Citazioni
Ignazi cita Berselli su “L’Espresso” del 28/8/2014
SENTIRSI SOLI CON IL 40%
APPENA NOMINATI I CAPI DEL GOVERNO godono di un largo consenso presso l'opinione pubblica. Poi, scelte difficili e impopolari offuscano la luna di miele. È accaduto a tutti i grandi leader dei paesi democratici. Dopo gli entusiasmi iniziali perdono spinta, anche se poi molti -esempio perfetto Bill Clinton - recuperano a fine mandato. Matteo Renzi è particolarmente attento a non perdere il favore dell'opinione pubblica. A tal fine ha attivato una serie di meccanismi proiettivi di provata efficacia. Il più insistente, in questa fase, è quello del "cavaliere solitario": Matteo contro tutti. Lui, l'uomo nuovo senza macchia e senza paura che sfida i nemici armato solo della sua purezza (la camicia bianca immacolata) della sua giovinezza (ovvia ma anche esibita a forza di incontri scautistici e giubbotti di pelle, ammiccamenti musicali e vitalismo sportivo) e del suo debordante entusiasmo. Solo io posso farcela è il mantra che ha conquistato le platee più varie, disposte a convenire che, in effetti, solo lui può farcela. E se solo lui può, lui è solo. Tutti gli altri sono potenziali nemici che vanno individuati, stanati, ed abbattuti. Altrimenti seminano il percorso del cavaliere solitario di ogni tipo di ostacolo. La lista dei nomignoli e degli epiteti con i quali il capo del governo e il suo entourage ha etichettato chi non riconosce l'opera salvifica di Matteo è ormai lunga. Ed è anche efficace perché consente di offrire all'opinione pubblica una serie di capri espiatori ai quali attribuire le colpe più varie. Sintomatico che in una recente intervista su "la Repubblica" il premier abbia addirittura richiamato le responsabilità nella crisi di "professori, editorialisti, opinionisti". Cattivi maestri evidentemente, altro che venerabili come sogghignava Edmondo Berselli. Quindi, ce n'è per tutti, all'occasione. ALCUNI GIUSTIFICANO TUTTO questo perché considerano Renzi un outsider che deve sgomitare per farsi accettare. In realtà il capo del governo è lontano mille miglia dalla figura dell'outsider. Non gli si confaceva nemmeno ai tempi della Leopolda perché dalla sua poltrona di sindaco di Firenze, e prima di presidente della provincia, aveva già intessuto rapporti e relazioni con componenti della classe dirigente che erano quanto meno interessate a quel giovane scalpitante, e di certo brillante. L'outsider ha tutt'altro profilo: non si appoggia ad entrature altolocate bensì viene proiettato sulla scena da una congerie indefinita di uomini della strada. È un "Mr Smith va a Washington", come recitava il titolo di un celebre film. L'outsider non ha entrature ai piani alti della società; non ha accesso privilegiato ai media; non riceve consensi trasversali dai gruppi di interesse più diversi. In sostanza, non ha le risorse per reggere. L'outsider è per definizione un fenomeno transitorio, e per questo è veramente solo. A Renzi non mancano invece né risorse né relazioni. Tutti gli stanno correndo in soccorso. Evidentemente lo schema di Davide contro un Golia imprecisato e minaccioso, identificato ora nei tecnici ministeriali, ora nell'onnipotente Germania, ora nella Bce, funziona a meraviglia. Tant'è che la capacità di attrazione del capo del governo supera gli steccati e conquista consensi a destra e a sinistra, in alto e in basso, in Italia e all'estero. Nessun altro premier politico era arrivato a tanto. Alcuni sono stari stimati per la loro storia professionale fuori dalla politica (Ciampi, Prodi e Monti), e Berlusconi addirittura idolatrato, benché da una parte sola e ben circoscritta (i teledipendenti, i lavoratori autonomi e la destra in generale). Solo il politico di professione Matteo Renzi ha rotto gli steccati lasciando che tutti venissero a lui. Perché si presentava "vergine ed estraneo" alla vecchia politica e, soprattutto, solo contro tutti. Proprio per questo deve continuare a recitare la parte del cavaliere solitario. Auguri.
Berselli al Festival Filosofia 2014, Il resto del Carlino – Modena, 27/8/2014
"Berselli, il calcio per raccontare vizi e virtù del Paese". La puntata de "Quel gran pezzo dell'Italia" dedicata al mondo dello sport proiettata al Festival Filosofia 2014.
Galli cita Berselli su “La Padania” del 20/8/2014
Quello che non riescono a capire della QUESTIONE SETTENTRIONALE
La Questione del Nord è un problema politico che si fonda su tre elementi. An¬zitutto sulle virtù civiche di quelle comunità volontarie territoriali della valle del Po, che hanno vissuto i fasti dell'età comunale. Virtù che hanno generato un vero e proprio capitale sociale, in termini di modelli culturali e comporta¬mentali, di mentalità col¬lettiva, di senso di lealtà nei confronti delle istitu-zioni e delle comunità, di spirito imprenditoriale e di senso del rischio Individua¬le, di spirito abnegazione e di dedizione al lavoro. Questo capitale sociale - secondo elemento - ha con¬sentito al grande Nord di conquistare un oggettivo primato dal punto di vista economico e produttivo a livello europeo. Proprio per ciò - terzo elemento - il Nord è sempre stato og¬getto di una sistematica vessazione fiscale non di rado sconfinata in vera schiavitù, significativo ele¬mento di identità politica. Cosa bisogna oggi inten¬dere per Nord? I dati par¬lano chiaro. Nella partita dei trasferimenti con lo Stato centrale, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte ci rimettono circa 100 miliardi di euro all'anno. A tanto ammonta il residuo fiscale di queste regioni, che rappresenta¬no il Nord virtuoso, garan¬tiscono circa la metà del Pil del Paese e vantano rap-porto positivo tra la ca-pacità produttiva territoria¬le e la spesa pubblica re¬gionale. Tutte le altre ap-partengono alla categoria dei parassiti e delle san¬guisughe, che esigono ri¬sorse dallo Stato. Questi ragionamenti bastano per confutare alla radice ¡'intervento del so¬ciologo Ilvo Diamanti su La Repubblica di qualche giorno fa, che dimostra di non conoscere affatto la gene¬si e lo sviluppo della Que¬stione del Nord nell'età della Repubblica. Intendia-moci, è in buona compa¬gnia. Sono molti, infatti, tra politologi, sociologi, economisti, analisti e opinionisti, quelli che com¬piono almeno tre errori in-terpretativi inaccettabili. Primo. La chiamano Que¬stione settentrionale in modo improprio e strumen¬tale, per contrapporla a quella meridionale e così depotenziarla dal punto di vista politico, visto che la seconda esiste da oltre un secolo e mezzo. E non è mai stata risolta, malgrado gli interventi assistenziali dello Stato; interventi che - per la verità - hanno contribuito solo ad alimen¬tarla e a garantirne la per-sistenza nel ciclo storico della lunga durata, dall'Unità sino ai nostri giorni.
Questi studiosi associano poi - secondo errore - la presenza della Questione del Nord, all'andamento elettorale di un asse par¬titico, il forzaleghismo (per usare una categoria inter¬pretativa coniata da Ed¬mondo Berselli). Se il forzaleghismo va bene alle urne, la Questione del Nord esiste; se va male vuol dire che non esiste ed è stata risolta. E questo approccio analitico è inac¬cettabile perché, semmai, è vero esattamente il contrario: il forzaleghismo vie¬ne elettoralmente premiato in base alla propria capacità di intercettare, In-terpretare e rappresentare le istanze generalizzate e diffuse del grande Nord.
Terzo errore; ritenere che la Questione del Nord ab¬bia origine nel tornante fra la fine della Prima repubblica e l'inizio della Seconda. Nella realtà è un'aporia originaria della storia della Repubblica, una delle contraddizioni di fondo di questo Stato. E si configura come una per¬sistenza costante, che emerge ciclicamente. Nel 1945, sulle pagine del "Cisalpino", si osservava -auspicando la nascita di un grande Cantone del Nord, nel quadro di un ordinamento federale come la valle del Po fosse considerata dallo Stato centrale una "monumen-tale vacca da mungere". Si deve poi ricordare il dibat¬tito degli anni Settanta, in concomitanza con la prima legislatura regionale. E il dibattito dei primi anni Novanta, con gli studi della Fondazione Agnelli, del Censis e del Cnel. In quel momento la Questione del Nord venne a galla per l'in-trecciarsi di una folla di elementi: la crisi delle ideologie e il crollo di un sistema che pareva immutabile e che è imploso su se stesso, alimentando lo sviluppo di una cultura an¬tistato, antipolitica e an-tipartitica. Era il malessere e il risentimento del grande Nord nei confronti dello Stato di Roma. Questi elementi - cioè una cultura antistato, antipoli¬tica e antipartitica - per-mangono ai giorni nostri anche per effetto di una pressione fiscale reale davvero insostenibile, oltre il 50 per cento, fina¬lizzata a sostenere le strut¬ture burocratiche elefan-tiache e gli apparati am-ministrativi pachidermici di uno Stato ingordo e pre-datore, un'idrovora che non sa contenere il pe-rimetro della spesa pub-blica. Altro che identità smarrita, il grande Nord sta morendo di fiscalità. Che poi il consenso, alle ultime elezioni, si sia orientato in altre direzioni, questo è un altro problema e riguarda i flussi elettorali transitori, a causa di una leadership appannata nel centrodestra e del timore dell'affermazione di un qualunquismo senza progetto, quale il grillismo. Ma lo zoccolo duro rimane, è compatto e coeso. Non è più tempo di au¬tonomie territoriali e fede-ralismo? È finito il primato della dimensione territoriale? Il grande Nord si è smarrito nell'età della globalizzazione? Tutti gli analisti più seri segnalano esattamente il contrario, cioè che gli Stati sono in¬capaci di fronteggiare le sfide della globalizzazione e i territori - ai quali deve essere garantito un ampio margine di autonomia per giocare la propria partita sul terreno dell'economia internazionale - rappre-sentano una risorsa. La stessa persistenza della Questione del Nord - che ha raggiunto delle dimensioni, in base agli indica¬tori privilegiati come il re¬siduo fiscale assai mag¬giori rispetto ai primi anni Novanta - lo conferma. È un elemento di identità po-litica forte che si contrap¬pone allo spaesamento ali¬mentato dall'età della globalizzazione. L'istanza di maggiore autonomia - in¬tesa come non-dipenden¬za dallo Stato centrale -politica e fiscale del Veneto e della Lombardia è sotto gli occhi di tutti.
Diamanti cita Berselli su “La Repubblica del 18/8/2014
CI SARANNO ALTRI NORD
VENT'ANNI fa il Nord con¬quistava l'Italia. Berlu¬sconi e Bossi, Bossi e Ber¬lusconi, vincevano le elezioni politiche. E governavano insie¬me. Per poco, visto che, pochi mesi dopo, la Léga se ne sareb¬be andata. Incapace di sostenere il ruolo del partito di go¬verno. Eppure pervent'anniLegaeFi,FieLega hanno percorso un cammino comune. Con in¬terruzioni improvvise. Anche lunghe. Ma, in fondo, hanno proceduto insieme. Al governo o al¬l'opposizione. A livello nazionale e territoriale. La Lega, insieme a Forza Italia, è all'origine della Se¬conda Repubblica. Ha rappresentato il Nord. Ha fatto divenire la "questione settentrionale" que¬stione "nazionale". E ha imposto la rivoluzione fe¬deralista. Il trasferimento delle competenze e del¬l'autorità verso Regioni, Province, città. Vent'anni fa la capitale si è spostata. Da Roma al Lombardo-Veneto, patria del forza-leghismo, per ricorrere al¬la suggestiva definizione di Edmondo Berselli. Ma oggi, vent'anni dopo, che cosa resta del Nord? Del¬la Lega? Di Forza Italia? Del Forza-leghismo? Fran¬camente poco. La Lega, alle recenti europee, ha ot¬tenuto un buon risultato, ma ha quasi dimezzato i voti rispetto alle politiche del 2008 e alle europee del 2009. A Fi, d'altronde, è andata anche peggio. Entrambi sono in crisi di identità. La leadership di Bossi, in particolare, è stata compromessa dalla malattia e, ancor più, dagli scandali che ne hanno coinvolto familiari e fedeli. L'attuale leader, Mat¬teo Salvini, ha rimesso in cammino la Lega. Ma, ri¬spetto al Senatur, è un'altra cosa... Gli storici radu¬ni di Ferragosto, a Ponte di Legno, non a caso, ap¬partengono alla storia. L'ultimo, nei giorni scorsi, è passato quasi in silenzio, sui media. Berlusconi,
invece, è ancora sulla scena. Ma recita da compri-mario. Sempre alle prese con problemi giudiziari. Sconta il declino del modello politico e sociale che interpretava. La società individualista e imprendi-tiva, fiaccata dalla crisi. Tuttavia, il problema mag¬giore, per il Nord, non riguarda tanto—e soltanto —la leadership. Ma, anzitutto, il fondamento e l'e¬sistenza stessa della questione che esso ha rappre¬sentato. E Nord, appunto. Dov'è finito? I temi e le rivendicazioni che ha espresso: dove sono scivola¬ti?
Per quel che riguarda le autonomie territoriali e il federalismo: non è più tempo. I Comuni: schiac¬ciati dalle aspettative dei cittadini, crescenti, in presenza di risorse calanti. Trasformati da attori in esattori—dello Stato. Le Province: sparite. Cancel-
late con un colpo di penna. Anche se le competenze e i servizi che esse realizzavano verranno ridistri¬buite tra associazioni di comuni, città metropolita¬ne e altre entità indistinte. Le Regioni: investite da scandali ricorrenti. Percepite come nuove forme di centralismo. Che si sono aggiunte allo Stato. E og¬gi, per questo, appaiono altrettanto sfiduciate, agli occhi dei cittadini. Anche se la riforma costituzio¬nale avviata dal governo prevede di cooptare al Se¬nato i rappresentanti dei consigli regionali. Ma per risparmiare...
Insomma: il federalismo, invenzione del Nord, sembra"devoluto". Comunque, emarginato, come i soggetti politici che l'hanno imposto. È sopravvis¬suta soltanto la rabbia contro lo Stato e il sistema pubblico. Ma è stata intercettata e raccolta, in lar¬ga misura, da nuovi soggetti politici. Per primo: il M5s. Che, tuttavia, non ha radici territoriali. Non ha una geografia politica. Come la Lega, soprattut¬to. Ma anche Fi. Federazione di lobby e di gruppi di potere locali con la testa ( e il portafoglio ) a Milano. Oggi è scomparsa la geografia politica nazionale. Il principale partito, il PdR, il Pd di Renzi, non ha con¬fini e punti di forza. Alle elezioni europee ha sfon¬dato nel Nord. Nel territorio leghista. Ma ha una geografia nazionale anche il principale partito di opposizione, n M5s guidato da Grillo e Casaleggio. D'altronde, il suo spazio è senza territorio: il web. E il principale motivo del suo successo risiede nel ri¬fiuto dei partiti "tradizionali" della Seconda Re¬pubblica. ( L'ossimoro non è casuale. ) Renzi e il suo partito ne hanno sfruttato la spìnta. E nel governo di Renzi, già sindaco di Firenze, non a caso, lo spa¬zio del Nord padano è molto limitato. I ministri che potrebbero evocare il Lombardo-Veneto hanno cit¬tadinanza diversa. E la sottolineano. Pàdoan, non a caso, viene pronunciato con l'accento sulla prima e non sulla seconda "a". D'altronde, nonostante l'o¬rigine, denunciata dal cognome, è "romano".
LastessaLega,infine,ècresciutasoprattuttonel Centro-Sud. Si è anch'essa "nazionalizzata".
Insomma, il Nord oggi appare un'(id)entità ri¬mossa. InsiemealNordest.PernonparlaredellaPa-dania.MentreilLombardo-Venetoindical'assedel-la crisi della Seconda Repubblica. Segnato dagli scandali scoppiati a Milano (intorno all'Expo) eVe¬nezia ( il Mose ). Quasi una metafora del declino del¬la "rivoluzione territoriale" degli ultimi vent'anni. Che ha eclissato anche il Sud. Nonostante i proble¬mi del Mezzogiorno restino seri. Anzi, si stiano ulteriormente aggravando.
La percezione della politica e dell'economia, d'altronde, si è "nazionalizzata" perché la geogra¬fia è stata sovrastata dalla geopolitica. Che ha con¬fini "globali ". E più del Nor d e del Nordest o del Lom-bardo-Veneto oggi contano (e conteranno) l'U¬craina, il Kurdistan, la Siria, Gaza, n contrasto — sempre più evidente—fra Usa e Russia. Più di Ro¬ma: contano Bruxelles, Pechino, la City. Sul piano georelìgioso: la Corea, l'Iraq dove gli Yazidi fuggo-no all'avanzata dell'Is. Così, i temi del dibattito po-litico, anche nel Nord (Italia), si globalizzano. Ri-guardano la Uè e l'immigrazione. La stessa Lega tende a divenire un soggetto politico securitario e antieuro. Come il Fn di Marine Le Pen.
Insomma, il Nord si è perso nelle nebbie della glo-
balizzazione politica ed economica. E la sua rimo-zione, in qualche misura, segnala quella "fine dei territori", annunciata da alcuni studiosi (fra cui Bertrand Badie). Una tendenza che gli Stati nazio¬nali (l'Italia per prima) non sembrano in grado di affrontare. Semmai, ne sono un fattore. Anche per questo il declino dei territori è destinato a fare emergere nuovi territori. Nuovi confini e nuovi Li-mes, reali o "inventati". Nuove patrie, che soccor-rano il bisogno di identità e di autorità. Al posto del-laPadaniaedelNordest, d'altronde, già preme l'in-dipendentismo regionalista. Anzitutto in Veneto.
Così, è meglio prepararsi. Dopo il Nord, oltre il Nord, ci saranno altri Nord. Non solo nel Nord. Per reagire allo spaesamento. Alla paura del Mondo.
Beccantini cita Berselli su “Il Fatto Quotidiano” del 9/7/2014
"La saetta bionda corre in paradiso". Clicca qui per leggere l'articolo dedicato a Alfredo Di Stefano di Roberto Beccantini.
Ilvo Diamanti cita Berselli su “La Repubblica” del 30/6/2014
Mappe: Ecco la squadra per la quale voto
di ILVO DIAMANTI
30 giugno 2014
L'eliminazione dell'Italia dai mondiali ha rarefatto l'esibizione di bandiere alle finestre e sulle terrazze. Eppure i tricolori resistono, almeno nel mio quartiere. Non ne avevo visti tanti il 2 giugno, festa della Repubblica, né, tanto meno, il 25 aprile, anniversario della liberazione.
Ma i mondiali di calcio hanno, da sempre, la capacità di sollevare l'entusiasmo nazionale. Anche in quest'area, nel cuore del Nordest, con una tradizione leghista di lunga durata. Dove si incontrano alcune bandiere della Serenissima Repubblica di Venezia, che evocano l'indipendenza veneta. Issate, talora, accanto a quelle dei forconi. Ogni manifestazione secessionista, d'altra parte, ha prodotto, per reazione, una vampata di orgoglio nazionale. Lo ha ben compreso il nuovo leader leghista, Salvini. Che ha rilanciato i consensi elettorali al partito mettendo fra parentesi lo spirito separatista e l'identità padana. E ha, invece, puntato sul messaggio antieuropeo e sul contrasto all'immigrazione. Procedendo, dunque, accanto al Front National di Marine Le Pen. Iper-nazionalista.
D'altronde, il tricolore è stato utilizzato ed esibito, a livello di massa, nel 2011, in occasione del 150enario dell'Unità, proclamato e sostenuto in modo "militante" dal Presidente Napolitano.
Così, è divenuto parte dell'iconografia urbana e domestica. Come i fiori e le decorazioni, nei giorni di festa. E, in molti, lo espongono, in alcune, specifiche, occasioni. Per rammentare, a se stessi e agli altri, un elemento di unità e di coesione, in una società sempre più dispersa e frammentata. Dove è difficile chiamare per nome chi ti sta accanto e nel palazzo di fronte - non dico a 100 metri di distanza - perché non lo conosci. Non sai chi sia, che mestiere faccia e da dove venga. Per questo, i tricolori invadono il quartiere, quando gioca l'Italia. Ma resistono, per qualche giorno ancora, mentre in tivù passano le immagini e le cronache di altre nazionali - Brasile, Francia, Algeria, Olanda. Costarica...
Sono il segno di un'identità leggera, eppure persistente, che si nutre di memoria. E di emozioni. Come dimenticare le "notti magiche" del mondiale del 2006? Oppure, per chi ha un'età più avanzata, del 1982? Quando tutte le strade e tutte le piazze del paese si riempirono di gente, festante - e di tricolori?
D'altronde, le fonti di identità e di riconoscimento, che uniscono e dividono gli italiani, sono ormai poche. La politica lo è sempre di meno. Perché è attraversata da un distacco generalizzato. Contro tutto e tutti. Partiti e politici, istituzioni. Sindacati e organizzazioni di categoria. E quando la sfiducia è totale, le identità e le appartenenze diventano deboli. Resistono, appena, le distinzioni più generali. Moderati e progressisti. E soprattutto: destra e sinistra. Ma, anch'esse, a fatica. Il forum promosso da Repubblica. it, presso i propri lettori, nei mesi scorsi, per identificare le parole e i concetti di Sinistra, ha delineato, infatti, un catalogo ampio e frastagliato. Circa trenta definizioni, nessuna delle quali è andata oltre il 10% di condivisioni (su oltre 65 mila rispondenti). Così, diviene arduo "cementare" le fedeltà politiche e dare continuità alle scelte di voto. Non per caso, una quota ampia e crescente degli elettori cambia schieramento da un'elezione all'altra. Oltre il 40%, nel 2013. Oltre il 30% alle ultime elezioni europee. E il 20% decide nell'ultima settimana. Il 10-12% all'ultimo minuto. "Per chi" e, prima ancora, "se" votare (Sondaggio Demos-LaPolis, giugno 2014). Fino al 2008, il "movimento" elettorale da un polo all'altro non superava il 10% (Sondaggi Itanes). E l'incertezza era molto più limitata.
Così non si vota più per appartenenza. Ma, piuttosto, come suggerisce Arturo Parisi, per "abitudine". E le abitudini sono resistenti, ma non come la fedeltà.
Non ci resta, quindi, che il calcio. Perché ormai tutto si può cambiare. Partito, schieramento e leader di riferimento. Ma non la squadra per cui si tifa. D'altronde, oggi il 47% degli italiani (sondaggio Demos, giugno 2014) si sente "tifoso" di una squadra di calcio. Nel settembre 2013, la quota era inferiore di oltre 10 punti. Il clima del campionato, finito da poco, ha alimentato la passione. Ancor più i mondiali.
Non a caso, l'80% degli intervistati si dice tifoso della Nazionale. Il calcio sembra, dunque, l'ultimo e unico segno rimasto di un'identità comune. In grado di unire, ma anche dividere. Il 22% degli italiani, infatti, in base all'intensità del tifo, può essere definito un tifoso "militante". E un altro 15%: "caldo". Disposto a esporsi in pubblico. Molto più difficile, invece, dichiararsi militanti di partiti che cambiano nome e leader con crescente velocità. È, infatti, complicato affezionarsi al PD quando si è stati comunisti, poi del PDS, dei DS, oppure Popolari, Democratici e della Margherita, passando per l'Ulivo. Fino a sfociare nel PdR: il Partito di Renzi. E che dire di chi è stato forzista e leghista? I forza-leghisti, come li ha definiti Edmondo Berselli, che maglia indosseranno oggi?
Cercate, invece, qualcuno disposto a cambiare la propria maglia e la propria bandiera, quando si tratta di calcio. Qualcuno disposto a passare dalla Juve all'Inter. Oppure al Milan (con qualche eccezione, per "fede" aziendale...). Dalla Roma alla Lazio. Al Napoli. Oppure ad abbandonare la Fiorentina, il Toro. L'Atalanta, il Verona oppure il Chievo. Il Cagliari oppure l'Ascoli. "Quando" e "se" non vincono. Cambiare squadra non è possibile. Significherebbe tradire se stessi. Più facile, semmai, contaminare il calcio con la politica. Sovrapporre una bandiera di partito a quella di club. Gridare: Forza Italia! Oppure, per i leader, esibire il proprio tifo. Allo stadio o in tivù. Perché la "fede" calcistica dura molto più di quella politica. E la mediatizzazione, invece di dissolverla, riesce perfino a rafforzarla. Giusto, per questo, guardare con attenzione al "tifo", in questo tempo e in questo Paese, dove le identità sono frammentarie e deboli. E possono, per questo, dissolversi. Oppure, al contrario, venire spinte "in curva". Fino, talora, a radicalizzarsi. In modo estremo. È il tempo della post-politica e dei post-partiti. Senza passione e senza bandiere. Senza mobilitazione e senza fiducia. Nel quale i principi non negoziabili dell'identità sono affidati al calcio. Io, che per vocazione e per professione, agisco da osservatore disincantato, ammetto, per una volta, di sentirmi fuori luogo e fuori tempo.
Fiesoli cita Berselli su “Il resto del carlino” del 22/06/2014
"Il calcio delle grandi firme. All'origine di una grande passione". Clicca qui per leggere l'articolo di Alessandro Fiesoli pubblicato su "Il Resto del Carlino" il 22 giugno 2014.
Walter Veltroni cita Berselli su “La Stampa” del 9/6/2014
Oggi nell'articolo dal titolo "La leggenda epica della squadra che scoprì dov'era la vittoria" Walter Veltroni rispolvera il Berselli appassionato del calcio magico di Riva e Gori. Su "La Stampa".
Paolo Ojetti cita Berselli su “Il Fatto Quotidiano” del 8/6/2014
"Due fiori di stile in un prato di melma". Recensioen a firma Paolo Ojetti del programma "Quel gran pezzo dell'Italia". Su "Il Fatto Quotidiano" dell'8 giugno 2014.
Ettore Scola cita Berselli in un’intervista a “Il Fatto Quotidiano” del 8/6/2014
Ettore Scola e i "Venerati Maestri". "Fu Gassman a convincermi a fare il regista" intervista di Marcom Pagani e Fabrizio Corallo pubblciato su "Il fatto quotidiano" dell'8 giugno 2014.
Dix cita Berselli nell’intervista a Libero Quotidiano del 06/06/2014
Clicca qui per leggere l'intervista a Gioele Dix su Libero Quotidiano, dove l'attore racconta la sua partecipazione ala programam tv dedicato ad Edmondo Berselli "Quel gran pezzo dell'Italia".
Luca Gino Castellin recensisce il libro “Meglio stare a casa” su europaquotidiano.it il 18/5/2014
Nell'articolo pubblicato su europaquotidiano.it "Lo sguardo di Edmondo Berselli sui cattolici italiani" , Luca Gino Castellin recensisce il libro che raccoglie i saggi pubblicati da Edmondo Berselli sulla rivista "Vita e pensiero".
Clicca qui per leggere l'articolo "Lo sguardo di Edmondo Berselli sui cattolici italiani"