Il Mulino
Il Mulino, 01-02 2009
Un esercito perso nella nebbia
Nel lungo inverno che stiamo attraversando, qualche volta le nevicate e le nebbie sembrano quelle d'antan. Scherzi dell'effetto serra e quindi del riscaldamento globale, declassato rapidamente, per la verità e a furor di scienza, al rango di cambiamento climatico. In questo «aer denso», il profilo stesso delle cose risulta ammorbidito, sfumato al punto che le immagini non risultano del tutto chiare. Ogni cosa, perfino il calendario, lascia pensare che abbiamo girato la boa che stazionava sul limitare del 2009 e ci siamo inoltrati nell'anno nuovo: ma allora perché si ha una sensazione di déjà-vu, come se avessimo visto da tempo, e anche archiviato, tutto ciò che ci sta intorno? Per quale ragione molti di noi hanno la sensazione di vivere un'esperienza già vissuta in altre epoche della Repubblica? Eppure il governo di destra è, e si dice, «decisionista». Ha in mente, e in programma, riforme decisive. La giustizia, il federalismo. Forse il presidenzialismo. Ecco, il solo aspetto della realtà contemporanea su cui il governo presieduto dall'onorevole Berlusconi non sembra avere le idee chiarissime è la crisi economica che il Paese, anzi, il mondo, sta sperimentando. È come se si stesse cercando di neutralizzare con le parole le asperità reali, e di smussare gli spigoli e le scabrosità. Diciamolo con un'immagine: là in fondo, sulla linea dell'orizzonte, sfilano muti, nel bianco e nero dei film del passato, reperti umani dall'aspetto indefinibile: sono i precari licenziati, o semplicemente non riassunti al termine del contratto, per ora le uniche vere vittime della recessione. Di qua, sulla torre di vedetta del governo, la crisi economica viene ancora considerata come un caso percettivo e mediatico. Una dissonanza cognitiva. Sono le cattive profezie «autorealizzantisi», le inquietudini «ingiustificate » del ceto medio e dell'impiego pubblico, il pessimismo che alimenta se stesso. Dovesse aggravarsi, la crisi, è probabile che il capo del governo troverebbe adeguate espressioni di collera, contro il sabotaggio psicologico, e quindi concreto, perché ciò che è mentale è reale, di cui gli italiani sono il bersaglio. Per ora, il capo del governo risponde alla recessione con le retoriche che gli sono abituali, soltanto più moderate, più guardinghe, più prudenti. Coraggio, dev'essere nata una nuova variante dell'andreottismo. Il governo è mediocre, nei contenuti e nello stile. Questo è il primo punto. Vediamo appena più in particolare. Nonostante le celebrate facoltà predittive del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, nei mesi scorsi è stata approvata una legge finanziaria triennale, che gli economisti definiscono «pro ciclica», ossia orientata in modo tale da approfondire le conseguenze della crisi. Il cosiddetto «Lodo Alfano», il provvedimento varato per sottrarre preventivamente alla giustizia le quattro principali cariche dello Stato, ha tutta l'apparenza di un vulnus deplorevole al criterio costituzionale dell'eguaglianza dei cittadini (si spera, ma non si giura, che la Corte costituzionale provveda secondo buonsenso). La crisi dell'Alitalia è stata risolta partendo da Air France per tornare a Air France, solo con l'aggravio di un costo per il bilancio pubblico fra i tre e i quattro miliardi di euro, settemila disoccupati in più, e un balletto deplorevole per costringere il Mercato a subire i desiderata dello Stato, cioè per passare dalla Francia alla Germania. Sul piano sociale, si è vista la trovata tecnologicamente avanzata della social card, con i poveri pensionati costretti alle code davanti agli sportelli delle Poste, magari per ritirare una card scarica. Sul terreno internazionale, al di là di gaffe lessicali molto da caffè di provincia, si è assistito a un grottesco equilibrismo tra il filoamericanismo di facciata e l'evidente scelta filorussa nella crisi della Georgia. Continuare l'elenco sarebbe un esercizio pedissequo. Sia consentito soltanto di mettere brevemente a fuoco l'«ideologia» del governo Berlusconi, esemplificata dai provvedimenti adottati dal ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini: giusti o sbagliati che fossero, rimangiati o no, del tutto o parzialmente ritirati, ciò che li qualificava era l'ineffabile alone da anni Cinquanta, un bianco e nero di ritratti a memoria e di oleografie nostalgiche, il profumo di un'Italia ordinata e assopita: il grembiule, il voto in condotta, la maestra. Nostalgie odorose, fragranze, profumi di premodernità. Appena fuori, naturalmente, lo spaccio continua. Continua anche il consenso, anche se le quote asseverate dai sondaggi sembrano piuttosto bizzarre. Si tratterà forse del «consenso senza fiducia» identificato da Ilvo Diamanti, ma che per il momento appare inscalfibile come una parete di zaffiro, su cui le deboli unghie dell'opposizione non lasciano neppure segni. Assomiglia però molto al consenso del pentapartito, del Caf, dell'eternità democristiana, del blocco di potere democristiano e socialista arenatosi nell'ultima fase della «Repubblica dei partiti». Assomiglia poi moltissimo al consenso inerziale degli anni Ottanta, anche se non c'è traccia della crescita economica che allora faceva dire «la nave va». Sicché ci si potrebbe anche domandare per quale motivo la destra al governo non approfitti della crisi per mettere in pratica quelle riforme che ritiene necessarie per modernizzare il sistema italiano, per realizzare le infrastrutture, per colmare i ritardi nell'adeguamento del Welfare, per aggiustare il sistema della ricerca, per dare gli strumenti necessari alla crescita futura. La risposta è semplice, per la verità: le trasformazioni efficaci non si fanno, e neppure si progettano, a causa di un deficit culturale. Molto serio. Nelle epoche scorse, quando la destra poteva contare sull'ingenuità e la sconsideratezza degli elettori, Berlusconi aveva mantenuto una schietta impostazione neoliberista. Criticabile, se si vuole, ma distinguibile. Il Cavaliere citava in continuazione Ronald Reagan e Margaret Thatcher, e proponeva la mirabolante curva di Laffer, la formula secondo cui abbassando le aliquote aumentano la crescita e il gettito, tanto che vinse facilmente una tornata elettorale, nel 2001, grazie allo slogan liberista e supply side «meno tasse per tutti». Fece il possibile per modernizzare il Paese prendendolo per la coda, con il tentativo (o la ripicca sociale) di abolire l'articolo 18 e presentando la libertà di licenziamento nella veste della «libertà di assumere». Era una linea politica, quella liberista un tanto al braccio, che poteva essere proposta ragionevolmente in un periodo favorevole. Purtroppo Berlusconi e i suoi collaboratori principali si trovarono in un momento fastidiosamente negativo (anche se l'11 settembre e le Torri gemelle, sempre invocate a discolpa, non c'entravano niente); e, dopo avere dichiarato la bancarotta politica della legislatura con il siluramento di Tremonti, conclusero il mandato con il miracolo a rovescio della crescita zero (e con il debito pubblico in aumento, il deficit aumentato, l'avanzo primario quasi azzerato: risultati curiosi per gli uomini che avevano sempre assecondato Berlusconi negli illusionismi di «un nuovo, un grande, uno straordinario miracolo italiano»). Crescita zero, con gli economisti d'area che si sforzavano diligentemente di spiegare, e di argomentare, e di giustificare. Indicavano l'estero, l'andamento delle maggiori economie, il divario storico italiano. Tutto chiaro, no? Ah, però, che dolore, che sofferenza quello zero, per l'uomo del miracolo. Adesso si tratterebbe di dare ulteriori spiegazioni. Spiegare intanto per quale motivo il liberismo, «la nostra ricetta», si è rovesciato in un protezionismo dichiarato. Ah già, che ingenui: semplicemente non si doveva credergli. Bastava registrare la furibonda reazione della Casa delle libertà contro le liberalizzazioni varate da Pier Luigi Bersani sotto il governo Prodi (anzi, «le false liberalizzazioni») per avere il primo indubitabile indizio di quanto fosse precaria la cultura liberal-liberista della destra. Poi sarebbero tornati al governo, i neoliberisti presunti, e non avrebbero più nascosto un'impronta culturale nazionalcorporativa. Bastava leggere il gran finale metafisico del bestseller di Tremonti La paura e la speranza, con quell'elenco di parole maiuscole che il ministro ha sintetizzato varie volte, a cominciare dal Meeting di Comunione e liberazione a Rimini dell'estate scorsa, nello slogan «Dio, Patria e Famiglia», cioè il ritorno all'ordine; e si sarebbe capito che l'impianto intellettuale e filosofico del governo di destra, certificato dal suo guru principale, è di tipo espressamente conservatore. Domanda: a qualcuno non è piaciuta e non piacerà la definizione di «modernizzazione reazionaria» applicata come etichetta al programma del Popolo della libertà, perché in passato è stata usata per individuare il programma del nazismo, modernizzatore nella tecnica e nello stesso tempo arcaico nei valori? E allora chiamiamola semplicemente conservatrice: è la modernizzazione che promette di innovare i funzionamenti senza toccare le strutture, anzi, inserendo gli apparati in una gigantesca palla di cristallo con la neve che cade suggestivamente, in un trionfo del kitsch. Tanto più che se ci fosse davvero una cultura liberale nel nostro Paese, e non soltanto liberali sparsi qua e là, e talvolta dimentichi del loro ruolo, forse qualcuno si sarebbe premurato di segnalare che l'impianto sociale della visione di Tremonti, altro che economia sociale di mercato, è la riedizione di un tentativo di corporare gli interessi dividendoli soltanto funzionalmente. Sfortunatamente per tutti i liberali un po' miopi presenti a destra, assomiglia, eh sì, dispiace dirlo, assomiglia al fascismo. No, questa non passa: il fascismo no. Tremonti non fa che citare i liberali riuniti intorno alla rivista «Ordo», cioè gli intellettuali che a Friburgo codificarono l'economia sociale di mercato. E allora diciamo così: siccome fra i non molti che sembrano in grado di fare politica, nel governo e nella maggioranza di destra, spiccano per iniziativa gli ultimi mohicani socialisti (Tremonti, Brunetta, Sacconi, Frattini
), può darsi che la vendetta socialista contro gli anni di Tangentopoli si sia realizzata con la creazione di un fronte egemonico, in cui i sedicenti «socialisti di Forza Italia», o adesso «del Pdl», naturalmente alleati con gli ex fascisti (cioè colmando a loro modo, in via del tutto pragmatica, una frattura storica ma non del tutto ideologica), hanno corporato i ceti del lavoro autonomo contro il lavoro dipendente: una nuova forma della lotta di classe, benché a rovescio. Ma proprio il sistema di alleanze su cui si è costituito il successo elettorale e si è sviluppata l'articolazione nel sistema politico del blocco berlusconiano potrebbe forse cominciare a spiegare le incertezze operative del Pdl e dei suoi partner. Nonostante le reiterate dichiarazioni di compattezza e di solidarietà fra i leader e i partiti, l'armada guidata da Berlusconi, tenuta insieme dall'ineffabile gusto del potere, continua a essere segnata da divisioni politiche e culturali vistose. È difficile dimenticare che lo stesso Pdl, ossia il partito lanciato con una grande e solitaria performance pubblica sul predellino di un'automobile a Milano, rappresentava nello stesso tempo un'offerta e un ricatto: perché il fondatore e capo di Forza Italia aveva deciso di liberarsi dei condizionamenti e procedere esclusivamente «con chi ci sta». Quindi, restare fuori dal Popolo della libertà, per un partito come Alleanza nazionale, implicava il rischio evidentissimo della cannibalizzazione elettorale. Ciò significa comunque che il nuovo partito di Berlusconi ha riunito strutture, personalità, culture e tradizioni assai diverse. Gli «istinti di mercato» di Forza Italia (secondo la vecchia ma sempre attuale definizione di Giuliano Amato, che li contrapponeva alla «cultura di mercato »), e la vocazione nazionalpopulista di An; il pragmatismo imprenditoriale, e padronale, di Berlusconi con il politicismo di Gianfranco Fini. E fosse solo questo: perché il vero capolavoro di Berlusconi (con tanti ringraziamenti a Tremonti) consiste nell'essere riuscito a mantenere in vita il rapporto politico con Umberto Bossi e la Lega: un'impresa sia in senso tattico sia in senso strategico, dato che unisce i fautori della società aperta con i sostenitori delle «società chiuse». Impresa che si colora di tinte aurorali e altamente suggestive se si mette nel conto che ai vessilliferi del potentissimo Nord si affiancano in Parlamento i rappresentanti delle clientele del Sud. Ecco allora che si spiega il sostanziale mutismo della maggioranza di destra rispetto ai problemi reali. Al di là delle sparate «sistemiche» con la rivendicazione di riforme colossali sotto il profilo istituzionale, l'unica possibilità reale di mediare fra gli interessi divergenti intrinseci alla coalizione di governo consiste nel trovare un tono medio, caratterizzato da categorie attinenti più al buonsenso famigliare e all'economia domestica che non al coraggio, all'iniziativa politica, ai punti qualificanti di un programma autenticamente innovativo. Meglio così, per certi versi. Per amore o per forza la destra italiana, dopo i fuochi d'artificio del neoliberismo applicato in provincia, con l'approssimazione e il vigore retorico dei neofiti, si è riscoperta infine un'anima popolar-conservatrice. Dopo i fuochi artificiali delle origini, dopo i miracoli promessi e le promesse esorbitanti, dopo le polemiche contro le istituzioni dell'Unione europea, contro Maastricht e il Patto di stabilità, a forza di compromessi al suo interno la destra ha trovato una sua identità: vecchiotta e quindi aderente a una società invecchiata, stanca di conflitti politici senza quartiere, desiderosa di ritrovare e consolidare abitudini e di ricevere rassicurazioni. Alla fine Berlusconi è riuscito a conquistare l'obiettivo di rendersi familiare: l'alto consenso di cui gode dipende dalla tendenza abitudinaria dei suoi connazionali. Se il celebre corrispondente romano del «Monde », Jacques Nobécourt, affermò a suo tempo che la Dc semplicemente «si constata», la sua boutade adesso potrebbe essere virata nello schema secondo cui Berlusconi «si subisce». Con quel tanto di rassegnazione obbligatoria per poter sopportare un'Italia mediocre e conforme alla propria mediocrità, che non vuole saperne di rischiare le proprie rendite, le proprie vendite, le proprie periodiche svendite. Nell'Italia imprecisa dell'inverno fra il 2008 e il 2009, mentre si addensano i segnali della crisi economica, sembra di essere tornati al buon tempo che fu. Un governo senza grandi qualità, il rinvio dei problemi, l'annuncio di soluzioni ex lege. E sul fronte dell'opposizione, un disfacimento che sembra annunciare una resa: perlomeno all'idea che per assistere a una trasformazione dei rapporti di forza occorrerà per l'appunto un fenomeno naturale, un evento eccezionale, una dinamica poderosa e tellurica, qualcosa che favorisca alla fine un cambiamento non soltanto nella politica e nella cultura: semplicemente, un radicale cambiamento di clima. Edmondo Berselli, editorialista della «Repubblica» e dell'«Espresso», ha lavorato a lungo per la rivista «il Mulino», che ha diretto dal 2003 al 2008. Il suo ultimo libro è Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica (Mondadori, 2008).
Il Mulino, 09-10 2008
La società del cinquanta per cento
La politica possiede ragioni che non possono essere nascoste o mascherate a lungo, a dispetto delle dichiarazioni fuorvianti dei protagonisti. Nei primi mesi dopo l'insediamento, con alle spalle la vittoria a valanga nelle elezioni del 13- 14 aprile 2008, il governo presieduto da Silvio Berlusconi e sostenuto dall'ampia maggioranza composta dai parlamentari del Popolo della libertà ha cercato di diffondere l'idea che la sua azione andava considerata di matrice interclassista; e talvolta alcuni esponenti del governo e della maggioranza, specialmente coloro che hanno una radice nell'antica area culturale del Psi, esponevano volentieri la l'enunciato, senza celare l'intento di una certa provocazione, secondo cui la politica del Pdl si configurerebbe come una politica «di sinistra», capace di surrogare, se non addirittura di sostituire, le manchevolezze progettuali e propositive dell'opposizione. Non è necessario sottolineare più di tanto la strumentalità partigiana di enunciati come questi. Invece è indubitabile che la primissima parte della legislatura è stata interpretata da Berlusconi e dai suoi collaboratori più stretti come una sfida durissima al Partito democratico e a tutte le opposizioni residue. Per prenderne nota, è sufficiente riandare ad alcune dichiarazioni con cui il ministro dell'economia, Giulio Tremonti, ha accompagnato la presentazione della manovra finanziaria: «L'Italia possiede un punto di forza: la stabilità politica; che resterà per cinque, dieci, forse quindici anni». Questa considerazione nasce senza alcun dubbio da una valutazione adeguata del voto politico dell'aprile scorso, dei suoi dati numerici e della sua distribuzione geografica; più sottilmente, e in modo più interessante in una prospettiva programmatica, proviene da un'interpretazione strettamente «sociale» del risultato delle urne, vale a dire da un rigoroso riscontro della constituency effettuale e potenziale del Popolo della libertà. Il primo a lanciare l'allarme, nel senso di un allarme politico chiaro e netto, era stato Massimo D'Alema. Nelle condizioni attuali, aveva detto, il Pd rischia di divenire una «minoranza strutturale» all'interno del sistema italiano. Si può certamente valutare con freddezza un richiamo di questo tipo, attribuendolo alle intenzioni più varie: ai disegni personali del leader ex comunista, alla sua convinzione che esistono altre strade oltre a quelle disegnate da Walter Veltroni, oppure anche a quel suo realismo che talvolta rasenta la ferocia intellettuale. Eppure è difficile sottrarsi al riconoscimento che almeno su un punto D'Alema ha ragione: per la prima volta si assiste in Italia al profilarsi di una specie di politica fortemente discontinua con il passato e con la tradizione: con un programma che ha messo al centro della sua iniziativa qualcosa che assomiglia a una nuova guerra di classe, e che può aggregare un fronte politico ed elettorale tale da costituire una sorta di «maggioranza permanente». Qualcosa di simile a un bipartitismo ancora più imperfetto di quello descritto a metà degli anni Sessanta da Giorgio Galli, in cui la maggioranza permanente e la minoranza strutturale disegnano un sistema perennemente bloccato da uno squilibrio troppo forte fra destra e sinistra. Si conviene di solito che di fronte alla politica italiana non è opportuno usare parole troppo impegnative. Tuttavia la novità è nel suo genere straordinaria proprio perché non sono esistiti storicamente in Italia partiti di chiaro stampo neoconservatore, determinati a soddisfare il proprio elettorato e a giocare le proprie chance politiche puntando su provvedimenti sostanzialmente punitivi per l'elettorato degli avversari. Infatti la Democrazia cristiana, vale a dire il pilastro centrale di mezzo secolo di equilibri politici, era un partito di mediazione, articolato in varie correnti distribuite su un'ampia gamma di riferimenti politici, «poliarchico» nella sua struttura interna e territoriale, a cui non si può negare a posteriori una riconoscibile sfumatura pro labour, e che rivendicava comunque una programmatica vocazione interclassista. Invece, il governo di Berlusconi e Tremonti sembra ispirato da un progetto molto diverso, al cui termine si intravede la volontà di trasformarsi in un basamento politico su cui fondare una maggioranza elettorale permanente, selezionando senza inibizioni gli interessi da rappresentare e i ceti da privilegiare. Proprio perché l'iniziativa politica è assai spregiudicata e innovativa, per capire le linee di fondo di questo programma è necessario fuoruscire dal coacervo dei singoli provvedimenti, soprattutto quelli di tipo elettoralistico. Ad esempio, per quanto sia apparsa a molti irrazionale anche in vista di un obiettivo «federale», l'abrogazione dell'Ici costituiva un atto dovuto perché era stata promessa durante la campagna elettorale come un evento rivoluzionario dal punto di vista fiscale; a sua volta, la detassazione (parzialissima fin quasi all'irrilevanza) degli straordinari è una misura insignificante nella quantità e riveste un contenuto più che altro indiziario, alla stregua di un segnale, un messaggio in codice alle imprese che per il futuro aspettano maggiore discrezionalità nel rapporto con la forza lavoro e vincoli operativi meno stretti. Su un altro piano, distinto dall'economia, la campagna su immigrazione e sicurezza (anzi, sul cortocircuito volutamente innescato, con un forcing mediatico, fra immigrazione e sicurezza) ha avuto durante la campagna elettorale e detiene tuttora un valore simbolico fortissimo: basta osservare i telegiornali che mostrano l'esercito in strada e le vecchiette che dicono «vi vogliamo bene» ai soldati. Ma i suoi contenuti, chiarissimi nel tentativo di guadagnare il consenso dell'Italia più anziana e spaventata, saranno da valutare più avanti, fuori dai rumori della cronaca (e dagli incidenti di percorso come i turisti olandesi massacrati nella periferia romana in un casale abbandonato): quando sarà possibile cioè verificare se la politica della destra, dopo avere sollevato allarme sociale, sarà stata in grado di sedarlo con le sue misure di contrasto alla criminalità e all'illegalità urbana; oppure se queste stesse misure, dimostratesi poco inefficaci, non avranno elevato la percezione di insicurezza da parte dei cittadini, innescando il classico circolo perverso dei provvedimenti «esemplari» che contribuiscono a creare, o a rafforzare, ciò che intendevano esorcizzare. Il modello delle gride manzoniane infatti è sempre dietro la porta di casa, con l'infinita serie di complicazioni che esse comportano. Ma è soprattutto con il lavoro condotto dal governo dietro la prima linea, riscontrabile nell'articolazione delle legge finanziaria triennale e nelle decisioni prese nei singoli ministeri, che si delineano gli elementi del progetto politico e sociale del Popolo della libertà: un lavoro che nasce da una concezione della politica marcatamente di destra, senza inibizioni né remore culturali. In sintesi: il Pdl registra con chiarezza una perdita di peso del lavoro dipendente e di tutti i ceti riconducibili nel perimetro del reddito fisso, e quindi la possibilità di creare un blocco sociale di maggioranza che possa confermarsi, come ha ribadito Tremonti «a tempo indeterminato». Si tratta di una dinamica già in atto da tempo, che fra l'altro ha spostato gli equilibri finanziari a favore della rendita e a scapito del lavoro dipendente, ha esaltato le differenze di reddito, ha ripudiato le tendenze redistributive. Evidentemente Berlusconi e la sua maggioranza hanno deciso consapevolmente di farsi imprenditori degli interessi della parte di società che intendono rappresentare. Si prospetta in questo modo un circuito politico che copre all'incirca la metà della società, tanto da poter essere definito come «la società del cinquanta per cento», a differenza della «società dei due terzi» descritta a suo tempo dal socialdemocratico tedesco Peter Glotz, che identificava la blockierte Gesellschaft della Germania e similmente delle società capitalistiche avanzate; e in quanto tale, dentro rapporti di forza non scalfibili da un'opposizione indebolita e incapace di produrre un progetto politico-culturale alternativo, in grado di governare agevolmente contro tutti gli altri ceti dispersi e perdenti. Per conseguire questo obiettivo, a suo modo «storico» nel suo malthusianesimo sociale, Berlusconi si è premunito da ogni possibile sorpresa garantendosi l'immunità giudiziaria, utilizzando in prima battuta la classica operazione del provvedimento «bloccaprocessi», che è servito a introdurre poco dopo la «mediazione» del Lodo Alfano. La tecnica è nota: prima si minaccia l'introduzione di una sorta di arma totale che prefigura la paralisi totale della giusti zia, e poi, con il Quirinale assediato e l'opposizione impotente, si tratta da posizioni di forza. Per molti aspetti si è trattato di un formidabile atto di distorsione delle istituzioni. Utile comunque, a questo punto, per passare alla fase successiva con le retroguardie inattaccabili, ossia per provvedere al processo di creazione di una maggioranza politica e soprattutto sociale stabile, coerente, soprattutto non aggredibile dalle opposizioni. Con un esemplare ragionamento da economista, Francesco Giavazzi sul «Corriere della Sera» del 17 agosto ha scritto che con la sua politica economica il ministro Tremonti, che pure ha evocato spesso lo spettro della crisi del Ventinove, «rischia di ripetere gli errori di Herbert Hoover, il presidente che, nel tentativo di raggiungere il pareggio di bilancio nel mezzo di una recessione, creò le premesse per la grande depressione». Tremonti, ha argomentato Giavazzi, mantiene la pressione fiscale invariata per il triennio di programmazione economica, «al livello elevatissimo al quale l'aveva lasciata Prodi». Si tratta di per sé di una variazione di linea singolare, per una formazione politica che aveva sempre, e gloriosamente, puntato sul «meno tasse per tutti». Tanto più, ha aggiunto l'editorialista del «Corriere», che in questo momento «come ha spiegato con grande chiarezza Guido Tabellini [
] ciò che servirebbe è un'energica riduzione delle tasse sul lavoro». Ora, sarebbe superfluo sottolineare che Giavazzi è uno dei più stimati economisti italiani, tanto che le sue proposte di liberalizzazione dell'economia nazionale hanno incalzato gli ultimi governi fino a condensarsi in quella che i media hanno definito «l'Agenda Giavazzi»; e che Guido Tabellini figura spesso (a differenza di suoi colleghi economisti che hanno assunto cariche di governo e che alludono qua e là nostalgicamente ai tempi in cui venivano considerati in corsa per le migliori attestazioni di merito nella ricerca economica), nella rosa dei candidati al premio Nobel. E allora, date queste semplici premesse, si può davvero immaginare che Tremonti sia uno sprovveduto, talmente inesperto di variabili e tendenze macroeconomiche da varare un complesso di riduzioni di spesa che, durante una fase di stagnazione e inflazione, avrebbe evidenti effetti «pro-ciclici», cioè con una seria probabilità di aggravare la recessione? Non sembra proprio un'ipotesi plausibile. Una interpretazione più realistica, almeno in parte, è quella offerta polemicamente dall'esponente del Pd, e ministro ombra per l'economia, Pier Luigi Bersani: il governo sta procurandosi una provvista per affrontare i costi inevitabili della futura struttura federalista, che almeno in una prima fase, anziché i risparmi indotti in avvenire dalla nuova virtuosità dei comportamenti amministrativi sul territorio, provocherà un incremento di apparati e quindi di spesa pubblica. Ma per certi versi sarebbe possibile anche un'interpretazione più forte sotto l'aspetto politico, che attiene proprio all'«ideologia» di destra del governo presieduto dall'onorevole Berlusconi, alcuni dei quali sono stati messi in luce dal contributo di Laura Pennacchi nel numero scorso del «Mulino». Sotto questo profilo, la recessione in atto, quale che sia la sua entità, può costituire un fenomeno inquietante sotto l'aspetto economico generale, ma entro certi limiti potrebbe perfino risultare funzionale al disegno politico del Pdl. È sufficiente rinunciare alla pretesa, o all'illusione, interclassista di governare per il benessere di tutta la comunità nazionale. Il bene comune è una finzione. Conviene invece dividere in due, con una linea netta, la società: da una parte, sommariamente, il già citato reddito fisso, ossia lavoro dipendente e pensionati; dall'altra imprese e lavoro autonomo (professioni, commercio, artigiani ecc.). Per queste ultime categorie sociali, né l'inflazione né la stagnazione devono rappresentare un'inquietudine. Alle imprese è stato subito lanciato il messaggio sulla contrattazione da flessibilizzare, sul lavoro precario da mantenere come risorsa di flessibilità, e perfino su aspetti tipicamente premoderni del rapporto fra imprenditori e lavoratori come la cancellazione della legge che impediva la pratica delle dimissioni firmate in bianco. Alle categorie del lavoro autonomo, che Bersani da ministro aveva tentato con qualche limitato successo di sottoporre a un regime di concorrenza, è riservata di fatto la possibilità di manovrare prezzi e tariffe. Non che il mercato si possa comprimere con i calmieri; ma la scomparsa del contenimento dell'inflazione dalle priorità vere del governo mette allo scoperto la pesante sfasatura, per il reddito fisso e per i contratti, fra l'inflazione programmata, del tutto irrealistica rispetto agli andamenti reali, e l'inflazione reale. In ogni caso è difficile non vedere che i pilastri dell'azione del governo sono due: da un lato l'attacco a tutti gli apparati pubblici, dall'altro il tendenziale smantellamento del contrasto all'evasione. Il primo aspetto ha connotati spettacolari (così come è diventata uno show quotidiano l'azione evidentemente intimidatoria del ministro Renato Brunetta indirizzata verso il pubblico impiego): i trenta miliardi in tre anni di tagli alla macchina pubblica incidono direttamente su scuola, università, sanità, sicurezza, e su tutti gli enti locali, in maggioranza di centrosinistra, che avranno difficoltà consistenti nell'assicurare i servizi programmati. L'altro aspetto, il ritiro dalla lotta all'evasione, è più strisciante. Si compone di provvedimenti invisibili, che non fanno titoli sui giornali, e che non accendono la fantasia dei commentatori. Tanto per chiarire questo aspetto, si può notare che sul «Sole-24 Ore» un osservatore competente come Stefano Micossi ha riconosciuto al governo di avere avviato per il Paese un percorso di «riforme strutturali, capaci di liberarne il potenziale di crescita e modernizzarne le istituzioni obsolete». Prima di accertare se l'osservazione è condivisibile, converrebbe intanto capire se fra queste riforme va compresa anche l'istituzionalizzazione politica dell'evasione, che l'ex viceministro dell'economia, il detestatissimo ma efficiente Vincenzo Visco ha riassunto in questo modo: «Ormai si è convinti che le tasse le debbano pagare solo i lavoratori dipendenti». Modernità o arcaicità? Secondo Visco, per chi volesse farsi un'idea delle misure «anti-antievasione», non c'è che l'imbarazzo della scelta: abolizione della tracciabilità dei compensi, indebolimento delle norme di personalizzazione degli assegni bancari, eliminazione dell'elenco dei fornitori, con l'aggiunta dello smantellamento dello staff ministeriale che aveva lavorato con il governo precedente nel settore della lotta all'evasione fiscale. Sono tutti provvedimenti che lasciano intendere a prima vista un chiaro via libera al sommerso. Spesso giustificati addirittura con la spiegazione secondo cui la difficoltà procedurale degli adempimenti è «criminogena», ossia rischia di produrre ulteriore evasione. Siamo più o meno nell'universo narrativo dello storico Carlo M. Cipolla, quando raccontava che i velieri degli spagnoli trasportavano in Europa dalle Americhe quantitativi di argento due o tre volte superiori a quanto riportato sui documenti di bordo: al che, stanco dell'andazzo, ma incapace di mettere sotto controllo i profittatori, il re di Spagna abolì la bolla di accompagnamento. Quindi, sotto la coltre fumogena di operazioni come la «social card» e un esproprio patrimoniale con annessa strizzata d'occhio no global come la «Robin Tax», comincia a delinearsi una sterzata violenta rispetto al governo precedente. Brutale nei contenuti ma affidata alla prassi più che alla teoria. La teoria parla con espressioni nobili di economia sociale di mercato, richiamando Wilhelm Röpke, gli «ordoliberali» di Friburgo e la politica economica di Ludwig Erhard, ministro del cristiano-democratico Konrad Adenauer (e poi cancelliere del Repubblica Federale Tedesca); la prassi conduce a una strategia sotterranea a favore delle categorie e delle corporazioni autonome. Così sotterranea, questa strategia, così poco dichiarata che nell'opposizione pochi sembrano in grado di cogliere la portata dello choc sociale che è stato innescato. Vale a dire un trasferimento di ricchezza potenzialmente gigantesco, mascherato dietro le filosofie di Tremonti sulla Soziale Marktwirtschaft, sul federalismo fiscale, sulla resistenza «di comunità» alla globalizzazione (va detto che ormai i migliori economisti di destra citano spessissimo con soddisfazione l'economia sociale di mercato, dopo avere citato per decenni i testi sacri della scuola liberista di Chicago; al massimo, quando citano in tedesco l'economia sociale di mercato, si permettono il lusso tutto intellettuale di sbagliare variamente la grafia). Ci sono insomma, e sarebbe opportuno che diventassero assai più visibili, in modo da diventare oggetto di discussione, due linee di confronto, e potenzialmente di scontro durissimo, dell'opposizione con la maggioranza: una corre sul binario di questa redistribuzione regressiva, assimilabile a una qualità intrinseca che non si si sa come definire se non come «castale». L'altra sull'operazione «istituzionale» di tipo federalista. Se volessimo ricorrere a un linguaggio geografico, potremmo dire che a dispetto delle dichiarazioni sulla propria azione «di sinistra», il governo in carica progetta di dividere in longitudine la società italiana fra lavoro autonomo e reddito fisso, e in latitudine le regioni fra il Centro Nord e il Sud. È chiaro che entrambe le iniziative di fondo del governo sono destinate a innescare tensioni fortissime nel tessuto sociale e nazionale. Con la prima, l'attacco al lavoro dipendente e al reddito fisso, il Pdl ha cominciato a costruirsi il suo blocco politico e sociale, e con un approccio paradossale ma vicino alla genialità lo fa con i soldi dell'opposizione, cioè con i soldi degli elettori del centrosinistra. Con la seconda, il federalismo, aprirà verosimilmente un tiro alla fune di drammatica intensità fra Centro Nord e Sud, che potrà essere gestito o lasciando il Mezzogiorno a estinguersi in una penosa carenza di risorse, oppure invece aprendo i rubinetti delle casse pubbliche, cioè a spese del bilancio dello Stato. Nel primo caso sarebbero fortissime le spinte verso una prospettiva che la Lega di Bossi non ha mai abbandonato, almeno psicologicamente, ovvero la tentazione separatista. Nel secondo caso, l'allargamento dei cordoni della borsa, si verificherebbe un attentato materiale alla crescita e quindi al benessere generale della collettività italiana. A fronte di questa politica ci sono alcuni elementi da chiarire. Va da sé che una analisi come quella esposta nelle pagine precedenti non dovrebbe portare la sinistra a identificarsi semplicemente come il luogo di rappresentanza politica del lavoro dipendente. Sarebbe un calcolo miope, più vicino alla difesa di un'identità, per quanto ormai vaga, che non alla creazione di una strategia politica competitiva. Ma non è affatto miope individuare con chiarezza quali sono le linee di contrapposizione fra destra e sinistra, a cominciare proprio dagli interessi materiali in gioco. E sotto questa luce sarebbe anche il caso che la comunità intellettuale, in particolare i political economist, trovassero sedi e ragioni per formulare un giudizio autonomo sulle politiche in atto e sulle loro conseguenze. Di recente si è osservata una sostanziale abdicazione, un atteggiamento che non si sa come definire se non come una rinuncia intellettuale, per esempio rispetto alle posizioni «antimercatiste» espresse da Giulio Tremonti nel suo fortunato pamphlet La paura e la speranza. Può anche darsi che alla fine il calcolo sia miope in realtà anche per la destra: nel senso che la possibilità di sopravvivere, e bene, alla stagflazione può essere stata sopravvalutata. Finora il Popolo della libertà ha avuto buon gioco nel presentare la propria azione secondo un format apparentemente infallibile, che prevede da una parte la stragrande maggioranza degli italiani buoni, lavoratori, attenti al bene comune, e dall'altra parte una esigua minoranza di fannulloni, buoni a nulla, sabotatori. Lo schema è irrisorio per chiunque abbia soltanto una vaga idea dei processi di secolarizzazione, modernizzazione, burocratizzazione descritti da Max Weber, ma tuttavia serve per generare consenso e ammortizzare i dissensi. Tuttavia può sempre verificarsi qualche inciampo, che rende queste narrazioni mitico-magiche inadatte a fronteggiare i problemi reali. Oggi si ha l'impressione che le scelte politiche della destra recuperino il vecchio lassismo democristiano, il clientelismo, il particolarismo, la distrazione fiscale, e li proiettino in una dimensione inedita, in cui il voto economico di scambio e di interesse diviene un fortissimo fattore di stress politico e di identificazione quasi-militante per gli elettori. Ma se è vero che gli interessi hanno sconfitto le passioni, il darwinismo sociale può contenere i germi del proprio fallimento: ad esempio, nel momento in cui flette la domanda aggregata, potrebbe osservare un keynesiano, cioè in presenza di consumi gravemente cedenti, anche interi settori del lavoro autonomo e del commercio subiscono ripercussioni violente dalla crisi. Se si concede soltanto a una parte della società il diritto di arricchirsi ai danni dell'altra, i consumi crollano, l'economia si inceppa. Chissà se questa prospettiva è chiara e presente, nella mente dei migliori cervelli della destra, e di tutti coloro che pensano che il reale è tutto razionale, e che questo, evidentemente, è il migliore dei mondi possibili: a dispetto della recessione, della stagnazione, dell'inflazione, e anche di un paese che non riesce più a crescere.
Il Mulino, 05-06 2008
Partito democratico o partito ipotetico
Il commento al risultato ottenuto dal Partito democratico alle elezioni del 13- 14 aprile 2008, e ai suoi riflessi più generali sullo schieramento di sinistra, non è così semplice come potrebbe apparire. O meglio, risulta facile se si applicano criteri di misura modellati su un pregiudizio. Uno di questi pregiudizi recita: oggi l'ala sinistra dello schieramento politico è ridotta a una minoranza con scarse o poco prevedibili possibilità di rivincita, quindi non possono esserci dubbi, la sconfitta è stata catastrofica, e può dare luogo a un lungo periodo di irrilevanza politica. Il pregiudizio opposto sostiene che il Pd, come argomenta ripetutamente Walter Veltroni, è riuscito a proporsi come «il motore riformista» della politica italiana, raggiungendo una dimensione non dissimile da quella dei principali partiti progressisti europei; il brevissimo tempo avuto a disposizione, le pessime condizioni competitive, l'ombra proiettata dal governo precedente hanno impedito di completare quello che comunque costituisce in termini relativi un risultato positivo. Ma prima di osservare e giudicare le ripercussioni reali che il voto ha avuto sul centrosinistra e sulla sinistra, è il caso di guardare in primo luogo all'esito «sistemico» delle elezioni: e sotto questo punto di vista non si può negare che l'effetto è stato davvero spettacolare. Come Veltroni ha sostenuto durante la campagna elettorale, lo strappo solitario del Pd, imitato dalla decisione di Silvio Berlusconi di unificare Forza Italia e Alleanza nazionale nella nuova sigla «Popolo della libertà», ha realizzato sul campo, operativamente, quella razionalizzazione dell'ambiente politico che era stata invano inseguita attraverso le riforme elettorali e istituzionali. Secondo una lettura in positivo di questo esito, l'infinita transizione italiana ha raggiunto quindi una prima tappa. In effetti la semplificazione della rappresentanza parlamentare è stata fortissima, e nonostante una legge elettorale di persistente cattiva qualità si è determinata una chiara maggioranza nel Parlamento. Purtroppo per il centrosinistra, si tratta di una chiara maggioranza di destra. In sintesi, quello praticato da Veltroni, segretario del Pd e candidato alla guida del governo sulla scia delle primarie democratiche dell'ottobre 2007, si è configurato come un «sacrificio di regina»: la separazione, definita consensuale, con la sinistra antagonista ha condotto alla scomparsa dei partiti raccolti nel cartello «arcobaleno», che sono stati ridotti a una dimensione extraparlamentare; a sua volta, il Pd non è riuscito a rastrellare consenso al centro del sistema politico, conquistando alla fine soltanto un terzo dell'elet torato. Ha preso a circolare una battuta liquidatoria: «L'operazione di Veltroni è riuscita, ma il paziente è morto». Il capo della destra, Silvio Berlusconi, ha sintetizzato nel suo modo sbrigativo: «Sono cambiate le condizioni: prima c'erano due metà del Paese, contrapposte, per cui occorrevano il dialogo e la condivisione; adesso siamo all'incirca due terzi contro un terzo, e quindi per la nostra parte è venuto il momento della decisione». Per quanto sbrigativa, l'osservazione berlusconiana descrive con sufficiente precisione la struttura attuale della politica italiana. Oggi il centro e la sinistra riformista, vale a dire il perimetro delle forze politiche su cui si è basato l'equilibrio politico della Repubblica italiana a partire dai primi anni Sessanta, rappresentano una entità minoritaria. La razionalizzazione ha avuto luogo, ma gli effetti non sono stati quelli attesi dai promotori del Partito democratico. Silvio Berlusconi «scende» nell'arena pubblica agli inizi del 1994, provocando un effetto immediato di polarizzazione della competizione politica. O si diventa ferventemente berlusconiani o ci si oppone al ruolo che il tycoon televisivo ha voluto assumere. Di qua o di là è l'unico schema accettato e assimilabile dalle forze politiche, salvo la brevissima e sfortunata esperienza del Patto per l'Italia di Martinazzoli e Segni, che alle elezioni politiche del 1994 tentarono di collocarsi al centro del sistema politico, finendo praticamente stritolati dalla dinamica bipolare e sacrificando oltre sei milioni di voti in cui si era rifugiato il consenso democristiano, oltre a un discreto numero di elettori laici che avevano voluto sottrarsi al nuovismo berlusconiano e all'ipoteca post-comunista della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto. Per tredici anni dopo la caduta del Berlusconi primo, vale a dire dall'ingresso nella politica attiva di Romano Prodi, una parte della società italiana ha tentato di opporsi al berlusconismo montante, e alla strategia di alleanze realizzata dal capo di Forza Italia, cercando una rappresentanza conforme alle proprie ispirazioni culturali e aggrappandosi all'idea di poter costruire uno strumento politico originale in grado di proporre una modernizzazione «saggia » del nostro Paese. Nacque da questo presupposti l'Ulivo, cioè l'innesco della fusione fra ex comunisti, laici riformisti e cattolici progressisti che alla fine di un itinerario piuttosto tortuoso avrebbe condotto alla formazione del Partito democratico. L'esperienza politica dell'Ulivo avveniva all'interno del sistema parzialmente maggioritario, il cosiddetto «Mattarellum», basato sul sistema a collegio uninominale. Alle elezioni del 1996 il centrosinistra vinse le elezioni, in seguito alla rottura della Lega nord con il blocco costituito da Forza Italia e An. Cinque anni e tre governi dopo, il centrodestra si riunificò vincendo le elezioni, e Berlusconi riconquistò Palazzo Chigi. Una legislatura più tardi, la sofferta affermazione elettorale del centrosinistra, ribattezzato «Unione», alle consultazioni del 2006 diede luogo a una problematica maggioranza e a una tormentata vicenda governativa. Il resto è storia di questi mesi. Ma se si passa in rassegna l'arco degli ultimi tredici anni, ponendosi a una distanza critica adeguata, si ha la sensazione che la politica del centrosinistra sia stata costantemente modellata da un'intenzione e un problema. L'intenzione consisteva nel trovare una formula politica che consentisse un'azione efficiente di contrasto competitivo alla potenza politica e mediatica della coalizione berlusconiana. Il problema derivava dalla storia di una componente fondamentale del centrosinistra, cioè la sinistra post-comunista, che secondo alcuni non aveva mai condotto fino alle conseguenze più vincolanti la propria revisione ideologica (si può condividere o avversare questo giudizio, ma dal momento che l'ascendenza comunista è impugnata dagli avversari come un'arma politica, il problema esiste a dispetto di qualsiasi assoluzione soggettiva). Poiché la competitività elettorale del centrosinistra dipendeva, alla fine dei conti, dalla possibilità di unire non solo tatticamente la sinistra democristiana e gli eredi del principale troncone del Pci, la questione effettivamente strategica consisteva nell'individuare un punto di equilibrio in grado da fungere da fulcro di una mediazione possibile; e da un'immagine, un volto da esporre in pubblico come ritratto della sintesi avvenuta fra le due vecchie subculture politiche. Questo punto di mediazione fu individuato nella figura di Romano Prodi. Viceversa si può sostenere che Prodi si ritagliò questo ruolo. La questione non cambia in modo significativo. Invece può apparire singolare che un progetto politico presumibilmente di lunga durata potesse fondarsi soltanto su una persona, e addirittura su una faccia, su uno stile umano, sulla familiarità di un modo di essere. Eppure, la crisi della sinistra dopo la sconfitta nel 1994 era tale che le ragioni della tattica tendevano inevitabilmente a prevalere su quelle delle ipotesi strategiche. Il tempo stringeva, la spregiudicatezza del centrodestra si faceva sentire sconvolgendo le convenzioni politiche consolidate: occorreva quindi una risorsa politica immediata, spendibile a breve nel mercato politico; e Prodi, con l'Ulivo inventato da Arturo Parisi, rappresentava una carta potenzialmente efficace per raccogliere il consenso anche delle fasce sociali moderate. Alle elezioni del 1996 il risultato fu eccellente, soprattutto perché la componente post-democristiana dell'Ulivo, sotto il volto rassicurante di Prodi, convinse buona parte del mondo cattolico che la modernizzazione in chiave ulivista, rispettosa degli equilibri sociali, attenta alle compatilità interne, ancorata alle istituzioni europee, aliena da estremismi ideologici, era più accettabile dei progetti e delle «ricette» del frettoloso neoliberismo berlusconiano. Nelle parrocchie molti sacerdoti indissero una sorta di catechismo elettorale, e i movimenti di base si mobilitarono contro il materialismo edonista del centrodestra (come aveva detto lo scrittore cattolico Vittorio Messori, una personalità tutt'altro che tenera verso la sinistra, «per le televisioni di Berlusconi Dio non è neanche un'ipotesi»). L'alta gerarchia ecclesiastica, a cominciare dal presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, rimase perplessa, ancora incapace di riaversi dalla scomparsa del partito che aveva incarnato l'unità politica di cattolici. Con la preziosa e partecipe collaborazione di Carlo Azeglio Ciampi, Prodi condusse una fruttuosa opera di risanamento dei conti pubblici al fine di rientrare nei parametri di Maastricht. Non appena conseguito questo scopo, il suo ruolo fu giudicato superfluo: nell'«ottobre nero» del 1998 il ritiro della fiducia da parte di Rifondazione comunista, insieme con qualche modesta cospirazione trasformista in Parlamento, portò a Palazzo Chigi il leader del Pds Massimo D'Alema, con la conseguenza spiacevole di confermare, almeno agli occhi degli scettici, che il volonteroso Prodi era in effetti soltanto «la maschera dei comunisti». Ma l'intuizione di Prodi e dei consiglieri più vicini non era sbagliata, a dispetto di alcuni verdetti di condanna che, talora in modo sprezzante, sono venuti dall'area cattolica e democristiana (più volte Francesco Cossiga trovò modo di definire «un imbroglio» l'invenzione dell'Ulivo), come pure da chi riteneva necessario legare il nuovo centrosinistra al pilastro di un partito di chiara matrice socialdemocratica. La ragionevole obiezione degli ambienti vicini a Prodi consisteva nell'osservare che rispetto all'evoluzione di altri Paesi europei l'Italia aveva conosciuto uno sviluppo traumatico: il sistema politico si era disintegrato agli inizi degli anni Novanta, con l'autodistruzione di Tangentopoli. Il sistema della scoppoliana «Repubblica dei partiti» era imploso, le subculture erano evaporate, cosicché risultava velleitario puntare su una rinascita socialdemocratica, dal momento che, dei due principali partiti della sinistra, l'uno, il Partito socialista, si era volatilizzato, e gli eredi dell'altro, il Partito comunista, non avevano mai accettato né assimilato una cultura fondata sui principi (ovvero «i compromessi al ribasso») del socialismo democratico. Anzi, durante l'intera vicenda repubblicana la sinistra comunista e la cultura a essa collegata aveva concepito ufficialmente il riformismo socialista come una posizione politica rinunciataria, una sostanziale abdicazione ai principi storici del movimento operaio guidato dal Partito comunista. Anche nei momenti di maggiore assunzione di responsabilità sul piano nazionale, il Pci non aveva rinunciato ufficialmente ai capisaldi della sua impostazione teorico-pratica, il centralismo democratico e la lotta di classe. Se un approccio socialdemocratico era praticato nella realtà, e con buoni risultati pratici come nel caso delle amministrazioni rosse in Emilia-Romagna, risultava tuttavia impossibile formalizzare una svolta esplicitamente riformista. Nessuna Bad Godesberg era mai stata alle viste fino al 1989: nonostante la «via nazionale al socialismo», e malgrado le aperture dell'eurocomunismo ai tempi di Enrico Berlinguer, nonostante il compromesso storico, le dichiarazioni di accettazione della Nato e tutto l'armamentario del Pci «colonna della democrazia italiana», la sensazione di superiorità etica, politica e culturale, tutto ciò che sanciva la «diversità» comunista, rifiutava di contaminarsi con il pragmatismo compromissorio delle socialdemocrazie. Si aggiunga poi che la frantumazione della Democrazia cristiana, ovvero lo strumento politico della cosiddetta «unità politica dei cattolici» aveva lasciato a sinistra una parte minoritaria ma consistente del mondo cattolico. Esponenti di prima fila della Dc, ancora convinti degasperianamente di essere uomini di centro che marciano verso sinistra, animose nipotine della partigia na Tina Anselmi, militanti impegnati nelle organizzazioni di base, nel volontariato e nelle associazioni religiose, semplici fedeli riluttanti ad accettare la visione individualistica e «l'edonismo» della nuovissima destra come orizzonte naturale della politica a venire, e talvolta sinceramente inquieti davanti al luccicante materialismo del mondo di Berlusconi, erano rimasti «intrappolati» a sinistra, volenti o nolenti, per convinzione, per caso, per calcolo o semplicemente per necessità. In un contesto modellato dal sistema maggioritario, in cui si profilava con nettezza un approdo bipolare, occorreva dunque pensare a come trovare una casa comune ai socialisti mancati e ai cattolici naufragati: cioè un abbozzo di cultura comune, la prospettiva di una formazione politica unitaria; e intanto la creazione di un sistema di alleanze che risultasse competitivo e potesse frenare il dilagare del berlusconismo. Alle elezioni politiche del 2001, ricucita grazie alla diplomazia creativa di Giulio Tremonti la lacerazione con la Lega, la Casa delle libertà aveva vinto senza troppe difficoltà, a dispetto di una buona campagna condotta da Francesco Rutelli, che aveva condotto il centrosinistra a ridosso dei vincitori, almeno nel calcolo del voto nei collegi (nella parte proporzionale il vantaggio del centrodestra era molto più pronunciato). Per diversi aspetti si può sostenere che i faticosi cinque anni del governo Berlusconi sono serviti al centrosinistra per formalizzare il perimetro dell'Unione e porre le premesse per la costituzione di un'entità maggioritaria di carattere riformista, destinata con il tempo a sfociare formalmente nel Partito democratico. Mentre Prodi completava il suo mandato alla Commissione europea, venivano condotte le prime prove di unificazione fra la Margherita e i Ds, insieme ad altre formazioni minori (alle elezioni europee del 2004, con esiti non entusiasmanti ma, date le condizioni di contesto, nemmeno scoraggianti); nello stesso tempo cominciava a delinearsi per l'alleanza di centrosinistra un formato «largo», esteso fino ai verdi, ai Comunisti italiani e al partito maggiore della sinistra radicale, cioè Rifondazione comunista. Non si è trattato di un processo sempre lineare. In numerose occasioni sono emerse tensioni fra il centro e la sinistra «antagonista», così come l'iter di unificazione fra gli ex popolari, prodiani e Ds ha conosciuto alti e bassi. Con ogni probabilità a dare l'impulso decisivo alla creazione dell'Unione è stata la combinazione della nuova legge elettorale approvata dal centrodestra nel finale della legislatura e dalle primarie del centrosinistra nell'ottobre 2005. La legge elettorale attribuita al leghista Roberto Calderoli, con impianto proporzionale e premio di maggioranza alla coalizione vincente, è apparsa immediatamente come un tentativo di imbrogliare i giochi, precostituendo condizioni di sostanziale ingovernabilità per il centrosinistra, che sembrava destinato ad aggiudicarsi agevolmente il confronto elettorale. Le primarie di coalizione sanzionavano i confini di un'alleanza politica che comprendeva Rifondazione comunista, il cui segretario politico figurava tra i candidati in lizza, a conferma di un percorso di istituzionalizzazione del partito che sarebbe diventato evidentissimo dopo le urne, con l'elezione di Fausto Bertinotti alla presidenza della Camera. Poteva essere questo l'avvio della stabilizzazione dei due poli politici, e quindi dell'intero sistema politico italiano? A dispetto di una formula elettorale farraginosa e intrinsecamente contraddittoria, lo schema sembrava effettivamente un passo in avanti verso quella razionalità e linearità che si cercava di raggiungere, con fatica sempre maggiore, a partire dai referendum elettorali del 1991 e del 1993. E allora a che cosa si può attribuire il fallimento della legislatura avviata nel 2006? Per comprenderlo è utile ripercorrere almeno sommariamente lo sfondo su cui si svolsero le elezioni politiche. L'Unione si era accostata al voto con la sostanziale certezza di vincere senza particolari difficoltà. Infatti il governo guidato da Berlusconi era circondato da un discredito diffuso. Anni di crescita prossima allo zero (a fronte di previsioni mirabolanti anche in sede ufficiale, nei documenti di programmazione economica e finanziaria), una gestione inefficace della spesa pubblica, il lassismo sui conti dello Stato, la procedura di infrazione sul deficit da parte dell'Unione europea, il fallimento della riforma costituzionale, avevano gravemente lesionato la credibilità dell'esecutivo. Le «trentasei riforme» del centrodestra avevano un sapore più che altro di propaganda. Il fallimento della coalizione era stato simboleggiato dalla caduta del suo esponente più prestigioso, il ministro dell'economia Tremonti, dopo una serie mortificante di accuse sui conti pubblici «truccati» in cui si era distinto il presidente di An Gianfranco Fini (in realtà, come spiegò Marco Follini, Tremonti venne messo sotto tiro e abbattuto da An e dall'Udc in quanto il ministro rappresentava l'ideologo culturale e il pilastro tecnico dell'alleanza tra Berlusconi e Bossi, grazie al quale si era creato un asse politico che penalizzava gli altri partiti e quindi squilibrava gravemente la coalizione). È superfluo a questo punto ricordare come invece si concluse lo scrutinio dei voti, l'inezia dei 24.000 voti di maggioranza alla Camera, il Senato conquistato rocambolescamente, grazie ai voti degli italiani all'estero, insomma il sostanziale pareggio, non la vittoria attesa (e lasciamo perdere le stridule accuse di brogli, mai provate e in genere smentite dalle verifiche effettuate, lanciate da Berlusconi alternativamente alla richiesta di un governo di larghe intese). Ma non è affatto superfluo invece ripercorrere le prime mosse dell'Unione e poi del governo Prodi. Perché se si può imputare una critica verso il centrosinistra, essa concerne un'interpretazione imprecisa, se non fideistica, del risultato elettorale nonché dei conseguenti rapporti di forza in Parlamento. Le avvisaglie si videro con l'elezione delle tre principali cariche dello Stato. Dopo che Bertinotti era stato eletto al vertice della Camera, senza alcuna difficoltà dai i numeri parlamentari assicurati dal premio di maggioranza, al Senato si dovette assistere a una battaglia molto aspra, condotta sul margine di pochissimi voti e concentrata sulle figure di Franco Marini, candidato dell'Unione, e del senatore a vita Giulio Andreotti, strumentalmente ripescato come candidato di parte dal centrodestra. Dopo alcuni turni di voto e diversi espedienti per rendere riconoscibili le preferenze espresse dai partiti («Franco Marini, Marini Franco
») e impossibili le trasversalità, Marini fu eletto di strettissima misura, rendendo evidente, per chi voleva vedere e capire, che il cammino degli atti di governo al Senato sarebbe stato più che accidentato. Poco dopo, l'incomunicabilità fra i due schieramenti condusse all'elezione unilaterale alla presidenza della Repubblica dell'ex comunista Giorgio Napolitano, votato dall'Unione ma non dalla Casa delle libertà, che quasi all'unanimità depose nell'urna di Montecitorio le proprie schede bianche. Con queste scelte, il centrosinistra dimostrava empiricamente che non c'era nessuno spazio per aprire tavoli comuni o semplicemente di confronto con lo schieramento opposto. Si trattava di una decisione politicamente rilevante, non ben motivata se non con battute scherzose (secondo Prodi la maggioranza ridotta sarebbe stata esteticamente attraente, anzi più precisamente «sexy»), che nasceva con ogni evidenza dalla certezza che l'incubo del ritorno di Berlusconi avrebbe inibito ogni ipotesi di defezione all'interno delle proprie forze parlamentari. Che si trattasse di un convinzione troppo fiduciosa è dimostrato dal costante manifestarsi di dissociazioni, soprattutto in politica estera (ma non solo), che alla lunga resero un tormento ogni voto al Senato e costrinsero il governo a ricorrere di continuo al voto di fiducia accorpando grossi pacchetti di provvedimenti. Ci fu anche un'altra conseguenza, forse ancora più rilevante. La convinzione trasmessa da Prodi che il governo sarebbe riuscito a restare in carica per i cinque anni della legislatura condusse a una politica economica certo di impostazione classica nelle sue modalità, ma, date le condizioni parlamentari, rischiosissima nel caso che per un qualsiasi incidente il governo fosse caduto e la legislatura si fosse interrotta. Con l'applicazione di schemi in sé razionali, anche se un tantino astratti, si decise di produrre nei primi due anni della legislatura lo sforzo severo per risanare i conti pubblici, e per tentare di rilanciare la crescita economica, rinviando alla seconda parte del mandato la restituzione ai cittadini per via fiscale dei benefici ottenuti. Il modello era razionale; forse non era proprio freschissima la percezione dell'andamento economico, visto che il governo programmava misure impopolari entro le coordinate di una congiuntura negativa proprio mentre si profilava un avvertibile miglioramento della tendenza; e purtroppo era irrazionale la situazione parlamentare. Allorché furono indette le consultazioni primarie per scegliere il leader del costituendo Partito democratico, la situazione era descrivibile con questa sintesi: i risultati ottenuti dall'esecutivo erano buoni; la sua popolarità si era inabissata. I conti pubblici erano bonificati, le imprese aveva ottenuto benefici economici consistenti, il livello di crescita del Pil non si registrava da anni, le entrate fiscali sembravano confermare che l'azione contro l'evasione aveva avuto successo. Sul piano internazionale Prodi e Padoa-Schioppa avevano riconquistato un dignitoso rapporto con la Commissione europea; l'iniziativa in Libano aveva riportato l'Italia in una posizione consona alla sua tradizione in politica estera, ripristinando la nozione multipolare che aveva fatto da riferimento dopo la caduta del blocco sovietico ed era stata stracciata da Berlusconi. A che cosa si doveva attribuire quindi la caduta dei livelli di consenso del centrosinistra? Liquidati i lamenti sull'incapacità di «comunicare» del governo come scontati e malriusciti espedienti retorici, le ragioni della disaffezione e della perdita di credibilità sono legate in larga misura alla percezione di impoverimento da parte dei ceti che avevano votato per il centrosinistra. Le misure a sostegno del reddito si erano rarefatte in un pulviscolo di misure poco riconoscibili. Il governo aveva manifestato una sorprendente disattenzione per l'incremento generalizzato delle tariffe. Dopo l'impennata del costo del petrolio, per larghe fasce sociali il prezzo del carburante aveva preso una tendenza più che preoccupante, tale da scaricarsi prevedibilmente sui prezzi. L'aumento del saggio di interesse penalizzava i mutui accesi a tasso variabile. Il caso penoso dell'immondizia a Napoli, una variante moderna e nello stile di Gomorra della medievale infezione di colera negli anni Settanta, aveva gettato molto più che un'ombra sulla qualità della classe politica di sinistra nel Mezzogiorno. A metterla in termini ottimistici, si profilava quindi una fase particolarmente favorevole all'eventuale impegno redistributivo del governo (anche se viziata da una provinciale discussione sull'entità del «tesoretto», cioè un surplus di entrate da distribuire). La caduta di Prodi, dovuta alla defezione di alcune componenti centriste, metteva quindi il centrosinistra in seria difficoltà: non si era avviata, ammesso che fosse possibile avviarla, la parte più gratificante dell'attività di governo; il Partito democratico si era appena costituito, accompagnato da critiche sulla «fusione fredda»; il gradimento del governo era ai minimi. In queste condizioni, il nuovo leader del Pd, il sindaco di Roma Walter Veltroni, doveva inventarsi in tutta fretta una strategia politica ed elettorale. Nel frattempo infatti era fallito anche il tentativo in extremis di formare un governo che gestisse un rapido tentativo di correggere la legge elettorale, giudicata unanimemente inefficace. Berlusconi non voleva rinviare neppure di pochi mesi l'opportunità di giocare contro un avversario indebolito dal crollo del consenso del governo. A sua volta Veltroni doveva cercare di arrivare al voto senza il fardello del giudizio negativo sul governo Prodi, e senza il peso di un'alleanza dimostratasi ingestibile e quindi non più credibile. Aveva una sola strada per uscire dall'impasse: cercare di giocare da solo, tentare la partita eroica. Qualche contatto con Berlusconi, nonostante discussioni speciose su modelli elettorali ispano-tedeschi o tedeschi semplici, aveva condotto a una sorta di accordo non dichiarato: ciascuno dei contendenti avrebbe condotto il confronto elettorale allestendo un'alleanza in formato ridotto. Il leader del centrodestra, dopo avere creato con un colpo di decisionismo individuale il «Popolo della libertà», cioè unificando Forza Italia e An, si limitava a stipulare l'alleanza naturale con la Lega, valutata come un partito regionale, escludendo dal suo circuito la destra di Francesco Storace e l'Udc di Pier Ferdinando Casini; a sua volta Veltroni presentava pubblicamente l'intenzione di «correre da solo», al massimo stipulando un accordo con il partito di Antonio di Pietro e accogliendo infine una pattuglia di rappresentanti del Partito radicale. Che la partita fosse asimmetrica era evidente. Ma Veltroni e il suo staff contavano su alcune certezze presuntive. Una, molto strumentale e di riserva, consisteva nella convinzione che la legge elettorale del Senato fosse così scombinata da impedire una chiara vittoria nelle urne. Anche se il Pd avesse perso, difficilmente il Popolo della libertà avrebbe vinto. L'altra certezza era più sofisticata e più omogenea con la mentalità e la cultura di Veltroni: una campagna mediatica efficace, ricca di invenzioni, fantasiosa, creativa, avrebbe presentato il Pd come il partito della modernità. Interrotto «consensualmente» il rapporto con la sinistra antagonista, i democratici si sarebbero presentati agli elettori come una formazione del tutto nuova, tutt'altro che ostile alle imprese e al mercato, centrata sulla ricerca e la cultura, orientata a promuovere il merito e incline a cogliere tutte le opportunità dell'economia globale. In questa visione, nulla impediva almeno in teoria al Pd di sfondare al centro, presentandosi come l'unico vero soggetto portatore di una modernizzazione razionale per il Paese. Ed è così che, per la durata della campagna elettorale, Veltroni ha esposto dati entusiasmanti sulla grande rimonta del Pd, sulle distanze che si riducevano, sulle percentuali che si assottigliavano, sul «possiamo farcela». Ciò che non veniva detto era che la decisione di «correre da soli» rovesciava tredici anni di iniziativa ed esperienza politica. Mentre si collocava all'interno della logica della legge proporzionale (secondo cui il concorrente più pericoloso è quello più contiguo) e nello stesso tempo poneva l'accento sulla «vocazione maggioritaria» del Partito democratico, Veltroni spingeva ineluttabilmente la Sinistra arcobaleno con le spalle al muro. Mettere la croce sul simbolo del cartello che riuniva la sinistra critica, dai verdi ai Comunisti italiani, dai Ds refrattari a Rifondazione comunista, significava allora sprecare un voto. Se l'obiettivo era comunque cercare di impedire il ritorno di Berlusconi, il voto «utile» era solo quello al Pd. I dirigenti del Pd erano consapevoli dei rischi impliciti in questa scelta? E soprattutto, hanno condiviso tutti senza riserve la decisione di rinunciare allo schema su cui Prodi aveva lavorato per lunghi anni? L'unico dirigente di rilievo a criticare in pubblico la svolta di Veltroni è stato Arturo Parisi. Non sembra comunque che uno scarto così impressionante dalla strategia precedente sia stata vagliata nei suoi aspetti più problematici e nelle sue implicazioni più minacciose. A distanza di qualche tempo, assume l'aspetto della scommessa più che di un calcolo razionale. E si sa che i giochi d'azzardo vengono premiati solo quando riescono. Veltroni ha condotto una campagna di notevole vigore, animata dall'autoprofezia della «più grande rimonta mai vista». Forse poteva sorprendere che una personalità considerata di innato talento nell'uso e nella manipolazione dei media avesse scelto come strategia elettorale la perlustrazione del territorio, visitando una per una le oltre cento province italiane, calandosi nell'abbraccio dei militanti in festa, stringendo mani, suscitando l'entusiasmo che nasce dalla prossimità con il leader. È probabile che anche il calore delle folle e la loro speranza abbia contribuito a distorcere la percezione della tendenza vera dei consensi. Le cronache infatti raccontano unanimi di un'eccezionale partecipazione agli incontri, al Nord come nel Sud, a Varese come a Matera o a Lecce. I sondaggi più riservati continuavano a segnalare una distanza sensibile e non scalfita fra la destra e il Pd. Eppure il leader del partito sosteneva con una convinzione meritoria e contagiosa che i rilevamenti demoscopici non sono in grado di cogliere le tendenze profonde, cioè l'effetto che l'innovazione innescata dalla nascita del Pd e dalla sua corsa solitaria aveva determinato nel profondo della società italiana. L'aspetto più bizzarro di questo forcing mediatico è che sembra avere avuto effetto sui sondaggisti ben più che sull'opinione pubblica. Veltroni è riuscito a convincere le agenzie demoscopiche che la rimonta stava effettivamente riuscendo, tanto che a ogni rilevazione, perfino nelle ultimissime ore prima del voto, venivano fatti circolare dati sempre più promettenti, che potevano preludere a una sconfitta di misura, a un pareggio al Senato (complice il sistema di premi su base regionale), alla possibilità che il Pd risultasse il primo partito. Perfino esponenti di spicco del partito, interpellati confidenzialmente pochissimi minuti prima della chiusura delle urne, lunedì 14 aprile, si professavano fiduciosi di un «testa a testa» aperto a qualsiasi risultato, anche a una clamorosa vittoria. Questa interazione caotica di mitologie, che ha accomunato classe politica, osservatori professionali, notisti, editorialisti, elettori infedeli nelle dichiarazioni all'uscita dai seggi ed esperti di sondaggi, si è protratta fino agli exit poll, ed è stata malinconicamente dissolta soltanto dallo scrutinio delle schede autentiche, allorché la realtà ha ripreso il sopravvento sui fenomeni miticomagici. E il risveglio è stato l'uscita da un sogno per precipitare in un incubo, visto che il Pd non aveva conseguito i risultati che si era proposto, e che a uno sguardo obiettivo il panorama per l'intero arco della sinistra si profilava drammatico. Il «sacrificio di regina» non era servito. Il nuovo partito del centrosinistra non aveva sfondato al centro, presidiato ancora dalle pattuglie centriste dell'Udc, che ha drenato anche il voto di frange cattoliche irritate dall'accordo elettorale con i radicali. Aveva mantenuto all'incirca i voti considerati in dotazione fisiologica ai due partiti fondatori del Pd, cioè Ds e Margherita. La «guerra asimmetrica» con l'alleanza di destra si era risolta con una sconfitta nettissima, mitigata a malapena da un fattore parziale, il successo dell'Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Fra l'avvio della campagna elettorale e l'esito del voto non era successo niente; le distanze non erano state ridotte. La grande rimonta, ridimensionata a grande illusione. Si fosse condotta una campagna cocciutamente tesa a difendere in modo «reazionario» l'esperienza del governo Prodi, il risultato probabilmente non sarebbe stato molto diverso. Ma Prodi apparteneva già al passato: secondo Veltroni, era «un uomo di Stato», che «ha risanato il Paese per la seconda volta», ma era stato crivellato dai conflitti interni all'Unione (cioè dalla coalizione larga che Prodi stesso aveva messo in piedi, smantellata dall'oggi al domani dalla svolta veltroniana). E a spingere lo sguardo appena fuori dai confini del Pd si poteva vedere un prezzo ulteriore della prestazione elettorale del Pd, stabilito nel drammatico fixing delle urne dalla liquidazione parlamentare della Sinistra arcobaleno, dissanguata in parte dal voto utile, in parte dalle sirene protestatarie della Lega, in parte ancora dall'astensionismo e dalla dispersione verso le formazioni marginali alla sua sinistra. Perché ha perso, il Pd? Fra le pieghe di una sconfitta così netta si possono intravedere un'infinità di sfumature. Dovessimo esprimere un giudizio grossolano e di estrema sintesi, potremmo osservare che Veltroni è stato efficace nell'articolare il programma per ciò che concerne i diritti civili, le unioni civili, i gay, il multiculturalismo, la tolleranza, il civismo, la lealtà repubblicana, la Costituzione, mentre a destra si prometteva più semplicemente l'abolizione dell'Ici e la detassazione degli straordinari. Il vincitore più vistoso della competizione elettorale, la Lega, ha guadagnato consensi penetrando in profondità sotto il Po grazie all'allarme sulla sicurezza e sui clandestini. In sostanza: Veltroni ha agitato le passioni, Berlusconi gli interessi. Allora, osservato da una prospettiva improntata all'ottimismo, il Pd è un partito che coglie un buon rendimento nelle realtà urbane e metropolitane, anche nelle regioni del Nord, e tocca elevati livelli di consenso fra i ceti del lavoro qualificato, nelle fasce sociali ad alta scolarità, cioè nelle realtà più dinamiche e creative della società italiana. Non è cattivo l'andamento elettorale nei tradizionali bacini di consenso delle regioni rosse; perde pesantemente le elezioni nel Sud, dove sconta l'effetto tragico, di prestigio e di credibilità, della crisi dell'immondizia a Napoli, e il bandwaggoning di vari settori clientelari, che hanno fiutato per tempo il cambio di vento e si sono messi in posizione adeguata. Ma anche l'analisi più sofisticata si arresta davanti alla domanda centrale che si indirizza inevitabilmente al risultato ottenuto dal Pd alle elezioni del 2008 e ne condiziona qualsiasi interpretazione. Vale a dire che quel 33 e rotti per cento di italiani che hanno votato il nuovo partito è soggetto a un'alternativa secca di giudizio. Il Pd può essere effettivamente a) il nucleo originario di un'entità riformista, dotata di un potenziale espansivo, capace di svilupparsi in futuro raccogliendo i consensi di chi chiede una modernizzazione creativa e socialmente compatibile. Ma potrebbe anche essere; b) una forza politica residuale, una specie di riserva indiana priva di vere potenzialità di sviluppo, verosimilmente costretta in futuro ad articolare una rinnovata strategia di alleanze, contraddicendo la scelta di «correre da soli» e vanificando così, o almeno alterando in modo significativo, la decantata «riforma elettorale praticata con i mezzi della politica». A questa alternativa fra a e b non c'è per il momento risposta plausibile. Si potrebbe aggiungere che il Pd si troverà nella condizione di sciogliere altri nodi, fra i quali la collocazione europea del partito fra i gruppi liberaldemocratici e socialisti, e l'equilibrio che potrebbe diventare critico fra i gruppi dirigenti di matrice diessina e centrista-cattolica. Ma si tratta presumibilmente di questioni meno rilevanti. Il problema cruciale è la consistenza effettiva del partito. Partito mediatico, partito liquido, partito volatile; oppure partito solido e radicato nel territorio. Nella prossima stagione politica, la densità e lo spessore del Pd verranno messi alla prova dalla difficoltà dell'opposizione, e poi da appuntamenti politici impegnativi come il referendum elettorale, su cui occorrerà avere una strategia chiara, complementare all'atteggiamento da tenere con la destra sul tema delle riforme istituzionali; e soprattutto con la scadenza delle elezioni europee nel 2009, dove non ci sarà lo spettro del voto utile e che quindi registreranno la ricomparsa di Rifondazione comunista e degli altri soggetti della sinistra oltranzista. Come si sa, la politica ricomincia di continuo. Occorrerà vedere se il Partito democratico è in grado di ripartire. Se i suoi membri punteranno sulla costruzione paziente di un partito vero. Se affioreranno o no nostalgie per le vecchie identità e le vecchie appartenenze. Se qualcuno si prenderà l'impegno di delineare una cultura unificante, che al momento non esiste. Se ci sarà la capacità di fare leva tra le contraddizioni implicite nella coalizione di Berlusconi. Come si vede, i se sono numerosi e l'elenco potrebbe continuare. Per ora, il Pd assomiglia a un partito ipotetico.
Il Mulino, 01-02 2008
Malapolitica
Prima della crisi di governo, l'esordio del 2008, «anno bisesto», è stato segnato da alcuni episodi dolorosi, situazioni di degrado e momenti di tensione che testimoniano una severa crisi delle istituzioni italiane e della classe politica. Ci riferiamo in particolare alla gravità della condizione igienica di Napoli, in seguito all'apparente incapacità di smaltire i rifiuti prodotti ogni giorno, che sembra riprodurre sotto altre forme il dramma ambientale e sanitario innescato nell'agosto del 1973, quasi trentacinque anni fa, dall'epidemia di colera, che per qualche tempo rischiò di far precipitare il capoluogo campano in una condizione medievale. Nel caso più recente il disastro era percepibile anche sul piano visivo, con evidenti riflessi sul prestigio e la credibilità italiana all'estero: le immagini delle tonnellate di immondizia per le strade conferivano alla città europea di Napoli il colore caotico di certe favelas brasiliane. La crisi letale delle strutture operative e il collasso della catena amministrativa, il disfunzionamento e infine la paralisi e lo schianto dei servizi urbani configurava infatti un caso che di solito si è abituati ad associare nello stereotipo a qualche catastrofe sudamericana fortunatamente remota nel suo folklore. Nello stesso tempo giungeva a un punto limite anche la crisi della politica, con le dimissioni del ministro della Giustizia Clemente Mastella, in seguito a un provvedimento giudiziario restrittivo nei confronti della sua consorte, presidente del Consiglio regionale della regione Campania, e all'apertura di un fronte di indagini verso di lui da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere. Questo episodio, in apparenza minore, sembra sintetizzare in realtà una intera concezione della politica, modellata su criteri evidentemente più attinenti al familismo che all'esercizio di una funzione pubblica, e anche a quello che in epoca democristiana veniva chiamato «spirito di servizio»: una visione pratica della politica al cui centro sta un uomo politico di rilievo locale, detentore di un numero limitato di voti (un pacchetto consolidato valutabile complessivamente intorno al mezzo milione), controllati attraverso «normali» procedure di matrice clientelare, che sono risultati essenziali, come peraltro quelli di altre formazioni politiche a scartamento ridotto, nel calcolo dei voti alle elezioni del 2006 per aggiudicare il successo alla coalizione di centrosinistra, così come in altre circostanze avevano contribuito alla formazione di altre maggioranze o avevano preso parte ad altre esperienze di governo. Ciò che ha colpito molti cittadini è che nella vicenda che ha coinvolto il ministro della Giustizia è affiorata una pratica di cura e gestione delle affiliazioni, delle pressioni e dei favori tale da oscurare il confine della decenza nel rapporto tra la politica e le istituzioni; e più ancora che le procedure adottate nei «feudi» venissero sostanzialmente giustificate dai commenti, non soltanto giornalistici, secondo la regola consuetudinaria per cui «così fan tutti», in quanto evidentemente la politica dovrebbe contenere in sé, per via costitutiva o genetica, un tasso assai elevato di spartizione e prevaricazione, e un codice naturale di comportamenti in cui il livello della moralità coincide con il grado di lealtà personale fra soci di partito, militanti ufficiali e supporter anche informali. Può essere che le cose stiano davvero così, e questa allora potrebbe essere la ragione più autentica per promuovere una radicale privatizzazione dei settori ancora in mano pubblica, dalle ex municipalizzate alla sanità; se non fosse che si possiede pure qualche certezza sul fatto che il mercato e la concorrenza, cioè l'universo dei rapporti del privato, funzionano meglio e con maggiore efficacia quando a essi è sotteso il rispetto delle regole e una rete di convenzioni tale da genera fiducia tra i soggetti attivi sul mercato (il liberismo unito al degrado civico e alla corruzione può condurre semmai a crisi acute di tipo «argentino», tanto per restare nel contesto della metafora sudamericana). Se si aggiunge a queste sommarie considerazioni che pochi giorni dopo le dimissioni del ministro Mastella si è assistito alla condanna penale a cinque anni di reclusione del presidente della regione Sicilia Totò Cuffaro, con l'interdizione dai pubblici uffici, e che questi ha accolto la notizia della condanna, in quanto priva dell'aggravante del favoreggiamento mafioso, come una sostanziale assoluzione, accingendosi a riprendere le sue funzioni pubbliche, risulta naturale cercare di individuare quali sono oggi gli intrecci e le derive di inefficienza che producono lo sfaldamento del sistema politico; e quali eventualmente possano essere i rimedi, dopo che per qualche mese si era osservata quasi con simpatia la ventata di «antipolitica» che alcuni protagonisti come Beppe Grillo avevano sollevato. È legittimo anche essere particolarmente pessimisti. L'altalenante transizione italiana si è alla fine spiaggiata sulla barriera della legge elettorale approvata unilateralmente dalla maggioranza di centrodestra prima che si concludesse la legislatura 2001-2006, la cosiddetta «porcata», nelle parole del suo stesso creatore, il leghista Roberto Calderoli. Piangere sul latte versato non è esattamente un'attività utile, ma fissare alcune imputazioni di responsabilità dovrebbe essere un esercizio appropriato anche ai fini di un bilancio storiografico motivato. Ebbene, quando fu approvata la modificazione «partigiana» della legge elettorale, su questa rivista essa fu definita senza esitazioni una manovra «nichilista», con un riferimento non proprio larvato a un'azione politica più simile a un attentato che non a una riforma. D'altronde furono numerosi i commentatori che videro nell'iniziativa del centrodestra e nell'approvazione della legge Calderoli l'intenzione di «avvelenare i pozzi» prima di un confronto elettorale che si annunciava infausto, ed esporre in tal modo il centrosinistra, dato per vincitore, all'impossibilità di governare, in seguito ai ricatti dei piccoli partiti forzatamente coalizzati a fini elettorali. Queste annotazioni servono anche per chiarire, ancora una volta, che sarà pur vero che «il bipolarismo è fallito», come hanno detto e ripetuto fino alla noia molti degli stessi autori e responsabili del fallimento stesso, cioè i firmatari della più classica profezia autoavverantesi; ma si dovrebbe aggiungere che il bipolarismo è stato generosamente aiutato a fallire, predisponendo tutte le condizioni necessarie perché il fallimento avvenisse, e inceppando alla fine senza troppa fatica il processo di razionalizzazione e stabilizzazione della politica italiana che era cominciato per disperazione civica nei primi anni Novanta, cioè nella stagione dei primi referendum elettorali e durante la tempesta di Tangentopoli. Non ci si doveva poi stupire se in questa condizione di evidente sfaldamento, anche civile, è emersa una vocalità estremistica diretta espressamente verso la politica. Sotto questa luce il caso più eclatante è risultato la polemica di piazza aperta da Beppe Grillo, una delle manifestazioni più riconoscibili di azione di protesta «antipolitica». Tutte le iniziative dell'ex comico genovese, una specie di emulo italiano di Poujade o di Coluche, a cominciare dal cosiddetto «Vaffa Day» tenutosi in piazza Maggiore a Bologna l'8 settembre 2007, contenevano una spettacolare tonalità demagogica e qualunquista, in grado di suscitare rabbia nelle folle: ma nello stesso tempo riuscivano a convogliare sentimenti ormai diffusissimi di avversione verso il governo, e verso i partiti, gli schieramenti di quel bipolarismo così fallimentare. Era un'animosità che si rivolgeva a destra e sinistra senza eccessive distinzioni, ma con l'aggiunta di un'ostilità sentimentalmente ancora maggiore rivolta verso il governo di centrosinistra, a cui nel 2006 era stata attribuita una funzione salvifica rispetto al governo berlusconiano del quinquennio precedente. Era tutto facilmente comprensibile. Ciò che poteva sorprendere, piuttosto, era che la furia della protesta potesse trovare il consenso di personalità insospettabili. È stato il caso per esempio di Giovanni Sartori, cioè il maggiore scienziato politico italiano, che sulla prima pagina del «Corriere della Sera» ha pubblicato un editoriale durissimo, inatteso per uno studioso che ha dedicato la vita a spiegare come la democrazia sia anzi tutto una forma di governo, modellata su istituzioni e procedure formalizzate. Parlava di Grillo, che «ci sa fare», della «casta» descritta in un libro di dilagante successo da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, della terra che trema sotto la classe politica. Sartori usava parole come «putrefazione», ventilava un possibile «tsunami», e concludeva: «Confesso che una ventata - solo una ventata - che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili». Come si è ricordato, sono quasi vent'anni che si cerca di razionalizzare il sistema politico della Repubblica. Siamo passati attraverso ondate e ventate di populismo, in coincidenza con Tangentopoli e in seguito alle sferzate antipolitiche di Silvio Berlusconi e alle spinte secessioniste operate dalla Lega; sono stati cercati rimedi istituzionali, ossia nella tecnica politico-istituzionale, con i referendum elettorali dei primi anni Novanta, con l'imperfetta legge elettorale semimaggioritaria, battezzata Mattarellum proprio da Sartori, e infine con tentativi ora frettolosi, da sinistra, e ora farraginosi, da destra, di riforma della Costituzione. Che i rimedi siano stati insufficienti è nell'ordine reale delle cose. Ma se fossimo in attesa di un evento sovvertitore, come si augurava Sartori, occorreva avere presente che anche le rivoluzioni alla fine devono creare altre istituzioni. Lo ha insegnato Tocqueville, lo ha spiegato Hannah Arendt. Invece per qualche settimana, anche sulla scorta dello schema di Sartori, e almeno per tutta la durata dell'exploit mediatico di Grillo, è sembrata affermarsi l'idea che il primo obiettivo comune per la società italiana si riassumesse semplicemente nell'abbattimento del suo ceto politico rappresentativo, del governo, di qualsiasi espressione istituzionale contaminata dal virus della malapolitica. Il colpo di grazia, materiale e simbolico, è venuto naturalmente con il disastro dell'immondizia a Napoli, un altro di quegli episodi che sembrano fatti apposta per gettare nello scoramento l'opinione pubblica, anche per l'immagine che trasmettono fuori dai confini (come ad esempio era avvenuto con la strage mafiosa di Duisburg). Perché è risultato chiaro che le tonnellate di rifiuti, gli inceneritori mai impiantati, il contagio della camorra, l'infarto delle istituzioni e la non credibilità dei protagonisti politici locali dipingevano un quadro tragico per l'intero Paese. Ciò che colpiva ulteriormente, assistendo alle discussioni televisive in merito, era il modo in cui personalità politiche di primo piano come Antonio Bassolino, ex sindaco di Napoli ed ex ministro part-time, attuale presidente della regione Campania (dopo essere stato commissario straordinario per i rifiuti), tentavano di sfuggire a imputazioni di responsabilità. Ciascuno di loro, e Bassolino in primo luogo, si sforzava in ogni modo di spiegare come tutte le procedure fossero state rispettate, e come non fosse mai mancata la sua firma o la sua decisione rispetto a una scelta dovuta, a un documento da fare avanzare, a un protocollo da approvare, a un finanziamento da stanziare. Purtroppo i rifiuti continuavano a essere lasciati sul territorio, con Napoli ridotta a una città dei miasmi, fra proteste di popolo e scontri con la polizia. Sembrava esprimersi con compiutezza una mentalità estranea alla «cultura del risultato». Il fatto che montagne di rifiuti per le strade ammorbassero l'aria appariva come un antipatico accidente; ma la sostanza degli atti pubblici doverosamente rispettati stava lì a dimostrare azioni ineccepibili, doveri rispettati, insindacabilità della classe politica. Peccato, avrebbe detto il manzoniano don Ferrante, per l'accidente dei rifiuti. Sembrava insomma che nelle parole dei protagonisti si sintetizzasse una mentalità intera, in cui ciò che rileva è esclusivamente il rispetto integrale delle formalità e dei burocratismi. Una visione ispirata a una concezione idealistica, e al «tanto peggio per i fatti», nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, essa configura un reperto comportamentale spagnolesco, e secentesco, con una fuga dalla responsabilità che lascia stonati, e che di fronte al glamour dell'Italia contemporanea, che si vuole moderna ed europea, e anche opportunamente trendy, può configurare soltanto la sindrome feroce e perfetta dell'abbarbicamento al potere unito indissolubilmente all'abdicazione morale. Sarebbero largamente sufficienti questi elementi sparsi per rendere giustificabile un verdetto senza appello: che poi dovrebbe comprendere nel giudizio anche lo sfilacciarsi della condizione civile, con la percezione sempre più diffusa dello smarrirsi di un senso nella convivenza, e il cedimento progressivo delle strutture preposte a costruire e mantenere le ragioni che presiedono alla vita nella comunità. Di fronte a questo ritratto, cioè alle immagini che i cittadini incontrano e alle sensazioni che essi provano ogni giorno nelle città, nei luoghi di lavoro, sulle pagine dei giornali, nel rapporto con la burocrazia, e in qualunque situazione in cui l'individuo si trova a confrontarsi con lo Stato o con il settore pubblico, ecco, di fronte a questo ritratto in cui le uniche regole sono dettate dalla fatica e dall'emergenza, sembra ormai poco più che un palliativo ricorrere alle soluzioni tecniche. Forse non è più questione di ingegneria. A partire dai primi anni Novanta si è provato a riformare il Paese cambiando le formule elettorali, ma come si è visto la classe politica si è superata nel trovare gli antidoti. Ci voleva molto a capire che votare liste bloccate di candidati scelti dai partiti significava restituire ai partiti stessi un potere insindacabile e prevaricatorio? Lo scorrere del tempo ha mostrato senza possibilità di equivoci che quando il ceto preposto alla cosa pubblica si riappropria senza scarti e senza riserve della politica è in grado di sterilizzare qualsiasi schema razionalizzatore. E in che cosa consisteva il risultato principale delle riforme introdotte nel sistema politico durante la lunga transizione? In sostanza nell'acquisizione che il vincitore delle elezioni avrebbe governato per l'intera legislatura; e nell'idea che il modulo dell'alternanza fosse un bene politico da tutelare, in quanto capace di favorire il ricambio delle élite dirigenti ed evitare quindi la sclerosi degli apparati. Queste idee e procedure sono state facilmente assimilate dai cittadini, che fin dalla tornata elettorale per l'elezione dei sindaci nel 1993, e dall'esordio del sistema semi-maggioritario nelle consultazioni politiche del 1994, hanno mostrato di gradire una formulazione della politica che risultava più chiara, consentiva di verificare subito il vincitore della contesa elettorale, permetteva la formazione leggibile di maggioranze e minoranze, e soprattutto portava all'individuazione di un principio di governo e di responsabilità politica. E va detto per concludere che la grande riflessione politica che ha condotto, di fatto, ad abbandonare il sistema maggioritario è stata tutta elaborata dai corridoi di partito, non dall'opinione pubblica e dai cittadini. Secondo uno scienziato politico come Leonardo Morlino, la richiesta della società italiana di forme maggioritarie «era soprattutto una domanda di efficacia decisionale e, dunque, a favore di decisioni governative e parlamentari più spedite che risolvessero i problemi dei cittadini, ma era anche una domanda di maggiore efficienza amministrativa rispetto a una tradizione di Stato burocratico, esoso fiscalmente e al tempo stesso inadempiente nella fornitura dei servizi. Non era, in realtà, una domanda di un modello maggioritario impossibile da realizzare per la complessità o l'eccezionalità del cambiamento di aspetti di fondo che sarebbero richiesti». Alla fine, va riconosciuto che dopo mille fraintendimenti e aspettative frustrate «il modello consensuale ci appartiene e non è possibile uscirne»1. Se le cose stanno così, soltanto una fissazione intellettuale, o una specie di coazione a ripetere, indurrebbe certuni a insistere sulla via referendaria, alla ricerca di un sistema maggioritario impossibile. Si tratta di una sindrome provinciale, come scrisse una volta Saverio Vertone, irridendo gli astratti furori di certi illuministi: «La astrale democrazia anglosassone che gli azionisti volevano instaurare non esisteva né in Inghilterra né in America, ma solo nella mente di qualche cileno o italiano che doveva compensare con un eccesso di perfezione ideale l'eccesso di imperfezione reale nel Paese nel quale si trovavano e si trovano a vivere». E si può convenire su questa diagnosi osservando che è bastata l'ipotesi o è bastato l'annuncio secondo cui si sarebbe tornati a una qualche forma di rappresentanza proporzionale, ispano-tedesca o del tutto italiana, perché il conflitto politico fra destra e sinistra si stemperasse. Se il detestato avversario diventa un socio, o qualcosa di simile, se insomma il confronto elettorale serve soprattutto per ritagliare quote di potere, la diabolicità maligna degli uni, i comunisti, si attenua, e la perfidia carnivora del Caimano si riduce. Nel sistema proporzionale, comunque organizzato, chi vince non vince mai del tutto e chi perde non è mai sconfitto completamente, in quanto mantiene un residuo di potere di veto. Dopo avere passato alcune stagioni a deprecare, a dispetto di Lijphart, il consociativismo in nome del maggioritario, ecco la virata. Culturale, naturalmente, ma anche comportamentale: perché va da sé che la democrazia consensuale è sempre anche una democrazia negoziale. Ma prima che il realismo politico si cristallizzi in una nuova triste scienza, secondo cui nihil sub sole novi, e quindi la corruzione è sempre esistita, ed è naturale che il consenso venga raccolto con lo scambio e il rapporto clientelare, vale allora la pena di sottolineare che se non ci sono formule tecniche che possano correggere lo spirito italiano alla consensualità, il compito dei riformatori, dei riformisti, insomma di chiunque intenda gestire la modernizzazione del Paese, diventa ancora più complicato. Perché si torna alla condizione in cui ci si trovava all'epoca di Tangentopoli e della lottizzazione estrema, quando tutti davano per fallita, o almeno da riformare profondamente, la scoppoliana «Repubblica dei partiti», senza che nessuno fosse in grado indicare uno strumento per restituirle dignità e credibilità. Rispetto a quell'epoca, non ci sono nemmeno più le culture politiche che si aggregavano intorno ai partiti «storici». Oggi il centrodestra, e in particolare l'area berlusconiana, esprime un eclettismo pragmatista, animato da «valori » enfatici o strumentali, non di rado ancorati a una visione clericale. A sini stra, il Partito democratico mostra ogni giorno l'effetto di tensioni derivanti da ispirazioni culturali e da eredità spirituali contrapposte, senza che sia stato possibile formulare una sintesi riconoscibile. E allora, se mancano le culture, e le idee, come si fa a immaginare un'evoluzione positiva, l'attuazione di riforme modernizzanti, progettate e realizzate a favore della collettività intera, e non solo a favore di gruppi di interesse coalizzati? Chi è affezionato all'idea di una società libera, e capace di auto-organizzarsi, condivide facilmente l'obiettivo di liberare dai vincoli una società sciaguratamente modellata sulle barriere castali, su strutture di potere non contendibili, sull'ereditarietà delle posizioni professionali, sulla logica delle corporazioni, e di privilegiare invece il merito, la concorrenza leale, la competizione sul mercato presieduto dalle regole e dalle autorità preposte al rispetto delle regole. Ma va da sé che un programma di questo genere richiede, solo per cominciare, risorse ingenti da destinare a una scuola rinnovata, una ridefinizione dell'università, un appello al civismo che non esclude l'applicazione severa e rigorosa della legge «uguale per tutti», la verifica dei risultati in ogni settore della burocrazia pubblica, e il ripristino di una linea di comando e di responsabilità in tutte le articolazioni della pubblica amministrazione. In breve, la ricostruzione del rapporto fra i cittadini e lo Stato. Come questo si possa ottenere, mentre la politica è di nuovo sotto scacco, è difficile dire. Ma mentre di fronte all'estrema complessità di questo compito si manifestano nella società italiana pulsioni profonde e non esattamente democratiche, che talvolta sfiorano la configurazione grottesca dell'«uomo forte » o dell'«uomo della provvidenza», e in altri settori sociali si spinge la fantasia fino al solito auspicio del governo di larghe intese, che riunisca «coloro che la pensano allo stesso modo e vogliono fare le stesse riforme», si potrebbe intanto richiedere alla classe politica che faccia uno sforzo di trasparenza, e di recupero di credibilità. Nel pieno degli anni Ottanta, allorché il Partito socialista cominciava a entrare nel mirino di inchieste sulla corruzione, dal centro si tentò di intervenire, con commissari spediti da Roma nelle federazioni locali a cercare di salvare il salvabile. È probabile che nessuno dei leader di partito accetti il paragone con quel passato, e meno che mai con l'era di Tangentopoli. Ma se rispetto alla grande corruzione i tempi sono cambiati, forse oggi il consenso verso i partiti è perfino inferiore. Solo a pensarci, ci sono infinite possibilità tecniche, dal commissariamento alla creazione di comitati etici dotati di visibilità pubblica e pieni poteri operativi, che provino a restituire visibilità e comprensibilità alle decisioni politiche, e se è il caso recidano le obbligazioni perverse generate dall'intreccio con l'economia. La diffusione delle primarie per la scelta dei candidati e dei dirigenti è un altro strumento di disincrostazione delle posizioni consolidate di potere. Un rapporto leale con la stampa, la pubblicità dei bilanci, la chiarezza sui finanziamenti, il confronto pubblico sulla realizzazione dei programmi. Prima di sentenziare che si tratta di acqua fresca, occorrerebbe vedere se c'è qualcuno, fra i partiti, che abbia voglia di inserire nel proprio progetto politico, da subito, uno schema di ricostruzione del rapporto fra i cittadini e la politica. Perché dalla crisi della politica, si sa, si esce soltanto con la politica. Ma sarebbe un fardello troppo grande, per la società del nostro Paese, aspettare che sia la politica da sola a riformare se stessa. L. Morlino, La transizione impossibile?, in Proporzionale ma non solo. Le elezioni politiche del 2006, a cura di Roberto D'Alimonte e Alessandro Chiaramonte, Bologna, Il Mulino, 2007.
Il Mulino, 03-04 2006
Due Italie, forse. A proposito delle elezioni del 9-10 04
Il laboratorio politico italiano continua a lavorare a pieno ritmo, aprendo scenari in direzioni sempre nuove. A cinque anni dalle elezioni del 2001 l'approdo a una sorta di normalità bipolare appariva evidentemente troppo banale. A queste elezioni siamo arrivati, per la prima volta nella storia dell'Italia unita, al termine di una legislatura che aveva visto al governo una sola maggioranza, un solo presidente del Consiglio, un solo esecutivo, salvo alcuni avvicendamenti dovuti a vicissitudini e infortuni personali o a tensioni interne alla maggioranza. Con il favore dei risultati delle elezioni di mezzo termine (regionali e amministrative) e ritrovato il suo leader in Romano Prodi tornato da Bruxelles, il centrosinistra si è attrezzato per darsi una più compiuta architettura attraverso le primarie, che avevano il duplice compito di conferire un'investitura al leader e di far avanzare il progetto del partito democratico. Solo che nel frattempo le regole del gioco erano cambiate. La prospettiva di una sconfitta infatti aveva convinto Berlusconi a varare una riforma del sistema elettorale pensata su misura per annullare il vantaggio competitivo di cui godeva il centrosinistra (la preminenza dei suoi candidati nei collegi uninominali). Il leader che prima e più degli altri aveva compreso le potenzialità del «Mattarellum», realizzando in due mesi il capolavoro della discesa in campo e della vittoria del 1994, scopriva i vantaggi del proporzionale, lo presentava come il sistema elettorale meno bugiardo, apriva l'opportunità di un ulteriore proliferare di liste e affidava la prospettiva di governare a un esile premio di maggioranza alla Camera, associato alla lotteria dei diciassette mini-premi regionali al Senato. Si segnalava poi, a rendere più variato il menù, la novità assoluta del voto degli italiani all'estero, destinata a provocare qualche sorpresa, come si sarebbe visto. Dopo una campagna elettorale attraversata da un'intensità polemica che il nostro Paese e l'intero sistema politico sembrava avere dimenticato, l'esito è stato un'affermazione risicatissima dell'Unione di Prodi, conseguita al Senato proprio con la pattuglia degli italiani d'oltralpe e d'oltreoceano, e alla Camera con 25 mila voti di scarto, che valgono il tesoro dei 340 deputati garantiti dal premio di maggioranza. Si apre così una nuova fase dell'infinita transizione, quella di una maggioranza omogenea nelle due Camere, ma con soli quattro seggi di vantaggio nella Camera alta: prospettiva ben distante dalle attese della vigilia e davvero ardua, vista l'assoluta necessità di un esecutivo e di una maggioranza capaci di governare la difficile congiuntura in cui versa il Paese. Il primo aspetto da considerare è quello della partecipazione. In termini relativi la partecipazione è cresciuta, dall'81,4% all'83,6%. Al momento della chiusura dei seggi il dato è stato interpretato come l'interruzione di una tendenza negativa ormai decennale e un successo della mobilitazione berlusconiana delle ultime settimane. In realtà il dato relativo alla partecipazione è ancora più rilevante, e costituisce il cardine intorno a cui ruota tutto l'esito della competizione, oltre che l'origine della clamorosa smentita dei vaticini dei sondaggi. Infatti rispetto al 2001 gli elettori iscritti alle liste erano oltre due milioni in meno. Gli aventi diritto al voto quest'anno 47.258.305, contro i 49.256.295 del 2001. Dunque le liste del 2001 erano appesantite da cittadini defunti e trasferiti, per cui la percentuale di votanti sopra riportata sottostimava l'effettiva partecipazione alle urne. Ma l'aumento della partecipazione non è affatto un fenomeno statistico, da ricondurre solo alla bonifica delle liste. Il dato chiave può essere meglio espresso dai numeri assoluti: si sono registrati oltre 850 mila voti validi in più rispetto a un corpo elettorale ridotto di circa due milioni. Merito della facilità della nuova scheda, che ha ridotto a un terzo le schede non valide; ma non è da sottovalutare la chiarezza cristallina della posta in gioco, dal momento che non per caso si è parlato di referendum. Quindi sono andati a votare anche cittadini che non c'erano mai andati negli anni precedenti, e ha scelto un simbolo sulla scheda anche chi prima non riusciva o non voleva dare un'indicazione di voto valida. Se si perde di vista questa drastica riduzione dell'area del non voto non si può poi comprendere il quadro dei risultati, che attesta un aumento di voti sia per la Casa delle libertà, sia per l'Unione. La prima è passata da 18.542.209 voti a 18.976.4601; la seconda è cresciuta in maniera molto più consistente, balzando da 17.313.836 voti nel 2001 a 19.001.684 il 9-10 aprile scorso. In termini percentuali ciò significa che le due coalizioni hanno conseguito il 49,73% e il 49,80%, lasciando alle altre liste non apparentate la miseria di 170.000 voti, pari a meno di mezzo punto percentuale. Nel caso del centrodestra è avvenuto un evidente travaso interno di voti. Forza Italia perde quasi due milioni di voti che vanno a vantaggio degli alleati storici, in particolare dell'Udc, che passa da poco più di un milione di voti a oltre due e mezzo. La Lega guadagna 300 mila voti mentre An risulta l'alleato meno avvantaggiato, con un contenuto aumento di poco più di 200 mila voti. Nettamente inferiore il contributo offerto dalle liste minori, nessuna delle quali si avvicina ai 300 mila voti. Nel complesso dunque Forza Italia perde vistosamente rispetto allo spettacolare risultato del 2001 (29,4%), drogato dalla «cannibalizzazione» degli alleati, peraltro ampiamente risarciti in anticipo a suon di seggi maggioritari. Il partito equivale ancora all'insieme dei tre alleati, e il Cavaliere mantiene saldamente nelle sue mani il ruolo di capo della coalizione, non solo in forza dei numeri, pur in calo, ma soprattutto per il merito esclusivo di aver mobilitato come mai prima l'elettorato d'area (su questo tema ci soffermeremo più avanti). Nel centrosinistra la crescita del numero assoluto dei voti è stata particolarmente elevata. Anche se tutti i radicali e i dipietristi avessero confermato nel 2006 la scelta del 2001, i voti al centrosinistra avrebbero superato di poco, come si è visto, i diciassette milioni. Dunque è innegabile il grande successo conseguito da Prodi rispetto alle condizioni di partenza, successo che segue quello conseguito sull'altro, ma altrettanto rilevante, piano delle primarie. Viene da dire che era effettivamente difficile fare di più. Più complessa invece appare l'articolazione interna del voto tra i diversi alleati. La lista-cardine dell'Ulivo ha ottenuto un risultato a prima vista buono ma non entusiasmante: alla Camera la crescita della lista unitaria rispetto ai voti che Ds e Margherita avevano conseguito nel 2001 è stata inferiore ai 400 mila voti (+0,2% sui voti validi), riproducendo a distanza di due anni lo stesso risultato delle europee del 2004 (10.092.499 voti, pari al 31,08%)2. A uno sguardo più ravvicinato gli indizi sono di segno positivo: nel 2004 erano confluiti nella lista Prodi anche i socialisti di Enrico Boselli e i repubblicani europei; inoltre - e soprattutto - il 9 aprile la lista dell'Ulivo ha conseguito più voti della somma di Ds e Margherita al Senato (31,3% contro 28,2%) - a riprova che la spinta unitaria ha un effetto significativo in termini di attrazione del consenso3. Giova inoltre ricordare che la neutralizzazione del «Mattarellum» mediante il «Porcellum» (greve quanto eloquente appellativo coniato dall'onorevole Calderoli per designare il proporzionale corretto) aveva anche lo scopo di rendere difficile il decollo di una lista unitaria dell'Ulivo, scopo perseguito eliminando del tutto gli incentivi all'aggregazione. Dunque i dirigenti del centrosinistra non possono che insistere sull'unica prospettiva di ampio respiro che le condizioni della politica italiana impongono: la costruzione di una sinistra riformista che sia in grado di colmare il vuoto di governo che il centrodestra ha clamorosamente lasciato. Accanto all'Ulivo, si segnala il successo di Rifondazione comunista, che è arrivata oltre il 7% al Senato e quasi al 6% alla Camera. Segue poi il quartetto del 2%: una soglia che premia Verdi e Comunisti italiani ma quasi dimezza L'Italia dei valori. La Rosa nel pugno costituiva in partenza una delle più rilevanti novità di questa campagna elettorale. La costituzione di una forza che fondava la sua proposta sull'appello alla laicità sul piano dei valori costituiva una risorsa preziosa per l'Unione, se non altro perché era in grado di intercettare i transfughi dalla componente laico-radicale di Forza Italia, mortificati dallo strumentale spostamento imposto da Berlusconi su posizioni più conformisticamente consonanti con il mondo cattolico. Il risultato non è stato particolarmente positivo, nonostante l'alleanza con i socialisti di Boselli (991 mila voti, pari al 2,6%): solo 150 mila voti in più rispetto al 2001, quando la Lista Pannella-Bonino si era presentata fuori dai poli. Occorre però segnalare, come commento conclusivo di questa breve panoramica dei risultati elettorali, che lo spirito del tempo non è particolarmente favorevole alle posizioni più laiciste e libertarie. Il clima di disorientamento, insicurezza e paura che si respira in questi anni non può essere velleitariamente ignorato nell'elaborazione dell'agenda politica - magari per andare incontro a inutili sconfitte, come avvenuto nel caso del referendum sulla fecondazione assistita, con il risultato di consolidare le posizioni avverse. Al contrario, le condizioni in cui è maturata la risicata vittoria elettorale della sinistra dovrebbero costituire un caveat da non perdere di vista neppure per un attimo. Gli avversari, agguerriti e ricchi di intelligenza e di risorse, sono lontani solo poche migliaia di schede. Eppure le premesse delle elezioni dell'aprile 2006 sembravano del tutto diverse, così come le aspettative sui risultati. Reduce da alcune consultazioni elettorali intermedie che avevano registrato vistosi se non plateali insuccessi, la Casa delle libertà sembrava essersi acconciata all'idea di subire una sconfitta netta. La legislatura era stata segnata dal trauma del siluramento, nel luglio 2004, della più importante personalità di governo, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Tutti i sondaggi pre-elettorali mostravano un differenziale netto fra le due coalizioni, a vantaggio dell'Unione. Le élite economiche e intellettuali avevano da tempo decretato il loro pollice verso. Insomma, viene quasi da dire, in sintesi, che un Paese largamente immaginario e convinto delle proprie immaginazioni aveva decretato a priori la sconfitta del centrodestra. C'è voluta una forza quasi disumana, da parte di Silvio Berlusconi, per tentare una rimonta a cui nessuno credeva, cercando di parlare a un Paese reale. Partiva indubitabilmente da una posizione cattiva, nel riconoscimento largamente condiviso, soprattutto nei ceti culturalmente più consapevoli, di un serio fallimento politico. Ha dovuto inventare uno scarto di lato, che gli consentisse di imporre all'opinione pubblica i temi che aveva scelto e su cui era convinto di poter produrre la mobilitazione dell'elettorato, e di drenare consenso anche in quelle categorie di cittadini che con il voto amministrativo avevano ripetutamente espresso delusione nei confronti del suo governo. Fra le tecniche della politica populista ce n'è una che gli scienziati politici (fra cui un classico come William Riker, Liberalismo contro populismo) definiscono «manipolazione dell'agenda». Funziona più o meno così. Si presenta un programma elettorale, dopo di che si selezionano i temi giudicati soggettivamente più rilevanti, che vengono imposti in via propagandistica all'opinione pubblica, e su cui alla fine si chiede il giudizio degli elettori (è la tecnica usata, come si intuisce, con il Contratto con gli italiani). Ciò consente di spedire in secondo piano una larga serie di punti programmatici controversi. Tanto per esemplificare, a molti pendolari non importa granché delle grandi opere, se i trasporti normali sono degradati; qualcun altro giudica la riforma unilaterale della Costituzione qualcosa di molto più rilevante e meritevole di riflessione del taglio delle tasse; altri ancora pensano che il ritorno al sistema proporzionale sia un attacco cinico alla tenuta del Paese, e guardano invece con sufficienza o diffidenza alle promesse (peraltro non mantenute) sulla riduzione dei reati. L'abilità spettacolare di Silvio Berlusconi è consistita proprio nel portare la discussione pubblica sul terreno scelto da lui. Sulle 36 riforme prodotte dal suo governo, e sui 1.700 provvedimenti approvati dal Parlamento nel quinquennio, come se fosse importante il numero delle leggi e non la loro qualità, il loro varo legislativo e non la loro attuazione concreta. Ad esempio, è difficile non giudicare regressiva la riforma della scuola realizzata dal ministro Letizia Moratti, senza aggiungere che è sufficiente entrare in un qualsiasi istituto scolastico per osservare in quali condizioni deve lavorare un insegnante di buona volontà. Ma questa mossa del cavallo non era sufficiente: non bastava distogliere l'attenzione dai risultati del governo, occorreva qualcos'altro, qualcosa di più spettacolare e mobilitante. Berlusconi non poteva più promettere prodigi, viste le condizioni degradate in cui versano l'economia italiana e i conti pubblici, e quindi ha deciso di investire tutte le sue risorse, simboliche e mediatiche, sull'idea di due società messe l'una contro l'altra, che si fronteggiano in nome di valori, culture e interessi del tutto antagonisti. Due Italie, insomma, separate da un sospetto e addirittura un'animosità addirittura impensabili per chi ha in mente un Paese deideologizzato, secolarizzato politicamente. In un parola «moderno». Chi ha ascoltato qualche discorso di Berlusconi durante la campagna elettorale non può non essere rimasto colpito. Secondo il lessico fluviale del Cavaliere, Romano Prodi, anzi «il signor Prodi», è un poveraccio, e Piero Fassino potrebbe fare «il testimonial delle pompe funebri». Francesco Rutelli è stato definito «il miglior dei peggiori», con l'accento sui peggiori. L'attacco anche personale alla sinistra, ai portatori di «miseria, terrore e morte», è stato incessante. Inoltre si è potuto assistere a diversi exploit del leader estremista ed estremo, spesso nella parte dello scalmanato, del Masaniello irridente, del capopopolo che esaspera fino al grottesco i sentimenti del popolo o al popolo attribuiti, li eccita, li aizza, li lancia in orbita nel cielo azzurro dell'ideologia «forzaleghista» e alla fine contempla lo spettacolo con evidente soddisfazione. Osservata dal vivo, la veemenza berlusconiana, con le accuse, le spiritosaggini, le irrisioni verso gli avversari politici, una sorta di Quarantotto carnevalesco, rivelava che il capo della Casa delle libertà aveva abbandonato le sue incarnazioni precedenti. Non era più l'uomo d'ordine, l'imprenditore, il liberale, il seguace di don Sturzo, e certamente non il moderato suadente che parlava ai suoi affini. Si era definitivamente calato nei panni dello sfasciatutto, cioè dell'uomo che lacera le convenzioni, e il cui scopo sembrava in primo luogo quello di produrre provocazioni: il clamoroso «sei un coglione» rivolto allo studente genovese che inneggiava ironicamente allo stalliere mafioso Vittorio Mangano; poi la continua aggressione a magistrati, giudici e Legacoop, quest'ultima accusata di complicità con la mafia e di impunità garantita dalle toghe rosse. Infine, l'accusa di «coglioneria» a chi vota per il centrosinistra facendo il proprio «disinteresse». Sulle prima l'accanimento ossessivo con cui Berlusconi ha ricominciato a scagliarsi contro il comunismo e i comunisti è stato giudicato un atteggiamento di maniera, quasi la ripresa anacronistica di un leitmotiv che aveva avuto fortuna nel passato ma che nel 2006 appariva ai limiti della bizzarria. Ma a mano a mano che il confronto politico si intensificava, e che la competizione fra i due schieramenti diventava più violenta, si è cominciato a capire che lo strumento dell'anticomunismo era tutt'altro che un arnese fuori tempo. Infatti, sventolando quella vecchia ban diera il capo di Forza Italia riusciva a innescare nuovamente un sentimento identitario nella sua base militante, propugnando quella strana combinazione di liberalismo e populismo che riscuote un visibile successo nelle file del «popolo forzista». Quindi ha ripristinato la sua formula più classica e apparentemente infallibile: «noi» contro loro, contro i comunisti, ossia un manicheismo che investe e anzi specula sulle fratture della storia politica italiana. È venuto nell'Emilia profonda è dopo avere visto all'orizzonte un tipico tramonto padano ha ironizzato sul fatto che «qui perfino il sole è rosso»; ha ripetuto alcune accuse sugli intrecci fra giunte rosse e cooperative. Ha ripetuto una trovata non priva di genio, il «pentagono rosso», con le sue ombre e risonanze misteriche, che disegna geometrie inquietanti di poteri intrecciati fra dirigenti della sinistra, giunte locali, magistrati. Con un colpo di teatro, a Napoli ha affascinato il suo pubblico raccontando la storia dei comunisti cinesi che bollivano i bambini. Infine ha riaperto con un enorme fracasso la partita contro la procura di Milano. Tutto questo non sarebbe bastato a recuperare consenso in quella fascia di elettori che nelle tornate elettorali precedenti avevano espresso in qualche forma la disillusione per l'azione del governo. E qui allora c'è stato un salto di qualità, vale a dire l'inserzione nel discorso pubblico della questione fiscale. Non è sembrata una manovra programmata: Berlusconi si è quasi trovato in mano l'arma fiscale, regalatagli dall'Unione, e ha cominciato a usarla. Quando ha visto che sfondava, l'ha adottata come strumento strategico della sua guerra. A un certo punto della sua furibonda campagna, Berlusconi è riuscito così a fare interagire due paure: la paura dei «comunisti», valorizzando in modo quarantottesco una frattura storica e psicologica che evidentemente si fa ancora sentire nella cultura e nella psicologia degli elettori, e la paura del «furto socialista », cioè la redistribuzione del reddito attraverso il regime fiscale. Agli occhi di un'Italia che segnala un «egoismo pauroso e impaurito» (come ha scritto sul «manifesto» Rossana Rossanda subito dopo le elezioni), Berlusconi è apparso come il campione della gramsciana «plebe borghese», richiamando alle urne il popolo delle partite Iva, dei piccoli imprenditori mobilitati in chiave anticonfindustriale, contro i poteri forti, contro i salotti buoni, contro l'aristocrazia industriale e gli establishment più sofisticati. Non si è limitato a correre a Vicenza, a un convegno della Confindustria, per riprendersi con un colpo di teatro i «suoi» imprenditori. Ha anche chiamato al voto «il figlio del professionista contro il figlio dell'operaio», nel segno di una lotta di classe purissima interpretata in funzione esplicitamente regressiva. Ha evocato le intenzioni redistributive della sinistra come una pratica rivoluzionaria svolta con altri mezzi, chiarendo invece che nella sua interpretazione le tasse sono «il corrispettivo che il cittadino dà allo Stato in cambio dei servizi che lo Stato offre». Si è rivolto all'Italia sommersa. E con questo repertorio, interpretato con convinzione, il premier ha compiuto un'impresa che ha dell'incredibile. Ha convinto metà della società italiana che il Paese si trovava sul crinale di una possibile tragedia, dal momento che l'alternanza politica veniva dipinta come un salto nel buio. Ciò che forse può lasciare sorpresi è che esista davvero un'Italia che ancora considera l'avversario politico come un nemico, e i suoi programmi politico-economici come un attentato alla proprietà. Ma sotto questo profilo Berlusconi è stato aiutato, certo involontariamente, dal centrosinistra. Di fronte all'offensiva berlusconiana, infatti, l'Unione e Prodi hanno barcollato, talvolta reagendo con durezza, ma di solito contemplando con sbalordimento la violenza dell'attacco berlusconiano, e rispondendo con disagio e genericità alle accuse più demagogiche: è passata a livello popolare l'idea che l'Unione volesse tassare addirittura i titoli di stato (non soltanto i capital gain), e gli sbandamenti grotteschi sulla tassa di successione hanno spaventato molti piccoli proprietari, anche perché le fermissime quanto tardive risposte di Prodi, «tasseremo solo i patrimoni sopra parecchi milioni di euro», sono sembrate poco precise, affannate, senza contare che poco prima le ipotesi di tassazione delle successioni avanzate dai diversi esponenti del centrosinistra erano apparse contraddittorie. Ancora: il centrosinistra è perfettamente adeguato per segnalare i guasti pubblici prodotti dal governo Berlusconi, a partire dal bilancio dello Stato; mentre lui in persona è efficacissimo nel descrivere e promettere soddisfazioni private. Il Professore accusava l'azzeramento dell'avanzo primario, entità macroeconomica metafisica; il Cavaliere parlava tutto ispirato della ricchezza individuale, case, auto, telefonini, vacanze. Per rispondere all'offensiva del premier sarebbe stata necessaria una campagna propositiva, mentre le molte pagine del programma dell'Unione contenevano tutto fuorché le sintesi per indicare obiettivi aggreganti. Mentre Berlusconi parlava, e qualche volta gridava, a un Paese reale, Prodi e l'Unione avevano in mente ancora una volta il loro Paese immaginario, sobrio e rispettoso delle regole. La vittoria probabile, anzi sicura, dell'Unione era interiorizzata come un riscatto «etico» dopo la distorsione prodotta dalla Cdl in cinque anni di leggi ad personam e trucchi contabili, senza parlare delle riforme unilaterali come la revisione costituzionale e l'approvazione dello sciagurato «Porcellum», legge elettorale, come si è visto, tagliata su misura (anche se catastroficamente ritortasi contro chi l'aveva progettata e realizzata). Invece, Berlusconi è riuscito a dissolvere la concretezza dei fatti. Ha prodotto, è vero, una quantità enorme di cifre. Ma dentro il cumulo di numeri che ha esposto era difficile trovare un indizio di realtà. Fra il paradiso in terra da lui illustrato e la quotidianità italiana c'è un abisso. Dietro le strabilianti politiche per la scuola dell'età berlusconiana, con i prodigi delle tre «i», e la promessa che i diciottenni raggiungeranno una competenza nell'inglese come se fosse la «seconda madrelingua », c'è la desolazione che chiunque può riscontrare mettendo piede in una scuola qualsiasi, e la constatazione che le ore di lingua straniera sono state ridotte. Il capo del governo è entrato in difficoltà ogni volta che Prodi è riuscito a portare l'attenzione sul terreno dell'economia e dei conti pubblici. Cioè un'area in cui Berlusconi non aveva risposte molto facili e immediate da offrire: non poteva rispondere sullo scialo dell'avanzo primario, e neppure obiettare alcunché sulla crescita zero; così come non era in grado di obiettare praticamente nulla sulla spesa pubblica scappata di mano. Il fatto è tuttavia che il centrosinistra si è trovato di fronte un esercito politico e mediatico che sotto la guida di Berlusconi è riuscito a compiere un rovesciamento. Con un'operazione spregiudicata il capo di Forza Italia ha rifiutato di farsi giudicare sugli anni di governo, e ha organizzato la protesta preventiva contro il «regime» delle sinistre. La farraginosità dell'Unione, le parole in libertà sul tema fiscale, il balletto sconclusionato delle cifre indicate da alcuni dirigenti dell'Unione sulla tassa di successione hanno messo Prodi in una trappola da cui era difficile svincolarsi. Una certa evasività prodiana sulle misure fiscali derivava evidentemente dalla sfiducia nei conti pubblici lasciati da Berlusconi e Tremonti. Quindi la preoccupazione principale del leader dell'Unione consisteva nel proiettare sul futuro, sul dopo-elezioni, la qualità principale che gli viene generalmente: che non è quella del politico, bensì quella dell'uomo di governo. Com'è noto, Prodi è una figura abituata a stare dentro gli establishment, a contatto con le istituzioni, a pensare in chiave di governo. L'esatto opposto di Berlusconi e di molti esponenti della Casa delle libertà: a cui sembra interessare soprattutto il colpo gobbo, il trucco, il tentativo di pareggiare i conti di cinque anni di governo fallimentare con l'asso nella manica giocato in televisione dell'abolizione della tassa sulla prima casa. Per alcune settimane quello di Berlusconi non è apparso il linguaggio di un uomo che si appresta a governare di nuovo il Paese. Anzi: il leader forzista sembrava seguire alla lettera gli inviti dei suoi sostenitori più estetizzanti a «cercar la bella morte». Piuttosto che una sconfitta mediocre, meglio uno spettacolo di fuochi artificiali, fra gigionerie e autentiche scene madri, da scapestrato mestierante del palcoscenico. Eppure questa interpretazione, che pure ha qualche fondamento, non dice tutto su ciò che sarà Berlusconi dopo Berlusconi; e soprattutto non dice niente di che cosa sarà l'alleanza di centrodestra dopo il 10 aprile. In ogni caso Berlusconi aveva deciso che dopo di lui ci sarebbe stato ancora e soltanto lui. I suoi comprimari, ancorché premiati dal risultato elettorale, sono stati oscurati. Vincitore o più prevedibilmente sconfitto, il quasi settantenne Berlusconi aveva deciso, già prima del voto, di proiettarsi anche nella prossima legislatura, e non soltanto per attestarsi a presidio di tutti i negoziati che verranno aperti (in particolare nel risiko del Quirinale), e per cercare di trattare da posizioni di forza sui temi per lui sensibili che il centrosinistra dovesse mettere in agenda, a partire dal conflitto d'interessi e dalla riforma del sistema televisivo. Va considerato infatti anche un aspetto ulteriore: il patron di Forza Italia sapeva e sa benissimo che oggi come domani il centrodestra esiste in quanto esiste lui, con la sua capacità sfrenata di polarizzare il consenso e l'avversione, di fungere da sintesi reale, simbolica e perfino iconica del pensiero e del ceto padronal-liberista, in sostanza di essere lo specchio in cui si riflettono tutte le facce, visibili e sommerse, della destra italiana. Abbandonati a se stessi, i partiti della Cdl sono strutture acefale. L'alleanza stessa, orfana di Berlusconi, sarebbe strattonata al centro da tentazioni trasformiste, e all'estrema destra dalle riemergenti pulsioni para-secessioniste della Lega. Ci si potrebbe chiedere per quale motivo, se fosse giunto al termine della sua parabola politica, Berlusconi dovrebbe sentire il bisogno di mantenere il suo impegno in politica, come coagulo del centrodestra, tolto il vantaggio di poter negoziare sulle sue questioni proprietarie. È probabile che per comprendere questo aspetto sia necessario ricorrere anche a categorie non politiche. Berlusconi infatti è un fondatore di imprese. Dopo la televisione, la maggiore impresa della sua vita è stata la creazione di Forza Italia e del centrodestra. Non può lasciare che tutto ciò si afflosci per un risultato elettorale infelice. Vale a dire che non può permettersi di lasciare dietro di sé un deserto, a meno di non affidare di sé al futuro l'immagine di chi ha costruito cattedrali andate precocemente in rovina. Invece, sul piano esplicitamente politico deve sistemarsi in una posizione strategica, in primo luogo per controllare o frenare e condizionare l'azione del centrosinistra. Ma non soltanto: per decidere in quali tempi e con quali modi dovrà avvenire la sua successione, e quale sarà il futuro della sua creatura, la Casa delle libertà. È un programma a suo modo razionale. Può stupire semmai che la razionalità del calcolo di Berlusconi sia stata messa in atto e alla prova con le esibizioni più stridenti che si siano mai viste al vertice della politica italiana. Tuttavia il messaggio dovrebbe essere chiaro a tutti: l'Estremista manda a dire a tutti, compresi i suoi soci politici, che questo leader oltraggioso è l'unico leader della destra. Altri non ce ne sono. Che l'ideologia politica dello schieramento è pur sempre quel singolare composto di liberismo forzista e sbrigatività leghista, impersonato dal Padrone. E che in fondo il centrodestra, se esiste e se esisterà lo deve solo a quel giocatore insolente che ha nome, oggi come domani, Silvio Berlusconi. Può apparire paradossale, o addirittura inspiegabile, che questo scontro fra due Italie si sia incentrato su un solo uomo, sulla esclusiva figura di Silvio Berlusconi. Eppure oggi, mentre la traiettoria berlusconiana sembra avere imboccato la parte discendente, si può riconoscere che la transizione italiana è stata modellata proprio dalla presenza politica del proprietario della Fininvest. Dal 1994 in poi, quando era considerato un perfetto outsider, l'uomo battuto di strettissima misura alle elezioni del 2006 è stato il protagonista assoluto della vita pubblica italiana, non soltanto della politica. Il suo talento è stato in grado di aggregare intorno a sé prima i partiti di centrodestra, e poi un intreccio di interessi e di pulsioni presenti nella società italiana. Si tratta di osservare in primo luogo se questo suo lavoro è stabile o no. Vale a dire se l'Italia «moderata» (che per la verità appare per molti aspetti come una somma di vari radicalismi) esiste politicamente anche in sua assenza. Ma per il momento va registrato che l'azione del capo della Casa delle libertà ha determinato o almeno approfondito vistosamente una frattura nella società italiana. L'investimento di Berlusconi in un conflitto permanente, il suo farsi imprenditore quasi di una guerra intestina, simbolica ma riconoscibile, può avere conseguenze serie nella qualità civile della nostra democrazia. Può vivere bene, può lavorare con dignità un Paese spaccato a metà, in cui le due parti si guardano con una diffidenza che spesso diventa sospetto, e talvolta rancore? Questa riflessione minaccia di riprodurre continuamente il profilo di un'Italia delle regole, quella di Romano Prodi, contrapposta ontologicamente all'Italia selvatica di quelli che, secondo il leader dell'Unione, sono abituati a «parcheggiare in doppia fila». Il faccia a faccia fra le due Italie contempla anche un capitalismo moderno, che accetta integralmente il criterio della concorrenza, rifiutato a sua volta dalla folla di imprenditori piccolissimi, piccoli e medi che rimpiangono l'era delle svalutazioni competitive. Oppure una società che rispetta le istituzioni e le considera strutture essenziali della vita collettiva, opposta a una folla solitaria e anarchica che pretende soddisfacimenti individuali nella perfetta indifferenza per le finalità comuni. È una semplificazione che sembra avere un potere descrittivo di una certa efficacia. Da una parte l'Italia del trash, dei reality show, del consumo televisivo irriflesso, dei consumi sbrigliati e vistosi, socializzata più che altro dalle tendenze e dalle mode, unificata dal gossip. Si tratta di un Paese che i sondaggi non riescono ad afferrare, che nutre oscuri risentimenti contro l'Unione europea e contro la moneta unica, e sembra disponibile a trattare le istituzioni come merce di scambio. A esso si contrappone l'Italia poco divertente e «bofonchiona» di Prodi (secondo una definizione di Giuliano Ferrara), che vuole le regole e si ribella all'idea di un Paese diviso lungo linee addirittura antropologiche, ma che considera il berlusconismo una malattia culturale e i seguaci del «Caimano», elettori compresi, come dei malviventi reali o almeno potenziali. P.S. Sempre che non si sia sbagliato nel definire Berlusconi l'imprenditore del conflitto fra le due Italie. Nella conferenza stampa convocata il giorno dopo la chiusura delle urne, dopo avere contestato il risultato del voto, dichiarando che avrebbe concesso la vittoria al «signor Prodi» solo dopo le verifiche più accurate, il Caimano, l'uomo della guerra civile quotidiana, ha lanciato l'idea della Grande coalizione: «Perché non si può governare in modo unilaterale un Paese spaccato a metà». Alla fine, viene sempre il dubbio che non si tratti di guerre, ma di baruffe: di commedie, non di tragedie. E che in ultimo, a sterilizzare il rischio delle due Italie ostili, venga in soccorso il sospetto che si tratti ogni volta di teatro. Abbiamo considerato per il 2006 tutte le liste apparentate ufficialmente nelle due coalizioni. Per il 2001 abbiamo considerato per la Cdl non solo i quattro maggiori partiti, ma anche il Nuovo Psi e la Fiamma tricolore, che in realtà si era presentata come indipendente. Per l'Unione il confronto è stato fatto con la somma dei voti conseguiti nel 2001 dai partiti ufficialmente apparentati nel maggioritario (Ds, Margherita, Girasole, Comunisti italiani), nonché da Rifondazione comunista, dalla Lista Di Pietro e dalla Lista Pannella-Bonino. È chiaro che il confronto sconta alcune asimmetrie, soprattutto nel caso del centrosinistra. Ma questo rende ancora più evidente l'aumento dei voti ottenuti da entrambe le coalizioni tra il 2001 e il 2006. Nel 2004 i voti validi furono 32.476.224, con un'affluenza alle urne del 73,1%; cfr. C. Guarnieri e J.L. Newell (a cura di), Politica in Italia. I fatti dell'anno e le interpretazioni. Edizione 2005, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 354. Resta da vedere se e quanto è costata in termini di seggi la decisione di presentare due liste distinte al Senato, disperdendo due elettorati che, l'esperienza insegna, possono essere sommati con facilità. Date le diciassette competizioni proporzionali con quoziente naturale, e con una soglia effettiva ben più alta di quella formale, due resti deboli possono facilmente diventare un intero o un resto che produce un seggio. Non sarà difficile accertare rapidamente questo dato.
Il Mulino, 01-02 2006
Che cosa è in gioco il 9 04
Domenica 9 aprile, prima di tutto, i cittadini italiani sono chiamati a decidere se intendono mantenere in vigore lo schema politico che esordì alle elezioni del 1994, e che successivamente è stato messo alla prova nel 1996 e nel 2001, oppure se la politica oggi richiede il prezzo di un altro cambiamento profondo, un'inversione di tendenza dalle conseguenze imprevedibili. Alle prossime elezioni politiche va infatti in discussione il sistema dell'alternanza politica. Dal risultato del voto dipenderà con ogni probabilità l'evoluzione del nostro sistema politico; forse, anche la stabilità generale del nostro Paese. Si chiama alternanza politica, è fondata sulla competizione fra due schieramenti politici, l'abbiamo conosciuta con il termine di bipolarismo, il suo punto di leva è stato il sistema (semi)maggioritario. Il nostro Paese ci è arrivato dopo oltre mezzo secolo di «democrazia immobile», secondo la definizione di Giovanni Sartori, in cui l'area del governo è stata presidiata perennemente dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati. Per assistere al cambiamento delle fondamenta su cui si basava sistema politico, si è dovuto attendere un evento, o per meglio dire un processo, esplicitamente traumatico. Sono state necessarie alcune concause di forza maggiore, che hanno schiodato la politica italiana dalla paralisi in cui si trovava. In quella stagione, all'esordio degli anni Novanta, apparivano evidenti sia le ragioni che determinavano l'immobilismo, e più specificamente il cattivo funzionamento della politica, sia i possibili rimedi. A distanza di tempo è agevole riassumere i motivi che avevano determinato lo stallo e le condizioni dell'inefficienza di sistema. È vero che la caduta del blocco sovietico e la decomunistizzazione dell'Europa centro-orientale avevano sciolto i vincoli internazionali che si erano impressi sulla politica nazionale, determinando la sindrome del bipartitismo imperfetto e la conventio ad excludendum nei confronti di un partito, il Pci, a lungo reputato ideologicamente antisistema: ma non per questo si erano create con adeguata rapidità le opportunità dell'alternanza politica. La Democrazia cristiana era entrata in una fase di attrito permanente con i suoi alleati, e in particolare con il suo patner rivale, il Partito socialista, con il risultato di una governabilità difficile se non impossibile: l'inefficacia dei governi si era rivelata con ogni evidenza nella situazione pre-catastrofica dei conti pubblici, con la dilatazione straordinaria del debito e del deficit. A uno sguardo d'insieme, il sistema politico italiano dava l'impressione di un'architettura lambiccata che si negava con ogni mezzo a qualsiasi intento riformatore. In quelle stagioni divenne senso comune l'idea che occorresse trovare uno strumento per procedere allo sblocco della politica. Ma nello stesso tempo pochi vedevano la possibilità realistica di un'azione incisiva per rimettere in funzione la macchina, della politica e del governo. Anzi, le riflessioni giravano a vuoto attorno all'incapacità del sistema politico di riformare se stesso (la politica italiana non sa prendere le grandi decisioni; la Grande riforma è una grande decisione; ergo, la Grande riforma è impraticabile: così suonava più o meno il «paradosso Zagrebelsky»). Altri segnalavano la costante storica secondo cui le riforme istituzionali erano state imposte in altre realtà nazionali da uno choc esterno, e per questo molti si domandavano quale sarebbe stata la nostra Algeria, e chi - fatte le debite proporzioni - il nostro de Gaulle. Invece si verificarono almeno due importanti choc interni. Il primo, è superfluo ricordarlo, è sintetizzato dalla parola Tangentopoli. Cioè l'intreccio politico-affaristico che aveva causato una diffusione impressionante della corruzione, in pratica a ogni livello e in ogni snodo della vita pubblica, con effetti spesso mortificanti per i cittadini e le imprese sottoposti al dazio, o secondo il lessico di Antonio Di Pietro, alla «dazione ambientale» che regolava le relazioni fra politica ed economia. Una «normalità», nella Repubblica dei partiti, tuttavia con ripercussioni sistematiche sulla vita civile: anche a distanza di tempo, non è superfluo ricordare un riflesso indotto di Tangentopoli, che esula dalla necessità di finanziare i partiti, e quindi la macchina democratica, rivendicata da Bettino Craxi nel suo più celebre e controverso discorso parlamentare. Infatti la pratica delle tangenti, eretta e dilatata a sistema, aveva provocato distorsioni gravissime anche nell'economia e nell'apparato produttivo, distorcendo la concorrenza, creando barriere all'ingresso del mercato, alterando i prezzi e quindi, in modo insostenibile, i costi degli appalti pubblici. Il secondo choc è reso addirittura spettacolare dalla crisi valutaria del settembre 1992, allorché un'autentica bufera internazionale si scatenò sulla lira provocandone l'uscita dal Sistema monetario europeo e una svalutazione imponente. Sembrò in quel momento che la finanza pubblica dovesse soccombere, e solo una legge finanziaria di ingente entità, approvata in un clima di fortissima preoccupazione civile dal governo di Giuliano Amato, riuscì a evitare il collasso del debito. Altri aspetti vanno tenuti presenti in questa ricostruzione sommaria, a cominciare dall'irruzione nel panorama politico della Lega di Umberto Bossi, che propugnava chiaramente un federalismo che non celava affatto una volontà secessionista; nonché la preoccupazione delle élite economiche e istituzionali che l'Italia non riuscisse a rispettare i recenti accordi di Maastricht, e che quindi la prospettiva europea del nostro Paese divenisse nei fatti un miraggio, con il rischio di un'involuzione gravissima, di una perdita radicale di credibilità, di una effettiva desertificazione del Paese. Mentre i partiti «storici» dell'area governativa si disgregavano, e l'ex Pci attraversava una metamorfosi che si concludeva con la scissione di Rifondazione comunista, come si è accennato il punto di leva della trasformazione politica fu individuato nel cambiamento della legge elettorale. Fra il 1991 e il 1993 due referendum popolari portarono all'approvazione della legge maggioritaria (corretta, o alterata secondo molti, in senso proporzionale). Ciò che in questo momento va sottolineato è il forte coinvolgimento dell'opinione pubblica a favore di questo mutamento delle regole del gioco. Oggi forse può sembrare ingenua l'aspettativa che il nuovo metodo di voto ridisegnasse in modo virtuoso l'intera architettura del sistema politico. Non mancarono allora alcune riserve, secondo cui era illusorio o almeno fortemente semplificatorio pensare che la formula elettorale potesse dare luogo automaticamente ai «figurini istituzionali» (come li definì Mauro Calise) della maggioranza che governa e dell'opposizione che controlla e si prepara a governare in alternativa. Tuttavia il movimento a favore del maggioritario fu travolgente: dopo decenni di risultati elettorali spesso difficilmente interpretabili, misurati su avanzamenti e arretramenti quasi infinitesimali, la società italiana mostrò di apprezzare il tocco risolutivo apportato dall'uninominale, e cioè la designazione immediatamente riscontrabile dello schieramento vincitore, e la semplicità dell'espressione del consenso «di qua o di là», a destra o a sinistra, senza i classici bilancini e le elusioni del voto proporzionale. L'apprendimento della cosiddetta logica del maggioritario fu molto rapida. I cittadini-elettori mostrarono di assimilare con notevole rapidità le nuove regole del gioco. La personalizzazione del confronto politico, evidente già alle prime elezioni politiche condotte con le nuove modalità, nel 1994, fu intensificata da una serie di consultazioni amministrative in cui si sperimentava l'elezione popolare diretta. Ma al di là della capacità dell'elettorato di comprendere e usare opportunamente la formula maggioritaria, ciò che va considerato è che i referendum elettorali e le prime elezioni maggioritarie consentirono di mantenere e convogliare i sentimenti popolari dentro il circuito politico e istituzionale. Non si tratta di un prodotto secondario, in questa prima e tumultuosa fase della transizione italiana: la situazione appariva caotica, la crisi finanziaria grave, l'insofferenza generale verso la «partitocrazia» e il «consociativismo» fortissima, come pure il risentimento verso il sistema delle tangenti politiche. Non era allarmistico in queste condizioni valutare che potessero manifestarsi fenomeni di protesta, come anche di ingovernabilità, tali da mettere a repentaglio la stessa stabilità del Paese. Crisi sociale, collasso istituzionale e tracollo finanziario erano rischi incombenti. Sotto questo profilo, i referendum elettorali e la ghigliottina politica del maggioritario contribuirono a tenere la società italiana all'interno di una struttura politica legittimata, sancita da una vastissima partecipazione e da un largo convincimento dell'opinione pubblica. In sostanza, non c'era stato lo choc esterno (e neanche, per fortuna) lo choc estremo). Il passaggio a una diversa fase della vita della Repubblica era stato reso possibile da un percorso istituzionale, sovrappostosi alla crisi, questa sì drammatica, dei partiti. A distanza di oltre un decennio si poteva ragionevolmente affermare che il processo di razionalizzazione politica aveva rispettato le previsioni finali, anche se le sorprese intermedie erano state vistose. Coerente con le aspettative, e con la dinamica prevista dalle «leggi di Duverger» era stato il formarsi di due schieramenti principali, separati da un confine che via via è si è andato rimarcando e approfondendo, fino a impedire di fatto spostamenti da una parte all'altra dell'arco politico. Forse meno prevedibile, invece, era il fatto che la scena italiana venisse occupata, per oltre un decennio, dalla figura di un uomo d'impresa e di media come Silvio Berlusconi. E tuttavia è appropriato considerare che proprio la fisionomia politica e patrimoniale del capo di Forza Italia, la sua «anomalia» in quanto portatore di un conflitto d'interessi immane, e la sua spregiudicatezza nella politica quotidiana, hanno avuto una funzione essenziale nel comporsi delle aggregazioni politiche. Il bipolarismo si è consolidato anche in seguito alla presenza in politica di Berlusconi, grazie alla sua carica anarco-liberale, al suo disprezzo per il settore pubblico e per i politici di professione, alle sue polemiche contro i «comunisti » (categoria entro la quale il leader di Forza Italia raggruppa una serie di figure sociali che va dalle «toghe rosse» ai funzionari di partito, dagli uomini della burocrazia ai sindacalisti). Tuttavia questo sistema bipolare, per quanto abborracciato e stressato, si era via via assestato attraverso tre consultazioni politiche nazionali, e con due legislature giunte al loro termine naturale. Sotto questa luce, l'approvazione unilaterale della riforma in senso proporzionale, costituisce un colpo durissimo a questo processo di stabilizzazione razionalizzatrice. A un processo a suo modo storico, inserito all'interno di un cambiamento complessivo e profondissimo della politica, si è risposto con un colpo di mano partitocratico. In effetti, la qualità tecnica della legge è pessima, come ha rilevato fra gli altri e fra i primi Giuliano Amato; la formula per il Senato, stratificatasi attraverso correzioni successive per sfuggire a un vizio di incostituzionalità, a causa del premio di maggioranza al livello regionale tende a smussare le differenze fra gli schieramenti, favorendo dunque risultati prossimi al pareggio, e comunque incapaci di assicurare forza governativa allo schieramento vincitore. Alla Camera, il sistema delle liste bloccate, senza le preferenze, riporta la selezione dei candidati (e degli eletti) nei corridoi più segreti della politica, proprio nel momento in cui almeno nel centrosinistra l'esordio delle elezioni primarie aveva introdotto elementi di partecipazione e di democratizzazione nella scelta dei protagonisti del confronto politico. Insomma, cominciata sull'onda di una mobilitazione popolare e ispirata dalla logica stringente del maggioritario, la transizione italiana finisce, o perlomeno si aggroviglia su se stessa, sotto un segno proporzionalista e partitocratico. Il premio di maggioranza allo schieramento vincitore è l'unico velo che ancora divide le due ali del sistema politico. Il risultato previsto da molti osservatori è un risultato elettorale, nelle urne del 9 aprile, contrastato, forse poco leggibile, favorevole agli istinti manovrieri della politica vecchio stampo che non agli obiettivi di stabilizzazione dei governi. Ciò che si prospetta dunque è un potenziale processo di destrutturazione del bipolarismo attuale. A cui per la verità guarda con simpatia una parte tutt'altro che irrilevante della nostra politica, e comunque tutti coloro che hanno giudicato «artificiosa» la costruzione dei due poli (proponendosi dunque di lavorare per scomporre e riassemblare i pezzi dell'arco politico). Questa è l'intenzione di tutti coloro che affermano che «questo bipolarismo è fallito»: la tesi sottostante tocca evidentemente il tema della collocazione «innaturale» della componente moderata nella coalizione di centrosinistra, e non nasconde la volontà di procedere al rifacimento dell'architettura politica su cui si sono retti dodici anni di confronto. Sarebbe facile, e rispondente a un giudizio di parte, rispondere che il fallimento non riguarda il bipolarismo, bensì il quinquennio di governo del centrodestra, e che quindi l'approvazione della legge proporzionale risponde con un cambiamento di regole fondamentali a un problema specifico di capacità politiche e di qualità tecnico-professionali (per dirla con una metafora, sarebbe come se la constatazione che la nazionale di calcio gioca male portasse non a cambiare il commissario tecnico e nemmeno i giocatori: bensì a cambiare gioco, passando al basket). Conviene invece segnalare, in modo non partigiano, qualche aspetto importante legato ai risultati del 9 aprile: insomma, qualche congettura su ciò che potrebbe essere in gioco con il voto e soprattutto dopo il voto. Se si assisterà a un risultato nitido, con la vittoria accertata di uno schieramento, si tratterà di osservare se il sistema proporzionale non abbia accentuato le differenze interne alla coalizione vincitrice, e quindi se la sua azione di governo potrà essere davvero efficace. Si è già avuto modo di notare che l'alleanza di centrodestra, in apparenza compatta una testuggine macedone, è stata attraversata da un conflitto lunghissimo e ancora irrisolto, frutto di personalismi (che hanno portato alla caduta del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, pilastro anche ideologico della Casa delle libertà) o di scarsa determinazione nei momenti di crisi (che ha condotto all'uscita del ministro Domenico Siniscalco, e al successivo recupero di Tremonti). Quanto alla coalizione di centrosinistra, il plebiscito dei quattro milioni e trecentomila votanti alle primarie ha certamente rafforzato la figura di Romano Prodi, ma non ha certo smussato gli attriti tra la decina di partiti che compongono l'Unione. Ma se invece il risultato fosse contrastato, vicino all'equilibrio fra le due coalizioni, oppure asimmetrico fra Camera e Senato, comunque poco decifrabile, o funzionalmente incapace di produrre governabilità adeguata ai problemi del Paese, i riflessi sui comportamenti dei principali attori politici sarebbero probabilmente immediati. Verrebbero rapidamente alla luce progetti di Grande coalizione, «alla tedesca», già affiorati nei mesi precedenti la consultazione elettorale. Si profilerebbero possibilità inedite di soccorso parlamentare, con il fine dichiarato di consentire la governabilità, ma con conseguenze visibili di carattere trasformistico. Potrebbe prendere corpo la soluzione neocentrista ventilata in un paio di occasioni dall'ex commissario europeo Mario Monti. In ambienti extrapolitici si comincerebbe a lavorare sottotraccia per soluzioni di carattere tecnocratico, secondo il paradigma «se la politica non ce la fa, proviamo un consiglio d'amministrazione». E così via, le soluzioni sono virtualmente infinite. Va anche considerato che la legge elettorale proporzionale, con la sua formula barocca di soglie di sbarramento, incorpora in ogni caso la possibilità che una formazione politica centrista, un blocco intorno al 35 per cento dei consensi, conquisti il premio di maggioranza e occupi in via permanente l'area di governo. Certo, il bipolarismo non è un totem. Ma l'alternanza al governo dovrebbe essere ormai acquisita come un valore essenziale per il buon funzionamento della democrazia. E allora viene davvero da chiedersi se fra poche settimane, alle elezioni politiche, sia in gioco soltanto la supremazia di uno schieramento, la vittoria di uno dei leader, la scelta fra programmi di governo alternativi, oppure qualcosa di ancora più importante e profondo. Ci si deve chiedere, con ragionevolezza e per ora senza drammatizzare, se la vera posta del 9 aprile sia non soltanto la possibile nuova disgregazione degli schieramenti politici, ma anche l'eventuale disgregazione del Paese in seguito a una prospettiva di non governabilità. È noto che la situazione attuale del nostro Paese è il risultato di un processo di lungo periodo. La perdita di competitività dell'industria e di quote nel commercio mondiale, il passaggio da un'economia industriale a un'economia dei servizi, lo sballottamento provocato dalla globalizzazione sono tutti capitoli di una transizione ancora più difficile e più faticosamente governabile di quella politica. Bene, alle elezioni politiche, attraverso una formula elettorale caotica, si avrà la decisione se questi processi potranno essere governati secondo un progetto politico individuato e scelto dai cittadini, da un programma omogeneo e credibile, da un orientamento generale che inserisca misure di governo e riforme funzionali entro una cornice chiara e attendibile. Oppure se sarà necessario procedere alla cieca. Nelle ipotesi peggiori, i fattori disgregativi della politica agirebbero insieme agli elementi di sfaldamento economico. Il richiamo a una situazione di tipo balcanico o mediorientale, aggravati a uno scenario politico di tipo feudale, con un esercito di partiti in conflitto o eternamente in manovra, non sarebbero un puro esercizio retorico. Un realismo non pessimista indurrebbe a evitare scenari catastrofici, e a ricercare in ogni caso soluzioni che permettano razionalmente di governare questa transizione che non si completa, e che anzi, nel momento in cui si stava solidificando è stata ricondotta virtualmente allo stato fluido. Ma un conto è la consapevolezza dei problemi, istituzionali, economici e «di sistema », allorché si possiede uno strumento politico in grado di produrre effetti ragionevolmente prevedibili, quindi la possibilità anche tecnica di governare. E un altro conto invece infilare il proprio giudizio sulla politica, cioè il proprio voto, in una scatola del caos, produttrice di conseguenze preterintenzionali. La sensazione di un'irrazionalità incontrollabile dà un senso di inquietudine ai cittadini. Ed è un'inquietudine che per ora non trova conforto in una speranza. Questa situazione, questa possibilità è stata ricercata, voluta, creata da una decisione politica. Se le cose andranno male, se il Paese diventerà il regno dell'instabilità, non sarà purtroppo di nessun sollievo conoscere l'identità del colpevole.
Il Mulino, 11-12 2005
La Repubblica indistinta
Mentre cominciava l'ultimo semestre della legislatura, con una iniziativa di repentina efficacia politica il centrodestra ha varato la riforma elettorale in senso proporzionale1. Un provvedimento che trasforma radicalmente, anzi rovescia, le condizioni di sistema è stato portato in Parlamento e approvato da una sola parte politica. Non si sono sentite argomentazioni molto convincenti sul perché una misura così importante, che riguarda una delle leggi fondamentali della convivenza politica, potesse essere approvata in via partigiana. Sono stati suggeriti riferimenti alle decisioni «fiorentine», cioè machiavelliche, di François Mitterrand, che alla metà degli anni Ottanta introdusse la formula proporzionale per fare emergere la destra lepenista e danneggiare così lo schieramento moderato rivale alla sinistra francese. Si sono sentite asserzioni fra il possibilista e il tassativo, nel centrodestra, sulla piena praticabilità di una riforma elettorale nella parte conclusiva della legislatura, in base al principio che le leggi in materia si cambiano alla fine, perché se venissero modificate agli inizi del mandato il Parlamento eletto ne sarebbe immediatamente delegittimato. Quale che sia il valore effettivo di questi postulati della costituzione materiale (in cui si sono distinte alcune figure politiche che in passato avevano sostenuto con calore il sistema maggioritario e tutte le sue implicazioni comportamentali), essi sono comunque marginali. Perché il punto in discussione è un altro. Prima di tutto occorreva spiegare ai cittadini per quale motivo il movimento di opinione dei primi anni Novanta, che aveva dato luogo a due referendum, in seguito ai quali le basi del sistema proporzionale erano state abbattute, aprendo le porte all'approvazione della legge maggioritaria, era stato a sua volta abrogato, attraverso un motu proprio politico dell'attuale maggioranza parlamentare. Già, perché? Perché l'addio così estemporaneo alla competizione fondata sul sistema uninominale? Con ogni evidenza, che l'opinione e il comportamento dei cittadini non contino nulla dev'essere un principio fondamentale della politica contemporanea: altrimenti non si spiegherebbe come sia stato possibile sottrarre al corpo elettorale, all'intera società italiana, il giudizio sul sistema maggioritario. E neppure come forze politiche e leader del centrodestra, che in passato avevano coltivato con Silvio Berlusconi la «religione del maggioritario», abbiano potuto compiere una virata così recisa, spettacolare e utilitaristica. Vero è che almeno per il presidente di Alleanza nazionale il problema non si pone, dal momento che Gianfranco Fini nell'arco di una dozzina d'anni è stato prima strenuamente proporzionalista, convinto che il metodo proporzionale fosse l'unica zattera di salvezza per la navicella del Movimento sociale, poi maggioritarista a oltranza, fino a sostenere i referendum per l'abolizione della quota proporzionale, e infine di nuovo proporzionalista, nella sua rinnovata convinzione, comune per la verità a numerosi esponenti dell'establishment italiano, che «il maggioritario ha fallito». Ma intanto, è davvero fallito il maggioritario? C'è davvero un'opinione generale e condivisa in questo senso? A prima vista, sembrerebbe che si scambi la causa con l'effetto, lo sfondo con la figura, le norme con la qualità della prestazione: sarebbe all'incirca come dire che, siccome la nazionale italiana gioca male, è giusto cambiare le regole del calcio. In realtà sarebbe un esercizio di lucidità, non si dice di onestà, intellettuale prendere in considerazione l'alternativa se a fallire sia stato il sistema maggioritario (molto temperato, d'altronde) o piuttosto il governo di centrodestra nella legislatura 2001-2006. Anche senza ricorrere alle leggi di Duverger, è noto che i sistemi elettorali producono i loro effetti nel mediolungo periodo, in seguito all'assestarsi dei partiti e all'abitudine alla competizione svolta con determinate regole. Quindi cambiare legge elettorale a ogni volgere di legislatura non sembra rispondere a un'intenzione di stabilità, o di stabilizzazione, del sistema politico. Un giudizio negativo sul maggioritario all'italiana, sulle sue caratteristiche di sistema «misto», dettato dal criterio che è controproducente abbinare due logiche contraddittorie, e che comunque in un sistema pluripartitico la formula a turno unico moltiplica i partiti e induce inevitabilmente alla frammentazione (secondo i rilievi in sé ineccepibili di Giovanni Sartori), doveva semmai condurre ad aggiustamenti della legge maggioritaria, non alla sua sostituzione integrale con un sistema proporzionale dall'impianto disordinato. Tuttavia gli argomenti a cui è ricorsa la Casa delle libertà per argomentare la propria decisione politica sono sostanzialmente di due ordini: in primo luogo, la necessità di «migliorare» le alleanze, attribuendo a ogni partito il peso che gli spetta effettivamente in base al suo risultato elettorale, sgombrando il campo dalle possibilità di ricatto politico e dal potere di interdizione dei partiti marginali, nel momento della scelta delle candidature e successivamente durante l'esercizio dell'attività di governo; subito dopo, l'asseverazione che il cambio della legge elettorale era contemplato dal programma della Cdl, e quindi approvato dagli elettori con il voto alle elezioni politiche del 2001. Quanto al primo aspetto, il miglioramento degli equilibri nelle coalizioni, si tratta più che altro di un auspicio. Il governo Berlusconi è entrato in crisi nell'estate del 2004 (e il sintomo-effetto più grave della crisi fu segnalato dalle dimissioni del ministro dell'economia, Giulio Tremonti, il pilastro della politica economica e della politica tout court dell'alleanza di centrodestra, in quanto uomo di cerniera tra Berlusconi e Bossi) in seguito a un'azione congiunta di Alleanza nazionale e dell'Udc. Tanto per chiarire l'entità e la qualità dello scontro, Tremonti fu accusato da Fini di avere truccato i conti pubblici, e di avere presentato in sede europea dati falsi. L'allora segretario dell'Udc, Marco Follini, aveva avviato una sua lunga e alla fine sfortunata campagna per ridimensionare il potere di Berlusconi e per rendere evidente la problematicità, per la coalizione, del rapporto tra Forza Italia e la Lega. Si era aperta una crisi che sarebbe scoppiata con tutti i sistemi elettorali del mondo, non solo con il maggioritario imperfetto. Per restare nel campo del centrodestra, cioè lo schieramento che ha imposto il cambio della legge elettorale, vale ancora il vecchio rilievo che si tratta di un raggruppamento incoerente, una costellazione in cui si stagliano una forza liberista, un partito cattolico solidarista, una entità nazionalpopulista, un residuo regionalsecessionista: qualcuno dovrebbe allora spiegare se tendenzialmente la formula proporzionale riduce o intensifica il polimorfismo politico della Casa delle libertà. Cioè se favorisce processi di semplificazione o di frammentazione. Il secondo punto, e cioè la verifica popolare, il «mandato» dovuto al programma, la firma degli elettori anche in calce a un progetto di riforma elettorale, non meriterebbe di essere preso in considerazione se non fosse che rispecchia con fedeltà alcune inclinazioni intrinseche alla Casa delle libertà. Non occorre avere letto i classici moderni del funzionamento della democrazia liberale, da Arrow a Riker, per capire che il popolo non vota approvando ogni singolo punto dei programmi politici. Basta il buonsenso: possiamo tranquillamente votare a destra anche se approviamo soltanto una parte del suo programma, se questo suo programma ci convince complessivamente più di quello presentato dalla sinistra (e viceversa). Ma chi pretende di trasformare immediatamente in leggi, in provvedimenti esecutivi, in dispositivi cogenti il mandato popolare si iscrive nel campo del populismo. E, sotto sotto, manipola il gioco democratico, proprio perché chiama in campo il consenso generale su un punto invece particolare, una delle tante issue comprese in un qualsiasi programma di governo. Naturalmente, i principali esponenti del centrodestra hanno tenuto a specificare che veniva abbattuto il sistema maggioritario «fallito», ma veniva salvaguardato il bastione del bipolarismo (grazie al premio di maggioranza per la coalizione vincente). Si tratta di un'osservazione scarsamente significativa, e comunque tutta da provare sul piano empirico. Il bipolarismo esiste per volontà politica, non per grazia ricevuta. Se viene a mancare l'intelaiatura del maggioritario, è prevedibile che le contraddizioni nei due schieramenti si faranno sentire con più forza. Inoltre, nel momento in cui l'accento si sposta dalle coalizioni (con il cemento fortissimo del candidato comune nei collegi elettorali) all'interesse di partito, le alleanze inevitabilmente si allentano. Non si vuole qui entrare nel merito del funzionamento tecnico della legge proporzionale, ma va rilevato che il premio di maggioranza previsto per la coalizione vincente potrebbe essere la dote che favorisce chi ha saputo più efficacemente essere disunito. È un paradosso del premio di maggioranza, ma non il solo. Trascuriamo anche l'asimmetria fra Camera e Senato, e fra il premio su base nazionale per la prima e su base regionale per il secondo, con tutti i possibili effetti distorsivi rilevati con chiarezza da Gustavo Zagrebelsky e da altri. Importa invece rilevare un'ulteriore possibilità: infatti alcuni osservatori, come Giuliano Amato, hanno messo in rilievo che il nuovo metodo elettorale potrebbe facilmente determinare una partizione «tripolare» del sistema politico. In effetti, la formula proporzionale definita dalla nuova legge incorpora naturaliter la possibilità di una coalizione vincente di centro, un blocco centrista che «taglia le ali» e di conseguenza imporrebbe anche la sua eternità al governo del Paese. Come si vede, il principio dell'alternanza politica, che era stato la principale risposta politico-istituzionale alla crisi di Tangentopoli, comincia a farsi più opaco, a presentarsi meno nitido, a confondersi. Di conseguenza le ipotesi trasformistiche riprendono fiato. Si profila un sistema che potrebbe riflettere le fattezze della Prima Repubblica. D'altronde, era stato uno degli spiriti più indipendenti del centrodestra, Bruno Tabacci, a dire la verità «vera», cioè che il sistema bipolare è artificioso perché divide persone che la pensano allo stesso modo, Tabacci e Enrico Letta. Questa osservazione non critica esclusivamente il maggioritario, ma attacca proprio la divisione bipolare fra centrodestra e centrosinistra. E allora qual è la soluzione auspicabile: un bipolarismo depotenziato o la conversione al centro? Se fosse quest'ultima, non s'era detto che ne avevamo avuto abbastanza, della democrazia bloccata, con le sue élite immutabili, con un sistema senza ricambio, con le sue spartizioni, e infine con il suo intreccio di politica e affari? Quindi è ragionevole cercare più banalmente le ragioni della riforma elettorale negli interessi politici di parte. Raccontano gli esperti di gare automobilistiche che nei circuiti americani, nelle prove velocistiche come quelle che si svolgono a Indianapolis, è malvista la possibilità che una monoposto vada in testa e ci rimanga per tutta la gara fino alla bandiera a scacchi. Al gusto americano per la competizione non piace che il divertimento si esaurisca già nei primi giri, che non si possa assistere a sorpassi, sportellate, colpi di scena, incidenti, alternanza al comando. E allora, quando si profila una situazione di bassa competizione, al minimo appiglio (una goccia di pioggia, un piccolo incidente, una modesta perdita d'olio sull'asfalto) si ringrazia la sorte e si manda in pista la safety car: così la velocità viene ridotta, le vetture si raggruppano di nuovo, e all'atto pratico la gara ricomincia da capo. A giudicare da quanto è successo in Parlamento si direbbe che la Casa delle libertà abbia capito la lezione, e la sua sia in effetti una specie di safety reform. Spaventato dalla possibilità di una sconfitta pesante, cioè di un giudizio negativo degli elettori sulla sua prova al governo, Berlusconi ha deciso di mischiare spettacolarmente le carte. Inoltre ha usato l'offerta della proporzionale come una risorsa per rinegoziare i rapporti con gli alleati, e ha avuto successo (in particolare liberandosi del segretario dell'Udc, Marco Follini, la cui strategia liberalmassimalista, intesa a mettere in discussione la leadership della Cdl, è stata sacrificata proprio in seguito all'incasso immediato della legge proporzionale). Ciò che colpisce tuttavia non è la spregiudicatezza di un leader politico, e di un'alleanza, che appaiono letteralmente pronti a tutto, anche a mandare all'aria il sistema, pur di evitare o almeno ridurre una sconfitta elettorale. Ora, la domanda si presenta semplice: è o non è sorprendente che la maggioranza di governo cerchi di modificare la struttura stessa della competizione politica attraverso un'iniziativa di parte? I laudatores di Berlusconi sono troppo prevedibili per fare testo. Sul «Corriere della Sera» del 3 ottobre, un commentatore invece equilibrato come Massimo Franco ha registrato che il centrosinistra ha capito che «il vero obiettivo del ritorno al proporzionale non è la rivincita della Cdl. Semmai il tentativo di azzoppare una vittoria dell'Ulivo, esponendo un futuro governo Prodi al ricatto dei partitini». A leggere bene queste parole, ciò significa che lo scopo principale del centrodestra, in questo autunno di legislatura, è consistito nell'avvelenare i pozzi: ossia «impedire che il centrosinistra riesca a governare». Si può aggiungere che l'approvazione della riforma elettorale ha complicato lo scenario e la dinamica, proprio mentre si stava assistendo a una ridislocazione di alcuni soggetti politici (Nuovo Psi, Partito radicale), offrendo l'allettamento di posizioni «terze», e comunque modificando le prospettive politiche in corso d'opera. In sostanza, secondo questa diagnosi il centrodestra cosparge di mine il terreno della legislatura a venire. Ma prima di accettare un giudizio così esasperato, è necessario rilevare che tutto il dibattito sulla riforma elettorale si è svolto in modo autoreferenziale, senza nessuna concessione neanche retorica all'interesse generale della Repubblica e della società italiana. Non una parola è stata pronunciata sulla stabilità del governo, sull'utilità dell'alternanza, niente sui rischi di tornare alle politiche autolesioniste che nel finale della «Repubblica dei partiti» hanno gonfiato a dismisura l'indebitamento dello Stato. Niente: ciò che conta è il montaliano «calcolo dei dadi», vale a dire un gioco astratto con cui si cerca di manipolare con la tecnica l'espressione del giudizio politico. Insomma, abbiamo assistito a una manovra «nichilista». Una pura partita doppia di interesse partisan che è stata presentata come una soluzione razionale per il sistema politico nel suo insieme. Mentre veniva realizzato questo straordinario Blitzkrieg, non si sono avuti segnali significativi che continuassero a esistere nella Casa delle libertà esponenti che avessero conservato una serena coscienza maggioritaria. Di per sé, l'unanimità in politica è quasi sempre sospetta; ma che siano diventati proporzionalisti in unanime sintonia tutti coloro che si erano battuti con più ardore per un'applicazione severa del sistema uninominale, che siano diventati così rispettosi delle identità parziali coloro che avevano sostenuto che la politica ormai si sarebbe fatta con lo schema sommario «o di qua o di là», e anche «votando contro» se uno schieramento non convinceva del tutto, insomma che siano diventati moderati e proporzionalisti tutti i fondamentalisti del maggioritario che allignavano nel centrodestra fa un effetto ben curioso. Si potrebbe dire che questo è un effetto singolare quasi quanto la scomparsa, nel centrodestra medesimo, di tutta la componente laica, liquidata o ridotta al silenzio, comunque scomparsa dalla scena pubblica, in seguito alla prevalenza dei cosiddetti «atei devoti»; ma rilievi simili sarebbero più giustificati se non fosse che i primi colpi alla logica del maggioritario furono assestati da un partito di centrosinistra, la Margherita, allorché nella primavera scorsa Francesco Rutelli rinunciò alla lista «Uniti nell'Ulivo» per inseguire dal centro, in una logica anch'essa tutta proporzionalista, gli elettori in fuga dalla Casa delle libertà. L'aspetto nichilista di questa manovra autodifensiva della Casa delle libertà si percepisce tanto meglio se si valuta la nuova legge elettorale ponendola sullo sfondo della riforma costituzionale in corso d'approvazione alle Camere. «A questo punto - ha scritto il costituzionalista Andrea Manzella - un ordinario buon senso avrebbe consigliato di fermarsi. Per "incrociare" il già maturo progetto costituzionale con il progetto elettorale: per farne una lettura comparata, per verificarne le coerenze, per eliminarne le contraddizioni. Niente. Si prosegue su piani separati come se una intima logica di rappresentanza di governo non obbligasse a legare i due progetti». La conclusione sarebbe che a un sistema proporzionale, corretto da un sistema distorsivo se non cervellotico di soglie, e da un premio di maggioranza al cui confronto quello della «legge truffa» del 1953 (che prevedeva il premio soltanto conseguendo il 50 per cento dei voti) era perfettamente ragionevole e intriso di buona sostanza democratica, corrisponderebbe nel disegno costituzionale una forma di governo del primo ministro, a cui sarebbero affidati poteri esclusivi, dalla sostituzione dei ministri alla facoltà di sciogliere le Camere (pur se con vincoli e complicazioni che la dicono lunga sull'impossibilità dei costituzionalisti di essere semplici). Sarebbe difficile sfuggire alla tentazione di definire questo doppio sistema un'autocrazia sulla palude parlamentare, se non fosse che la riforma della Costituzione è per ora un cambiamento sospeso, nel senso che occorrerà attendere il responso del referendum confermativo. Che nelle previsioni di quasi tutti, compresi molti esponenti del centrodestra, annullerà la riforma costituzionale, liquidando ad un tempo sia la devolution sia i rischi di dittatura del premier. Con la prevedibile conseguenza che da quel momento in poi ogni spinta riformatrice, anche la più moderna e coerente, verrà quindi annichilita. Cosicché resterà soltanto la legge elettorale proporzionale: la transizione politica italiana, cosiddetta infinita, cosiddetta incompiuta, troverà il suo compimento con il puro e semplice ritorno al passato. Non andrebbe tuttavia dimenticato che l'ondata referendaria dei primi anni Novanta ebbe, fra l'altro, il merito di trattenere dentro il circuito della politica i cittadini, proprio mentre i partiti erano crollati a zero quanto a legittimazione. A sua volta anche il sistema maggioritario ha avuto una funzione importante nel fissare l'identificazione fra cittadini-elettori e sistema della rappresentanza. Non sfugge a nessuno che oggi i partiti, quale più quale meno, hanno perso iscritti, radicamento nella società, capacità di mobilitazione. Sono controllati da gruppi ristretti, che anche sul piano locale hanno visto allentare il rapporto con l'opinione pubblica e la vita associata. Per quanto controllate dal centro, le candidature nel sistema maggioritario promettevano un legame stretto fra gli eletti e gli elettori. Non sempre questa connessione si è verificata, ma in una situazione che ha visto via via sfumare la capacità dei partiti di fare da tramite fra centro e periferia, gli eletti nei collegi uninominali sono stati di fatto un tramite rilevante. Ora, la riforma della Casa delle libertà taglia via anche questa connessione residua. Con l'aggiunta, anche questa da sottolineare, che le candidature verranno elencate in liste bloccate, cioè decise a priori dalle centrali di partito. Si voteranno candidature al buio, senza nemmeno la possibilità di guardare la fotografia dei candidati. Verrebbe voglia di ripescare la terminologia talora sbrigativa che si usava durante lo choc politico del 1992-93: anche oggi, «partitocrazia» è l'unico termine che si può usare in proposito (al massimo, si potrebbe usare la locuzione «partitocrazia senza partiti», considerata la debolezza organizzativa e rappresentativa delle forze politiche attuali). Sarebbe utile aggiungere ancora qualche riflessione sull'opportunità, «morale » politicamente o convenzionalmente rispettosa del fair play, di introdurre nel sistema politico riforme esplicitamente partigiane. È chiaro che ciò innesca la miccia di un conflitto continuo. Ma non si era riconosciuto che l'alternanza politica non è e non può essere uno choc politico permanente? Non conviene a nessuno sfidare la possibilità che sui temi fondamentali della convivenza e dello sviluppo (Costituzione, sistema della giustizia, scuola e università, oltre ovviamente alle leggi tecniche di funzionamento della democrazia) ogni schieramento pratichi vendette dopo la vittoria elettorale: la carta costituzionale non fa parte dello spoils system. Occorre che maggioranza e opposizione trovino forme di confronto, di discussione, anche di reciproco condizionamento e infine di compromesso. Non si dica che si tratterebbe di tornare a una condizione «consociativa». È semplice senso comune. Perché se cambia la maggioranza, se le elezioni le vincono gli altri, se l'opposizione va al governo, che cosa si deve fare, accettare per inerzia, per quieto vivere, un'eredità che si giudica nefasta o passare alla decostruzione della politica precedente? Una concezione del genere si può sottoscrivere soltanto se si considera il confronto fra schieramenti come una guerra civile sublimata. La democrazia come un panorama di macerie delle riforme precedenti. La vita collettiva una fibrillazione continua, con l'attività di governo come una pratica da considerare sempre con inquietudine, guardandosi le spalle. Ma dove finisce in questo modo la certezza, o almeno la prevedibilità, delle condizioni di sistema? Finisce male, altroché. Tanto che non ci si dovrà poi lamentare se ne risentirà il funzionamento della società civile, e allora se di conseguenza le imprese non investiranno, i consumatori non consumeranno, i risparmiatori tesaurizzeranno, se insomma si verificheranno tutte quelle condizioni pessime che sono all'origine della stagnazione e dell'assenza di sviluppo. Tanto più che i cittadini italiani avevano assimilato con spontaneità il sistema maggioritario. Non avevano avuto troppo da ridire sulla personalizzazione della politica, avevano valorizzato il confronto personale nelle elezioni dirette, si erano sottoposti senza fastidio alla tortura intellettuale di sei o sette modalità diverse nell'espressione del voto. Dal 1994 in avanti hanno accettato il gioco in cui c'è qualcuno che vince e qualcuno che perde, moderato nelle elezioni politiche soltanto dal residuo della quota proporzionale e dallo scorporo. Hanno fatto i conti con il faccia a faccia democratico, che nei momenti di scontro più aspro può dare luogo a ideologizzazioni estreme. Nel corso del tempo hanno comunque mostrato di considerare essenziale la presenza di un discrimine netto fra destra e sinistra: tanto che il flusso di voti fra destra e sinistra, verificatosi per la prima volta in modo rilevabile e politicamente interessante nelle elezioni amministrative del 2004, è stato trattato come un fenomeno politico che segnalava nitidamente un cambiamento di tendenza. Bipolarismo fallimentare? Si può sostenere con altrettante buone ragioni che gli italiani hanno trovato negli schieramenti principali due «case comuni» in cui rifugiarsi politicamente, dopo la crisi penosa dei primi anni Novanta. Adesso si chiederebbe loro di accasarsi nuovamente nei partiti. Ma i partiti non esistono più, e se questa sentenza può apparire tranchante la si corregga con parole più temperate, ma la sostanza non cambia. L'evidenza è che esistono circoli oligarchici che prendono decisioni in modo autoriferito, ai quali si accompagnano ristrette organizzazioni di militanti semiprofessionali sul territorio, prontissime a recepire gli ordini provenienti dalle centrali politiche. All'acme della «postpolitica», destrutturata in partiti fragilissimi nella struttura e nella cultura, si abbina la confisca della volontà popolare. Questo assetto dirigistico della partecipazione politica scoraggia ogni riferimento alle identità e alle tradizioni storiche. Potremmo dire che ci sono sensibilità diffuse nell'opinione pubblica, che si incrociano attraverso vari meccanismi con concrezioni politiche organizzate. Quanto poi queste strutture organizzative siano in grado di percepire e raccogliere dei sentimenti collettivi, dei bisogni, delle pulsioni popolari, è un mistero. Se guardiamo al risultato delle elezioni primarie dell'Unione, bisognerebbe rispondere «nulla», dato che non uno fra i membri dell'establishment politico del centrosinistra aveva mostrato di prevedere o di intuire l'inopinato spettacolo di partecipazione che si è avuto domenica 16 ottobre. E allora. Si conclude un ciclo che si era avviato a fatica e che tuttavia si stava lentamente consolidando. Adesso entriamo in una fase nuova, dai contorni indefiniti. Dopo la Repubblica dell'immobilità politica, abbiamo avuto la Repubblica dell'alternanza; adesso sarà la volta di una Repubblica in cui alternanza e trasformismo avranno lo stesso valore, saranno entrambi giocabili sul tappeto della politica e nella competizione elettorale. Forse nel giro di poche stagioni l'acquisizione del bipolarismo sarà semplicemente un ricordo. Ma senza aspettare il passare del tempo, l'impressione nettissima è che sia avvenuto un esproprio. E il fatto che i cittadini non si siano ribellati a questa sottrazione effettuata con destrezza è il segno che di fronte alla terza Repubblica, la Repubblica indistinta, ci si comporta ormai con rassegnazione. Al momento in cui questo testo va in stampa l'iter della legge si è complicato, in seguito ai rilievi emersi in particolare sulla formula elettorale prevista per il Senato. Le osservazioni di Gustavo Zagrebelsky hanno messo in luce aspetti di possibile incostituzionalità; ma l'elemento più rilevante è che il sistema elettorale per il Senato, con premi di maggioranza regionali, può non consentire la formazione di maggioranze a livello nazionale e rendere incerta la governabilità. Ma in ogni caso l'eventuale rallentamento nell'approvazione della legge non pregiudica la riflessione su una iniziativa politica che rappresenta una vistosa anomalia e mette a repentaglio l'intero processo di razionalizzazione della politica e delle istituzioni italiane.
Il Mulino, 05-06 2005
Crisi e ricostruzione della destra italiana
Talvolta i cambiamenti politici si verificano con una rapidità imprevista. Ma di solito l'impossibilità oggettiva di prevedere un fenomeno politico o un risultato elettorale, nonché le sue ripercussioni politiche immediate e di mediolungo periodo, dipende in larga misura dal non avere messo a fuoco il profilo reale della condizione che si è verificata. Sotto questa luce, è probabile che «l'evento» a suo modo sorprendente, o addirittura secondo qualcuno impressionante, rappresentato dalle elezioni regionali della primavera 2005 sia spiegabile attraverso alcune argomentazioni che sottraggono l'evento stesso alla categoria delle «catastrofi», intese nel senso di un fenomeno che designa una discontinuità radicale e improvvisa. È più probabile che quella discontinuità presunta configuri invece un addensamento di fattori, determinatosi in un periodo prolungato; e che l'aspetto in apparenza dirompente dell'esito elettorale riassuma a sua volta una sequenza lunga di fenomeni sociali e politici delineatisi a partire dal 2001, e in particolare dal momento della vistosa affermazione elettorale della Casa delle libertà ai danni del centrosinistra. Da allora si sono svolte tre tornate amministrative, che hanno fatto osservare altrettante battute d'arresto della coalizione di centrodestra, e una consultazione generale a esplicita caratterizzazione politica, cioè le elezioni europee del 2004, che hanno messo in rilievo una seria crisi della coalizione berlusconiana, resa più evidente dall'arretramento nettissimo di Forza Italia, il partito del capo al momento indiscusso della Casa delle libertà. Tuttavia in ognuno di quegli appuntamenti con le urne non si era potuta trarre la conseguenza di una nitida inversione di tendenza nella politica italiana. Anche nelle elezioni europee, infatti, il confronto fra le coalizioni si era risolto in un pareggio sostanziale, che di per sé prospettava un chiaro recupero effettivo del centrosinistra rispetto ai risultati delle elezioni politiche, ma non suonava ancora come una sconfessione popolare del governo di centrodestra. Tuttavia lungo i quattro anni dell'esecutivo presieduto da Silvio Berlusconi si sono accumulate nella società italiana ragioni esplicite o silenziose di insoddisfazione verso la Casa delle libertà. È vero che un'analisi fredda e specialistica dei dati e dei flussi tende a ridimensionare il risultato finale, a scomporlo, a spiegarlo attraverso dinamiche parziali che attenuano l'effetto vistoso delle 12 regioni a 2 conquistate dal centrosinistra. Ma oltre alla descrizione «micro» c'è un risultato «macro», che di per sé può funzionare da ulteriore acceleratore della tendenza politica. Soprattutto sotto questa luce, le elezioni regionali sembrano avere riassunto in un solo pronunciamento tutte le ragioni, finora inespresse, o mai espresse compiutamente, che rappresentano un giudizio negativo verso il governo. Ci sono tante Italie. Fra queste c'è l'Italia colorata di rosa dei telegiornali, in cui la realtà è generalmente ammorbidita, abbellita, sfumata. Ma c'è anche un'Italia dove invece le cose sono le cose, né più né meno, non i riflessi pastello della realtà auspicata. Così, in un Paese che sembrava lievitare vagamente attonito nel mondo dei sogni, il 3 e 4 aprile, cioè nei due giorni in cui si sono tenute in 13 regioni le elezioni regionali, sono venuti giù il fondale, il palco e il sipario dell'operetta. Si può dire senza rischiare eccessi polemici che la fiction si è interrotta. L'«irreality show» politico dell'Italia contemporanea (la definizione è notoriamente di Ilvo Diamanti) ha chiuso bottega all'improvviso, e i partecipanti hanno cominciato a guardarsi intorno smarriti, sorpresi, comunque attoniti come dopo l'arrivo di un temporale fuori stagione. Gli effetti sono stati subito vistosi, come succede quando si verifica nell'evidenza della realtà un avvenimento a lungo augurato o temuto. Come conseguenza primaria, nel giro di pochissime ore la figura di Silvio Berlusconi ha subito una mutazione totale, trasformandosi da deus ex machina dell'alleanza di centrodestra, e anche da cardine dell'intero sistema politico bipolare, in problema politico centrale della Casa delle libertà. Al punto che nelle ore e nelle settimane successive al voto, il suo ispiratore più intelligentemente oltranzista, il direttore del «Foglio» Giuliano Ferrara, gli ha rivolto ripetutamente discorsi inediti: caro Cavaliere, lei ha avuto un ruolo essenziale nel bloccare la «deriva» giudiziaria, e nell'imporre il canone dell'alternanza; adesso è il caso di costruire una strategia d'uscita, traumatica ma non irrealistica, consistente nel giocare la partita delle elezioni politiche a breve scadenza, nella serena accettazione della probabilità di perderle, e nel frattempo preparando razionalmente la propria successione. Questa svolta della politica italiana è risultata spettacolare in sé, ma tutt'altro che immotivata, tutt'altro che gratuita. La prima impressione è che nell'anno 2005, prendendo al volo l'occasione offerta dalle elezioni regionali, la società italiana abbia deciso di comunicare, al leader e ai dirigenti della Casa delle libertà, che dopo avere a lungo creduto al sogno e alle sue sequenze principali, vale a dire al presidente operaio, al «meno tasse per tutti», al contratto con gli italiani firmato alla presenza di Bruno Vespa, alla stilografica, al cerone, al ritocco, al trapianto follicolare, al riformismo avventuroso e al miracolismo berlusconiano, era l'ora di tornare alla sostanza vera e irriducibile delle cose. Anche se si trattasse soltanto di un cambiamento di clima politico, o di mood sociale, non è un cambiamento da poco. Prima c'era quell'Italia che ammirava la spregiudicatezza mediatica e l'immagine esteriore di Silvio Berlusconi: il lifting «leggero», la bandana sotto il sole di Sardegna, i capelli che ricrescono, e perfino «faccio tutto quello che facevo a trent'anni, è concessa anche l'interpretazione maliziosa». Adesso la realtà, che solitamente è assai più sgradevole dei sogni, riprende il sopravvento. Finisce, o rimane stordito e inerte, il populismo elettronico, svapora l'importanza sovrana del look, sfuma il fascino estremista dell'ideologia «moderata». Dopo quattro anni il Paese si ritrova nella dura realtà fenomenica. Dentro la durezza delle cose. A confronto con le azioni politiche e i loro risultati. Non è chiaro dove e quando sia avvenuta la mutazione climatica. Ad avere un ruolo principale sono state probabilmente le ragioni economiche, dal momento che dal 2001 a oggi il Paese ha vissuto nell'attesa continuamente frustrata della ripresa. Tuttavia ci sono anche aspetti non quantificabili, che hanno valore di sintomo: aspetti immateriali, che fanno da sintomo a un cambiamento in profondità, a un lento, e alla fine spettacolare, cambiamento d'umore. Sotto questa luce, un indizio può essere considerato l'esito ottenuto da Alternativa sociale, il partito di estrema destra fondato da Alessandra Mussolini dopo la rottura con Alleanza nazionale (in seguito alle dichiarazioni di Gianfranco Fini in Israele circa il fascismo delle leggi razziali come «male assoluto »): nonostante un'esposizione pubblica fuori misura, determinata dal dramma multimediale della bocciatura delle sue liste nel Lazio, delle previsioni che le assegnavano un voto potenziale fino al 9 per cento, e a dispetto del suo efficace populismo incline al trash, la lista della Mussolini e dei suoi alleati di estrema destra ha incassato percentuali irrilevanti. In base ai risultati ottenuti, non ha potuto nemmeno rivendicare il merito della sconfitta di Francesco Storace. Il che significa che la visibilità televisiva e le polemiche strillate sopra le righe, così come l'alone di popolarità suffragato dal sostegno di Sophia Loren e altri parenti, non si trasformano necessariamente in consenso politico. Va da sé che tutto questo ha il sapore di un suggestivo ritorno alla razionalità. La seconda sorpresa è stata la sostanziale smentita della tesi sulla disattenzione dell'elettorato in seguito alla saturazione dell'informazione per l'agonia e la morte di Giovanni Paolo II. Benché le televisioni e i giornali siano stati inflazionati dall'effetto-papa, non c'è stata nessuna diserzione dalle urne. «Un sintomo di salute della nostra democrazia, qualcosa di rassicurante per chi ce l'ha a cuore», ha dichiarato Arturo Parisi nella notte del grande terremoto elettorale, a proposito di una partecipazione più elevata del prevedibile, e della smentita riguardante la «distrazione» dell'opinione pubblica. Si può aggiungere, per inciso, che la tenuta, anzi la leggera crescita, della Lega Nord sembra un altro tassello del ritorno alla realtà. Si era infatti sempre pensato che la Lega fosse una forza residuale, destinata prima o poi a essere fagocitata da Forza Italia. E invece sembra ormai chiaro che il Carroccio esiste in quanto entità politica autosufficiente, capace di resistere anche alla malattia che l'ha privata del suo capo. Tutti questi elementi sembrano confermare indirettamente che il risultato delle elezioni regionali, che in questa tornata ha lasciato alla Casa delle libertà soltanto il Lombardo-Veneto, covava da tempo come un fuoco sotto la cenere, o forse come una specie di ruggine sotto la vernice berlusconiana, e attendeva soltanto l'occasione per esprimersi e provocare i risultati dovuti, un falò delle vanità o il cedimento strutturale dell'impianto del centrodestra. Si è avuta insomma l'impressione immediata di un ritorno nella realtà aspra e difficile dell'Italia contemporanea. Ossia nell'Italia della metamorfosi industriale, delle tensioni finanziarie, dei redditi contesi fra ceti in lotta. Da questo punto di vista, l'improvviso bagno di realtà è stato anche un monito secco al centrosinistra: perché si dovrebbe capire facilmente che i voti ottenuti, e il sorpasso percentuale sulla Casa delle libertà, dissolvevano anche tutte le dicerie, le leggende, le mitologie, i pettegolezzi sull'Unione e la sua leadership. (Poi, come si è visto, c'è sempre la possibilità del suicidio, tecnica politica in cui il centrosinistra continua a rivelare doti inesauribili: ma questo è un altro discorso.) Eppure il cambio di clima politico non dovrebbe restare senza conseguenze. Innanzitutto, sarebbe auspicabile il ritorno alla realtà anche di tutti coloro, numerosi soprattutto nell'establishment economico, che hanno sempre mantenuto un'equidistanza altezzosa rispetto allo schema bipolare. Se il bipolarismo in una democrazia matura è uno schema politico che implica ragionamenti semplici, fino alla semplificazione, le conseguenze sono più o meno automatiche. La Casa delle libertà non funziona? E allora si prova l'Unione, non si va alla ricerca di una partita «terzista» o neocentrista giocata con carte immaginarie. Se dopo quattro anni di governo del centrodestra si chiede ad ogni pie' sospinto, come fa il presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, di «mettere l'industria al centro dell'agenda», ciò vuol dire più volgarmente che finora Berlusconi si è fatto gli affari suoi, ha sistemato quasi tutte le pendenze giudiziarie, ha legificato a proprio uso e consumo con la legge Gasparri, ma dell'economia reale si è disinteressato largamente. Sarebbe anche interessante chiedersi come mai Berlusconi non abbia intuito, o abbia intuito solo in parte, il rovescio che stava per capitargli. Perché abbia tentato, con sempre maggiore fiacchezza, la carta dell'anticomunismo, l'ombra di «terrore, miseria, morte» se vince il Male, cioè la sinistra, con il risultato che in Puglia un comunista gay ha sconfitto un giovane clone berlusconiano. È vero che alla fine aveva quasi ammesso che per la Cdl la prova regionale sarebbe stata difficile, «perché l'economia non va bene». Ma evidentemente anche il premier era prigioniero di Mirabilandia, del mondo fantastico e pieno di balocchi illustrato ogni sera dalle soap opera dei tg di regime. Accecato dal proprio costrutto comunicativo. Incapace di rilevare le sacche di rancore che si sono create in questi anni nel corpo della nostra società (visibili talvolta con le rivolte dei pendolari per i treni inefficienti, con le drammatiche disfunzioni invernali sulle autostrade del Sud, con l'impoverimento del lavoro dipendente, con l'insofferenza dei ceti depredati dopo essersi rivolti fiduciosamente alla sua esperienza di imprenditore di successo per ottenere qualche briciola del banchetto). Perché se si accetta la logica di Berlusconi, la sconfitta alle regionali è inconcepibile. Come può maturare una batosta del genere mentre antenne e satelliti dipingono l'Italia come il Paese del sogno e la caduta dei consumi viene attribuita al fatto che gli italiani si sono messi a dieta? Com'è possibile che la realtà possa permettersi di smentire l'immaginazione, quando la fanta sia fiorisce in un giardino mediatico tenuto sotto ferreo controllo proprietario o politico? Sempre sul piano degli indizi, un piccolo ma significativo segnale, a volerlo cogliere, era stato anche il fiasco piuttosto deprimente della manifestazione fiorentina organizzata dall'ex commissario della Croce Rossa, Maurizio Scelli, con i giovani del nuovo movimento artificiale «Italia di nuovo». Altro segnale di sfasatura, la surreale serata di Berlusconi da Bruno Vespa, il giovedì prima delle elezioni, con le scritte in sovraimpressione che segnalavano «la trasmissione è registrata»: sicché mentre su tutti i teleschermi del mondo cominciava l'agonia di Karol Wojtyla, Berlusconi raccontava barzellette, veniva mostrato proprio a Firenze chez Scelli, mentre parlava sul palco con un trentenne corpulento e calvo, a cui impartiva consigli tricologici, alludendo alla buona riuscita del proprio trapianto ferrarese. Nella delusione del momento, il presidente del consiglio ha incolpato gli alleati, il «subgoverno» costituito dai politicanti Fini e Follini, rifugiandosi nell'amara constatazione che soltanto Umberto Bossi e la Lega si sono dimostrati amici fedeli. Già, ma il cosiddetto Asse del Nord è un'illusione, politica, fomentata inutilmente da Giulio Tremonti. Tanto più che la prima autentica irruzione di realtà nel Paese di Lucignolo fu segnalata proprio dallo schianto con cui cadde il ministro dell'Economia, «il nostro uomo migliore», il grande attaccante dalle soluzioni immaginose come la Tremonti-bis, il capo delle partite Iva, il genio della finanza creativa con cui suppliva alle ripetute disillusioni sulla crescita e alle smentite fattuali dei suoi Dpef. L'illusorietà politica dell'Asse del Nord è certificata dai suoi effetti politici e istituzionali. Per restare sottobraccio con la Lega, Berlusconi ha dovuto farsi in quattro per approvare una riforma costituzionale rudimentale, che non dispiace soltanto a Giovanni Sartori, a Domenico Fisichella, ai giuristi progressisti dell'associazione Astrid, ai «comunisti», ai passatisti, ai dossettiani: dispiace a tutti, compresi i suoi alleati dell'Udc e di An, che finora hanno trangugiato, ma domani, visto il disastro, anzi «l'ecatombe», secondo il commento dell'abbattuto Francesco Storace, decideranno che la riforma va messa nel ripostiglio della Casa delle libertà: anche perché si è visto che nel Centro Sud la devolution è diventata uno strumento di propaganda politica in mano agli avversari. Cosicché si è trattato davvero di un referendum: su Berlusconi e sul berlusconismo. Hanno votato «contro» molti di coloro che si erano lasciati prendere dall'euforia economica annunciata dal programma cartellonistico del 2001. E che magari negli ultimi mesi erano stati ampiamente delusi dalla riforma delle aliquote fiscali, cioè dalla grande «ricetta» del capo di Forza Italia, ritrovandosi pochi spiccioli in tasca dopo annunci portentosi e dopo avere subito l'incontrollata inflazione post-euro. In sostanza, è bastata una serata per fare transitare il leader forzista dal miracolo alla piatta realtà, dall'euroscetticismo trionfalistico dello strappo al Patto di stabilità ai richiami pesantissimi del commissario europeo Joaquín Almunia: insomma, dal sogno al disagio del risveglio, gusto amaro in bocca, irritazione con amici e avversari. Alle prese con le modeste tristezze quotidiane dell'Italia vera. E allora che cosa fa un capo populista quando gli alisei girano male? Procede a tentoni come Berlusconi nei giorni seguenti la sconfitta elettorale. Cerca di inventarsi la tattica momento per momento. Si presenta in televisione «umanizzandosi », rischiando le ironie e le risatine di Rutelli. Prima evita la crisi con un'acrobazia circense, lasciando storditi gli alleati, An e Udc, a cui aveva promesso seppure a malincuore il «nuovo inizio», cioè un nuovo governo; poi si lascia avvolgere dalle spire della crisi stessa; infine si ritrova nel gioco, per lui mortificante, delle consultazioni, degli incontri al Quirinale, delle trattative con gli alleati riottosi. Tutto troppo complicato, faticoso, frustrante, per un capo politico abituato a far passare le sue decisioni come linea politica indiscutibile. Sono trascorsi solo pochi mesi da quando aveva sciolto con un colpo di volontà il velo moderato con cui gli alleati lo avevano (quasi) convinto ad abbandonare la riforma fiscale con il taglio delle aliquote dell'Irpef per privilegiare il sostegno alle imprese. Era bastata una decisione personale, un'alzata d'ingegno per tornare al punto di partenza, per riprendere il filo della sua politica economica in versione supply side, per riaccendere l'ottimismo secondo cui, tagliate le tasse, ripartirebbero festosamente i consumi. Invece, nella breve comunicazione rilasciata al Senato con cui accettava finalmente l'apertura della crisi di governo, si era lamentato platealmente delle pastoie costituzionali, pensando al momento liberatorio in cui la riforma costituzionale della Casa delle libertà consegnerà al premier i poteri del dominus. Ma per il momento, dopo avere accettato con riserva, secondo la prassi, il reincarico del Quirinale, Berlusconi ha dovuto sottomettersi alle cerimonie partitiche tradizionali, agli incontri per la valutazione degli equilibri politici nel governo, al calcolo del peso dei ministeri, alla discussione dei nomi da aggiornare, da cancellare, da ripescare. Con il risultato che la nascita del nuovo governo non è stata così indolore come l'ottimismo berlusconiano voleva prevedere e come gli alleati gli avevano promesso. In primo luogo, il ritiro da Palazzo Chigi del segretario dell'Udc, Marco Follini, è stato il sintomo chiaro di uno smarcamento politico che ha immediatamente qualificato il Berlusconi-bis come un governo sotto osservazione. In secondo luogo, non era per nulla facile procedere al riequilibrio (esplicitamente in chiave antileghista) che Fini e Follini reclamavano dal premier. Nonostante tutte le rassicurazioni, le lettere di intenti, le garanzie offerte, le promesse pubbliche, gli incontri si sono susseguiti freneticamente, le insoddisfazioni si sono diffuse, gli elenchi dei ministri sono cambiati di ora in ora. Anzi, su questo terreno si è assistito a qualche conseguenza del tutto paradossale. Perché la semplice osservazione della composizione del governo basta a comprendere che Berlusconi non ha proceduto a una mediazione politica, e neppure alla ricerca della sintesi che gli veniva richiesta. Da un lato, si è limitato piuttosto a spartire i ministeri, liquidando senza troppo chiasso qualche ministro tecnico, in modo da fare spazio a una personalità forte di An come quella di Francesco Storace, caduto dalla condizione di asso politico a vittima dell'ondata di centrosinistra sollevatasi alle regionali, e ad ammiccare al Mezzogiorno, creando un ministero specifico. Ma, da un altro lato, si è capito che questo Risiko, che ai vecchi tempi del pentapartito si chiamava più modestamente gioco dei quattro cantoni, non è risolvibile con l'algebra del vecchio manuale Cencelli. Perché oggi il problema di fondo della Casa delle libertà non è affatto un problema di equa suddivisione delle quote di partito. Si trattasse soltanto di trovare un metodo per la lottizzazione, Berlusconi non avrebbe incontrato tutte le difficoltà che ha incontrato. Anche il ritorno nella compagine di governo di una personalità forte e controversa come quella di Giulio Tremonti, di cui un anno fa Udc e An reclamarono e ottennero la testa, sarebbe soltanto un tassello della spartizione complessiva. Per qualche verso, il ritorno di Tremonti è stato la vera sorpresa della crisi e della soluzione della crisi. Crisi che comincia con l'obiettivo esplicito dei centristi e di An di ridimensionare Berlusconi, e di mettere contrappesi all'egemonia dell'asse nordista composto da Lega e Forza Italia, e si conclude con la nomina a vicepresidente del Consiglio dell'ideologo del «forzaleghismo». Non va dimenticato che la crisi politica del centrodestra era divenuta evidente proprio nel luglio 2004, allorché sotto la pressione di An e dell'Udc Tremonti aveva dovuto accettare di dimettersi, dopo che Gianfranco Fini lo aveva addirittura accusato di avere «truccato» i conti pubblici da presentare a Bruxelles. Quel momento delicatissimo aveva sanzionato il fallimento del governo di centrodestra. Era crollata in quel momento l'intera incastellatura che Tremonti aveva garantito con la sua competenza specialistica, con quella capacità inventiva che poco più di dieci anni fa, all'epoca del primo governo Berlusconi, il rigorismo di Beniamino Andreatta aveva associato alla finanza by magic. È troppo riduttivo attribuire quella caduta a incompatibilità di carattere, o alla crudeltà mentale del ministro verso i colleghi, alla mancanza di «collegialità», o ad altre espressioni retoriche e a psicologismi. La sommaria, e tutto sommato ingenerosa, liquidazione di Tremonti nel luglio 2004 dimostrava che la coalizione di centrodestra era affetta da una frattura autenticamente, profondamente politica: vale a dire la spaccatura fra le due subcoalizioni costituite da Forza Italia e la Lega da una parte, e An-Udc dall'altra. Si tratta di una contraddizione che risale agli albori dell'impresa politica berlusconiana, e che non è mai stata portata a una sintesi. Nel 1994 Berlusconi e i suoi consiglieri avevano risolto questa contraddizione inventando due coalizioni, il Polo delle libertà e il Polo del buongoverno, ripartite elettoralmente fra Nord e Sud e congiunte da una doppia desistenza. Erano i tempi in cui Roberto Maroni poteva sostenere in perfetta buona fede che l'ingresso della Lega nell'alleanza con Forza Italia era stato concepito in chiave «antifascista». Qualche tempo prima che cominciasse la lunghissima «verifica» che sarebbe sfociata nella buonuscita di Tremonti, il moderato Follini si rivolgeva sconsolato a Berlusconi: «Silvio, non puoi pensare di affrontare il problema Bossi con una cena a settimana». Già, il premier era infastidito dal pressing del capo del Carroccio, dal suo marcamento stretto sulla devolution, e non concepiva altro modo di controllarlo se non concedendogli tutto, con la liberalità annoiata di chi non sopporta i discorsi strategici o politicisti tipici di Bossi. Solo che in questo modo, commentava Follini, «si sposta tutto l'equilibrio della Casa delle libertà». Anche queste erano sofisticherie da politicanti, secondo Berlusconi. Come risultato, ne è venuto che è in avanzato stato di approvazione una nuova Costituzione, fortemente condizionata dalla volontà leghista; e che i moderati del centrodestra sono rimasti prigionieri dell'Asse del Nord, praticamente costretti a firmare una nuova legge fondamentale che contraddice il loro pensiero e la loro cultura politica. Le ispirazioni culturali in attrito non sono mai state portate a sintesi, così come non sono stati mediati gli interessi di cui le due componenti del centrodestra erano portatrici. Così il conflitto, connaturato alla Casa delle libertà, fra la componente federal-liberista e la componente nazional-centralista non è mai stato risolto. Nel momento della sconfitta elettorale, e del ridimensionamento brusco se non brutale del potere e del carisma berlusconiano, questa frattura politica e culturale tra le due componenti è riemersa con forza. Sicché in queste condizioni il Berlusconi «doroteizzato» dal desiderio di concludere la legislatura a qualsiasi costo non ha trovato altra soluzione se non istituzionalizzare il conflitto interno, incorporandolo nel governo. Comunque vada, il cleavage è insanabile. Se si considera il cosiddetto programma di fine legislatura, steso in tutta fretta dopo la sconfitta e descritto dallo stesso Berlusconi in termini di «rilancio dell'economia e delle imprese, difesa del potere di acquisto delle famiglie, creazione di posti di lavoro e impegno per il Sud», ci vuole poco ad accorgersi che esso costituisce una netta inversione di rotta rispetto al programma liberal-leghista del 2001 e della successiva azione di governo, nonché una resa evidente alle ragioni politico-elettorali dell'Udc e di An. Naturalmente Berlusconi ha le doti, anche di autoconvincimento, per presentare un programma che non condivide, simboleggiato in sintesi dai tagli all'Irap anziché dall'ulteriore colpo di scure sull'Irpef. Tuttavia il livello di credibilità di un governo che rovescia la propria impostazione in politica economica non può che essere implicitamente ridotto, anche se a Berlusconi non manca la capacità di raccontare che la Casa delle libertà completerà la legislatura realizzando in sei mesi ciò che non ha realizzato in quattro anni. Ha già cominciato ad argomentare tutto questo dando la colpa all'Europa, alla «vecchia» Costituzione, alla sinistra e all'euro sbagliato «da Prodi e Visco» (dimenticandosi del ruolo decisivo dovuto a Carlo Azeglio Ciampi e alla sua credibilità europea), e cercherà di realizzare un programma elettoralistico tenendo insieme la retorica euroscettica di Tremonti e la lealtà europeista di Follini, e l'impasto approssimativo della devolution con il premierato. Ma alla fine anche Berlusconi potrebbe rendersi conto che il fallimento del suo governo non è un prodotto del destino, o della perfidia della politica, ma l'effetto di una composizione mancata, cioè di una destra rimasta vittima della propria schizofrenia. Ha rifatto il governo, e non era detto che ci dovesse riuscire. Ha anche lanciato l'idea di un diverso formato della Casa delle libertà, dichiarando il progetto del partito unico. Ma il problema non è mettere su un esecutivo, o trovare un espediente che rilanci la sua alleanza, magari creando piccoli partiti locali e clientelari sulla scia di ciò che è avvenuto nelle comunali di Catania. Il compito vero consiste, alla lettera, nel rifare la destra. E questa non è un'impresa che si fa in un finale di partita. Investe un progetto complessivo, la definizione di una cultura, la creazione di una classe dirigente. Implica una risorsa preziosa e scarsa, il tempo. Richiede la capacità di guardare oltre la conquista del potere, oltre gli slogan come l'ultimo, «comunisti non c'è scampo, Berlusconi è sceso in campo», e di qualificare una leadership che sappia sintetizzare un progetto. Probabilmente, richiede anche la fine dell'emergenza politica e culturale rappresentata dalla leadership di Silvio Berlusconi.
Il Mulino, 11-12 2004
La fatica del centrosinistra
Il centrosinistra contemporaneo, chiamiamolo così per distinguerlo dal centrosinistra «storico», ossia quello di Moro, Nenni e Fanfani, è nato agli inizi del 1995, un po' per caso e un po' grazie a un'invenzione della fantasia politica di Beniamino Andreatta, che con l'indicazione di Romano Prodi come possibile leader dello schieramento alternativo al Polo delle libertà intendeva bloccare la deriva a destra impressa da Rocco Buttiglione al Partito popolare. La scena madre della nuova fase politica è fotografata dalla piccola folla di giornalisti che si precipitano a Bologna per raccogliere le dichiarazioni di Romano Prodi nell'atrio del centro studi Nomisma. Ma il senso più autentico di quell'avvenimento è che con quelle dichiarazioni, e con il successivo impegno di Prodi in politica, cominciava a svilupparsi lo schema della «macchina bipolare», che aveva fatto sentire i suoi effetti nelle elezioni politiche dell'anno precedente, ma il cui funzionamento non si era ancora dispiegato in modo compiuto. La campagna elettorale del 1994 era stata segnata infatti dall'esplicarsi di un bipolarismo largamente imperfetto. A destra, l'inventore e il trascinatore di Forza Italia, Silvio Berlusconi, aveva costituito un'alleanza a doppia struttura, a Nord il Polo delle libertà con la Lega (impegnata in una vocale campagna «antifascista»), nel Centro Sud il Polo del buon governo in compagnia dei postfascisti di Gianfranco Fini: una geometria variabile che si imperniava sul neopartito Forza Italia come pilastro della coalizione, e giocava gli alleati a seconda degli interessi territoriali e delle tradizioni locali. La sinistra a sua volta aveva raccolto un ampio cartello di forze piuttosto eterogenee, la «gioiosa macchina da guerra» secondo la definizione con cui Achille Occhetto aveva ribattezzato la variegata coalizione dei progressisti. E al centro si presentava invece il Patto per l'Italia, la formazione che raccoglieva i Popolari guidati da Mino Martinazzoli e i simpatizzanti del leader referendario Mario Segni. Il formato della competizione elettorale fu fortemente influenzato dal sistema dei media. Giornali e programmi televisivi ebbero un ruolo essenziale nell'imprimere sull'opinione pubblica l'idea che la politica si modellava ormai secondo una dottrina maggioritaria espressa dall'imperativo «o di qua o di là». La presenza di un terzo polo centrista ancora elettoralmente rilevante, come avrebbero messo in luce i risultati del 27-28 marzo, fu sostanzialmente oscurata; il confronto più importante avvenne negli studi di Canale 5, dove Berlusconi e Occhetto si fronteggiarono in un dibattito che seppure non rilasciò un chiaro vincitore, servì tuttavia a confermare nell'opinione pubblica la convinzione che il bipolarismo italiano si era già costituito. Stretto fra i due contendenti maggiori, il Patto per l'Italia ottenne oltre sei milioni di voti, che furono ampiamente sacrificati dal sistema maggioritario. Inoltre, la coalizione vincitrice non riuscì a ottenere la maggioranza al Senato, quasi un'anticipazione delle difficoltà che avrebbe incontrato sulla sua strada successiva, e che avrebbero portato al «ribaltone» nelle prime settimane del 1995. Sono forse sufficienti queste brevi annotazioni per rendere chiaro che dieci anni fa il bipolarismo era ancora un auspicio più che una realtà politica solidificata; e che il centrosinistra, in realtà, non esisteva ancora. Dunque il centrosinistra viene partorito nei primi giorni di febbraio 1995, e questa nascita si manifesta con alcuni segni lievemente straordinari. In primo luogo perché la dislocazione a sinistra di molti suoi protagonisti non è affatto automatica. Lo stesso leader del futuro schieramento, Romano Prodi, è sempre stato politicamente un moderato. Il fatto è che a mente fredda si può riconoscere facilmente che nel destino italiano doveva esserci la formazione di un partito popolar-conservatore, non alieno dai temi della modernizzazione socioeconomica, simile per certi versi alla Cdu tedesca. Ma il candidato principale e quasi fisiologico alla leadership di questo schieramento virtuale, Mario Segni, si era convinto su base teorica che non esistesse nel nostro Paese uno spazio politico di destra, e che l'elettorato moderato dovesse essere raccolto con una manovra progressiva e avvolgente che muovesse da sinistra. Seguendo questo modulo, si era fatto scippare la rappresentanza dei moderati e dei conservatori da Berlusconi, ed era rifluito in una posizione centrista, scomodissima in seguito alle nuove regole elettorali. Dunque il centrosinistra nasce in ritardo. E comincia a delinearsi, nella sua parte «non postcomunista», prima di tutto, cioè prima di ogni considerazione politica o ideologica, come l'esito di una specie di insurrezione etica, o di ripulsa estetica: vale a dire che essa è ispirata da atteggiamenti politici, morali e psicologici in cui la scelta viene dettata in esplicito contrasto rispetto alla figura di Silvio Berlusconi. C'è un montaliano «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» nella decisione di una parte dell'elettorato cattolico e centrista di rifiutare le lusinghe berlusconiane: può essere l'insofferenza per il «partito di plastica», per le scatole elettorali con il kit del candidato, per la posizione di monopolista dell'informazione del magnate televisivo fondatore di Forza Italia, per la sua azione contro la magistratura, per la strumentalizzazione dei temi cattolici, per la rivendicazione altrettanto strumentale del pensiero di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi, per l'alleanza con i secessionisti di Umberto Bossi o per l'insofferenza verso la cultura degli altri alleati, i postfascisti non ancora del tutto «post» che Gianfranco Fini sta tirando fuori da un ghetto politico cinquantennale. Nasce, il centrosinistra, e viene subito frainteso dai suoi oppositori e dai suoi critici più maliziosi, molti dei quali ci vedono un riflesso dello spirito «consociativo» che per decenni di vita repubblicana avrebbe regolato i rapporti fra la sinistra democristiana e il Partito comunista. Il fraintendimento principale riguarda la convinzione che la sinistra Dc abbia sempre patteggiato politicamente con i comunisti: mentre in realtà tutta la filosofia politica dei democristiani di sinistra era sempre stata rivolta a competere con il Pci, non a cercare accordi sottobanco sulla scia di un malcelato idem sentire. I negoziati clandestini si sviluppavano eventualmente nelle aule parlamentari, come la tela di un compromesso sulla spesa pubblica e come tutela contrattata dei propri elettorati e di fasce di elettorato contigue. Ma, almeno dal punto di vista dell'ispirazione ideale, la sinistra democristiana non era affatto tributaria dell'egemonia comunista; insomma non soffriva di complessi di inferiorità politica. Nella sua storia, aveva visto Giuseppe Dossetti affrontare Giuseppe Dozza, e ottenere il più alto risultato mai raggiunto a Bologna dalla Dc; Amintore Fanfani pensava alla Dc come a un partito che fosse integralmente concorrenziale con i comunisti; sotto la regia di Aldo Moro, la formazione del centrosinistra «storico», nei primi anni Sessanta, rappresentava anche una risposta strategica all'insediamento comunista nelle classi lavoratrici. Questo fraintendimento primario riguardava quindi l'incontro storico, quasi una realizzazione attardata del «compromesso» berlingueriano, fra cattolici di sinistra e postcomunisti, che talvolta dava spazio nella polemica al recupero di termini apparentemente obsoleti come «cattocomunismo». Mentre il fraintendimento accessorio riguardava proprio la figura di Prodi, interpretato come un «dossettiano» anche da osservatori di solito attenti alle sfumature della politica. Di dossettiano Prodi aveva poco, al massimo la deferenza per la testimonianza del monaco e l'ammirazione per la cruciale, spietata lucidità analitica dell'ex politico. Gli si poteva attribuire infine un qualche cromosoma della sinistra Dc in quanto esponente di una tecnostruttura legata alle partecipazioni statali e all'Iri: ma seguire su questa strada la figura di Prodi significava sfumarla in un equivoco, attribuendole un accento ideologico che egli non aveva mai avuto. E questo gioco degli equivoci non vedeva in realtà il punto vero, rappresentato da ciò che sarebbe emerso più tardi come un'autentica fatica del centrosinistra. Si trattava infatti di mettere insieme culture che erano state avversarie. Anzi, di più: per numerosi elettori, si trattava di dichiarare superato un confine con il vecchio Partito comunista, con i suoi simboli, le sue fissazioni ideologiche, le sue cerimonie, i suoi slogan, e di attestare la chiusura definitiva della pregiudiziale anticomunista. Che si trattasse di un compito tutt'altro che facile fu testimoniato dai rapporti difficili e altalenanti fra Prodi e alcuni dirigenti ex comunisti. La difficoltà ontologica di questo rapporto venne fuori con nettezza dopo due anni e mezzo di governo, allorché nell'ottobre 1998 l'esecutivo Prodi fu battuto e cadde alla Camera. In quei giorni tutte le diversità, le ostilità serpeggianti, le diffidenze, le sospettosità che erano state stemperate dalla vittoria elettorale del 1996 riemersero con un vigore inusitato. La battuta d'arresto era stata terribile. Senza necessariamente sopravvalutarla con il tepore del «come eravamo», si può dire infatti che quell'esperienza di governo poteva davvero essere decisiva per stabilizzare l'alleanza di centrosinistra. Prodi si era presentato all'opinione pubblica proponendo l'Ulivo come una forza di governo che avrebbe saputo modernizzare l'Italia nel rispetto degli equilibri sociali, ossia senza le pulsioni slabbrate di cui aveva fatto mostra il centrodestra nei sette mesi del primo governo Berlusconi. La sua figura di cattolico costituiva la garanzia firmata che l'inedita alleanza con gli eredi del Pci sarebbe stata guidata senza cedimenti: al punto che mentre la gerarchia vaticana aveva continuato a guardare con diffidenza all'esperimento dell'Ulivo, la maggioranza dei parroci aveva fatto catechismo elettorale a favore del centrosinistra; e la base cattolica, il volontariato, i boy scout, l'associazionismo, i fedeli più impegnati nella vita delle comunità ecclesiali avevano visto nel movimento prodiano un'alternativa promettente, o se si vuole rassicurante, rispetto al messaggio berlusconiano. Si potrebbe anche aggiungere che nella legislatura 1996-2001 la prima fase di governo, con Prodi a Palazzo Chigi e Carlo Azeglio Ciampi al ministero del Tesoro, ha rappresentato il governare «per», in vista di obiettivi specifici. La seconda parte della legislatura, invece, con gli esecutivi di Massimo D'Alema e Giuliano Amato, ha costituito soprattutto una fase semiobbligata di resistenza al ritorno di Berlusconi. C'è da considerare che nel 1996 l'Ulivo non aveva un vero e proprio programma (esistevano soltanto le «88 tesi» di Prodi, una specie di sommario del programma possibile): Prodi e Ciampi impostarono gran parte della loro azione sul rientro nei parametri del trattato di Maastricht, mettendo al centro della loro iniziativa l'ingresso nell'area della moneta unica. A questo obiettivo di fondo si aggiungeva un progetto di riqualificazione selettiva degli apparati di stato sociale, a cui era stata preposta una commissione apposita, presieduta dall'economista Paolo Onofri. Queste direttrici apparivano in grado di fare da crogiuolo politico-culturale all'intero centrosinistra: da un lato il traguardo europeo era il coronamento della vocazione europeista promossa negli anni Cinquanta da De Gasperi; dall'altro la ristrutturazione del Welfare State rappresentava un cospicuo sforzo di modernizzazione delle strutture italiane, su cui poteva misurarsi adeguatamente l'indole riformista dell'Ulivo. Il fallimento di questa esperienza, segnato dalla caduta del governo Prodi, può essere analizzato sotto molteplici profili. Ma il profilo che qui interessa puntualizzare è dato dall'«egoismo di partito», dal prevalere della ricerca di un assetto politico diverso rispetto all'approfondimento della capacità programmatica della coalizione. In sostanza, l'Ulivo cade nel 1998, travolto e sostituito da un'operazione di trasformismo parlamentare, che cambia la composizione della maggioranza: e da quel momento rimane poco delle intenzioni originarie del centrosinistra, e soprattutto rimane poco delle ambizioni che avevano mosso l'esperimento di Prodi. Se con il successo del 1996 si erano poste le condizioni per mettere alla prova forze politiche differenti, suggerendo la possibilità che il loro incontro potesse mobilitare anche vari settori di elettorato, e che questo producesse un melting pot capace di omologare una vasta area di centrosinistra, contaminando le culture e producendo una sintesi politica originale, con la seconda metà della legislatura lo schema politico cambiava dunque radicalmente. Dietro l'immagine politicista del «centro-sinistra-col-trattino» si manifestava la nozione che lo schieramento non fosse dinamico, che non ci fossero in gioco elementi evolutivi, e che l'alleanza dovesse riguardare specificamente i rapporti fra i partiti, entità in sé conchiuse e gelose della propria identità. Con un addio sostanziale, dunque, all'ipotesi che nell'Italia che aveva attraversato il deserto infuocato degli anni Novanta, la dissoluzione e la metamorfosi di quasi tutti i partiti, potesse sorgere un'identità politica e culturale di centrosinistra, non troppo dissimile dall'impostazione strategica del New Labour, il «centro radicale» di Tony Blair; oppure dalla ricollocazione della Spd nella «neue Mitte», il nuovo centro a cui si riferiva spesso il socialdemocratico revisionista Gerhard Schröder. Va visto sotto una luce simile anche il dilemma della scelta del candidato premier alle elezioni del 2001. La scelta fra il premier uscente, Giuliano Amato, e l'alternativa rappresentata da Francesco Rutelli non dipendeva soltanto dalle caratteristiche personali dei due uomini politici, dalle qualità loro attribuibili, dalla cultura e dalla tradizione che proponevano. Per come veniva percepito dagli osservatori, e al di là del valore delle due personalità politiche, era piuttosto il confronto fra una visione del centrosinistra come alleanza tra soggetti politici non riducibili a unità (Amato) e una concezione invece (quella impersonata dall'ex sindaco di Roma) propensa a intravedere perlomeno nel mediolungo periodo la possibilità di un'integrazione tra le forze politiche dello schieramento. Si sa che il dibattito in genere bizantino sulla natura e sull'articolazione del centrosinistra è una delle esercitazioni più faticose che possano essere inflitte agli elettori, ai cittadini, ai simpatizzanti e perfino agli antipatizzanti dell'Ulivo. Non è neanche il caso di ricordare che ormai da tempo i cittadini hanno capito e assimilato il funzionamento del sistema bipolare, e che entro tale contesto gli elettori di centrosinistra sembrano sempre più interessati al risultato dello schieramento e sempre meno sensibili al riconoscimento dei singoli partiti. È utile semmai valutare quale sia il prezzo imposto da una coalizione imperfetta. Perché l'Ulivo mancato, vale a dire ogni incidente di percorso nella costruzione del «partito democratico» (secondo la dicitura di Michele Salvati), ogni sbandamento, ogni slittamento viene interpretato come il riemergere di divisioni lontane. Sarebbe sciocco negarlo: ogni battuta d'arresto nel processo di integrazione ulivista implica il riaffiorare automatico di vecchie pregiudiziali. Tutto questo contiene un che di paradossale, se si pensa al fallimento effettuale del governo della Casa delle libertà. Un fallimento così plateale, testimoniato dal siluramento del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che risulta complicato attribuirlo a ragioni politiche certe. Le categorie classiche adottate in questi casi, come i veti interni alla coalizione, la conflittualità delle culture dei diversi partiti, l'incompatibilità dei progetti di lungo periodo, sembrano inadeguate a descrivere l'inabissamento politico-economico della Casa delle libertà, anche senza citare esempi rivelatori come il caso di provincialismo espresso con la candidatura di Rocco Buttiglione a commissario europeo e il disastro del suo multilingue discorso d'esordio. Sta di fatto che proprio la constatazione della cattiva prestazione del centrodestra rende incomprensibile l'incapacità dello schieramento di centrosinistra di proporsi come alternativa credibile. L'effetto complessivo comunque è notevole, e invita a spiegazioni che si situano fra la sociologia e la psicologia collettiva. Un grande studioso come Albert Hirschman ha provato a suo tempo a descrivere il processo sociale attraverso modelli non politologici e non economici: la lealtà, le passioni, l'intransigenza, la felicità privata e pubblica. Qui da noi, viene la tentazione di interpretare lo stallo dell'Italia contemporanea chiamando in gioco un'altra categoria: la stanchezza. Il Paese, evidentemente, è stanco. È stanca la società italiana, è stanca l'opinione pubblica, è stanca l'opposizione, se è vero che assiste con impotenza al tentativo di sostituire la Costituzione del '48 con la farragine di un regolamento di condominio. Sono stanchi i cattolici, sintomaticamente divisi, come si è visto alla Settimana sociale di Bologna, fra una base insofferente verso gli sbreghi costituzionali del centrodestra e la gerarchia ruiniana che si sforza di mantenere l'equilibrio diplomatico di potere con la Casa delle libertà. Ed è stanco l'establishment economico del Paese, nonostante gli appelli di Luca Cordero di Montezemolo, se è vero che lo strato dei poteri cosiddetti forti è continuamente percorso da segnali di fumo neocentristi. Le ragioni di questa stanchezza risultano un po' più chiare se si pensa allo sforzo colossale prodotto negli anni Novanta per uscire dalla crisi mortale dei partiti storici, alla costruzione del sistema dell'alternanza, alle frustrazioni della riforma istituzionale. Ma anche fuori dalla politica la società italiana risulta sfibrata. L'apertura al mercato e alla concorrenza è stata vissuta dai cittadini come una sequenza di promesse mancate. Le privatizzazioni hanno sostituito ai monopoli pubblici una serie di monopoli privati, con ripercussioni ovvie sulle tariffe. Lo sforzo del risanamento finanziario è stato scialacquato dal governo Berlusconi, e l'adozione dell'euro è stata attuata con un laissez-faire che per un verso esprimeva l'euroscetticismo della coppia Berlusconi-Tremonti, e per l'altro strizzava d'occhio all'elettorato di centrodestra in grado di approfittare del cambio. Sotto questa luce forse diventa più interpretabile anche lo stallo del centrosinistra. Come si era anticipato, anche il cammino che ha condotto all'Ulivo è consistito in uno sforzo micidiale, pieno di fatica, privo di catarsi; la sconfitta del 2001, amplificata dal sistema maggioritario, ha richiesto mesi e mesi prima di essere metabolizzata; inoltre lo stillicidio delle polemiche quoti diane, favorito dalla lunga assenza brussellese del candidato leader, insieme con il piccolissimo cabotaggio delle insofferenze reciproche e degli interessi frazionali, ha fatto riemergere di continuo fissazioni identitarie. È per questo che la leadership ulivista è costretta a rilanciare continuamente. Prima la Lista unitaria («Uniti nell'Ulivo») alle elezioni europee, poi la federazione dei partiti che la componevano, quindi le primarie per sottolineare l'autonomia del leader dalle centrali di partito, poi la Grande alleanza democratica (Gad). Sarà probabilmente la marcia di avvicinamento alle elezioni politiche del 2006, e la sensazione collettiva dell'approssimarsi di un'ordalia con la Casa delle libertà, a spegnere la conflittualità interna e a sintetizzare le posizioni del centrosinistra, ben più che le trattative sul programma e l'appuntamento con le primarie. Ciò che sarebbe un errore trascurare, tuttavia, è che ancora oggi il centrosinistra appare uno schieramento a elevato tasso di precarietà, la cui possibilità di successo politico dipende da un accordo pur sempre problematico con un partito estremo come Rifondazione comunista, e la cui affidabilità programmatica è una conseguenza della minutissima trama di trattative quotidiane con i componenti minori della coalizione. Le elezioni europee hanno già fornito un indizio importante, dal momento che il sistema proporzionale ha indotto i partiti più piccoli a presentarsi da soli, fuori dalla Lista unitaria. Se è bastato questo appuntamento, rilevante ma non certo politicamente non risolutivo, a provocare una defezione così significativa, si può immaginare quale sia il rischio, o la minaccia, che incombe sulla Grande alleanza democratica, la coalizione estesa che dovrebbe essere competitiva con il centrodestra. Vale a dire che la tenuta del centrosinistra oggi e domani è determinata da due fattori: o meglio, dal peso di una personalità politica e dal ruolo di una questione regolamentare. La figura centrale del bipolarismo italiano contemporaneo è naturalmente quella di Berlusconi, federatore del centrodestra, dominus della Casa delle libertà e grande fattore di coagulo del centrosinistra. Il complesso di regole che contribuisce a tenere insieme lo schieramento ulivista è invece il sistema maggioritario. Si sa da tempo che la Casa delle libertà ottiene risultati peggiori nei collegi rispetto alle proprie chance nel proporzionale. Anche nelle elezioni del 2001 la differenza fra le due coalizioni nella quota maggioritaria era molto risicata. Gli analisti hanno sostanzialmente smentito o assai ridimensionato la tesi retorica di un migliore rendimento del centrosinistra nei collegi uninominali grazie all'Ulivo come «valore aggiunto». Rimane comunque il fatto che anche alle elezioni europee, svoltesi con il sistema proporzionale, la Casa delle libertà è riuscita praticamente a impattare il risultato del centrosinistra, nonostante il tracollo di 8 punti di Forza Italia (mentre nelle contemporanee elezioni amministrative, svoltesi con logica maggioritaria, il cattivo risultato si è tradotto in una batosta). È questa probabilmente la spiegazione dell'interesse di Silvio Berlusconi per i progetti proporzionalisti. Ai suoi occhi il sistema proporzionale è una sorta di «arma letale», che presenta almeno due caratteristiche vistosamente favorevoli alla sua coalizione: per un verso il ritorno al sistema proporzionale intensificherebbe a dismisura la «corsa all'identità» nel centrosinistra, con effetti tendenzialmente disgregativi; per un altro verso potrebbe smuovere qualcosa nelle aree politico-elettorali vicine all'attuale discrimine bipolare, rendendo meno vincolante l'appartenenza di certe frange centriste alla Grande alleanza prodiana. Di sicuro renderebbe molto più problematico lo sforzo di Prodi di porsi come «superatore delle identità», interlocutore diretto dei cittadini e delle culture. Si capisce quindi piuttosto facilmente che il futuro di un centrosinistra reso spesso euforico dalle tornate elettorali parziali, in cui ha regolarmente battuto il centrodestra, dipende in larga misura dalle condizioni strutturali in cui avverrà la competizione. Ma quali che siano queste condizioni, quali che siano le regole di fondo, posto che il centrosinistra esiste perché esiste il bipolarismo, e quindi una proposta di governo alternativa a quella di Berlusconi, la tenuta della Grande alleanza democratica dipende anche dalla qualità e dalla credibilità dei suoi programmi di gestione del Paese. Non ancora il programma totale, la meraviglia delle meraviglie che verrà sbandierata in vista dell'appuntamento finale: ma almeno quelle linee che servono per convincere i ceti sedotti e abbandonati dalla Casa delle libertà che il centrosinistra rappresenta un'opportunità seria per tornare sulla terra senza schiantarsi nell'impoverimento, nell'inflazione, negli stipendi taglieggiati; e per indurre anche l'establishment economico e di potere alla persuasione pratica che, fallito il centrodestra, logica vuole che si affidi il mandato all'alternativa rappresentata dal centrosinistra. Senza chiacchiere neocentriste, senza fumisterie scettiche, senza nostalgie veterodemocristiane. Così vorrebbe la linearità del sistema esistente: nel 2001 si è data fiducia alla destra, che se l'è giocata malamente. Lo aveva detto in quella stagione avventurata un'apprendista intelligente e provocatoria della politica italiana: «Provate Berlusconi. Se non è capace, lo cacceremo via con un calcio nel di dietro». Si chiamava e si chiama Iva Zanicchi, è l'ex Aquila di Ligonchio: e nonostante tutte le sottigliezze interpretative, e tutte le manipolazioni possibili per rifare la maionese molle del proporzionale, il centrosinistra potrebbe trovare molto utile rivendicare la giustezza rigorosa, letterale di questo schema, e opporsi con durezza a tutti gli altri.
Il Mulino, 05-06 2004
Il potere esclusivo di grazia
Come numerose iniziative che scaldano il clima politico, investono le massime istituzioni, accalorano opinionisti e opinioni, salvo poi scivolare silenziosamente nel nulla, anche l'iniziativa di Marco Pannella per il ripristino del potere di grazia come prerogativa assoluta del presidente della Repubblica si è dissolta. Qui non si vuole prendere in esame il ruolo di Pannella, né giudicare se il «satyagraha», gandhiano e non violento, riassunto fisicamente e simbolicamente nello sciopero della fame e della sete, avesse un significato politico laterale, ossia dovesse essere considerato una manovra implicitamente a favore della liberazione dal carcere di Adriano Sofri. A volerla considerare in modo distaccato, occorrerebbe riconoscere innanzitutto che l'iniziativa di Pannella aveva effettivamente buttato per aria la politica. Nella sua prosa, riportata sul giornale diretto da Giuliano Ferrara, «Il Foglio», Carlo Azeglio Ciampi è diventato il «principe prigioniero», a cui una corte ignava impedirebbe di esercitare la potestà costituzionale. Ha chiesto di fatto le dimissioni del massimo giurista del Quirinale, Gaetano Gifuni, liquidandolo con un giudizio senza appello: «Non credo che tu possa ritenerti la persona meglio adatta per servire i dettati della Costituzione e le scelte conseguenti del presidente». Ha messo in mezzo un Berlusconi a sua volta impacciato, che già era stato brutalizzato da Giuliano Ferrara («si è consumata un'amicizia») dopo la bocciatura della legge Boato, un dispositivo per riattribuire in modo esclusivo al Quirinale il potere di grazia. Berlusconi ha dovuto promettere per iscritto che «l'orologio» del ripristino costituzionale sarebbe ripartito. Ciò ha proiettato nel conflitto la Casa delle libertà, con gli alleati che sono insorti contro qualsiasi provvedimento potenzialmente a favore di esponenti del «terrorismo », con il ministro del Welfare Roberto Maroni in prima fila, mentre un altro ministro, Maurizio Gasparri, non ha esitato a opporre il veto preventivo a un'eventuale decisione di Ciampi a favore di detenuti in odore di eccellenza. Ma, almeno fin qui, questa sarebbe dialettica, scontro pubblico di opinioni. Tuttavia, di fronte alla generale acquiescenza con cui è stato accolto un concetto certamente discutibile come il potere esclusivo presidenziale, sarebbe stata utile una riflessione proprio sull'istituto stesso. Secondo il leader radicale, si sarebbe trattato di una battaglia per ripristinare la legalità, vulnerata già due anni fa dal mancato plenum alla Corte costituzionale (ciò che indusse Pannella a un primo clamoroso satyagraha, reso teatrale e drammatico dalla ripresa televisiva che lo inquadrò mentre beveva la propria urina per ripristinare l'equilibrio idrico compromesso gravemente dallo sciopero) e che oggi sarebbe inficiata in modo altrettanto insopportabile da una prassi che ha reso «duale», ossia ripartito fra il capo dello Stato e il ministro della giustizia, il potere di grazia. Pannella ha negato ostinatamente che si trattasse di un caso particolare, di un provvedimento ad personam. In una lettera a Carlo Azeglio Ciampi pubblicata sul «Foglio» del 7 aprile, dopo 60 ore di sciopero della sete, mentre il «collegio medico » sulle pagine di quel quotidiano segnalava ogni giorno la disidratazione, i rischi per il cuore e «l'ipotensione ortostatica», ha sottolineato con forza un concetto generale: in gioco non c'è il «problema specifico di questa o quella concessione di grazia, ma il recupero della legalità costituzionale ». Un succinto manifesto legalitario, pubblicato per giorni sul «Foglio» esordiva così: «Ci fidiamo di Marco Pannella e della sua storia di difensore battagliero e irriducibile della legge e del diritto» (le firme erano nell'ordine di Pierluigi Battista, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Angelo Panebianco, a cui se ne sarebbero aggiunte in breve altre decine, di intellettuali, registi cinematografici, cantanti, showmen, da Pippo Baudo a Milva, da Carlo Ginzburg a Bernardo Bertolucci). Si è assistito insomma alla trasformazione di un caso costituzionale perlomeno dubbio in un dogma legalitario. Secondo Pannella, il potere presidenziale di grazia, secondo l'articolo 87 della Costituzione, costituisce un «gioiello giuridico, che ci giungeva da millenni». Sull'argomento citava la «dottrina» e schiere di giuristi favorevoli alla sua interpretazione. Ma proprio questo è il punto. Qual è il fondamento secondo cui al presidente della Repubblica, e soltanto a lui, spetterebbe il potere di grazia? A leggere ingenuamente la Costituzione sembra tutto chiarissimo. L'articolo 87 dice semplicemente che il capo dello Stato «può concedere la grazia e commutare le pene». L'articolo 88 aggiunge: «Nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. L'articolo 90 chiarisce infine che il capo dello Stato «non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni». A chi non fa parte della comunità giuridica il significato degli articoli costituzionali sembra inoppugnabile. La concessione della grazia è un atto delicatissimo, che «altera» il tragitto della pena, e che in vari casi può avere implicazioni politiche di alta intensità. Pensiamo ad esempio a un'eventuale clemenza verso persone che si fossero rese colpevoli di delitti «politici »: ad esempio, membri di organizzazioni terroristiche, non importa se di sinistra o di destra. Non c'è dubbio che, in certe occasioni, la grazia o la commutazione di pena avrebbe echi e riflessi politicamente rilevanti, e difficilmente potrebbe essere ricondotta esclusivamente a un percorso etico personale del condannato, alla maturazione della sua coscienza, alla denuncia e alla rinuncia esplicita del proprio passato. Bene, in tal caso ci troveremmo di fronte a una decisione politica, assunta da un'istituzione, il presidente della Repubblica, che la carta costituzionale definisce politicamente irresponsabile. È vero che Pannella ha citato spesso l'articolo 681 del codice di procedura penale, che autorizzerebbe il motu proprio presidenziale. Ma, per l'appunto, c'è pena e pena, e c'è grazia e grazia. È possibile che la grazia a un ergastolano comune, una volta accertato proceduralmente il suo riscatto civile e morale, sia qualcosa che non rileva sul piano politico, in quanto investe una sfera prevalentemente individuale e personale. La grazia a un ex terrorista, invece, può essere un provvedimento che interviene nel sentire della collettività, divide l'opinione pubblica, crea separazioni e opinioni contrastanti in Parlamento, può portare alla formazione di due «partiti», uno pro e uno contro. Insomma, è un atto politico. Si tratterebbe quindi di capire come sia possibile che a una sola persona sia affidata una potestà perfettamente discrezionale. La decisione di concedere la grazia dipende da un giudizio, e ogni giudizio comprende un quoziente ineludibile di discrezionalità. Il nostro sistema istituzionale non contiene criteri che affidino a una singola persona un potere politicamente arbitrario. Sarà un limite del sistema. Esisteranno personalità carismatiche, talenti morali e giuridici in grado di risolvere con sapienza salomonica, e comunque con intelligenza e comprensione superiori, le questioni più difficili. Sovrano, ce lo ricordiamo, è chi decide nello stato di eccezione. Ma fuori dal contesto schmittiano, nella normalità costituzionale, c'è anche chi potrebbe sentirsi rassicurato dall'idea che ai vertici delle istituzioni non vengano prese decisioni prive di contrappesi e non garantite dalla condivisione; vale a dire dalla consapevolezza che non esiste un «sovrano» autorizzato a usare il suo scettro e a dirimere con l'arbitrio casi giuridici estremamente complicati, talora circondati da un alone di emotività, non di rado sostenuti dalle opposte parti con uno spirito di faziosità evidente. La democrazia vive di casi limite. Non è il caso naturalmente di Ciampi, il cui equilibrio, va da sé, non è in discussione: ma la gamma dei casi limite possibili è infinita: se il re si ammala, o si indebolisce psichicamente, nessuno negherà che è conveniente e utile la controassicurazione di una doppia interpretazione; se il sovrano è politicamente o culturalmente orientato, ci vuole qualcuno che si assuma la sua stessa responsabilità, o che eventualmente la contraddica. Altrimenti tutta la traiettoria che comprende la formazione della modernità giuridica e costituzionale, a partire dalla separazione dei poteri, parrebbe non essere servita a nulla: e tutto questo nel nome di un principio, l'esclusività presidenziale del potere di grazia, che assumerebbe il carattere vagamente incongruo di un residuo medievale, al tempo in cui i re regnavano, governavano, ed erano ritenuti capaci di rimedi taumaturgici.
Il Mulino, 01-02 2004
Una strada, due velocità
Nel dicembre scorso, con la conclusione del vertice di Bruxelles e la mancata approvazione della Costituzione, la costruzione dell'unità europea ha subito una brusca battuta d'arresto. Forse la più grave della sua storia recente, almeno dai tempi di Maastricht. Si è verificato un evento - o un non evento - che segna in modo gravemente negativo tutto il processo di integrazione. È il caso di prenderne atto, e di valutarne rigorosamente tutte le implicazioni, poiché soltanto un'adeguata dose di realismo può indicare le opportunità di uscire dall'impasse. Nello stesso tempo tuttavia dobbiamo sapere che si tratta di un processo che non tollera soste prolungate: non c'è la possibilità del surplace, o si va avanti o si torna indietro. È una condizione in cui l'Europa si è trovata spesso, nei passaggi successivi che hanno portato all'Unione, alla moneta unica, a un esperimento sovrastatuale di cui conosciamo tutte le debolezze strutturali ma di cui non è il caso di dimenticare le grandi opportunità. In questo articolo intendiamo mettere a fuoco dove sono le prospettive di avanzamento e dove si vedono rischi di arretramento. I problemi posti dallallargamento Che le difficoltà sarebbero venute al pettine era largamente prevedibile. Tutta la storia dell'integrazione europea è una storia di accelerazioni e rallentamenti e, dopo il «grande balzo in avanti» rappresentato dall'euro, ci si poteva realisticamente aspettare che qualcuno avrebbe messo il piede sul freno. Si sapeva che dopo l'integrazione delle economie, dopo l'embrione politico rappresentato dal Parlamento di Strasburgo, dopo il mercato unico, dopo Schengen, dopo la moneta, dopo la Banca centrale, dopo le ampie cessioni di sovranità nazionale, dopo tutto ciò che di unificante era stato prodotto sul piano dei funzionamenti, l'Europa era attesa da un gradino successivo ancora più difficile: da un salto politico, rispetto al quale erano immaginabili resistenze, ripensamenti, colpi di freno. L'Unione europea non è un organismo coerente e compatto. Alcuni Paesi non partecipano compiutamente all'integrazione; un membro importante come il Regno Unito vede ancora l'euro come una prospettiva solo eventuale e di lungo periodo; in politica estera la guerra in Iraq ha esposto una significativa e dolorosa spaccatura fra chi era favorevole e chi contrario all'iniziativa americana. Ma l'ultima crisi è stata messa in evidenza soprattutto dai problemi posti dall'allargamento a Est, cioè ai Paesi che con la guerra fredda erano rimasti nell'orbita di influenza sovietica. Una scelta di grandissimo rilievo non soltanto politico e istituzionale, ma addirittura «storico», quella di aprire le porte dell'Unione: e per ciò stesso, per la sua portata, per il numero dei Paesi entranti, per l'asimmetria di reddito e di produttività fra la vecchia Europa e la nuova, una scelta controversa. L'allargamento era ed è da considerare come un obbligo di natura politica, oltre che per certi aspetti morale, dell'Europa «fortunata», ricca, invecchiata, che era rimasta al di qua della cortina di ferro, nei confronti dell'Europa «sfortunata», riemersa dopo decenni alla libertà democratica. Non era lecito lasciare Paesi appena usciti da un'esperienza illiberale e senza profonde radici nel terreno della democrazia al marasma politico ed economico che poteva seguire alla caduta dei regimi filosovietici. Occorreva consegnare a queste comunità nazionali una prospettiva per il futuro, un obiettivo di medio-lungo termine, una speranza in grado di dare un senso ad una transizione che si presentava difficile su tutti i piani. Difficile prima di tutto sul piano economico. Sono economie, quelle dell'Est europeo, con bassa produttività e bassi salari, uscite da decenni di scarsi investimenti, poco innovative, tecnologicamente arretrate, dotate di infrastrutture decrepite, prive di istituzioni in grado di regolare il mercato interno ed evidentemente troppo deboli per poter competere sui mercati dell'Occidente. A quasi quindici anni dalla caduta del Muro, questi Paesi sono oggi, a fatica, a metà del guado. Lo si osserva perfino nei Länder della Germania orientale, che pure hanno avuto il beneficio di massicci trasferimenti sul piano del Welfare, delle infrastrutture e degli investimenti produttivi. La Repubblica federale oggi mostra un sistema economico-sociale chiaramente dualistico, sia in termini di reddito sia di occupazione, tanto che le migrazioni interne non si sono per nulla arrestate. Noi italiani dovremmo sapere bene come sia difficile «correggere» il dualismo, soprattutto quando, al di là degli aspetti economici, ha messo radici nella cultura, negli atteggiamenti e nelle mentalità. Quindi è pensabile che ci vorranno anni, e inevitabilmente alcuni sacrifici della parte più ricca del continente, per integrare effettivamente le economie dei Paesi orientali nel sistema economico dell'Unione europea. Per ora, dopo gli sforzi della convergenza finanziaria, è vero che i mercati dell'Est risultano attraenti per i produttori occidentali, anche se al momento il reddito medio dei consumatori è ancora troppo basso per alimentare una domanda consistente. Occorre dunque considerare che la nuova Europa è un'area di integrazioni ma anche di squilibri assai forti rispetto al passato, certamente più sensibili ad esempio rispetto al momento in cui la Comunità vide l'ingresso di Paesi come Spagna, Portogallo e Grecia, per i quali l'integrazione con l'Europa rappresentò un fattore di sostegno e di crescita, un forte acceleratore dello sviluppo. Nel caso dei Paesi orientali i rischi di un contraccolpo sono maggiori. È vero, del resto, che i bassi salari dei lavoratori orientali hanno attirato i capitali di numerosi industriali dell'Ovest. Ma affinché salari, redditi e consumi raggiungano un livello comparabile a quello occidentale la strada è ancora lunga, e almeno a breve e medio termine l'allargamento può suscitare significative perplessità sul fatto che costituisca un buon affare per le economie euro-occidentali. Ciò che accade sul terreno economico ha marcate ripercussioni sul piano sociale. Non è affatto semplice decifrare che cosa stia accadendo nelle società dell'Est. A un primo sguardo, i gruppi sociali che sembrano sbrigarsela meglio sembrano essere le vecchie nomenklature di partito, dal momento che i quadri di partito si sono riciclati al nuovo ordine assai più agevolmente di altri gruppi. Ma nonostante le difficoltà di osservazione, è intuitivo che le aspettative di consumo e di benessere legate al mercato non hanno potuto essere soddisfatte per la grande maggioranza della popolazione. Anzi, è ormai palese che gli strati più bassi delle società centro-orientali godono oggi di un livello di vita, se non inferiore, certamente più precario di quanto non avvenisse prima della grande svolta. In generale, le disuguaglianze sociali, già notevoli nel socialismo reale, sembrano essersi accentuate, con conseguenze non del tutto prevedibili sul piano della stabilizzazione della democrazia e del consenso per le nuove istituzioni. Il settore del sommerso e dei traffici illegali ha goduto di un boom eccezionale, come avviene allorché entrano in crisi gli apparati di governo e di amministrazione dello Stato: il mercato infatti richiede un'adeguata produzione normativa, l'acquisizione di regole condivise e la presenza di autorità capaci di farle rispettare; mentre nessuna di queste condizioni era presente allora e in larga misura non è presente neppure oggi. Inoltre, le tensioni e i conflitti etnico- religiosi, che i regimi comunisti erano riusciti a comprimere ma non certo a superare, sono riaffiorati in modo più o meno virulento in varie regioni. Abbiamo assistito a ciò che è successo nei Balcani, in Cecenia, nelle repubbliche caucasiche, ma anche alle tensioni nelle regioni baltiche. Il venir meno di un potere sovranazionale (quello sovietico era certamente tale) e l'assenza di prospettive di un ordine democratico di convivenza fra etnie, nazionalità e culture diverse (quali potrebbe offrire l'Unione europea), producono il rischio di anarchia e frammentazione e possono scatenare conflitti e tensioni ingovernabili. Infine, sul terreno più propriamente politico, se per democrazia intendiamo un sistema fondato su partiti che si contendono i consensi in libere elezioni, non si può negare che nei Paesi dell'Est europeo si siano affermati dei regimi democratici. Sulla loro solidità, tuttavia, sul loro impianto, sulla loro maturità, sulle condizioni di fondo che Robert Dahl individua per designare un sistema liberaldemocratico non soltanto nominale, è lecito nutrire dubbi: teniamo presente che la democrazia è per questi Paesi un'esperienza recente e che le regole democratiche non si appoggiano sul terreno solido di un costume politico, sia delle élite sia della popolazione, sedimentato nel tempo. In conclusione, all'allargamento non c'era alternativa. Si è trattato di una decisione praticamente obbligata. Certo, si poteva anche evitarla. Con il rischio, però, di aprire ai confini dell'Unione una fase di disordine politico e di confusione sociale. Senza la prospettiva dell'integrazione in un'Europa libera e democratica, la dinamica avrebbe condotto a esiti imprevedibili nel dettaglio, ma potenzialmente catastrofici nella sostanza. I risultati delle recenti elezioni serbe, con il premio del voto a pulsioni nazionalistiche e l'elezione «provocatoria » di Slobodan Milosevic, sono un segnale sufficientemente allarmante di cosa potrebbe succedere a Est qualora si allontanasse nel tempo la prospettiva dell'ingresso in Europa. Come avevano ben capito Spinelli, Rossi e Colorni, confinati dal fascismo a Ventotene, come era successo con Germania e Italia nel dopoguerra, e successivamente con Spagna, Portogallo e Grecia, per i Paesi che escono da regimi non liberali, la via verso la democrazia - e la pace - passa necessariamente attraverso la prospettiva dell'unificazione europea. Non è una legge logica o politica, ma è una delle poche condizioni empiriche in grado di assicurare ordine, stabilità, sviluppo. Contraddizione e sfida L'allargamento, tuttavia, era destinato a generare a sua volta due conseguenze. Più precisamente, una contraddizione e una sfida. La contraddizione è nota da tempo: l'accresciuta eterogeneità interna (economica, sociale e politica) rende sempre più ardua la convergenza tra gli Stati membri e quindi il raggiungimento dell'unanimità nelle decisioni europee. Se il meccanismo decisionale, essenzialmente fondato sull'unanimità, appariva già in serie difficoltà nell'Europa a quindici, minaccia di diventare del tutto paralizzante in un'Europa a venticinque. La sfida è simmetrica alla contraddizione, ma contiene un elemento politicamente irriducibile: l'allargamento infatti impone il passaggio a un meccanismo decisionale fondato sul voto a maggioranza, almeno se non si vuole creare una situazione di paralisi decisionale al livello degli organi dell'Unione, soprattutto al livello del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri. Presentato in questi termini, il binomio di contraddizione e sfida incorporava un'assai più marcata caratterizzazione politica dell'Unione, e dunque resistenze e ostracismi potevano essere messi nel preventivo di una trattativa onerosa. Ma non c'era soltanto questo aspetto a rendere complesso il quadro. Al di là dei problemi posti dall'allargamento, infatti, si era venuta a creare con la serie dei trattati istitutivi o di revisione e di adesione delle istituzioni comunitarie (Parigi, Roma, Maastricht, Amsterdam, Nizza) una situazione piuttosto farraginosa e comunque confusa nell'ambito del diritto comunitario. Per semplicità, per trasparenza, per sfuggire al continuo sospetto di opacità e all'accusa ormai stereotipata del «deficit democratico» imputato all'Unione, si imponeva di fatto una riscrittura e una unificazione delle norme contenute nei trattati. Infine, vi era l'esigenza di dare una collocazione alla Carta dei Diritti fondamentali, proclamata a Nizza nel settembre del 2000, ma ancora priva di un chiaro valore giuridico. Con questi problemi sullo sfondo si era giunti alla Dichiarazione di Laeken, che dava mandato a una Convenzione di elaborare una bozza di Costituzione da sottoporre poi all'approvazione di una Conferenza intergovernativa. Com'è noto, la Convenzione si è aperta il 28 febbraio 2002 e si è conclusa il 18 luglio 2003 con la consegna della bozza di Costituzione ai governi degli Stati membri dell'Unione da parte del presidente Valéry Giscard d'Estaing. Oggi sappiamo qual è stato il suo destino, almeno nell'immediato. La Conferenza intergovernativa, presieduta dal capo del governo italiano, non ha approvato la bozza di Costituzione. Il macigno che ha bloccato la strada è stato, com'era del tutto prevedibile, il meccanismo del voto a maggioranza. Va detto che il voto a maggioranza è il vero punto di svolta tra una semplice confederazione di Stati pienamente sovrani e una forma di unione dotata di qualche tratto di sovranazionalità. Fintanto che domina il principio dell'unanimità, ogni Stato, da solo, è in grado di bloccare qualsiasi decisione unitaria; l'unione non esiste: o, meglio, esiste solo nel caso, del tutto improbabile, di concordia universale. L'unione si dà, invece, quando è possibile dividersi in maggioranza e minoranza senza che per questo venga meno il vincolo che unisce. Si capisce quindi come gli Stati siano particolarmente riluttanti a trasferire materie decisionali dalla sfera che richiede l'unanimità all'area delle questioni che, invece, possono essere deliberate a maggioranza. Tanto è vero che essi sono indotti a conservare gelosamente le loro prerogative soprattutto nei campi della politica estera, militare e fiscale. Scontando l'opposizione degli Stati, la Convenzione era stata assai cauta (per gli europeisti più convinti, eccessivamente cauta) nell'allargare la gamma delle questioni da decidere a maggioranza. Tuttavia le difficoltà sono sorte, più che sul quantum delle materie, sulle modalità del calcolo della maggioranza. La proposta di adottare una doppia maggioranza (variamente «qualificata») degli Stati e della popolazione ha incontrato l'opposizione dei governi di Spagna e Polonia ai quali il trattato di Nizza del 2001 riconosceva un peso equivalente a quello dei Paesi maggiori (soprattutto della Germania che, dopo la riunificazione, può contare su una popolazione di oltre 80 milioni di abitanti). Dietro i governi spagnolo e polacco si intravedevano peraltro, da un lato, il governo di Sua Maestà britannica (da sempre riluttante a un'unione con più evidenti tratti sovranazionali) e, dall'altro, l'ombra dell'amministrazione americana nella quale in questa fase domina la componente neoconservatrice: vale a dire una corrente politica prevedibilmente fredda, se non ostile, al rafforzamento dell'Europa come entità efficacemente autonoma sulla scena internazionale. Questo complesso equilibrio è stato gestito con scherzosa levità da una figura politica e istituzionale, Silvio Berlusconi, la cui credibilità internazionale non è mai apparsa particolarmente elevata, ma che in questa occasione ha toccato un punto indecifrabile, alternando impegnative dichiarazioni di europeismo con una sostanziale sfiducia verso un'entità percepita da lui, e da ampi settori della sua coalizione politica, come una concentrazione di burocrazie, di regole, di pastoie, di codicilli e commi (per qualche suo alleato, l'Unione europea è «Forcolandia»; e al di fuori del folklore, la rappresentanza italiana era reduce dal colpo assestato al Patto di stabilità e di sviluppo con il sostegno euroscettico offerto da Giulio Tremonti alla posizione «defezionista» di Francia e Germania). Questioni di stabilità Il 2003 è stato un anno più che problematico per un'ampia gamma di «istituti su cui si era tentato di edificare la pace e la cooperazione internazionale dopo due guerre terribili». La diagnosi di Tommaso Padoa-Schioppa, che sul «Corriere della Sera» del 2 gennaio non ha esitato a riprendere l'espressione «annus horribilis», derivava dalla presa d'atto di una serie di fallimenti globali: «rottura dell'Onu, a New York, sulla questione irachena; rottura, a Cancun, dei negoziati sulla riforma del commercio internazionale; rottura, a Bruxelles, della conferenza sulla Costituzione europea; lacerazione di un piano di pace in Medio Oriente; violazioni continue (in Afghanistan, Guantanamo, Cecenia, Iraq) della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra. E, poco prima: abbandono del trattato di non proliferazione nucleare; revoca della firma posta al Protocollo di Kyoto sull'effetto serra». Dentro questo orizzonte, l'affaire europea sembra da un lato ridimensionarsi a questione locale; dall'altro ingigantirsi a problema planetario. A questo punto, comunque, prendiamo atto che il processo di unificazione non solo è bloccato, ma rischia di fare vistosi passi indietro. Come si è accennato, un'avvisaglia preoccupante la si era avuta con le mancate sanzioni a Francia e Germania per la violazione del Patto di stabilità. Il Patto di stabilità, sui celebri parametri di Maastricht, era stato voluto in vista dell'adozione dell'euro (soprattutto dalla Germania) per evitare che Paesi considerati poco finanziariamente responsabili, come l'Italia, potessero continuare nella loro ormai tradizionale prassi lassista e quindi di trasferire indirettamente sui propri partner il peso dei propri debiti e delle proprie inefficienze pubbliche e private. Con il Patto di stabilità, gli Stati si impegnavano a contenere il deficit spending nei limiti del 3 per cento del prodotto interno lordo. Negli ultimi due anni l'Italia è rimasta acrobaticamente al di sotto di questa fatidica soglia. Francia, Germania e Portogallo, invece, evidentemente privi del talento creativo che si esercita sui conti pubblici italiani, hanno ripetutamente, sia pure non di molto, sfondato il tetto del disavanzo. Che il Patto di stabilità sia un'eccentricità, se non proprio un'assurdità, dal punto di vista dei principi fondamentali di politica economica è una convinzione di molti, piuttosto solidamente fondata (lo stesso presidente della Commissione europea, Romano Prodi, ebbe a parlare di patto «stupido»). Che in determinate circostanze possa essere un freno alla ripresa e quindi alla crescita è altrettanto convincente. Ma, che lo si voglia o no, è la sola via percorribile se si vuole avere una moneta unica senza uno Stato e quindi senza un'istanza sovranazionale che abbia il compito di formulare e condurre una politica economica per tutta l'Unione e che risponda dei suoi atti di fronte al Consiglio e al Parlamento europei. Dovrebbero essere gelosi custodi del Patto di stabilità proprio coloro che esitano ad affidare agli organi europei nuovi poteri nel campo della politica economica. Come, ad esempio, il governo spagnolo. Si può infatti capire la «stizza» di Aznar di fronte al lassismo con il quale il duo Berlusconi- Tremonti ha affiancato e assecondato la «prepotenza» franco-tedesca. Per ora l'euro non ha sofferto della minaccia alla sua stabilità che viene dalle impunite violazioni del Patto. Anzi, si è rivalutato in misura perfino preoccupante nei confronti del dollaro. Il futuro del sistema monetario mondiale si giocherà molto nella partita trilaterale tra euro, dollaro e yen. In parte, la svalutazione del dollaro è senz'altro dovuta a ragioni di mercato, alle strategie degli investitori internazionali che hanno spostato capitali dall'area del dollaro all'area dell'euro. In parte dipende dall'atteggiamento della Federal Reserve che non vede male una svalutazione del dollaro in una fase in cui sembra opportuno favorire le esportazioni e frenare le importazioni per facilitare la ripresa in atto dell'economia statunitense. Ma queste sono tutte ragioni che operano nel breve termine. La domanda di fondo è se nel medio-lungo termine l'euro sarà in grado o no di spartirsi con il dollaro il ruolo (e i vantaggi) di moneta nella quale vengono regolati gli scambi internazionali e di moneta di riserva. Finora il dollaro ha operato incontrastato come moneta di riserva e di scambio (e gli Stati Uniti hanno tratto innegabile vantaggio da questa posizione del dollaro, riuscendo in tal modo a compensare i loro formidabili deficit della bilancia commerciale). In ultima istanza, sarà il grado di fiducia che dollaro, yen ed euro saranno in grado di riscuotere a determinare il loro peso reciproco come monete di riserva e di scambio e non c'è dubbio che la fiducia nella moneta rispecchia la fiducia nell'autorità che la batte, cioè gli Stati Uniti, il Giappone e l'Unione europea. Nei confronti di quest'ultima, come si fa ad avere fiducia nella moneta di una labile aggregazione di Stati, ognuno dei quali persegue il proprio interesse nazionale a breve termine e dove sono deboli le istituzioni che dovrebbero perseguire l'interesse comune europeo? Da questo punto di vista, se le violazioni del Patto di stabilità continueranno, se continueranno a restare impunite e, soprattutto, se ad essere coinvolti nelle violazioni saranno Stati membri meno potenti e affidabili economicamente di Francia e Germania, oppure se non saranno vinte le resistenze ad affidare all'Unione maggiori poteri di politica economica (e quindi anche fiscale), è assai probabile che alla lunga il dollaro mantenga la sua posizione e l'euro entri in una crisi che potrebbe addirittura far ritenere il processo di unificazione monetaria non irreversibile. Sotto questa luce, la posizione assunta dal governo italiano nei confronti dell'euro richiede esplicitamente un discorso a parte. Il presidente del Consiglio si è lasciato andare nel suo messaggio natalizio ad affermazioni di una gravità che è poco giudicare preoccupante: l'euro sarebbe responsabile dell'aumento dei prezzi e, soprattutto, l'ingresso dell'Italia nel gruppo di Paesi che hanno adottato la moneta europea sarebbe la conseguenza di un atto voluto dal precedente governo dell'Ulivo e di cui l'attuale governo non porta responsabilità. Detto altrimenti, se allora fosse stato al governo il centrodestra, l'Italia avrebbe seguito l'esempio di chi ha preferito restare al di fuori della moneta unica. Dal che si deduce che neppure su una decisione di portata storica decisiva, come l'adozione della moneta unica, è oggi possibile in Italia un consenso bipartisan. Finora, soltanto la Lega di Bossi aveva esplicitamente dichiarato il proprio antieuropeismo, oltre a qualche ministro esponente della maggioranza; adesso è stato anche lo stesso Silvio Berlusconi, e, per di più, nel corso del suo mandato di presidente del Consiglio europeo a schierarsi nel campo degli euroscettici. Quale sia il senso di questa strategia è difficile dire. È vero che dietro le intimazioni più vocali della Casa delle libertà, sulla tonalità del «contare di più in Europa», si era sempre avvertito un sentimento antieuropeista, che avrebbe ritenuto più consono all'Italia un ruolo corsaro, da repubblica marinara, con una quota in più di inflazione, e con la possibilità di riallineare il cambio lungo il classico ciclo inflazione/svalutazione. Ma a parte l'adeguatezza di una simile visione alle condizioni e alle prospettive di un'economia avanzata, non è mai sembrato che Berlusconi intendesse poi prendere effettivamente una esplicita e formale posizione di autoesclusione dal circuito europeo. In realtà, si ha la sensazione che il capo del centrodestra cerchi di indirizzare contro l'Europa (e contro l'opposizione) i sentimenti di frustrazione che derivano dall'aumento dei prezzi e dalla riduzione del potere d'acquisto di stipendi e salari. Facendosi portatore di un'interpretazione politicamente strumentale delle difficoltà economiche di una buona parte della popolazione, ha dato il via a un'operazione mediatica volta a individuare nell'Europa il capro espiatorio dei guai del Paese e delle sfortune dei «ceti medi impoveriti». Sarebbe il caso di chiedersi come sarebbero ridotti la lira e i conti pubblici del nostro Paese se la prospettiva di entrare nel club dell'euro non avesse indotto a comportamenti virtuosi lo Stato, i sindacati, gli imprenditori e, in generale, i cittadini italiani. Il debito sarebbe ulteriormente cresciuto, la lira sarebbe stata ulteriormente svalutata e il Paese si sarebbe verosimilmente incamminato verso una sorte di tipo argentino. La defezione italiana sarebbe tutto sommato trascurabile se l'Italia fosse uno dei piccoli Paesi da poco arrivati sulla scena dell'Unione: ma è invece un Paese «grande» e fa parte del nucleo dei sei Paesi fondatori dell'Europa comunitaria. Si sa che Berlusconi ama richiamarsi a De Gasperi, come modello politico da seguire. Negli anni Cinquanta, tuttavia, il leader democristiano aveva interpretato in modo molto diverso il ruolo dell'Italia nel processo di costruzione europea. Nell'affiancarsi a Schuman e Adenauer nella fondazione della Ceca (Comunità europea del carbone e dell'acciaio), De Gasperi aveva capito che l'Europa non poteva nascere sotto l'egemonia franco-tedesca e che la presenza dell'Italia nel nucleo di avanguardia rappresentava una garanzia della natura effettivamente paneuropea del processo di unificazione. Sicuramente Germania e Francia sono indispensabili, oggi ancor più che allora, per ogni progetto europeo, ma, da sole, rischiano di dividere anziché unificare. Con il contributo dell'Italia, l'asse Parigi-Bonn, o in seguito Parigi-Berlino, «europeizza » l'intero processo, diventando il polo di attrazione nei confronti degli altri Stati. Questo è il ruolo più importante al quale può aspirare l'Italia. A quali velocità Di fronte all'esplodere di una doppia crisi - violazione del Patto di stabilità e mancata approvazione da parte della Conferenza intergovernativa del trattato istitutivo della Costituzione dell'Unione - alcuni capi di Stato (capeggiati dal presidente francese Jacques Chirac) hanno avanzato l'ipotesi di un'Europa a due (o più) velocità, o, come anche si dice, «a geometria variabile». Non è certo un'ipotesi nuova. È un'idea che riaffiora inevitabilmente ogni qual volta il processo di unificazione sembra arrestarsi. È emersa per esempio nella prima metà degli anni Novanta, allorché sembrava che le preoccupazioni tedesche sull'adozione della moneta unica potessero indurre la Repubblica federale a preferire la creazione di un nocciolo duro dell'Europa comunitaria, composto da Paesi fortemente omogenei, solidi sul piano finanziario, affidabili nell'esercizio della sovranità contabile quanto convinti della necessità improrogabile di assicurare all'Europa un'integrazione più forte. Oggi quell'ipotesi è sostenuta anche da Romano Prodi e da gran parte dei membri della Commissione europea. Potrà sembrare paradossale che un'asimmetria economica, istituzionale e politica possa diventare il perno di un'unione più forte; e quindi sono comprensibili le ragioni di chi, Carlo Azeglio Ciampi, dall'alto della sua storia di europeista, insiste sulla necessità di non dividere ma di approvare rapidamente la Costituzione nel suo insieme. Ma al di là del paradosso l'idea delle due velocità costituisce un test funzionale per distinguere tra coloro che vogliono arrestare il processo e coloro che invece lo vogliono portare a compimento. Gli oppositori di questa ipotesi sostengono che in questo modo si produrrebbe una divisione anziché un'unificazione dell'Europa; i sostenitori, invece, replicano che un'Europa costretta a marciare col passo del partner più lento è destinata a fermarsi e quindi a restare divisa. Che a questa ipotesi si oppongano la Gran Bretagna di Tony Blair e l'Italia di Silvio Berlusconi non sorprende. (Forse sorprende un tantino di più che giudichi questa strada impraticabile una personalità come quella di Giuliano Amato: che con Giscard d'Estaing è stato uno dei padri della Costituzione europea, e quindi non cede facilmente all'idea di abbandonare il progetto di una carta costituzionale per tutta l'Europa; non è tipico del pensiero riformista fare leva sulle opportunità reali, senza attendere i tempi incertissimi del programma massimo?) Dal canto loro, i governi britannici, laburisti o conservatori, non hanno mai svolto un ruolo autenticamente propulsivo nel processo di unificazione europea. Solo Winston Churchill, quando ancora l'Europa era sepolta sotto le macerie della guerra, aveva parlato dell'urgenza di incamminarsi verso quelli che allora egli chiamava, non a caso, Stati Uniti d'Europa. Ma da allora in poi l'atteggiamento dei governi britannici è sempre stato freddo e cauto, anche se ormai è diffusa, sia nel mondo della cultura sia nella realtà della politica, la convinzione che il destino della Gran Bretagna non può essere disgiunto da quello del continente europeo. Sembra quasi che nei confronti dell'Europa la classe politica britannica abbia assunto implicitamente questa linea: non siamo favorevoli a fare passi in avanti consistenti e accelerati, ma se qualcuno vuole farli, e non riusciamo a impedirlo, saremo costretti a seguirlo. Così è stato con l'adesione alla Comunità; così, prima o poi, sarà anche per l'euro, a meno che la moneta unica - come forse qualcuno ancora si augura oltre Manica - non collassi prematuramente. Del resto, l'architettura istituzionale dell'Unione con le «cooperazioni rafforzate» e i diritti di opting out già prevede forme di aggregazione variabili tra gli Stati membri. Il dilemma è semplice, almeno nella sua enunciazione: è irrealistico pensare che un'Unione europea possa funzionare sulla base di accordi convergenti tra venticinque Stati sovrani. Se l'Europa si unificherà lo farà con gradualità in una duplice direzione: in primo luogo, prendendo le mosse da un nucleo ristretto di Paesi che si pongono al centro del processo ed esercitano la loro forza di attrazione verso cerchi concentrici via via più ampi; secondo, allargando gli ambiti delle materie sulle quali decidere a maggioranza. Del resto, è così che il processo è andato avanti finora, pragmaticamente, ma senza rinunciare alla possibilità di fare qualche passo avanti, per quanto piccolo. La via da percorrere sembra quindi essere quella delle cooperazioni rafforzate e dei diritti di opting out. La spaccatura che si è consumata intorno alla vicenda della guerra in Iraq è rivelatrice delle contraddizioni dell'Europa nella fase attuale. Chi ha spaccato l'Europa, chi ha impedito che si realizzasse una strategia comune europea nel Medio Oriente, nel conflitto israelo-palestinese, nei confronti del petrolio, del terrorismo e dell'intervento armato in Iraq? Gli Stati che si sono opposti all'intervento militare (Francia e Germania in testa), oppure quelli che si sono accodati alla politica di Bush (Gran Bretagna, Italia, Spagna, Polonia, ecc.)? Come in una coppia che divorzia, non si può mai dire con certezza di chi sia la colpa. La questione non si può ridurre a una guerra di accuse reciproche di filoamericanismo e di antiamericanismo. Non siamo più nell'epoca della guerra fredda. Non può essere accusato di filoamericanismo chi ritiene che il mondo occidentale abbia valori e interessi da difendere e responsabilità mondiali da assumere, come non può essere accusato di antiamericanismo chi ritiene che non si può seguire sempre e invariabilmente la strategia del governo degli Stati Uniti nella gestione delle relazioni internazionali. Il problema è di identificare gli interessi europei nel mondo di oggi e di domani e di identificare gli strumenti mediante i quali tali interessi possono essere perseguiti e difesi. Su come definire, interpretare e realizzare gli interessi europei si potrà realizzare consenso unanime solo in circostanze eccezionali, in presenza di una minaccia incombente e immediata. La norma nei rapporti tra gli Stati, così come tra gli esseri umani, non è la concordia unanime bensì il dissenso. Per questo c'è bisogno di modi per gestire il dissenso e la democrazia altro non è che il modo meno imperfetto che la civiltà occidentale ha sviluppato per gestire il dissenso senza ricorrere alla violenza. Concretamente, ciò significa rimettere in moto il processo di unificazione senza impedire ai Paesi disposti a trasferire quote di sovranità a un governo europeo di farlo e senza costringere i Paesi riluttanti (siano essi i governi e/o i popoli) a seguire il loro esempio.
Il Mulino, 03-04 2003
La tv, la politica e l’antidoto del mercato
Nello scorso mese di marzo si è constatato senza possibilità di dubbio come la televisione rappresenti un problema politico; e subito dopo come questo problema politico si sia dilatato fino a rivelarsi un severo problema istituzionale. Non che prima potessero esserci tante incertezze in proposito. Ma l'autentica nevrosi che ha sovreccitato tutto il sistema politico durante i giorni che hanno condotto alla nomina del nuovo Consiglio d'amministrazione della Rai è l'esemplificazione più chiara della portata politica che viene attribuita al controllo della televisione pubblica, nel contesto della situazione patrimoniale che investe il presidente del Consiglio; e il processo decisionale che ha condotto alla soluzione del caso creatosi con la caduta del Cda precedente, presieduto da Antonio Baldassarre, costituisce la prova che la questione politica si proietta inevitabilmente, e non proprio con riflessi positivi, sulle presidenze delle Camere, a cui la legge del 1993 assegna la titolarità della nomina. Perché la televisione è una risorsa politica Nell'attesa di conoscere l'esito parlamentare della cosiddetta legge di sistema, messa a punto dal ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, e a cui l'Ulivo oppone i soliti duemila emendamenti, conviene provare a definire alcuni aspetti di fondo, riguardanti l'orizzonte contemporaneo della televisione generalista, nei quali si può riscontrare come agisca l'intreccio fra politica e struttura televisiva. Prima di tutto, è utile chiarire le ragioni per cui oggi la classe politica considera il sistema della televisione, e in particolare l'apparato della televisione di Stato, come una risorsa cruciale per la formazione e il mantenimento del consenso politico. C'è in primo luogo l'evidenza secondo cui l'assetto proprietario delle reti Mediaset, in quanto riconducibile a Silvio Berlusconi, «scarica» sul secondo ramo del duopolio, la Rai, l'interesse essenziale di tutto il sistema politico. Una metà sostanziale della televisione italiana, infatti, non è né contendibile sul mercato né negoziabile in termini politici. Al di là della correttezza giornalistica e dell'equilibrio professionale delle principali figure che gestiscono l'informazione di casa Mediaset, dovrebbe essere chiaro che l'indirizzo culturale, il contenuto e l'orientamento politico delle reti berlusconiane appartengono a una sfera larghissimamente discrezionale. Ciò vuol dire che non esiste nessuna garanzia formale e sostanziale che i telegiornali e i programmi d'informazione debbano rispondere a criteri di imparzialità. Il privato è il privato, e il fatto che la proprietà di mezzo duopolio sia da ricondurre al capo del governo è un semplice incidente della storia politica italiana. È vero che sono state create le norme sulla «par condicio», ma esse sono state attive soltanto durante le campagne elettorali. A sua volta, il pluralismo dei contenuti politici delle reti Mediaset è garantito, ammesso che si possa usare questa espressione, da fattori impalpabili. Nel 1994, conferendo l'incarico di formare il governo a Berlusconi, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si assunse un ruolo di garanzia informale, come se dovesse essere paradossalmente il sovrano a coprire la responsabilità politica del capo del governo; in seguito la legge sulla par condicio ha tamponato il problema alla meno peggio, ma al prezzo di ulteriori rigidità al dibattito pubblico, tali da recare danno alla stessa libertà di informazione, e di favorire ulteriori processi manipolativi. Nel 2002 Carlo Azeglio Ciampi è ricorso allo strumento non proprio ovvio del messaggio alle Camere, e in seguito a interventi tutti ispirati da una preoccupazione acuta per la tenuta del pluralismo nell'informazione. Su questo terreno è arduo immaginare rimedi, se non radicali. Ma poiché il radicalismo dell'eventuale terapia entrerebbe in conflitto con l'interesse di una parte del sistema politico, è più conveniente per il momento limitarsi all'aspetto diagnostico. Un approccio meno scontato potrebbe ad esempio prendere in considerazione le altre ragioni (altre rispetto a un rischio monopolistico conclamato) per cui l'informazione televisiva riveste un'importanza essenziale per la politica italiana. Ora, se è evidente che i grandi numeri dell'audience televisiva costituiscono un fenomeno di rilievo immediato, tale da testimoniare con nettezza il peso potenziale della televisione nella formazione delle opinioni, meno evidente risulta tuttavia per quale motivo dovrebbe esserci una congruenza così forte tra il controllo del medium televisivo e la formazione del consenso politico. Occorre una visione pessimistica della società italiana per immaginarla come una sudditanza indistinta, dominata dalla potenza intrinseca del medium stesso. E in realtà anche le indagini che hanno cercato di misurare l'influsso della televisione sull'espressione del voto, come quelle del gruppo di ricerca ITANES, mostrano una platea segmentata, su cui non è il caso di immaginare un imprinting deterministico delle visioni del mondo proiettate dal sistema televisivo. È vero che ITANES ha mostrato un particolare parallelismo fra il voto per il centrodestra di alcune fasce sociali, in genere «marginali», e la loro esposizione ai programmi Mediaset; ma questo aspetto semmai offrirebbe una spiegazione supplementare dell'accanimento mostrato dalle parti politiche nella battaglia per il controllo dello spazio televisivo residuale, ovvero la Rai. E non spiegherebbe affatto per quale motivo i ceti più moderni e preparati dovrebbero essere inerti davanti al piccolo schermo fino a risultare succubi della sua influenza politica. Un pessimismo di questo tipo è forse concepibile sul piano di una critica sociale di tipo antropologico, o filosofico: le masse televisive «implose nella privacy» si stagliano come una suggestiva immagine di Carlo Galli (La guerra globale, Laterza, 2002), che allude a un universo sociale amorfo, e in quanto tale strumentalizzabile e manipolabile dalla ratio implicita nel processo complessivo della postmodernità. Tuttavia, prima degli esiti finali della grande omologazione, non è inutile concentrarsi su aspetti più circoscritti, attraverso i quali sia possibile una spiegazione almeno parziale del dominio televisivo sulla formazione dell'opinione pubblica. Anche la spiegazione di Giovanni Sartori, secondo il quale la ricerca obbligata dell'audience innesca un meccanismo qualitativamente al ribasso, appare di taglia troppo ingente per essere efficacemente esplicativa di processi più parziali. Sul terreno empirico in questo momento non è in gioco la televisione «cattiva maestra», bensì il complesso di ragioni che designano il peso politico dell'informazione televisiva in una società come quella italiana. Sotto questo profilo, un'ipotesi da valutare è che l'incombere dei messaggi televisivi vada di pari passo con la perdita di autorevolezza della stampa quotidiana. Le ragioni che possono spiegare questo dato di percezione sono numerose, ma una di esse ha un contenuto più «politico» delle altre. Nei quotidiani d'opinione, la necessità dettata da comprensibili motivi di marketing di apparire il più possibile neutrali rispetto al conflitto politico contingente, e generalmente in posizione «terza» riguardo al confronto fra i due schieramenti ufficiali, tende a stemperare le posizioni o a renderle percettivamente irrilevanti: in questo senso, la denuncia delle viziosità intrinseche al centrodestra e al centrosinistra si qualifica agli occhi di molti lettori non tanto come una posizione sopra le parti, ma come un patteggiamento continuo, una compensazione manieristica e alla lunga irritante. Ancora: l'attenzione meticolosa alle minuzie quotidiane della vita politica romana, la spettacolarizzazione del gossip, il retroscenismo, fanno perdere di vista la portata reale del confronto politico; mentre il logorio inevitabile dei commentatori principali, ciascuno preoccupato di non essere identificabile come una figura sbilanciata verso uno schieramento, può rendere irrilevanti le loro posizioni, e condurre il pubblico a una sostanziale diffidenza verso i loro giudizi. Detto a margine, ciò contribuisce inoltre a spiegare il successo - ovviamente di critica - di un giornale come «Il foglio», in quanto il quotidiano di Giuliano Ferrara si propone come il campione di un'informazione partisan, senza dissimulazioni retoriche. O viceversa spiega il successo di mercato dell'«Unità» diretta da Furio Colombo e Antonio Padellaro, che ostenta un atteggiamento critico più estremizzato di quanto non sia la linea del suo partito di riferimento. Su questo sfondo, pur tratteggiato con sommarietà, la brutalità espressiva dell'informazione televisiva assume un segno di forza grandissima. Mentre la carta stampata approfondisce e moltiplica, senza per questo risultare autorevole e credibile, il piccolo schermo seleziona e intensifica, diventando nel medio periodo molto più persuasivo. Oltretutto, si nota facilmente che la televisione si appropria con prontezza degli elementi di novità che appaiono sui giornali, e li proietta in tempo reale nell'opinione pubblica, facendoli diventare ulteriori schegge della propria sfera di contenuti politici e di immagini pubbliche. Quando la televisione «produce» lassetto politico In televisione il pluralismo è una condizione necessaria ma non sufficiente ad assicurare un'informazione distaccata o «corretta». Le possibilità distorsive offerte dal montaggio, dalla titolazione, dalle scalette dei telegiornali, dalla scelta degli argomenti e dal taglio e dal contesto delle dichiarazioni pubbliche sono talmente numerose per cui la faziosità si può esprimere anche in un prodotto ineccepibile dal lato professionale. Ma non è tutto. Si è dato con bella chiarezza almeno un caso in cui è stato lo stesso formato di una trasmissione politica a sovrapporsi in modo prepotente sul processo politico in corso, assecondando e nello stesso tempo influenzando l'esito di una fase politica. Si ricorderà infatti che nella campagna elettorale del 1994 esistevano tre entità politiche in competizione. Il bipolarismo era ancora in formazione, e sulla scena politica erano presenti l'alleanza capeggiata da Berlusconi, la «gioiosa macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto, e il Patto per l'Italia siglato da Mario Segni e Mino Martinazzoli. Ebbene, il clou di quella campagna fu rappresentato dal confronto, quello sì «bipolare» fra Berlusconi e Occhetto negli studi di Canale 5. Con ogni probabilità il polo centrista era stato già sconfitto da un sentimento collettivo, suggerito dai mezzi d'informazione e da molti improvvisati fondamentalisti del maggioritario, secondo cui nel nuovo schema elettorale lo slogan di fondo era «o di qua o di là», senza la possibilità di sfumature intermedie; tuttavia il confronto fra il capo dei moderati e il leader dei progressisti esprimeva anche plasticamente la necessità o l'obbligo di adeguarsi a un principio alternativo, a una scelta esclusiva, alla cogenza aristotelica del «tertium non datur». In chiave di sistema, questo rende manifesta l'importanza strategica dell'accesso all'informazione; d'altronde, è noto che, sottoposti a un test demoscopico, numerosi elettori inglesi negli ultimi decenni dichiaravano la propria disponibilità almeno astratta a votare per il «terzo partito», uscendo dalla gabbia del confronto bipartitico fra Labour e Tory, «se i liberaldemocratici avessero una possibilità di vittoria»: il che dice qualcosa sull'esistenza di barriere all'ingresso del mercato politico-elettorale, dal momento che le chance di successo nelle urne dipende anche dalla presenza e dalla visibilità nel dibattito pubblico, ovvero dall'accesso alla risorsa dell'informazione di massa e dal modo in cui il sistema dell'informazione presenta la competizione elettorale. Come si sa, il polo centrista alle elezioni del '94 vide sacrificati sull'altare del bipolarismo nascente i propri sei milioni di voti. In seguito, i casi sono stati meno clamorosi, dal momento che la macchina bipolare si era andata assestando, e il confronto si imperniava sui due schieramenti principali: tuttavia non occorre una mentalità particolarmente incline alla dietrologia per accorgersi che l'ampio spazio dedicato dai talk show a Fausto Bertinotti non rispondeva soltanto all'interesse giornalistico per l'oltranzismo sofisticato del capo di Rifondazione comunista, ma aveva come sottoprodotto anche la conseguenza di recare danni seri alla compattezza e alla capacità di attrazione dell'Ulivo. E forse è di qualche rilievo che alle elezioni del 2001 alcuni partiti come L'Italia dei valori di Antonio di Pietro, la Lega di Bossi, il cartello postdemocristiano Ccd-Cdu, e il movimento di Sergio D'Antoni Democrazia europea non siano riusciti a raggiungere la soglia di sbarramento del 4 per cento al proporzionale: un segno della loro irrilevanza numerica o, anche, un prodotto della semplificazione informativa? La lottizzazione di maggioranza Una delle conseguenze più palesi del «bipolarismo non temperato» deriva dal fatto che la formula maggioritaria si è impressa a forza su un'architettura istituzionale, e su quella serie di convenzioni che i giuristi riferiscono alla costituzione materiale, investendone profondamente la tenuta. Ai tempi della scoppoliana «Repubblica dei partiti», la spartizione politica delle posizioni di vertice nell'establishment pubblico e i suoi criteri di attuazione costituivano un sub-sistema pervasivo. Se i partiti di governo gestivano in regime di monopolio pratico gli enti di Stato, con l'Iri e l'Eni che esemplificavano la logica della coabitazione democristiana e socialista, esistevano ampi settori, a cominciare dall'elezione del capo dello Stato per venire agli istituti parlamentari, dalla presidenza delle Camere alle commissioni parlamentari, in cui il ruolo dell'opposizione comunista era riconosciuto e negoziato. La Rai era l'esempio forse più plateale di quella che Alberto Ronchey definì «lottizzazione». La spartizione avveniva per aree di influenza, si delineava nel controllo delle reti, nella direzione dei telegiornali, nelle nomine di tutta la costellazione dell'emittenza pubblica, nelle assunzioni dei giornalisti. Una volta che il metodo maggioritario ebbe travolto il sistema di pesi e contrappesi, risarcimenti e veti su cui si basava la convivenza politica e parlamentare, le ripercussioni furono vistose. Mentre in precedenza la televisione di Stato garantiva un pluralismo contrattuale, in cui il servizio pubblico si qualificava come la camera di compensazione della trattativa politica, la durezza implicita del sistema maggioritario non poteva non squilibrare anche il balance of power televisivo. All'epoca della proporzionale le convenzioni accettate consentivano una rappresentanza sufficientemente congrua con la consistenza dei partiti. Il calcolo dei rapporti di potere permetteva ad esempio una divisione «verticale» delle reti e dei telegiornali, ancorandoli al ruolo dei tre pilastri principali del sistema politico di allora (Dc, Psi e Pci). Sotto i cartelli di appartenenza politica dei vertici, la logica della spartizione e della compensazione dava luogo a una trama fittissima che alla fine produceva un rispecchiamento degli equilibri politici generali. Che il sistema fosse perverso è fuori discussione; ma sembra altrettanto chiaro che l'impatto del maggioritario abbia prodotto l'effetto dell'elefante nella cristalleria. Come se la dittatura della maggioranza si fosse sommata al manuale Cencelli. Il primo presidente del Cda nominato dal Polo delle libertà (con Irene Pivetti e Carlo Scognamiglio al vertice delle Camere), ovvero Letizia Moratti, è passato alla cronaca per avere esplicato un programma di gestione della Rai orientato a rendere la televisione pubblica «complementare» alla programmazione delle reti Mediaset. Il che significa che dal duopolio formalmente competitivo si passava automaticamente a un duopolio collusivo. Quanto al Cda nominato dall'Ulivo, il suo presidente, Roberto Zaccaria, ha interpretato la sua parte proponendosi in modo esplicito all'incirca come un leader politico vicario (per un disinibito editoriale del «Foglio» il suo Cda «è affondato nella più bestiale faziosità elettorale»). Infine, il Consiglio d'amministrazione nominato dopo le elezioni del 2001 ha reso manifesto che la lottizzazione era divenuta doppia, interessando sia le posizioni attribuite alla maggioranza sia le nomine riferibili all'opposizione. La formula del «3+2» ha esordito con la soluzione di per sé grottesca di un presidente che elegge se stesso, sciogliendo lo stallo fra consiglieri di maggioranza e d'opposizione con il proprio personale voto. In seguito la lunga, lenta, interminabile caduta del Cda presieduto da Baldassarre, dopo le dimissioni dei consiglieri di centrosinistra Carmine Donzelli e Luigi Zanda, e poco dopo del centrista ago-della-bilancia Marco Staderini, ha messo in pubblico l'insostenibilità perfino estetica dei criteri di nomina, dei loro risultati pratici e dei loro esiti politici e istituzionali. Il destino della terzietà Per reagire al discredito suscitato dalla fine ingloriosa del Consiglio d'amministrazione dei «giapponesi», del Cda «Smart», i presidenti di Camera e Senato avevano una sola carta: riunirsi in separata sede e uscirne solo con il foglietto con la cinquina dei designati. Ma questa è un'ipotesi astratta, eroica nel modo in cui viene esposta e ragionevolmente impraticabile sul piano empirico. Quando Marcello Pera ha escogitato la trovata di replicare nel Cda la formula che vige alla Commissione parlamentare di vigilanza (con la presidenza affidata a un membro dell'opposizione), almeno in un primo tempo è sembrato che essa non fosse più che un escamotage causidico per sparigliare il gioco. Ma, subito dopo, su quell'intenzione dei vertici parlamentari è sceso un clima di trattativa clandestina. Che cosa fosse accaduto è presto spiegato. Mentre la parte diessina dell'opposizione tentava di tenere ferma una posizione che rivendicava la totale e assoluta responsabilità di Pera e Casini nelle designazioni, il vertice della Margherita si faceva coinvolgere nel negoziato («Sarebbe un errore politico chiudere la porta», secondo le indiscrezioni attribuite a Francesco Rutelli): avanzava terne di candidati, discuteva in silenzio, intravedeva la possibilità di incamerare un vantaggio politico frazionale. Tanto che a nomina avvenuta il diessino Vincenzo Vita avrebbe sintetizzato in questo modo: «Siamo caduti dalla brace nella padella». La designazione a presidente di Paolo Mieli è stata il tentativo estremo di uscire da un groviglio in apparenza inestricabile e ad un tempo lo sbocco politico di questo negoziato condotto sottotraccia. La composizione del Consiglio era stata studiata con una certa accortezza, almeno nel senso che gli altri quattro consiglieri (Francesco Alberoni, Angelo Maria Petroni, Giorgio Rumi, Marcello Veneziani) rappresentavano più che altro un contorno intellettuale alla figura professionale di Mieli. La scommessa consisteva nell'ipotesi che una personalità come quella del direttore editoriale del gruppo Rizzoli-Corriere della sera potesse incarnare il ruolo di garante di tutti gli equilibri politicoculturali intrinseci alla Rai, di gestore diplomatico dei prevedibili conflitti futuri, di ispiratore culturale di una televisione sopra le parti (o meglio, in cui le parti trovassero una continua mediazione). A posteriori, è netta la sensazione che l'attribuzione a una sola persona dell'insieme di queste funzioni fosse all'origine della debolezza della designazione. La nomina del Consiglio inoltre appariva inevitabilmente squilibrata se si considera che, al di là della proclamata autonomia dai partiti dei suoi componenti, non si vedeva nessuna figura che potesse «garantire», secondo il normale codice spartitorio, uno dei partner di governo, ossia la Lega. Non appare un caso che il primo e più violento attacco contro il presidente designato sia venuto dalla prima pagina della «Padania», mentre Umberto Bossi non nascondeva diffidenze spirituali significative rispetto a «Mielig»: «È un sessantottino, e io non dimentico». Tutto il resto, comprese le scritte antiebraiche alla sede Rai di Milano, ha contribuito più che altro ad agitare le acque. La diffidenza se non l'ostilità di Silvio Berlusconi per il direttore nel 1994 che aveva pubblicato la notizia dell'invito a comparire spedito al premier dal pool di Milano, e che nella campagna elettorale del 1996 aveva scritto sul «Corriere » un editoriale inequivocabilmente avverso al Cavaliere, costituiva un ostacolo forse non insuperabile, se si tiene conto delle sperimentate capacità equilibratrici di Mieli; mentre i punti subito rivendicati dal presidente «sotto riserva», cioè la nomina di un nuovo direttore generale, le richieste retributive e l'annuncio del ritorno in prima serata di giornalisti chiaramente d'opposizione come Enzo Biagi e Michele Santoro («Cominciamo bene», aveva commentato Berlusconi), che in un primo momento erano sembrate un test per misurare preventivamente il raggio della propria autonomia, in pochi giorni hanno contribuito a bruciare una designazione che sotto l'apparenza di una solidità ineccepibile conteneva evidentemente una criticità politica rilevante. La caduta della designazione di Mieli, per «difficoltà di ordine tecnico e politico» assecondate dal ticket Bossi-Tremonti, è comunque significativa anche per alcuni effetti collaterali. Secondo le interpretazioni più ottimistiche, l'«invenzione» del Cda presieduto da una personalità d'opposizione ha fatto compiere un passo avanti alla politica italiana. Lo ha sottolineato lo stesso Mieli: «Il mio stato d'animo è quello di uno scienziato che ha assistito ad un esperimento in provetta assolutamente inedito il cui risultato sarebbe stato utile per tutti». E ancora: «In questa settimana è come se nel Paese si fosse manifestato un bisogno generale di professionalità e terzietà. È un segnale positivo e fruttuoso. Resta in piedi un metodo nuovo: per una volta mi è sembrato di vedere venir fuori le parti responsabili dei due schieramenti». Secondo questa tesi, con una decisione di questo genere il bipolarismo italiano dimostrerebbe di non essere più in una fase di «guerra civile». Si sarebbero individuati settori della vita nazionale tutelabili rispetto alla logica dell'occupazione politica maggioritaria. Ma si può immaginare che abbia un futuro una concessione dall'alto determinata da un momentaneo calcolo di opportunità? Che cosa resterebbe delle convenzioni nel momento dell'acuirsi del conflitto politico? Secondo una visione più venata di pessimismo, la rinuncia forzosa di Mieli ha messo in chiaro invece un aspetto ulteriore del rapporto fra politica e informazione televisiva. Questo aspetto ulteriore è la concreta impotenza di quelle posizioni politico-culturali che si fanno ascendere all'idea di «terzietà», cioè di dichiarata distanza dal conflitto fra gli schieramenti, non appena esse vengono a contatto con quell'ambito in cui la politica esprime la durezza delle sue decisioni. La terzietà, o il «terzismo», di cui Mieli è uno dei teorizzatori più assidui e convinti, è un'eccellente disposizione intellettuale, che può esprimersi nelle scelte culturali, nell'osservazione analitica del confronto politico, nella sollecitazione alla maggioranza affinché non cada in tentazioni sfrontate, e all'opposizione perché non si rattrappisca in un aventinismo ostruzionistico. Ma non regge allorché l'esercizio del potere, con le sue divisioni così nette, e con gli attriti anche sul piano personale che implica, porta alla scelta fra un sì e un no, allo sciogliersi traumatico di un'alternativa netta. Per completezza descrittiva si può aggiungere che, in modo simile, si è rivelata illusoria l'idea che a contatto stretto con la politica potessero avere un ruolo prevalente le reti di solidarietà culturale e professionale di cui Mieli è uno degli snodi più importanti nell'informazione italiana attuale. Secondo le prime ricostruzioni, poteva sembrare che la designazione del direttore editoriale del gruppo Rcs fosse il risultato dell'appoggio e del lavorio di un network che oltre a Mieli si estendeva agli ambienti marcati dall'iniziativa politica e di indirizzo ideologico di Giuliano Ferrara e del «Foglio». Anche in questo caso si è visto che il potere di queste reti (di solidarietà professionale, di «complicità » giornalistica con i suoi giochi di sponda) sarà sicuramente utile per costruire un consenso nell'opinione pubblica e anche in alcuni settori della realtà politica, ma si arresta di fronte al primato della decisione politica. Una soluzione radicale Ciò che si è subito dimenticato è che la rinuncia di Mieli e la nomina della Annunziata erano state precedute dalla trovata estemporanea del Cda Baldassarre-Albertoni di spedire Raidue a Milano; dalla resistenza accanita fino alla provocazione dei due consiglieri, che per andarsene hanno dovuto subire la minaccia di una mozione di sfiducia nella Commissione di vigilanza da parte An e Udc; da una sfilata impressionante di candidature, da Enzo Cheli a Ottaviano Del Turco, e nel mezzo da un pazzesco ballon d'essai berlusconiano, che per il Cda spiattellava una cinquina capeggiata dal presidente di McDonald's Italia, Mario Resca, e alla direzione generale un tale «leghista di governo», ex presidente della provincia di Varese, parcheggiato da Bossi alla direzione del centro di produzione Rai di Milano (funzione che svolgeva da sette mesi). Una «vicenda lunga e grottesca», quella del Cda della Rai secondo «L'Osservatore romano». Sulla scia di questi avvenimenti si è avuta la conferma implicita e definitiva che nelle condizioni date è illusorio pensare che siano sufficienti buone motivazioni di carattere comportamentale per risolvere uno stringente problema politico sistemico. Vale a dire che anche la soluzione individuata con esatto tempismo e con chirurgica esattezza politica dai presidenti delle Camere dopo la rinuncia di Mieli (cioè la designazione come presidente di Lucia Annunziata che si è aggiunta ai quattro consiglieri già nominati, con il via libera di Piero Fassino e la fierissima e ormai inutile opposizione di Francesco Rutelli, costretto ad accettare a denti stretti il colpo della risposta diessindalemiana) segnala una formula che affida alla personalità dei designati, e in special modo della neopresidente, la tutela di tutto ciò che parlando della Rai si associa a termini come «servizio pubblico», pluralismo, autonomia dalla catena di comando politico. Con tutto questo, forse è venuto il momento delle soluzioni radicali, ed è ovvio che come si è accennato in apertura le soluzioni radicali siano politicamente impegnative. Occorrerebbe ad esempio mettere a frutto l'idea che nel nostro Paese il processo di privatizzazione dell'economia pubblica è stato utile non solo e non tanto nel tentativo di snellire un apparato economico e industriale che per molti aspetti era una macchina inefficace; ma soprattutto perché ha sottratto ai partiti un sistema feudale, una manomorta che era il campo ideale per la spartizione e lo scambio consortile. Qualcuno sa immaginare, in uno scenario controfattuale, che cosa sarebbe accaduto se il sistema maggioritario avesse invaso anche il sistema di norme non scritte che prima presiedeva alle nomine nell'economia pubblica, nelle banche, nell'industria di Stato? La domanda grazie al cielo è irrealistica, ma solo perché nel frattempo si è largamente privatizzato. Tuttavia, seguendo la logica che sottostà a questa domanda, è pressoché impossibile resistere alla suggestione che oggi, per ciò che riguarda l'informazione televisiva e la televisione tout court, la «cosa» che assomiglia di più alla libertà, al pluralismo, alla garanzia che posizioni politicamente e culturalmente diverse siano adeguatamente rappresentate è il mercato. Non regole imposte dall'alto, ma il principio della concorrenza, della ricerca di un proprio pubblico, della possibilità di accesso paritario alle risorse pubblicitarie. Se ciò significa una inevitabile diffidenza verso la difesa di «valori» difficilmente precisabili come il servizio pubblico, va tenuto presente, a scanso di equivoci, che mercato significa mercato, e concorrenza significa concorrenza. È vero che alla privatizzazione della Rai si accennava anche nelle «88 tesi» che costituivano l'embrione programmatico dell'Ulivo di Prodi nel 1996. Ma il corollario della richiesta di mercato è che non si risolve il problema del duopolio imperfetto, o del duopolio collusivo, semplicemente mettendo sul mercato la metà del duopolio medesimo. Se mercato dev'essere, che mercato sia. E se questo contiene implicitamente anche la prospettiva dello smantellamento della posizione di Mediaset, non è il caso di menare scandalo per l'attacco alla proprietà privata «inviolabile» o arrestarsi di fronte alla definizione preventiva dell'intrattabilità della pratica. Ciascuno può valutare anche intuitivamente che cosa significherebbe un sistema televisivo con sei-sette protagonisti liberi da filiazioni politiche certificate. È vero che in prospettiva la legge Gasparri modifica le modalità di nomina, prevedendo che il presidente sia indicato dall'azionista pubblico, il ministro dell'Economia, con la ratifica della Commissione parlamentare di vigilanza con la maggioranza «di garanzia» dei due terzi (salvo nuovi interventi riduttivi già profilatisi nell'iter parlamentare). Ed è vero che il futuro può essere segnato da un sistema dell'informazione in cui satellitare, digitale, procedure web, sistema generale delle telecomunicazioni modificheranno le condizioni di mercato attuali, rendendo forse obsolete le considerazioni sul mercato imperfetto della televisione generalista. Eppure, se si accetta la nozione che il pluralismo costituisce una questione di principio, conviene prenderla alla lettera: e cominciare, per l'appunto, dal principio.
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