leader indiscusso del Pd. E del Centro-sinistra. E qui è il problema. Perché, oggi, per la prima volta, dopo molto tempo, fatica a intercettare i consensi di destra. E, sul piano sociale, il voto dei ceti medi del Nord. Che cominciano a mostrare impazienza, in attesa delle riforme promesse. Mentre deve fare i conti con le resistenze di un Parlamento eletto “prima” del suo avvento alla guida del partito e del governo. In particolare, deve affrontare le trappole disseminate dal Pd, ma anche da Fi, come si sta verificando di fronte all’elezione dei due nuovi giudici della Corte Costituzionale. D’altronde, il progetto del PdR si rivolge anche a Fi. È questo il significato del dialogo aperto con Berlusconi. A Renzi non interessa negoziare o federare Fi. Ma svuotarla. Com’è avvenuto con i Centristi e l’Ncd (fra i suggeritori del provvedimento). E ciò spiega le tensioni interne ai parlamentari di Fi, quando si tratta di votare insieme al Pd, come se si appartenesse a un unico soggetto politico. Appunto… Così, per Renzi, l’articolo 18 diventa un’occasione, anzi: l’occasione, per superare le divisioni interne al PdR. Per costringere alla ragione il Pd — e i dissidenti. Per riaprire la comunicazione con la Destra. E soprattutto con gli elettori di Fi. E con le componenti sociali della piccola impresa e del lavoro autonomo del Nord. I forza-renziani (come li ha chiamati Fabio Bordignon). In modo da “isolare” il dissenso dei parlamentari di Fi.
Così Renzi insiste — e insisterà ancora — su argomenti ad alto tasso simbolico, relativi al lavoro e, probabilmente, domani, all’etica (come le unioni civili tra omosessuali). Ma accentuerà ancora la connessione fra comunicazione e politica. Fra governo e linguaggio. Marcando le differenze fra sé e gli altri “politici”. Fra sé e le “burocrazie”. Non solo della pubblica amministrazione, ma anche del Sindacato e di Confindustria. In attesa di potersi, davvero, misurare con gli altri, in nuove elezioni. Quando, come ora, si presenterà più antipolitico di Grillo, più berlusconiano di Berlusconi, più “diretto”, nel rapporto con il “popolo”, rispetto ai leader del suo e degli altri partiti.
Il vero problema, per Renzi, è che, per arrivare al voto con una nuova legge elettorale e con risultati da rivendicare, deve passare attraverso questo Parlamento, misurarsi con questi partiti. Con questi leader. Che, di certo, non si faranno rottamare senza resistere. D’altronde, per agire in Parlamento e per correre alle elezioni, serve un partito. Ma il PdR, per ora, è un partito che non c’è. Certo: ha un volto, uno stile. Un linguaggio. Ma per vincere, per affermarsi: non basta.
La nuova prima pagina (RE) 21/09/2014
La fine del modello emiliano e una politica regionale narcisista
In queste ultime settimane si è assistito al crollo del cosiddetto "modello " emiliano, segnato pe-santemente dal durissimo scontro fra i democrat renziani, entrambi astri nascenti modenesi, Ri-chetti, un ante-marcia della covata cattolica post-Gorrieri.che poi ha rinunciato alle primarie, e Bonaccini, un renziano dell'ultima ora, quadro e-mergente nell'apparato ex-comunista, convertito sulla via di Damasco, ( per conservare il potere di comando nella maggiore istituzione regionale). Su questo inesorabile destino degli eccellenti e bril¬lanti politici nostrani, abbiamo letto alcune interessanti e lucide analisi critiche , che condividiamo in pieno. Un articolo di Massimiliano Pa-narari su " La stampa "(11/9/14) e un breve saggio di Pierluigi Magnaschi su " Italia Oggi/MF " (1/9/14). Sono valutazioni ben argomentate, talvolta spietate, di quel blocco social- economi-co-politico-amministrativo dell' Emilia Felix, che poteva sembrare immarcesibile e di lunga durata, anche se traccie di contraddizioni, già apparivano al leggero tocco di un grande narratore come il compianto Edmondo Berselli, direttore della grade rivista " Il Mulino " ed autore, sul filo delle nostalgia, del noto volume " Quel gran pezzo dell' Emilia "(2004).
A dirla tutta la crisi del modello, aveva già dato i primi segni di cedimento, a partire dell'elezione nel 1999 di Giorgio Guazzaloca a sindaco di Bo¬logna. Intanto la candidata sconfitta, un ex-con¬sigliera regionale PCI, Errani l'aveva subito con¬solata , sistemandola per bene ai vertici di una struttura della Regione per curare i rapporti con gli emiliano-romagnoli emigrati all'estero . La situa-zione è poi peggiorata con i successivi sindaci di sinista, ora PD a tutti gli effeti, Sergio Cofferati, un disastro per Bologna poi ricompensato con un seggio al parlamento, e il prodiano Flavio Del Bono , già vicepresidente della Giunta Regionale , che solo sette mesi dopo l'insediamento a Palazzo Accursio, ha dovuto abbondonare lo scranno nei primi mesi del 2010 , per l'avvio a suo carico di una indagine per corruzione nell'affare Cinziagate, accuse poi confermate con un recente rinvio a giudizio. Si dice che la magistratura bolognese abbia tenuto
una tempistica troppo dilatata nelle indagini, che riguardano Richetti, Bonacini ed altri, attorno all'ipotesi non peregrina di peculato nella gestione dei fondi pubblici, attribuiti a larghe maglie e con faciloneria ai gruppi consiliari. Ma l'anomalia non è da imputare alle procure " giustizialiste ", bensì alle leggi "ingorde" che le assemble regionali si sono votate, quasi all'unanimità, non ultima, quella dell'Emilia-Romagna, anche lì per saziare gli ap¬petiti senza fine degli apparati politici. Questo è potuto accadere a seguito della entrata in vigore di scellerate riforme costituzionali ( come la legge cost. n.1/1999 e n.3/2001), non sufficien¬temente ponderate dai Governi Prodi e D'Alema,, nelle speranza di rincorrere e superare il becero neo-federalismo leghista ( icastica denuncia di Marinazzoli ), per arrivare a conferire alle Regioni più autonomia e più poteri legistivi e amministativi , i cui esiti devastanti sono a tutti noti. Essi vanno dalla crescita esponenziale della conflittualità fra Stato e Regioni, dalle conseguenze inedite del-l'elezione diretta cosidetti "governatori ", con ge-stioni accentrate e sempre più personalistiche, con presidenti di Regione, sempre più impelagati in non esemplari vicende giudiziarie , fino allo sper¬pero irresponsabile delle risorse nel funzionamento della macchina poltica e burocratica regionale (crescita delle indennità, esagerata autonomia di spesa dei gruppi consiliari, convegni inutili e ri¬petitivi, creazione di strutture e società parallele ). Si pensi solo che il presidente della nostra Regione, per successivi interventi modificativi sullo Statuto e sui Regolamenti, ha un apparato ple¬torico di personale al suo servizio, che alla fine appare eccessivo rispetto alle sue specifiche fun¬zioni istituzionali, un vera e propria corte fun-zionariale , un "narcisismo " nell'esercizio della leadership che fa a pugni con le ormai dimenticate tradizioni sobrie e severe dell'Emilia, rossa e bian-ca.degli anni '50 e '60.Va bene che l'ultimo Errani da oltre sette anni era quasi sempre a Roma, a presiedere la Conferenza Stato-Regioni...ad incon¬trare Governo e Ministri, e più di recente a di¬sbrigare i più spinosi "affari " politico-partitici di Bersani.Ma a tutto c'è un limite ! Oltre alla segreteria particolare, con un funzionario respon¬sabile, Errani poteva contare su un Capo di ga¬binetto (che non era, come nei ministeri romani, un alto dirigente dello Stato oppure magistrato contabile amministrativo, questo ruolo a Bologna lo vediamo svolto da un più "pratico " ex-par¬lamentare comunista ). Nel 2003 si è poi aggiunto alla "corte " anche un Sottosegretario alla Pre¬sidenza (sic), per quest'ultimo si tratta di un nuovo incarico meramente "politico ", di una persona di assoluta fiducia che fa parte della Giunta senza esserne assessore, ma che porta in dote lo sti¬pendio e i benefici degli stessi. Sul sito la sua immagine viene infatti subito dopo quella di Errani, e prima di quella del vicepresidente di Giunta ( da sempre un illustre sconosciuto/a !).Questo signore,prima dell'incarico di "sottosegretario ", era stato per dieci anni come consigliere regionale ( totalizziamo 24 anni in Regione). Infine la corte si
chiude con il direttore generale agli affari isti-tuzionali e legislativi che " di fatto ".trattandosi di collaudata collaboratrice, era sempre a disposizione della presidenza. Diamo appena un cenno anche alla presidenza dell'Assemblea Legislativa dell'Emilia-Romagna, che un tempo si chiamava più propriamente Consiglio Regionale. Per dirigere i lavori dell'aula, amministrare le prerogative dei cinquanta consiglieri (stipendi, missioni, personale adetto alle commissioni e ai rapporti con la società regionale) e per tutte la fasi tecnico-organizzative preparatorie, con il nuovo statuto dei primi anni del 2000, si è pensato di aggiungere altri due nuovi incarichi ( oltre ai cinque " tradizionali " ruoli, presidente, due vicepresidenti e due segretari, rimasti tali dall'inzio dell'Ente nel 1970) quello dei "questori ". Una funzione che se può avere una sua logica per la Camera ed il Senato , organismi che hanno diverse centinaia di componenti, che provengono da tutte le parti o" Italia, non ha alcun senso, anzi è ridicola, per una assemblea piuttosto contenuta come quella dell'Emilia-Romagna, che vede i suoi componenti provenire solo dalle nove province lungo la via Emilia. Anche per questo organo di vertice dell' Ente Regione: ab¬biamo un presidente, dotato di una segreteria particolare, di un capo di gabinetto e di una direzione generale : chi più ne ha, più ne metta ! Questa operazione di allargamento negli apparati assembleari,a dire il vero, non è solo frutto dei voleri della maggioranza, ma anche dell'oppo¬sizione di destra - pure essa innamorata del bipolarismof lo vediamo adesso nel rapporto pre¬ferenziale Berlusconi-Renzi ) - e non aliena di appettiti di quella natura. Se il provocatorio ma preveggente card. Biffi nel 1985 battezzò l'Emilia come "sazia e disperata ", adesso non siamo lontani nel vero nel battezzare la sua classe di¬rigente come " ingorda e narcisista ". (luigi Bottazzi)
Premio Satira Politica su luccaindiretta.it il 13/9/2014
Carlo Freccero, Marco Damilano e Andrea Zalone sono tra i vincitori della 42esima edizione del Premio Forte dei Marmi Satira Politica, in diversi settori. Per la tesi di laurea Gabriele D'Annunzio in caricatura (Università di Cagliari) è stata scelta Alessia Massidda che con il suo lavoro - si legge nel comunicato - "ripercorre in filigrana l'attività di uno dei personaggi più in vista di quel periodo, arricchendo il suo esemplare lavoro con una puntuale analisi della caricatura come forma d'arte". Il 42esimo Premio Forte dei Marmi per la satira politica è stato assegnato al giornale satirico spagnolo Mongolia. Il premio speciale "Città della satira 2014" è stato assegnato a Simone Lenzi. Il 42esimo premio per la satira politica nel cinema andra' a Sydney Sibilia per il film "Smetto quando voglio". Il 42 Premio Forte dei Marmi per la satira politica è stato assegnato per il giornalismo a Marco Damilano. Nella sezione multitasking a è stato scelto Maccio Capatonda.
Il 42esimo Premio Forte dei Marmi per la satira politica Edmondo Berselli è stato assegnato per il libro "Televisione" (ed. Bollati Boringhieri) a Carlo Freccero. Nella sezione dedicata al web i vincitori sono The pills (Luca Vecchi, Luigi Di Capua, Matteo Corradini). Per il disegno satirico il premio va a Zerocalcare (Michele Rech). Il 42 Premio Forte dei Marmi per la satira politica e' stato assegnato per il teatro a "Stasera non escort" (Margherita Antonelli, Alessandra Gaiella, Rita Pelusio, Cluadia Penoni). Il premio speciale "Pino Zac 2014" è stato assegnato a "Buduar". Il 42 premio per il disegno satirico internazionale a Nadia Khiari (Tunisia). Il 42 Premio Forte dei Marmi per la satira politica è stato assegnato per la sezione autore tv ad Andrea Zalone. Il premio per la miglior parodia va a Virginia Raffaele. La giuria era composta da Roberto Bernabò, Filippo Ceccarelli, Pasquale Chessa, Pino
Corrias, Beppe Cottafavi, Serena Dandini, Massimo Gramellini, Bruno Manfellotto, Giovanni Nardi, Cinza Bibolotti, Franco A. Calotti. Ai vincitori verranno consegnate nel corso dell'odierna cerimonia di premiazione le sculture L'Ape di Pietro Cascella.
Marozzi cita Berselli su “Il corriere di Bologna” del 12/9/2014
EMILIA, LO "SCANDALO IDIOTA" E LA DIVERSITA' PERDUTA
No, l'Emilia-Romagna non è una regione azzoppata. Ora è una regione senza gambe.
Amputata. Prima la vicenda di Vasco Errani, adesso quella dei candidati indagati per peculato. Una storia tragicamente ridicola, comunque finisca, fotografa un dramma colossale per questa terra: la fine, l'inesistenza di un ceto dirigente politico, che ha permesso prima la farsa dei rimborsi-spese regionali, poi non ha saputo gestirne le conseguenze. Fino ad arrivare al baratro aperto nelle primarie Pd. Abbia ragione o torto la magistratura, sta alla politica affrontare il prevedibile e persino l'imprevedibile. Non importa Max Weber che volle insegnare la politica ai politici, basta il cinico Francois Mitterrand: «Certi politici muoiono su barricate dove non sono mai stati».
Matteo Richetti e Stefano Bonaccini pagano più per quello che non hanno fatto — da presidente del Consiglio regionale e da segretario Pd dovevano controllare, guidare, punire, dare l'esempio — che per quello che hanno fatto. Aprendo spazi, di cui è difficile capire l'am-piezza, per Roberto Balzani, il professore di Forlì presentatosi come l'unico in grado di rinnovare costumi pietrificati e un Pd autoreferenziale trovatosi sconvolto nel suo tran tran. L'Emilia-Romagna comunque pagherà la figuraccia: chiunque sarà il suo presidente, ci vorrà del tempo perché sia presa sul serio. Dagli italiani e nei palazzi del potere. Altroché la presidenza della Conferenza delle Regioni con Errani. «Possiamo solo guardare al riformismo emiliano dell'Emilia rossa come a un lonta-no fantasma del passato, ignorato anche da chi ancora continua a fruire dei suoi frutti» ha scritto su Micro-
mega Lanfranco Turci, che dell'Emilia è stato presidente, modenese come Richetti e Bonaccini. E come Germano Bulgarelli, sindaco nella sua città, assessore in Regione, morto qualche settimana fa, monumento di un tempo perduto.
Il saggio di Turci è del 3 aprile. Analisi e capacità di previsione che farebbero bene ai nostri candidati. Uno «scandalo idiota» ha mostrato quanto le svolte qui siano sempre in ritardo e gattopardesche. Piaccia 0
non piaccia il renzismo, qui è stato solo un emigrare con armi e bagagli di capi che erano fino al giorno prima con Bersani, Errani, D'Alema. Senza mutare di una virgola cultura e comportamenti. Storia vecchia: per rompere con lo stalinismo in questa regione ci vollero tre anni, più della volpe Togliatti. Poi nel 1959 la svolta di Guido Fanti fu epocale e aprì la strada alla diversità emiliana. Fanti segnò la storia di Bologna come sindaco e dieci anni dopo cercò di proiettare la neonata Regione in un rapporto di interlocuzione forte non solo con Roma. Con l'Europa. Una visione interrotta, ripresa a sprazzi con Turci e Pier Luigi Bersani. Non un modello, era un progetto. Con la Regione casa-madre delle autonomie locali.
Miracolistico che ora possa sbucare un ragionamento della stessa am-bizione. Tolto il possibile (e complicato) ciclone Balzani, non si è stati davvero capaci di traghettare il Pei, di cui Bonaccini è l'ultimo rappresentante, nel Pd. Di rapportarsi con una realtà sociale e persino un mondo politico molto cambiati. Qui non sono crollati i muri, ma le sedie. La storia si ripete come farsa. Nella regione rossa, granaio di voti, coop, associazioni, antichi valori e finanziamenti, il Pd non è riuscito a costruire nulla dopo la macchina Pei. Pensiero debole, con capi deboli,
mentre la globalizzazione faceva sempre più strisciare l'omogeneità del Pensiero Unico. Il Pei era grande partito, organizzazione solida, metodo di selezione che funzionava pur nella cooptazione (Turci fu scelto come presidente della Regione dai cento maggiori dirigenti del Pei emilia-no-romagnolo e Berlinguer si arrabbiò). Utilizzava i concetti di classi sociali, ceti, conflitti, alleanze. Era il riferimento di una rete, con il suo ruolo imprescindibile di integrazione sociale e ideale, come ha raccontato Fausto Anderlini.
Finito questo, nella terra degli 80 mila iscritti, delle Feste dell'Unità, delle 700 sezioni che ora si chiamano circoli, dell'orgoglio del 52,5% alle Europee, non si è stati più capaci di creare e selezionare il ceto politico. Mentre mutavano la militanza, l'appartenenza, sempre a rischio di diventare liquide. Con il momento am-ministrativo - Vasco Errani ne è stato il massimo rappresentante - che egemonizzava se non schiacciava l'autonoma elaborazione politica. Sempre successo, ma la dialettica ora è inesistente. Successo dappertutto, qui però il Pd comanda su tutto e le responsabilità sono/erano molto superiori. Ben prima del boom Renzi. La politica è diventata guerra per bande, poteri personali, autocandidature, avventure; le consultazioni si sono avvitate su se stesse: vedi le primarie attuali, vedi altre precedenti.
La diversità era finita da un pezzo, l'etica si è sbriciolata nell'indifferenza, nel ridicolo (cosa avrebbe detto su questi giorni il super evocato Ber-linguer?). Intanto erano mutati i gruppi di riferimento, la classe operaia, il ceto medio, gli artigiani. Il Pd, non più partito del lavoro, è diventato Partito Cartello che insegue tutti, ma senza avere più una vera rappresentanza sociale e una forza per contrattare, mediare con le altre realtà regionali, imprenditori in testa. Cambiava anche il ruolo degli enti locali, di quello che — ha insegnato Carlo Galli — ha permesso la «costruzione di un universo sociale-amministrativo, di una società omogenea nella regione più storicamente composita d'Italia». Nell'indeboli-mento dei partiti, gli amministratori locali hanno sempre più fatto gara a sé, non di rado con ritorni al municipalismo e agli interessi locali. Secondo una ricerca dell'Istituto nazionale di urbanistica, l'Emilia-Romagna ri-sulta la regione che ha consumato
più territorio agricolo negli ultimi dieci anni.
Le coop sono sempre più gestite con ottiche private, le associazioni artigiane e commerciali «di sinistra» sono diventate anche loro rappre-sentanze professionali.
L'Emilia rossa si dileguava, il Pd non sapeva fare i conti con il nuovo. Un groviglio in cui nel dopo Errani ha cercato spazio pure il «partito dei sindaci». Messo fuori gioco dalle sue stesse divisioni tribali.
Eppure l'Emilia-Romagna continua ad andare avanti. Una ricerca dell'Università di Modena ha contato
più di trecento imprese multinazionali nella provincia. Alcune con il centro direzionale altrove, moltissime sul territorio. E così dappertutto, nonostante la crisi. Cercasi disperatamente amministratori in grado di aiutare questa realtà. Sebastiano Brusco, fondatore di Economia al-l'Università di Modena, mise in piedi persino un corso per politici, amministratori, sindacalisti. Cercasi disperatamente, in onore di un altro modenese, Edmondo Berselli, Quei gran pezzo dell'Emilia. Finendola, ecco un allievo di Berselli, il reggiano Massimiliano Panarari, con L'Italia da Gramsci al gossip.
Mosconi cita Berselli su “Europa” di 11/9/2014
Ma in Emilia Romagna c'è un buon lavoro da fare
Giungono da Bologna, in questi giorni, notizie politiche che possono far correre il rischio di porre in secondo piano gli aspetti programmatici delle imminenti primarie del Pd emiliano-romagnolo. Ma è la dura realtà dei fatti, con l'economia che non riparte e le diseguaglianze che crescono, a imporre passata l'emergenza di queste ore di ripartire proprio dall'agenda economica. Può l'Emilia-Romagna rappresentare un buon banco di prova per iniziare a cambiare davvero le cose anche in periferia? La risposta deve essere un deciso e risoluto "sì".
Già i dati economico-sociali di fondo (Pil, tassi di occupazione, esportazioni, prestazioni sociali, indici sulla qualità della vita, etc.) collocano, nel paese, l'Emilia-Romagna sempre fra le primissime della classe: tendenzialmente, fra le prime tre.
Bastano però queste performance per parlare di un "modello emiliano"? Di più: di un modello che, nato e consolidatosi negli anni '60 e '70, è riuscito a resistere all'onda d'urto della globalizzazione?
No, non bastano giacché vi è qualcosa di più profondo che da decenni sollecita l'attenzione di politici, imprenditori e studiosi su quella che Edmondo Berselli, in un suo brillante libro, chiamò: Quel gran pezzo dell'Emilia (Mondadori, 2004).
Non accidentalmente, "Emilian Model" è un'espressione ricorrente nella letteratura economica e sociologica internazionale, mentre non accade la stessa cosa per altre regioni italiane di eguale, o anche superiore, stazza economica.
Due cose hanno da sempre attirato l'attenzione degli studiosi stranieri: la diffusione e la vitalità dei distretti industriali (o clusters, "grappoli d'imprese"), capaci di raggiungere l'efficienza economica mediante un raffinato meccanismo di cooperazione-competizione fra piccole e medie imprese. E l'elevata dotazione di "capitale sociale", che ha generato un clima di fiducia reciproca e una comunità di persone legata da vincoli che trascendono la sfera dell'economia (si pensi alla reazione corale dopo il terribile terremoto del maggio 2012).
Le domande da porsi, giunti a questo punto, divengono: successi del passato a parte, quali sono oggi le caratteristiche distintive del "modello emiliano"? Ancora: quali le scelte prioritarie di policy per assecondare la sua trasformazione negli anni della sfida asiatica? Infine, qual è la direzione verso cui tendere per dare coerenza alle riforme?
Quando, un paio d'anni fa, ho pubblicato i risultati di un progetto di ricerca sulla Metamorfosi del "Modello emiliano" (Il Mulino 2012), sono partito da una citazione di Horst Siebert, per lunghi anni consigliere economico dell'ex Cancelliere Kohl: «La Germania ha un'economia aperta con una robusta base industriale, il cui Pil è per circa un terzo destinato all'esportazione. Si tratta anche di un'economia in cui il welfare e lo Stato giocano un ruolo dominante». È una descrizione che, fatte le debite proporzioni, s'attaglia molto bene all'Emilia-Romagna, anche se non sono poche le cose che la dividono dai grandi Laender manifatturieri tedeschi
. Qui risiede la sfida dei mesi a venire; una sfida che se affrontata con coraggio e visione in questo doppio passaggio (primarie del Pd ed elezioni regionali di fine novembre) può suggerire qualcosa di utile al paese nel suo insieme.
Due spunti fra i tanti possibili. L'Emilia-Romagna, a quindici anni dal lancio dell'euro e a sei dallo scoppio della grande crisi, ha saputo conservare una forte base manifatturiera con una spiccata vocazione all'export (è la prima regione italiana per esportazioni pro capite). Importanti aziende tedesche, giapponesi e americane hanno investito, e stanno tuttora investendo, a Bologna e dintorni nella meccanica di precisione, la regina della manifattura emiliana.
Di più: quelle tedesche hanno appena avviato programmi di formazione in azienda, proprio sul modello del vocational training così diffuso nella loro terra d'origine. E ancora: va a merito della giunta regionale presieduta da Vasco Errani l'aver avviato importanti programmi sia nel campo dell'Istruzione e Formazione tecnica superiore (la "Rete Politecnica"), sia della ricerca applicata (i "Tecnopoli").
L'originale modello tedesco a supporto della manifattura di qualità verso cui guardare, rilanciato da Romano Prodi in un suo recente editoriale sulla nuova politica industriale (Il Messaggero, 22 giugno), si articola nelle "Fachhochschulen" e nel "Fraunhofer". Ebbene, quanto manca all'Emilia-Romagna per implementare su scala regionale una diffusa rete di istituti "alla tedesca", che completi le necessarie iniziative-pilota?
Per un disegno di questo tipo sono richiesti ingenti mezzi finanziari. Ecco allora il secondo esempio: ha ancora senso che, in Emilia-Romagna (come nel resto del paese), centinaia di società "commerciali" (fiere, aeroporti e autostrade, alberghi e terme, quote nelle multiutilities, ecc.) appartengano tutte e direttamente alla mano pubblica? Il governo Renzi intende ridurre, nel paese, queste società da oltre 10.000 a meno di 1.000: obiettivo sacrosanto.
Perché la regione Emilia-Romagna non prova ad anticipare una parte dei provvedimenti governativi dando avvio, all'inizio della prossima legislatura, a un grande programma di privatizzazioni, accorpamenti e chiusure, destinando gli introiti agli investimenti in conoscenza (ricerca, tecnologia e capitale umano)?
Rispondere a queste due domande potrà, crediamo, contribuire a consolidare la spinta riformista che il Pd sta cercando di imprimere al paese.
Mattioli cita Berselli su “La Stampa” dell’11/9/2014
Modena la Rossa è delusa: "Qui non c'è più il Partito"
La a vuol sapere la vera verità?». Veramente, sì. «Bene, allora gliela dico io. Il punto è che qui di gente che sappia davvero fare politica non ce n'è più». Parola di Liviana Branchini dei pensionati Cgil, iscritta al Partito (non serve precisare quale: i nomi cambiano, ma il Partito - con la maiuscola - resta quello) da quando aveva 16 anni. Alle cinque del pomerig¬gio è alla Festa dell'Unità di Modena per un appassionante dibattito sulla formazione permanente. Nonostante tutto, compreso il rischio di slogarsi la mascella dagli sbadigli, rimane fedele alla linea. Ma non capisce più quale sia. L'epicentro del terremoto politico-giudiziario che sta travolgendo il Pd emiliano è a Bologna. Ma i suoi effetti devastatori si colgono meglio da Mo¬dena. Intanto perché è L'unico posto al mondo insieme alla Corea del Nord governato dallo stesso partito dal 1945. E poi perché sono modenesi i protagonisti dello psicodramma de¬mocratico, i due litiganti divisi dalle primarie ma accomunati dallo status di indagato. Nelle loro vite parallele ci sono le due anime del Pd. Stefano Bo¬naccini, 47 anni, è il classico apparatchik che ha fatto tutta la carriera nel partito iniziando dalla segreteria del¬la Figc, bersaniano di ferro poi diventato più renziano di Renzi. Matteo Ri¬chetti, 40 anni, la politica l'ha iniziata nella Margherita, prima lettiano, poi renziano della primissima ora, adesso fuori dal giglio magico. Separati in casa democratica e anche nella reazione all'inchiesta: Richetti ha rinunciato alle primarie con un videomessaggio su Facebook, Bonaccini vuole sempre correre e per farlo sapere ieri sera si è palesato a un'altra Festa dell'Unità, quella di Bologna.
Però questa vicenda, il «bel casino» della lotta fratricida cui aveva accen¬nato Renzi domenica, ormai diventato un casino bruttissimo dopo l'intervento della magistratura, peraltro previsto ma reso noto con sospetta tempistica (e giù dietrologie, sospetti e analisi da cremlinologi della Bassa) è l'ennesimo sintomo che la città sta sfuggen¬do dalle mani del Partito.
Negli ultimi tempi, si sono viste cose che noi umani di Modena non potevamo neanche immaginare. La Cgil che litiga con la Coop sulle aperture domenicali dei negozi. Le primarie per decidere il sindaco con la suora laica candidata dell'ala cattolica che accusa il fun¬zionario ex-Pci di aver fatto votare in massa i filippini in cambio di cene e al¬tri favori (e qui la realtà supera la fan-tasia: l'idea dei funzionari del Picei che usano come truppe cammellate i loro domestici non sarebbe venuta nemme¬no a Fellini). E il tutto scambiandosi in¬vettive sui giornali invece di litigare nel chiuso delle segrete stanze e uscirne so¬lo quando la decisione era presa. Poi, è chiaro, si vince ancora, perché l'opposi¬zione è una barzelletta: alle ultime am-ministrative, il candidato del centro-de¬stra ha preso il 12,5%, l'ex ministro Gio-vanardi il 4. Ma qui, in «quel gran pezzo
dell'Emilia» (copyright di Edmondo Berselli), qualcosa non funziona più.
«Le discussioni vanno benissimo, le primarie anche. Ma il Partito deve decidere, non chiedere ai suoi elettori di decidere per lui», spiega l'ex sindaco Giorgio Pighi. Infatti. Girando fra gli stand della Festa, mentre si lavora (gratis) per preparare le cene, è subito chiaro che la nuova classe dirigente tutta chiacchiere e camicie bianche non è esattamente popolare. Serpeggia il rimpianto per i vecchi quadri in grisa¬glia e mozione unitaria, altro che Renzi e i suoi boyseout fighetti. Roberta Bursi, 67 anni, «attivista da quando ne ave¬vo due»: «Renzi? Non mi piace». Carla Malpighi, 71, «rezdora» con le mani in pasta: «Rottamare? Che parola volgare. Stiamo buttando via il bambino insieme all'acqua sporca».
Gap generazionale? Nostalgia cana¬glia di chi ancora chiede ragionamenti più lunghi di 140 caratteri? Macché. Sarà che i volontari sono tutti bersaniani, ma Yuri Costi, 37 anni, ex assessore a Prignaho, sull'Appennino, parla della classe dirigente renziana come di un tortellino andato a male: «La voglia di protagonismo è la cosa più difficile da digerire. Nel Pei dovevi avere una formazione politica. Adesso basta essere giovani e carini». Ogni riferimento al belloccio Richetti, «il Kennedy di Spezzano» idolo delle ragaz¬zine dem, è puramente voluto.
Ora i capi si sbranano in pubblico, le tradizionali cinghie di trasmissione trasmettono principalmente lamentale e perfino la magistratura è meno rispettosa. Nei 19 ristoranti democratici della Festa di Modena sono molte più le foto di Berlinguer di quelle di Renzi. «Sono lon¬tani come gennaio dalle pesche», sospira Giuseppe Galvani, Spi-Cgil. «Richetti o Bonaccini? Mah, i miei pensionati hanno altri problemi...».
Panarari cita Berselli su “La Stampa” dell’ 11/9/2014
LA PARABOLA DEL MODELLO EMILIANO
Così è andata in crisi l'idea del socialismo realizzato dai ceti medi. C'era una volta il modello emiliano... Che, visto con gli occhi dell'oggi, appare una (bella) favola lontana, ormai perduta nel tempo e nello spazio, come un regno che non c'è (più).
L'inchiesta per peculato che ha fulminato le primarie dem per la presidenza della Regione rappresenta soltanto la punta di un iceberg che da qualche tempo si sta rapida-mente squagliando, a dispetto delle rassicurazioni e dei proclami di una classe politica locale sempre più conservatrice e trinceratasi, salvo alcune eccezioni, dietro automatismi e liturgie immote. La spinta propulsiva di questa via territoriale alla socialdemocrazia si è in-franta contro le mareggiate altissime di fenomeni tra loro differenti - dalla globalizzazione all'immigrazione, dal nuovismo postideologico all'antipolitica (qui si tennero il primo V-day e la «Woodstock» grillina), dal-l'abnorme espansione edilizia sino alla postmodernizzazione degli stili di vita - che mal si conciliano con il carattere di fondo su cui si era costruita questa esperienza di «governance integrale». Vale a dire l'idea del «so-cialismo realizzato dei ceti medi» in una regione saldissima dal punto di vista dell'orientamento politico (con i cattolici talvolta come contraltare e, talaltra, quale sponda dialettica), e assai omogenea sotto il profilo sociale, con un amore sfrenato per la stabilità, e gli annessi pro (l'inclinazione alla coesione sociale) e contro (a partire da una certa tendenza al conformismo). Un posto di donne e uomini operosi e di «vite da mediano» (per citare la gloria giocai Luciano Ligabue), che potesse diventare una vetrina di governo per le sinistre nel nome del riformismo e della «cetomedizzazione» ante litte-ram (come esplicito Togliatti, nel 1946, nel suo famoso discorso Ceti medi ed Emilia rossa).
Generazioni di amministra-tori, quadri di partito, cooperatori e dirigenti di organizzazioni collaterali si applicarono alla mission, fornendo un contributo rilevante - tanto per fare un paio di esempi - alla creazione dei distretti industriali come alla promozione degli «asili più belli del mondo». Il punto, però, è che nella vita niente è eterno, e anche i migliori modelli vanno - almeno - manutenuti e, meglio ancora, aggiornati e rinnovati, mentre ultimamente gli eredi del partitone maggioritario hanno dato l'impressione di essersi seduti sugli allori, omaggiando eccessivamente la massima indigena «volare bassi e scmvare i sassi» e rinunciando a governare sul serio (figurarsi l'anticipare...) una realtà che mutava alla velocità,del-la luce e si omologava a quanto accadeva al di là del Po e oltre la via Emilia.
È quindi significativo che siano arrivate le indagini giudiziarie a dare il colpo di grazia al pa-radigma virtuoso, ferendo gravemente la disciplinata, ma oramai insofferente, opinione pubblica emiliano-romagnola in ciò che comunisti e affini avevano di più caro: la narrazione della diversità, innanzitutto morale, che si dilatava fino all'irriducibilità quasi «antropologica».
Si aggiunga a ciò che nelle generazioni di militanti più in età serpeggia una visione del renzi-smo quale foglia di fico di una specie di De (postmoderna) e il dado è tratto. E quel gran pezzo dell'Emilia, impareggiabilmen-te cantato da Edmondo Berselli, ha smesso di essere felix.
Diamanti cita berselli su “La Repubblica” dell’8/9/2014
IL LEADER CHE SPARA SUL QUARTIER GENERALE
Lo sguardo degli italiani sul futuro del Paese è scettico. Anzi: piuttosto pessimista. Eppure, la fiducia nel governo resiste. Tanto più nei confronti del premier. Di Renzi. Lo dimostrano i primi sondaggi realizzati dopo la pausa estiva.
Non è un fatto nuovo. È avvenuto anche in passato. Quando al governo erano Berlusconi, in particolare, e, più di recente. Monti. È l'effetto di diversi fattori. Riflette, in particolare, la capacità del leader di trasmettere fiducia ai cittadini. E, reciprocamente, la ricerca, da parte dei cittadini, di qualcosa o qualcuno in cui credere, in tempi di crisi. Il problema, però, è che se la crisi dovesse acuirsi ancora e durare a lungo, com'è probabile, allora la sfiducia tenderebbe a tra-sferirsi, soprattutto, sul governo e, per primo, sul Capo. Ne è ben consapevole Renzi. Il quale, anche per questo, sta seguendo una strategia di comunicazione e di relazioni, in parte, diversa dalla fase precedente.
1. In primo luogo, sembra aver temperato lo stile ipercinetico dei primi mesi di governo. Non che sia divenuto "lento", ci mancherebbe. Non è nella sua natura. Ma ha cambiato tabella di marcia. Non più—solo—tappe ripetute, a scadenze ravvicinate. L'orizzonte di governo, così, si è allungato. Abbraccia i prossimi 1000 giorni. E giunge, cioè, quasi alla fine della legislatura. Un modo per lanciare due messaggi. A) Che intende restare e governare a lungo. B) Che è finito il tempo dell'annuncite. Degli annunci reiterati e ansiogeni, senza soluzione di continuità. Oggi Renzi detta tempi "realisti". Anzi, chiarisce che "correrà" per mesi, anni. "Passo dopo passo". E, dunque, durerà a lungo. Come la legislatura.
Naturalmente ciò non significa che Renzi abbia, davvero, rinunciato all'idea di elezioni anticipate. Dipende: dall'opportunità, dalla convenienza, dalle condizioni economiche e politiche—generali. Insomma, dal clima d'opinione. 2. Anche per questa ragione il premier ha affilato l'altra faccia della sua strategia di comunicazione e di relazioni. Ben espressa, nei giorni scorsi, dalla sua assenza all'incontro organizzato, come ogni anno, a Cernobbio dal Forum Ambrosetti. Il "salotto buono" (come ha appuntato ieri Eugenio Scalfari) frequentato dai principali attori dell'impresa e della finanza. Oltre che, di riflesso, delle istituzioni e della politica. (Era presente anche Roberto Casaleg-gio, ideologo del M5s. ) Renzi, invece, ha preferito inaugurare una rubinetteria. Si è recato a Gussa-go, nel bresciano. Dove «le imprese investono». E, ha aggiunto, «ne girerò tante». Un modo esplicito per dichiarare la sua "diversità" rispetto alla classe dirigente nazionale. La sua "estraneità" rispetto ai luoghi e ai gruppi che guidano e controllano la politica e i mercati. I "grandi imprenditori". Ma non solo, visto che a Cernobbio si riuniscono anche i gruppi dirigenti della finanza. E del sindacato. Verso il quale Renzi, d'altronde, non ha mai mostrato particolare attenzione. Fin dall'inizio ha annunciato che «la musica è cambiata. Andiamo avanti anche senza i sindacati». E, dunque, anche senza concertazione. Così, Renzi ha proceduto "veloce", marcando la sua distanza dal sindacato ma anche dalle associazioni imprenditoriali. Da molto tempo, in declino di consensi, fra gli elettori. Il sindacato, in particolare: stimato da circa 2 italiani su 10. E, di conseguenza, guardato con diffidenza dagli altri 8. Anzitutto e soprattutto, dai lavoratori dipendenti. D'altronde, la componente più ampia degli iscritti è costituita dai pensionati. Mentre la fiducia nelle associazioni degli imprenditori non supera il 30%. Renzi, in altri termini, ha scelto di prendere le distanze da soggetti e organizzazioni che gran parte dei cittadini considera "lontani" dai loro problemi e dai loro interessi. Complici della Casta. Anzi, anch'essi Casta (e, dunque, non "casti"). Per la stessa ragione, il premier ha agito, senza troppa diplomazia, nell'ambito della Uè. Dove ha "imposto" la ministra de-gli Esteri, Federica Mogherini, come "Lady Pese". Cioè, al posto di Alto Rappresentante per la politica estera europea. Dopo lunghe trattative e tensioni molto accese. Ieri, a Bologna, ha annunciato il "patto del tortellino" con i leader della sinistra europea, per prendere le distanze dalla Germania e dalla Merkel.
Perché a Renzi interessa conta-re, ma, ancor più, marcare i confini con i "poteri forti". In Europa. E non solo. Gli interessa mostrarsi "dalla parte del popolo". Per usare le sue parole: "Contro l'Europa delle banche e a favore dell'Europa delle famiglie". Contro l'establishment che oggi lo tratta con sospetto o, peggio, con dispetto. Ma, come ha sostenuto di recente, sul Sole 24 Ore, intervistato dal direttore Roberto Napoletano, «è lo stesso che ha portato il Paese in queste condizioni». Mentre lui, lo ha ribadito ieri, alla Festa dell'Unità a Bologna, non accetta lezioni «da tecnici della Prima Repubblica».
Renzi, dunque, oltre agli amici, sceglie con cura i "nemici". I "gufi " che scommettono contro di lui e contro il governo. L'establishment, appunto. Che controlla economia e affari. I professionisti del sindacato, circoli degli affarie dell'impresa. Dell'informazione e della cultura. Allo stesso tempo, non esita a riproporre il blocco delle retribuzioni dei dipendenti. Pubblici. In primo luogo: statali. Non solo perché, come ha ammesso la ministra Madia, «non ci sono i soldi». Ma anche perché il pubblico impiego, gli "statali", nella percezione popolare, rappresentano una categoria privilegiata. Non ( sol ) tanto dal punto di vista retributivo, anche per condizioni e tempi di lavoro, oltre che (un tempo, soprattutto) di pensionamento.
Renzi, dunque, per contrastare le difficoltà crescenti che minacciano la popolarità del suo governo, polemizza contro il mondo economico e politico. Di cui, tuttavia, anch'egli fa parte. Prende le distanze dalle caste e dai gruppi di interesse. Dalle categorie sociali "privilegiate". Dall'establishment europeo e statale. Dagli "statali". Anche dal Pd. Che Renzi ha trasformato in PdR. Renzi oggi è il leader di un post-partito e di un po-st-governo personale. Premier di un "popolo" di post-italiani. Che, come avvertiva Edmondo Berselli oltre 10 anni fa, abitano un"Paese provvisorio". Da ciò il problema di Renzi. Perché è difficile correre veloce, da solo contro tutti, per mille giorni e oltre. Senza che la "provvisorietà", più che un vizio, divenga uno stile narrativo necessario per governare il Paese. Dunque, uno stile di governo, visto che, in tempi di democrazia ibrida, la distanza fra narrazione e governo è molto sottile.
Piccolo cita Berselli nell’intervista rilasciata a “Il Resto del Carlino – Modena” del 5/9/2014
"La sinistra deve aprirsi di più. Renzi? Una speranza per l'Italia". L'intervista Gianpaolo Annese all'autore Francesco Piccolo.
Mosconi cita Berselli su “Il Corriere di Bologna” del 4/9/2014
"L'economia bussa dai candidati". Mosconi cita Berselli nel pezzo dedicato alle primarie per la scelta del candidato del Partito Democratico alle elezioni regionali 2014.