LA STAMPA
LA STAMPA, 07.01.1998
L’EUROPA COME CAMPO DI BATTAGLIA
L'Unione europea ha la caratteristica infallibile di apparire un congegno perfetto quando c'è bonaccia e di tramutarsi in un campo di battaglia non appena il mare si increspa. Ieri il commissario europeo Emma Bonino ha ricordato piuttosto aspramente che l'Italia «chiama l'Europa solo quando abbiamo dei problemi», siano le quote latte, gli albanesi o i curdi. Il fatto è che l'arrivo dei curdi appare sotto fisionomie diverse a seconda del punto da cui lo si guarda. Per gli italiani è una delle consuete emergenze, prima sottovalutate, poi nevrotizzate, infine proiettate su una dimensione superiore e più ampia, quella europea, come per sgravarsi la coscienza e demandare ad altri le soluzioni. Per i tedeschi, o almeno per il ministro degli interni Manfred Kanther, le emergenze italiane sono la conferma della fragilità dell'Unione, della inquietante permeabilità dei confini meridionali e dell'inaffidabilità dell'Italia come sottoscrittrice di ogni tipo di trattati. Seguono inevitabili consultazioni telefoniche di Kohl con Prodi e Jospin. Ma ha ragione la Bonino, il problema non sono i curdi, non c'è un'invasione, non siamo di fronte a un esodo biblico. C'è piuttosto una questione di affidabilità europea, sulla quale noi tradizionalmente siamo piuttosto scoperti, e di fiducia nei partner europei, sulla quale sono invece i tedeschi a mostrare sospettosità e retropensieri molto più eloquenti delle dichiarazioni ufficiali. Alla diffidenza tedesca non porranno rimedio le assicurazioni di Veltroni secondo cui l'Italia «non è un paese di passaggio»: si capisce benissimo che ciò che i tedeschi temono è proprio il lassismo italiano per profughi che comunque se ne andranno a Nord. Ma il codice di affidabilità europea dovrebbe funzionare a trecentosessanta gradi. Sarà pure lecito ricordare che il nostro paese ha raggiunto un risultato, con l'abbattimento del deficit pubblico, che assume un profilo «storico». Sarà il 2,7 per cento sul Pil, sarà un decimale in più: resta il fatto che l'Italia ha conseguito un risultato che anche i più ottimisti giudicavano molto problematico, mentre la Germania, secondo l'istituto berlinese di ricerca Diw, sfora il parametro e non di un'inezia (3,3 per cento). Chi pensa che l'obiettivo del fabbisogno al 3 per cento sia stato ottenuto soprattutto con artifici contabili, non dovrebbe dimenticare che la Germania si è inventata una finanza creativa molto italian style (rivalutazione delle riserve auree, vendita delle riserve petrolifere, non ripianamento dei debiti degli ospedali). Chi sostiene che il risanamento della finanza pubblica italiana è riuscito in termini di grandezze macroeconomiche ma è fallito sulle riforme strutturali del welfare, dovrebbe tuttavia mettere sull'altro piatto della bilancia che la prestazione complessiva del paese è stata stupefacente. Non è accaduto molte volte infatti che l'Italia si vedesse indicare da un governo un obiettivo preciso, e su questo obiettivo sia riuscita a convergere con puntualità ed efficacia. La società del nostro paese si è accollata un peso fiscale più elevato, ha pagato senza proteste l'Eurotassa, ha mantenuto competitività industriale, e adesso sembra finalmente avere acchiappato la scia della ripresa economica. In altri momenti si sarebbe evocato lo Stellone, o la capacità di alcuni segmenti della collettività di supplire alle deficienze di altri. Ma adesso sembra più appropriato parlare di uno sforzo condiviso e guidato, di cui sono state consapevoli le élites ma anche, si direbbe, la società italiana nel suo insieme, capace di spremere le proprie risorse in modo inaspettato. Osservando allora la prestazione tedesca sui conti pubblici, sarà elegante non fare ironie su quel virgola 3 di eccesso, e nemmeno cedere alla tentazione di ricordare gli arricciamenti di naso di politici e banchieri a proposito del miracolo contabile italiano e della sua qualità. Sarà meglio riflettere piuttosto sulle difficoltà che un grande paese europeo si trova ad affrontare per ristrutturare il suo modello politico-economico, e assimilare l'idea che la partita europea non si vince pretendendo di giocare in proprio. Non c'è più spazio per i provincialismi, non si può - di nuovo ha ragione la Bonino - «essere un paese che subisce con entusiasmo ciò che succede ma difficilmente sa usare le procedure nei tempi e nei luoghi appropriati». Tutto vero, a patto però che le critiche e i confronti avvengano su un piano di parità e di imparzialità effettiva: perché non è bene che qualcuno risulti meno europeo di altri rispetto ai curdi, ma nemmeno che qualcun altro si consideri più europeo degli altri malgrado il livello del deficit.
LA STAMPA, 11.01.1998
L’ABBOZZO DI UN METODO
L'apertura dell'anno giudiziario è l'occasione in cui il procuratore generale della Cassazione seppellisce sotto palate di pessimi numeri la situazione della giustizia. Processi interminabili, reati non perseguiti, responsabilità non individuate. Ieri, tuttavia, il procuratore Ferdinando Zucconi Galli Fonseca non si è limitato a formulare una diagnosi infausta. Ha proposto invece anche alcune linee di una soluzione «riformista», indicando empiricamente alcuni obiettivi e qualche strumento per approssimare una condizione migliore della giustizia italiana. Forse ha anche indicato qualcosa di più: l'abbozzo di un metodo. È utile sottolineare parola per parola le mete auspicate: cioè la fine della «durata intollerabile dei processi», una magistratura «che svolge nel silenzio il suo ruolo di pacificazione», senza populismi e politicizzazioni, il bando ai «processi anticipati» celebrati in tv e sui giornali, tutto questo in modo che i cittadini riacquistino verso la giustizia «la fiducia che avevano smarrito». Basta l'elencazione di questi obiettivi per mostrare con crudezza la gravità della situazione corrente. Al punto che non è affatto esagerata la diagnosi secondo cui dal punto di vista della giustizia il nostro non è un paese a tutti gli effetti europeo. Convenzionale pessimismo di ogni anno? In realtà, secondo il procuratore della Cassazione è possibile tracciare alcune direttrici che orientino verso una giustizia più efficace. Sembra di notare infatti nelle sue parole una specie di «possibilismo»: non ci sono rifiuti o scomuniche a priori sulle ipotesi di riforma della magistratura, anzi, viene più volte espresso l'augurio che le innovazioni costituzionali e le riforme processuali possano avere un effetto migliorativo. Lascia quindi il segno, il discorso di Galli Fonseca, perché non contiene unzioni corporative, e non esprime gelosie settoriali rispetto alla politica. Il procuratore non esita a segnalare «la scompostezza e l'inopportunità di alcune esternazioni di singoli magistrati, i quali vorrebbero porsi come interlocutori diretti dell'opinione pubblica». Esamina e discute le riforme progettate dalla Bicamerale senza mai eccepire integralisticamente alle scelte formulate dai costituenti: è - per fortuna - il frutto di una visione «laica» della giustizia, senza fondamentalismi e senza arroccamenti particolaristici. Se la giustizia nelle società moderne ha la tendenza a oscillare di continuo fra potere e funzione, si ha l'impressione che il procuratore generale della Cassazione ne colga soprattutto l'aspetto funzionale, lasciando da parte solennità liturgiche e dignità castali. Nelle parole del procuratore si prospetta una giustizia pragmatica, «semplice e rapida», che deve fare i conti con i grandi numeri, con tre milioni di reati denunciati ogni anno. Ecco allora che bisogna collocare le idee e le proposte di Galli Fonseca su questo sfondo di pragmatismo per comprenderne adeguatamente anche la proposta più inattesa, quella riguardante l'introduzione della somministrazione controllata della droga ai tossicodipendenti. È possibile che l'idea verrà discussa con toni accalorati, e che si facciano sentire soprattutto le convinzioni pregiudiziali. Ma l'ipotesi suggerita dal procuratore generale dovrebbe invece essere discussa con molta attenzione. Intanto perché viene formulata da un magistrato di lunga esperienza, esponente di una cultura aliena dagli estremismi. E subito dopo perché ripropone nella discussione pubblica un tema su cui finora si sono sentite soprattutto le campane di chi sostiene opposti ideologismi: i «proibizionisti», che puntano sulla repressione del traffico di droga e sul recupero dei singoli tossicodipendenti; i «liberalizzatori», secondo i quali il libero commercio delle droghe pesanti libererebbe d'incanto le società avanzate dalla criminalità grande e piccola legata alla realtà della droga. La proposta di Galli Fonseca mette in luce che il mondo non è una sequenza in bianco e nero ma una eterna successione di grigi. Così come la separazione delle carriere non è, o non dovrebbe essere, un tema di ortodossia politico-dottrinaria, così anche la politica giudiziaria contro la droga può contemplare pluralità di strumenti e gradualità di applicazioni. Se si tratta di trovare un punto in cui spezzare la catena dell'illegalità, sono benemeriti coloro che intervengono alla fine della catena, raccogliendo e confortando un individuo prostrato dall'eroina, ma si può anche tentare di intervenire prima, modulando in modo opportuno repressione e sostegno. L'unica precauzione raccomandabile, in ogni caso, è quella di non fissarsi sulle posizioni preconcette. Visto che ci si può dividere fra il partito dei giudici e il partito degli antigiudici, fra il partito della somatostatina e quello della chemioterapia, ci si potrà anche dividere pro o contro la somministrazione controllata della droga. Ma sarebbe opportuno che comunque, su questo tema come sugli altri sollevati da Galli Fonseca, si tenessero in considerazione gli obiettivi da raggiungere e non i dogmi da onorare.
LA STAMPA, 19.01.1998
LA STORIA ALLE SPALLE DI D’ALEMA
Il Pds vive malvolentieri il dibattito sul comunismo. I decenni denudano la storia dai travestimenti, il tempo riduce l'ideologia a una tragica mascheratura intellettuale. Sembra impossibile addirittura spiegare perché qualcuno in essa ha creduto, e ha continuato a crederci anche quando la fede si era rivelata un terribile errore o un calcolo feroce. Anche Massimo D'Alema, nella sterminata lettera pubblicata ieri sull'Unità, sembra confessare la propria incredulità per avere creduto: «Io stesso mi sono chiesto che cosa legasse ancora uno che, trovandosi a Praga il giorno dei carri sovietici, aveva ritenuto naturale scendere in piazza a gridare e a protestare, con quelli - i sovietici - che i carri ce li avevano mandati». Il testo di D'Alema ha l'aspetto di una relazione congressuale. La parte relativa a «i nostri conti con il comunismo» rappresenta la parte finale (breve, in proporzione) di un'ampio svolgimento in cui il segretario rivendica il ruolo cruciale del Pds nella transizione dal 1992 a oggi, la sua politica di alleanze, i risultati raggiunti dal governo, i progetti di riforma costituzionale. Come gli accade sempre, D'Alema è convincente quasi su tutto. Tranne che nello spiegare perché i comunisti italiani, con tutte le loro specificità, le loro riserve antisovietiche, la loro conclamata italianità, hanno mancato giusto di trent'anni l'appuntamento con la revisione di Bad Godesberg. Non si tratta solo di una questione storica. Non c'è di mezzo soltanto un giudizio a posteriori sull'esperienza politica del Pci. E il punto decisivo non consiste soltanto nel richiedere al segretario del Pds di spiegare come mai nell'élite del partito la reincarnazione di una parte maggioritaria del Pci nel Pds è avvenuta senza troppi drammi politici. Se si trattasse soltanto di descrivere come è avvenuto il passaggio da una forza come il Pci, ispirata da una delle maggiori religioni della modernità, a un partito come il Pds, dalla fisionomia e dal programma stiracchiati in modo piuttosto postmoderno, il compito probabilmente sarebbe interessante solo come pratica storiografica. Ma il fatto è che l'identità del Pds non è un problema di storia, bensì una questione politica, che agisce qui e ora, e che limita notevolmente le potenzialità del Pds, gettando una luce piuttosto incerta tanto sull'evoluzione della sinistra italiana quanto sulla stabilità dell'assetto politico attuale. Perché malgrado tutto il Pds è un partito che non riesce a sfondare: malgrado l'abilità tattica di D'Alema, nonostante lo storico radicamento nel territorio, nonostante il potere effettivamente conquistato al centro e sul piano locale. Anzi, c'è la sensazione che le dimensioni del partito siano stabilizzate. Perché l'Ulivo va bene, ma il Pds va malino: il centrosinistra guadagna consenso capitalizzando l'effetto Euro, mentre il partito di D'Alema sembra destinato a restare un «partito del ventun per cento»: forse il maggiore partito italiano, almeno nelle condizioni attuali, ma un partito incapace di esprimere un indirizzo maggioritario alla coalizione di cui fa parte, un orientamento politico di guida, se si vuole un'egemonia politico-culturale. Diagnosi pregiudiziale? Già, e allora perché tutti questi affanni per evocare un ectoplasma come la «Cosa 2», cioè la fumosa ipotesi di un partito capace di attrarre altre culture politiche? Se il Pds fosse davvero competitivo non si annuncerebbero stati generali della sinistra, né fasi politiche costituenti. D'Alema e lo staff pidiessino hanno il diritto di giudicare una forzatura imputare l'incompleto potenziale politico del Pds al suo passato e al modo in cui da questo passato il Pds è uscito. Ma il passato conta: conta per An, che ha raggiunto i suoi limiti fisiologici mentre sembrava lanciata verso chissà quali successi, e conta anche per il Pds. La sua trasformazione era avvenuta con la benevolenza della classe intellettuale, favorevolmente orientata verso questa metempsicosi. Ora la polemica degli intellettuali non fa che mettere allo scoperto ciò che molti elettori per conto loro hanno continuato a pensare del Pds: cioè che la storia da cui viene il partito di D'Alema non è una storia di cui essere orgogliosi. Per questo, il Pds è legittimato soprattutto dagli alleati. Può essere una parte di una coalizione. Ma non ha ancora la patente di fiducia necessaria per correre da solo.
LA STAMPA, 26.01.1998
L’OMBRA DEL CASO MORO
Sembra che talvolta nella vicenda italiana scatti come una maledizione l'istante in cui un individuo deve scegliere fra la propria salvezza personale e il sistema di lealtà in cui era inserito. Ieri è stato il caso di Giuseppe Soffiantini, i cui sequestratori hanno fatto giungere al Tg5 non uno soltanto, ma contemporaneamente due messaggi. Il primo messaggio, brutale, consisteva nel lembo dell'orecchio destro del rapito. Il secondo messaggio va letto nelle parole scritte da Soffiantini. Dalle quali si capisce che il sequestrato chiede alla sua famiglia di pagare il riscatto abbandonando ogni esitazione e superando gli ostacoli frapposti dalle autorità investigative, dai magistrati, insomma dalle istituzioni. Fino a minacciare di «chiedere i danni» a chi ha impedito la sua liberazione. Non è la prima volta che accade. Vent'anni fa toccò in sorte ad Aldo Moro. Anche allora si crearono due fronti contrapposti, quello della fermezza e quello della trattativa; le lettere consegnate ai giornali diventarono gli strumenti con cui l'uomo politico cercava di impostare la trattativa per la propria salvezza, mentre i suoi sequestratori cercavano di manipolare l'informazione a proprio vantaggio. Se spogliamo i due casi di ogni connotato politico, rimane soltanto il dilemma di un essere umano che si trova al centro di un tragico conflitto fra la regola e l'eccezione. La regola esige il rispetto della legge, che impone il divieto di trattare con i sequestratori. L'eccezione implica il sopravvento di un impulso di umanità. Un punto d'incontro sembra impossibile. Tuttavia è il caso di valutare attentamente i due messaggi di ieri. Perché l'uno è certamente rivolto ai famigliari, affinché si diano da fare alla svelta. Mentre l'altro è rivolto all'opinione pubblica, serve a suscitare ondate di emotività. Ancora una volta, non c'è soluzione di continuità fra il privato e il pubblico, cioè il politico. E ancora una volta i sequestratori lo hanno intuito. Bisogna vedere se lo hanno compreso le istituzioni. Sappiamo tutti che l'effetto dissuasivo della legislazione sui sequestri di persona è garantito soltanto dalla regolarità con cui la legge viene applicata. Ma fino a un limite di umanità e di ragionevolezza. Soffiantini parla di ipocrisia: diciamo che non di rado la fermezza ostentata non ha nascosto la cedevolezza clandestina, e l'arrendevolezza sottaciuta ha mitigato uno scacco insostenibile. Sui sequestri di persona abbiamo già rischiato qualche mese fa di vedere nascere in politica il partito della trattativa: e allora, vale davvero la pena considerare equivalenti il privato e il pubblico, fino a provocare un cortocircuito di sfiducia nelle istituzioni? È ancora il caso di praticare su Soffiantini e la sua famiglia quell'accanimento giuridico che sembra avere già valicato da tempo la soglia di ciò che è umano, ragionevole e comprensibile sotto il profilo pubblico, cioè politico?
LA STAMPA, 02.02.1998
I VERI OBIETTIVI DI FINI
Comunque la si giudichi, la dichiarazione con cui Gianfranco Fini ha offerto la disponibilità di An a riconsiderare la divisione del Csm in due sezioni costituisce uno dei pochi atti di un sicuro significato politico emersi negli ultimi tempi all'interno del Polo. Nelle parole pronunciate sabato al congresso dell'Associazione nazionale magistrati c'è infatti da cogliere una consapevolezza del proprio ruolo e soprattutto un piglio ormai inusuale per il centrodestra. Ma nello stesso tempo, mentre corregge significativamente la linea del Polo in tema di giustizia, viene da chiedersi quale sia il suo disegno, se abbia un obiettivo istituzionale e politico già precisato, e alla fine se abbia in mente un modello di partito su cui profilare An. Appare evidente che il presidente di An, dopo avere accettato malvolentieri il «viottolo» della Bicamerale, sta puntando gran parte del suo capitale politico proprio sul progetto formulato dalla Commissione. Silvio Berlusconi smentisce con fastidio che il suo principale alleato abbia un «asse» privilegiato con D'Alema, ma resta il fatto che mentre Forza Italia non ha un punto di vista sull'esito delle riforme costituzionali, Fini invece ce l'ha, e piuttosto preciso. Fini percepisce con nettezza che lo sfondamento vittorioso a cui il suo partito sembrava destinato probabilmente non avverrà. Gli assegnano limiti fisiologici le sue origini politiche, per quanto rivedute e corrette, una cultura oscillante fra Evola e Popper, una collocazione politica deliberatamente situata fra la destra e l'estrema destra (che gli impedisce di proporsi come partito generalista), e un ceto politico, soprattutto in periferia, che gi fa da zavorra. La riforma costituzionale è il primo strumento per conseguire una legittimazione definitiva. Quindi Fini non può mancare l'occasione. Deve arrivare in fondo al processo costituente costi quello che costi. Finora il prezzo era stato stato soprattutto un presidenzialismo più che dimezzato e molto confuso (oltretutto criticato da Domenico Fisichella, cioè il più accreditato costituzionalista di An); adesso sul piatto della bilancia viene posta anche la posizione sulla giustizia, che fa piazza pulita delle velleità più facinorose che allignano nel centrodestra contro la magistratura. Dunque, asse con D'Alema o no, in questo momento il leader di An è uno dei più solidi puntelli dell'incerto disegno partorito dai bicameralisti: e lo è perché gli conviene anche sotto una luce strettamente politica. Il prodotto della Bicamerale infatti non è soltanto una nuova architettura costituzionale, bensì un dispositivo che fotografa gli schieramenti attuali e li «fissa», cioè tende a rendere improbabili scomposizioni e ricomposizioni del bipolarismo attuale. Si può pensare che Fini giudichi irrimediabile la fine del Polo, e che consideri in tutta la sua fragilità la leadership di Berlusconi anche per ciò che riguarda Forza Italia: proprio per questo deve anche agire per rendere impossibili i movimentismi di centro come quelli di Cossiga (il quale di converso non nasconde affatto l'idea di marginalizzare An e di proporsi come competitore del Pds da centro). Berlusconi risponde criticando tutti i «pentitismi» politici, quello di An ovviamente compreso, e soprattutto lanciando l'idea di una riforma della legge elettorale in senso proporzionale: cioè proprio il modo per rimettere in movimento tutto il sistema politico, scompaginare alleanze, indurre nuove aggregazioni. Invece Fini per ora ha bisogno di certezza, di prevedibilità. Perché stabilizzare il sistema dei partiti attraverso il lavoro costituente è la condizione primaria anche per poter mettere mano al suo, di partito: sostanzialmente per riprogettarlo. A quanto si sa, nelle prossime assise di Verona non assisteremo a una «revisione della revisione» di Fiuggi. Non si vedrà una ridefinizione della storia e del fascismo o a un nuovo giudizio su Salò. Fini sa che il legame con la sua storia è solo uno degli aspetti che limitano le potenzialità di An: è l'elemento negativo in più che si aggiunge alle contraddizioni interne dell'esperienza politica postfascista. Fini e Fisichella, a Verona, lanceranno un partito di intonazione nazional-liberale. Ma si tratterà di vedere se uno statuto ideologico-culturale rinnovato sarà in grado di convogliare tutto il partito. An infatti non è mai riuscita a chiarire efficacemente dove si situa il pendolo fra le sue componenti politiche. Si è sempre divisa tra una vocazione d'ordine e una di lotta, fra un'impronta di destra europea simil-gollista e una caratterizzazione ribellista, tra un thatcherismo d'occasione e un assistenzialismo storico a cui si aggiungeva talvolta un'eco di destra «sociale e cristiana». La sintesi era stata possibile soltanto in tempi di successo elettorale, perché le vittorie e la conquista del potere costituiscono il miglior mastice per qualsiasi partito. Dopo l'insuccesso alle elezioni amministrative, Fini ha abbattuto la dirigenza di An, facendo capire a tutti che «il partito sono io», come leadership, ideologia e immagine. Ma nello stesso tempo non è riuscito a tenere Alleanza nazionale su binari sicuri. Quello che emerge sulla scena pubblica in questi giorni è infatti un partito che insegue tutte le proteste, si erge a tutela dei protezionismi, e che su un caso di grande impatto popolare come la vicenda Di Bella cerca di guadagnare consenso presentandosi come l'imprenditore politico del medico modenese (la dimensione anti-istituzionale dell'attività pubblica di An come fautrice delle terapie anticancro di Di Bella meriterebbe analisi critiche molto più approfondite, proprio in quanto è l'espressione di una travolgente inclinazione populista). Fini sembra percepire con chiarezza quale dev'essere la strada da compiere. Ha rinunciato all'egemonia sul centrodestra proprio perché non aveva un pensiero egemonico da proporre. Ha in mente un partito senza eccessi, garantito dalla legittimazione costituente e stabilmente collocato nella sua nicchia elettorale: una nicchia non piccola e non grande, dalla quale potrà giocare utilmente sul campo politico. Resta da vedere se, stando all'opposizione, riuscirà a plasmare tutte le anime di An e a indurle ad attendere senza impazienze la ristrutturazione del centrodestra. Perché l'alternativa alla pazienza costituente sarebbe solo l'impazienza ribellistica: e Fini sa benissimo che per le sue ambizioni di lungo periodo sarebbe esiziale restare avvolto nei panni di capo di un partito dei Cobas.
LA STAMPA, 12.02.1998, SOCIETA' CULTURA E SPETTACOLI
LE AFFINITA’ NASCOSTE CON IL SOCIALISMO EMILIANO
senza descrizione
LA STAMPA, 13.02.1998
PARTITO MINIMALISTA ITALIANO
Era ingenuo aspettarsi da D'Alema invenzioni, scarti di lato, impulsi dettati da improvvisi accessi di fantasia politica. Se c'è una caratteristica dominante nel leader del Pds, è la sua prevedibilità. Quindi non era il caso di alimentare aspettative incongrue sugli «stati generali» della sinistra inaugurati ieri a Firenze. Già si sapeva che la novità di maggiore rilievo di questo semi-congresso sarebbe consistita nell'abbandono tombale della simbologia comunista. Via falci e martelli residuali, spazio a querce e rose: ma anche quest'ultima metamorfosi del maggiore erede del Pci avviene senza sconvolgimenti emotivi, come per via burocratica. Ci si doveva arrivare. Eccoci qua. Questa volta a ciglio asciutto. Già: il passato del Pds e del Pci oggi può essere un problema, storico e di coscienza, ma non appare più un vincolo politico. Quadri e militanti del Pds hanno cercato una piccola passione succedanea nella possibile dialettica fra ulivisti e «cosisti», ma si è trattato di un interessamento accademico, con la consapevolezza che lo schema di D'Alema era uno solo, non ammetteva repliche, non avrebbe lasciato spazi a illusioni blairiste o veltroniane. E difatti ieri il segretario si è sbarazzato alla svelta del miraggio «giacobino», della «reductio ad unum», del virtuale partito unico del centrosinistra. Un'ipotesi politica che a suo giudizio, semplicemente, «non esiste». Dunque l'unica mappa nella geografia politica della sinistra è quella che illustra l'Ulivo come una buona coalizione elettorale, e l'attuale Pds come il partito cardine della maggioranza di governo. Siamo all'acme del realismo dalemiano. Un realismo che induce il leader pidiessino perfino a riprogettare la sinistra riconoscendo la vicenda comunista e socialista come due fallimenti, «due facce della stessa sconfitta». Sarà possibile allora costruire la vittoria futura facendo combaciare due sconfitte? Di per sé, le argomentazioni di D'Alema sono tutte ragionevoli. Ciò che non si capisce è l'enfasi sul difficile, faticoso, impegnativo lavoro che a suo dire aspetterebbe i «democratici di sinistra». Con tutto il rispetto per chi come lui ha una concezione alta della politica, non si coglie bene la necessità di tutto questo impegno. La nuova incarnazione del Pds avviene sulla base di un disegno politicamente limitato e culturalmente tutt'altro che sovversivo. Non sono in gioco scissioni, il partito non rischia nulla: più che di nuovi scismi, è probabile che ci sia un rischio di eccessivi ingressi. Tutt'al più, sembra che lo scopo ultimo e finale della Cosa 2 sia quello di congelare la situazione politica a sinistra: la sinistra democratica a matrice Pds diventerà di fatto l'unico referente dell'Internazionale socialista in Italia, e occuperà tutto lo spazio socialdemocratico nel panorama politico. Il «cantiere» per la sinistra annunciato a Firenze assomiglia in realtà a un lavoro di giardinaggio per sagomare meglio il centrosinistra. Razionalizza il paesaggio, nel senso che metterà in ordine i cespuglietti. Ma è anche un'iniziativa segnata fortemente da una concezione fin troppo classica, perfino togliattiana, della politica. Non è un caso che i giudizi più positivi sul discorso di Firenze siano venuti da Franco Marini: cioè dal custode dell'integrità e dell'identità di partito dei Popolari, da un altro esponente politico abituato a negoziare le alleanze e che gelosamente vede come il fumo negli occhi qualsiasi ipotesi movimentista. Si tratta di vedere in questi giorni se la linea dalemiana passa senza diffcoltà. In linea di massima, non saranno alcune isolate tirate retoriche pro-uliviste a metterlo in difficoltà. Nel breve periodo D'Alema ha ragione. Nel nome del realismo ha scelto un'alleanza elettorale, ha vinto le elezioni, ha incoronato Prodi, ha governato, ha progettato la riforma costituzionale. Chi può metterne in discussione l'abilità politica? Chi può contestarne il ruolo? Nessuno, ovviamente. L'unico rischio, non oggi e non domani, è che la strategia di D'Alema sia perfetta per tenere il Pds così com'è e l'Ulivo com'è adesso, ma che insomma consegni la sinistra democratica a un ruolo importante quanto delimitato. In passato, prima il Pci e poi parzialmente il Pds avevano scambiato l'esclusione dal potere con la consapevolezza di una propria egemonia culturale. La sinistra non governava, ma ispirava pensieri dominanti. Adesso è cambiato tutto. I «democratici di sinistra» parteciperanno all'amministrazione del paese, ridefiniranno i loro programmi per ciò che riguarda l'economia in termini autenticamente liberali, come sottolinea Michele Salvati. Ma dato che il realismo non concede chance alle utopie, ancorché modeste, che le speranze di massa si assottigliano e che alla fine i programmi e le politiche li faranno coloro che gestiscono sul campo il potere - i Ciampi, i Prodi, e magari anche i Bersani - può venire il dubbio che il rischio della sinistra dalemiana sia di una ineliminabile subalternità. Una confortevole subalternità di governo. Ma, in fondo, sempre subalternità sarebbe.
LA STAMPA, 23.02.1998
LA GIUSTIZIA DOGMATICA
Con una sterminata intervista al Corriere delle sera, il pm Gherardo Colombo ha comunicato all'opinione pubblica alcune sue convinzioni, relative in primo luogo a un sistema di filosofia politica, poi alla vicenda italiana del dopoguerra, e infine al modo in cui si sta realizzando la riforma costituzionale. Tutto si tiene. La concezione filosofico-politica del pm milanese, si è appreso, ruota intorno alla necessità che i confitti emergano, altrimenti la vita pubblica procede per compromessi opachi e «consociativi». La sua ricostruzione del dopoguerra è strutturata su un chiaro impianto cospirativo, che mette in fila il ruolo della mafia nello sbarco alleato, il caso Cirillo, i fondi neri dell'Iri, la P2: per giungere al giudizio che «negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti». Conclusione, dato che la pulizia giudiziaria non è stata completa, la Bicamerale e il Parlamento sono la sede di riforme ispirate da un grande «ricatto», e proprio quel ricatto può essere il vero fondamento della nuova Costituzione, in special modo riguardo alla giustizia. Le reazioni all'intervista del pm milanese sono state caratterizzate da un automatico sbigottimento. I presidenti delle Camere hanno reagito con durezza. Esponenti di quasi tutti i partiti hanno condannato senza riserve una sortita che delegittima in modo disastroso il Parlamento. Se si dovesse giudicare l'intervento del pm Colombo a partire dalla sua qualità «filosofica», ci sarebbe già molto da eccepire. Le sue considerazioni diagnostiche sono ultimative: «Io dico che nel metabolismo politico-sociale del Paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto ma intorno al compromesso». A prendere alla lettera queste parole, si sentirebbe l'urgenza di un'offensiva inquisitoria, di una furibonda ventata moralizzatrice. Ed è proprio ciò che Colombo auspica: «La strada da percorrere, a mio avviso, è un'altra: svelare tutti gli illeciti, indicare tutte le responsabilità. Solo così la nuova Costituzione non avrà come fondamento il ricatto». Sarebbe sin troppo facile impiccare il pm milanese alle sue parole. La sua illustrazione dell'esperienza democratica italiana è un calco disarmante di quelle «storie di sinistra» che hanno sempre attribuito ogni inciampo nello sviluppo politico e civile (come la lunga persistenza della Dc e l'insufficienza elettorale della sinistra) alle macchinazioni di poteri clandestini. Questo occultismo ossessivo è sempre stato la spiegazione succedanea alla mancata spiegazione dei processi socioeconomici e politici reali. Ma nelle espressioni di Colombo la propensione al teorema e al noir si unisce a una radicale, ultramoralistica, autenticamente giacobina fede dogmatica nella giustizia: una giustizia concepita come «sola igiene della politica». Viene da chiedersi se il magistrato Colombo ha effettivamente soppesato ogni parola, come riferisce l'autore dell'intervista, Giuseppe D'Avanzo; oppure se si è fatto catturare dall'incantesimo dei propri sociologismi. Perché se le avesse sviluppate un altro, non un magistrato-intellettuale come Colombo, non la punta di lancia del pool Mani pulite, non il rappresentante dell'accusa in un processo contro Silvio Berlusconi, analisi di questo tipo sarebbero state considerate delle suggestive, o delle bizzarre, a seconda dei punti di vista, provocazioni intellettuali. Anche se meno articolati rispetto alla capacità evocativa di Colombo, cultore e saggista della memoria, discorsi di questo tenore si sentono spesso in molti caffè. E allora, se non è vera un'ipotesi, subentra necessariamente l'altra. Se Colombo non si è fatto prendere la mano, vuole dire che ha deciso di tirare l'arma più micidiale che riteneva di avere. Che avrebbe deciso di fare volare gli stracci che coprono la tartufesca operazione di restaurazione che in questo momento viene praticata in sede parlamentare, rivelando il losco patto «consociativo» che lega, eh già, chi può legare: D'Alema e Berlusconi, no? E con loro tutti gli altri, ovviamente legati a un interesse inconfessabile, mettere in ginocchio la magistratura, «potere diffuso» che «può rompere in qualsiasi punto e imprevedibilmente il patto del silenzio, della complicità consociativa che il ricatto consiglia». Ma neanche questa ipotesi sembra realistica. Tanto più che alla fine dell'intervista Colombo nega recisamente che la riforma della giustizia possa avere effetti sul lavoro dei magistrati, almeno quelli del pool: «Le vicende e le soluzioni della Bicamerale (...) non hanno la capacità di influire sul nostro lavoro. Voglio dire che tutto ciò è assolutamente indifferente rispetto all'amministrazione della giustizia». E allora? Tanto rumore per nulla? No, da questi equivoci si potrebbe venire fuori soltanto con l'aiuto dello stesso Colombo. Il quale potrebbe riconoscere ad esempio che le sue dichiarazioni non volevano avere un effetto politico immediato, causale; e che le sue tesi sulla vicenda italiana erano dettate da un'intenzione, diciamo così, «accademica», di storico, di analista. Perché un mediocre interprete della storia d'Italia possiamo concedercelo; ma un magistrato, e quale magistrato, incapace di valutare l'eco delle proprie parole, che si propone come l'unico oppositore totale in quanto depositario vivente della verità e della giustizia, quello no, non ce lo possiamo permettere.
LA STAMPA, 01.03.1998
IN BILICO TRA FUTURO E TRADIZIONE
A Verona si sta celebrando la definitiva omologazione di Alleanza nazionale, ma la metamorfosi finale del partito erede dell'Msi è solo uno degli aspetti della rappresentazione scaligera. E forse neanche il principale. Perché il punto critico è piuttosto la configurazione del Polo. Certo, An è un segmento importante del Polo: tuttavia non sembra esserci un interesse frenetico per sapere che cosa potrà diventare dopo l'addio all'ideologia. Sarà un partito di programma, come vuole Fini, prenderà un carattere «nazional-democratico» e si dimostrerà ancora insufficiente in liberalismo, come ha scritto Sergio Romano su liberal, si proporrà come una forza di governo che punta le sue carte sul successo mediatico del suo leader? In realtà la sensazione prevalente è che Fini e Fisichella abbiano lavorato soprattutto in vista di un obiettivo: e cioè la stabilizzazione di An come elemento permanente dell'orizzonte politico italiano. Quel sentore di precarietà che ha accompagnato anche le fasi di maggiore successo del partito di Fini si sta effettivamente dissolvendo. Le facce e le voci di una destra sovversiva, terzomondista, anticapitalista sono al margine. Gli autori maledetti della destra sono stati consegnati alle cantine. An prova a presentarsi come come un grosso partito popolar-conservatore, in bilico fra tradizione e futuro, modernizzatore con juicio. Si direbbe quanto di più simile alla Cdu-Csu ci sia in Italia, se non fosse che Fini è costretto dalla storia, sua personale e del suo partito, a proclamarsi di destra. Questa collocazione risponde più alle esigenze del suo elettorato tradizionale che non alla posizione politica che Fini e Fisichella stanno delineando. Tanto è vero che la conferenza di Verona è interessante non tanto per il contenuto programmatico della An futura, quanto perché tende a mostrarsi come gli «stati generali» dell'intero centrodestra. Stati generali che nessuno ha convocato: eppure in queste ultime due settimane si sono riaperte tutte le discussioni, dato che l'iniziativa di Francesco Cossiga ha scompaginato il fronte del Polo. E a Verona si sta assistendo per questo a una scena animatissima, a un veloce gioco dei quattro cantoni, con i i vecchi alleati preoccupati di tenere le posizioni, e con un intruso, Cossiga, fin troppo dinamico, beffardo, disinibito: in totale, una situazione in costante evoluzione. Anzi, una situazione con accenni di frenesia: Berlusconi sente il rischio da un lato dell'alternativa cossighiana, mentre dall'altro non può guardare senza inquietudini all'autoriforma di An, che dovrebbe renderla più concorrenziale: e quindi, come ha detto ieri, fa di necessità virtù sostenendo vibratamente l'«asse» con Fini, in modo da riproporsi come il regista e l'attore principale del Polo. Nel frattempo Casini, rimasto orfano a causa della defezione cossighista di Mastella, elabora la sua coerente e costosa scelta bipolare, chiedendo di «rivisitare» il Polo in funzione di un più qualificato orientamento politico centrista. Già, ma intanto si direbbe che l'asse Fini-Berlusconi cominci a spostare a destra tutta l'opposizione; e questo proprio mentre l'irruzione di Cossiga «strappa» nella direzione esattamente opposta. Il fatto è che in questo momento i giochi, e le guerricciole, di posizione dentro il centrodestra sono più che altro la dimostrazione evidente di un disagio politico serio e di una inquieta carenza di prospettive. Il Polo oggi è escluso dall'area del potere e soprattutto non ha alcuna probabilità a breve termine di ottenere la rivincita delle elezioni del 1996. Inoltre ogni giorno che passa ci avvicina alla data in cui si avrà la decisione sull'ingresso italiano nell'euro, che potrebbe consegnare al governo Prodi un'aureola degasperiana; e in ogni caso risulterà penoso per tutta l'opposizione restare esclusa dal «dividendo europeo», cioè dai vantaggi economici più o meno immediati che dovrebbero coronare l'approdo italiano alla moneta unica. Il centrodestra insomma sta giocando da solo, nella propria metà campo. Ma ha ancora senso la parola centrodestra? Due entità sempre più distinte, il centro e la destra, stanno cercando a tentoni una soluzione praticabile, che dimostri la vitalità dello schieramento. Quella di Fini, soluzione a destra, non ha chances elettorali; quella di Cossiga, soluzione al centro, almeno nel chiuso del Parlamento è potenzialmente in grado di disgregare non uno ma entrambi i poli, specialmente se l'attrazione governativa risultasse irresistibile per l'Udr. Nell'incertezza di fatto tra l'irrilevanza politica e la disintegrazione, il Polo si muove di qua e di là. L'unico problema, non insignificante, è che ci si può agitare molto e restare irrimediabilmente fermi.
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