LA STAMPA
LA STAMPA, 08.06.1997
L’INTESA IMPOSSIBILE
Come si fa a rimettere insieme i frammenti di un puzzle che è saltato per aria? Il voto della Lega di mercoledì scorso ha distrutto il disegno che era stato pazientemente costruito pezzo per pezzo. Mancavano le ultime trattative, le questioni di dettaglio, e poi D'Alema avrebbe potuto annunciare il fatidico «habemus premier». La mossa di Bossi, fredda, scientificamente feroce, ha individuato il punto debole dell'accordo e lo ha mandato fragorosamente in frantumi. Ora il processo di riforma è entrato in piena turbolenza. Incassata fortunosamente la posta del semipresidenzialismo, Gianfranco Fini ha emanato un messaggio dei suoi, minacciando di abbandonare la Bicamerale se si tornasse indietro. D'Alema si è avvinghiato al sistema elettorale a doppio turno, considerandolo la premessa necessaria per un sistema di tipo semipresidenziale, malgrado che Popolari e Rifondazione comunista (come del resto i cespugli postdemocristiani del Polo) non ne vogliano assolutamente sapere, né del presidenzialismo né del doppio turno. Ci fosse una posizione di forza, si potrebbe pensare che una decisione, un atto sovrano, un accordo fra protagonisti potrebbe sciogliere lo stallo attuale. Ma da un lato Fini e il Polo sanno bene che, chiusa la Bicamerale il 30 giugno, la soluzione semipresidenziale non avrebbe una maggioranza in Parlamento, soprattutto se venisse agitata come un'arma di propaganda politica. E dall'altro lato il ritorno alla formula del premierato, come ha suggerito ieri Veltroni per «ricominciare da capo», come se non fosse capitato nessun incidente, ha il volto suggestivo della completa impraticabilità politica. Allo stato delle cose, ci sarebbe solo un mezzo per sbancare il tavolo, tagliare i veti, superare le contrapposizioni. Occorrerebbe cioè che D'Alema stipulasse uno spettacolare accordo a tre, con Berlusconi e Fini, per procedere effettivamente verso un modello istituzionale ed elettorale di tipo francese. Ma questa è un'ipotesi astratta. Per essere perseguita, D'Alema dovrebbe in un colpo solo dichiarare la messa in liquidazione dell'Ulivo come esperienza politica, e affrontare ripercussioni potenzialmente mortali per l'esecutivo. Sacrificare il governo per guadagnarsi le stimmate dell'uomo di Stato sembra una missione troppo avventurosa per essere realisticamente credibile. L'unico aspetto di queste vicende che sembra fuori discussione è che la Bicamerale non può fallire. E non solo in quanto un eventuale fallimento sarebbe disastroso per la statura politica di D'Alema, ma soprattutto perché le aspettative deluse di riforma aprirebbero un vuoto politico-istituzionale che non si saprebbe come riempire. Con l'assemblea costituente? È chiaro infatti che lo scacco della Commissione per le riforme scatenerebbe nuovamente la richiesta della «riconsegna della sovranità al popolo». Ma se fino a ieri la richiesta della Costituente era una delle armi polemiche del Polo e uno dei maggiori timori dell'Ulivo, oggi anche dentro il centrodestra non c'è più l'attrazione precedente per un processo costituente fondato su elezioni popolari. Aleggia infatti la preoccupazione che l'insuccesso della Bicamerale darebbe spazio a nuove discese in campo, a esperimenti politici e personali che potrebbero movimentare e forse sconvolgere le file del Polo. Quel Di Pietro che dalla sua lontananza considera le riforme costituzionali uno strumento per fermare la sua carriera politica rappresenta una minaccia questa sì «plebiscitaria», un nuovo fattore di instabilità, di scomposizione, di sconvolgimento della politica italiana. E allora, come si fa a non fallire quando il fallimento sembra già scritto? C'è probabilmente una strada, molto classica, molto prudente, molto compromissoria, molto partitocratica. Si tratta di consegnare al Parlamento un progetto (inevitabilmente semipresidenziale, a questo punto) già in parte stemperato, in cui le funzioni del capo dello Stato configurino un ruolo più di garanzia che di titolarità effettiva del potere esecutivo, e nello stesso tempo predisporre le condizioni per una legge elettorale riproporzionalizzata, ad esempio un doppio turno basato sul premio di maggioranza. Per ora, tuttavia, si riesce a comprendere soltanto che il processo riformatore si sta allungando. La Bicamerale consegnerà al Parlamento un modello sostanzialmente «aperto», un insieme di indicazioni di tendenza, non una formula vincolante per le forze politiche e in grado di sottoporre la politica italiana a vincolanti assunzioni di responsabilità. Il prezzo per uscire dall'impasse è insomma una non-soluzione. Creata per risolvere dentro le stanze della politica la transizione istituzionale, la Bicamerale si rivelerà probabilmente un'altra tappa della transizione stessa. Il suo ruolo principale oggi consiste nell'evitare la propria bancarotta. Altre ambizioni, in questo momento, sarebbero velleitarie, e la politica del rinvio ha l'infallibile fascino di trasformare le delusioni di oggi nelle illusioni di domani. Ma forse, col tempo, ci si convincerà che per le riforme istituzionali l'errore più vistoso è stato scambiare la bellezza dei modelli con la realtà vera della politica, e che nel destino italiano c'è sempre e solo un compromesso.
LA STAMPA, 13.06.1997, SOCIETA' E CULTURA
CELODURISMO LEGHISTA CONTRO LA POLITICA FEMMINEA
senza descrizione
LA STAMPA, 16.06.1997
IL GIUDIZIO DI CHI SI E’ ASTENUTO
Si può essere sicuri che se il quorum referendario fosse stato raggiunto la vittoria avrebbe avuto un trionfatore e molti padri. Invece la sconfitta resterà orfana: nessuno, salvo Marco Pannella, vorrà appropriarsi di quella minoranza disciplinata e volonterosa che ha compiuto il capolavoro di civismo di recarsi a votare, nonostante tutto. Nonostante il sole, il mare, il weekend, e soprattutto nonostante l'erraticità incomprensibile dei quesiti referendari sopravvissuti al vaglio della Corte costituzionale e proposti al giudizio dei cittadini. Questi referendum avrebbero avuto un significato se avessero contenuto la domanda sull'abrogazione della quota proporzionale nella legge elettorale; anzi, nel loro insieme, così come erano stati concepiti prima della selezione della Consulta, rappresentavano una deliberata spinta liberalizzatrice. Se ne poteva discutere la finalità, ma se ne capiva l'intento. Dopo i tagli della Corte costituzionale, sono rimasti quesiti frammentari e marginali, di non facile interpretazione, nulla comunque che potesse suscitare le emozioni politiche dell'opinione pubblica e coinvolgerla in una discussione partecipata. Per questo il voto di ieri è stato drammatizzato, da più parti e tardivamente, come se fosse un referendum sul referendum. Si è agitata infatti l'idea che sottraendosi al diritto di votare sarebbe uscita vincente e soddisfatta una nuova e camaleontica partitocrazia, pronta ad approfittare di questa sconfitta della sovranità popolare per annientare l'unico strumento di democrazia diretta esistente nel nostro ordinamento. È difficile sostenere un'opinione del genere. Perché in essa è implicita la convinzione che tutta la classe politica, senza troppe distinzioni di schieramento, tende a bloccare la situazione ordinamentale e legislativa opponendosi a qualsiasi cambiamento. Se questo fosse vero, significherebbe che tutto il processo di trasformazione della politica italiana (cominciato proprio con il referendum sulla preferenza unica nel 1991) è stato sostanzialmente inutile. Se si ammettesse che il sistema politico non si è autoriformato adeguatamente, anzi, che siamo in presenza di una controriforma partitocratica, l'offensiva referendaria nei termini in cui la sostiene Pannella sarebbe più che giustificata. In realtà abbiamo davanti a noi un sistema certamente incompleto, e ancora suscettibile di ampie razionalizzazioni, ma che è riuscito a esprimere prima una maggioranza e un governo di centrodestra e poi una maggioranza e un governo di centrosinistra. Questo per dire che faticosamente la formula funziona. Inoltre, con tutti i limiti che si possono attribuire all'esecutivo Prodi, bisogna considerare che in questo momento in Italia c'è un governo che sta applicando un programma politico. I referendum di ieri non contemplavano dilemmi di civiltà, bensì questioni tecniche che qualsiasi governo è in grado di risolvere facilmente. Se il governo in carica non le risolve, vuol dire che non figurano nella sua agenda di priorità. Di qui a pensare che invece siamo in presenza di un oscuro complotto del ceto politico per togliere la voce al popolo sovrano, ne corre. Si potrebbe piuttosto mettere a fuoco un aspetto più propriamente politico. Risulta infatti evidente che rispetto a questo appuntamento referendario, al di là delle sfumature specifiche e delle scelte sui singoli quesiti, c'era un atteggiamento di non celata simpatia da parte del Polo e di tendenziale ostilità da parte del centrosinistra (con ogni presa di posizione che intensificava quella sul fronte opposto, con automatismi quasi perfetti). Quindi i referendum di fatto si erano politicizzati: impropriamente, come al solito, ma si erano colorati di politica. E se ci fosse stata una partecipazione corale e liberatoria dei cittadini, sicuramente ne sarebbero state tratte conclusioni politiche. Ora invece la situazione torna alla casella in cui eravamo prima. Con una sottolineatura negativa, tuttavia. Vale a dire che il popolo è stato interpellato e il popolo stesso si è rifiutato di rispondere. Non è il caso di credere a chi, fin da oggi, sosterrà che si è trattato di una congiura della disinformazione gestita dall'establishment; realisticamente converrà riconoscere che è stato un errore usare impropriamente i referendum, prima come arma totale di liberalizzazione e poi come presunta mobilitazione democratica contro l'arroganza del potere consolidato. Forse è vero che i referendum escono ridimensionati da questa prova. Tuttavia non muore l'istituto del referendum e non muore la democrazia. Erano stati ridimensionati anche nel 1990, con il quorum mancato sulla caccia e sui pesticidi. Ma ridimensionati, per l'appunto, significa ricondotti alla loro dimensione: che è quella della scelta fra grandi alternative etiche, che non possono essere mediate dai partiti politici né essere decise dai governi. Altrimenti, come si è visto, i cittadini votano, cioè esprimono un giudizio, anche non votando. E allora, a proposito dell'astensionismo di ieri, si dirà ancora una volta che il popolo si è sbagliato, che è stato malamente imbrogliato, insomma, che non è stato in grado di decidere come invece doveva?
LA STAMPA, 23.06.1997
ESERCITO E OPINIONE PUBBLICA
Ne arriveranno altre, di notizie choc, dalla Somalia. Denunce di stupri, sevizie, brutalità. Un'operazione come quella condotta in Somalia lascia inevitabilmente dietro di sé uno strascico incontrollabile di rancori. I rastrellamenti, i controlli, la sbrigatività necessaria delle azioni di bonifica in zone in cui agivano bande guerriere e clan banditeschi offrono infinite occasioni per esercitare rivalse, praticare vendette, eventualmente chiedere risarcimenti e indennizzi. Basta qualche denuncia, infatti, e l'opinione pubblica rimane scossa, in preda ai dubbi. Eppure, di qui a precipitare la spedizione italiana in Somalia nell'atmosfera livida e moralmente corrotta di un provinciale Apocalypse Now, dovrebbe correrne. Non perché non si siano verificati episodi piuttosto vicini o anche al di là dell'orrore, come quelli documentati dalle fotografie pubblicate da Panorama. Ma sarà lecito valutare che si tratti di eccezioni: altrimenti si dovrebbe pensare che non soltanto i soldati e i graduati, ma anche i loro ufficiali fino ai gradi più alti erano coinvolti in un gioco inconfessabile, e sarebbero legati oggi da una complicità sordida, fondata sulla colpevolezza di tutti, e sostenuta per anni da un'omertà impenetrabile. È credibile, un ricostruzione del genere? Anche quando le accuse più incresciose vengono giudicate non credibili dai rappresentanti somali in Italia? La risposta non implica atti di fede. Il punto non è se ci sentiamo di giurare sulla correttezza del nostro esercito. Tuttavia non si può trascurare che le accuse contro le forze armate si sono diffuse nella pubblica opinione e in politica trovando terreno favorevole. Si sono risentite le vecchie cantilene antimilitariste, le richieste di scioglimento della Folgore, i sospetti sui corpi speciali concepiti come culle di intolleranza. Per questo ha ragione il ministro della Difesa nel dire che la nostra società deve «fare pace» con le forze armate. Anzi, diciamo che questa dovrebbe essere l'occasione per rifare il «contratto» con l'apparato militare. Perché una società democratica ha bisogno di forze armate che condividano gli interessi e i valori di una nazione democratica, attraverso un reciproco legame di solidarietà e di simmetrica legittimazione. Oggi invece si direbbe che c'è il rischio di assistere al riformarsi di una separatezza potenzialmente incolmabile. Spesso nelle parole dei militari sembra di sentire la disperazione di chi si sente sopraffatto da accuse incredibili, lo sbalordimento di chi ritiene impossibile che certe imputazioni possano essere prese per buone e si accorge invece che i colpevolisti abbondano. Sarà bene dirlo con chiarezza: noi non dobbiamo e non possiamo giocarci le forze armate. Non dobbiamo dimenticare che nel corso degli anni esse sono cambiate in profondità: chi ha in mente i reparti speciali e le loro preferenze ideologiche negli anni dei «rumori di sciabole» e del Piano Solo dovrebbe essere in grado di valutare con un buon grado di approssimazione l'ammodernamento dell'esercito e dei corpi militari di punta, e anche il loro atteggiamento indubbiamente leale verso le istituzioni democratiche. Per questo occorre rifare il patto con l'apparato militare: da una parte per avere confermata questa lealtà; e dall'altra per garantire la legittimazione democratica delle forze armate. Lealtà significa nel caso delle vicende somale la collaborazione esplicita dei militari, a ogni livello, nella soluzione dei casi più controversi. Ma da parte della nazione democratica non può mancare a sua volta la dichiarazione di un atteggiamento di fiducia verso le sue forze armate. Perché, se si approfondisce la delegittimazione di oggi, la distanza fra la nostra democrazia e le sue forze di difesa diventerà troppo ampia. Questa non è una condizione che implichi di per sé scenari di slealtà istituzionale; ma l'incomunicabilità e, peggio, la diffidenza fra una società e le forze armate sarebbero perlomeno una difficoltà in più nel processo di stabilizzazione politica e istituzionale che stiamo faticosamente affrontando. Sarebbe una difficoltà grave. E per evitare difficoltà di questo tipo, è meglio non indulgere a giochi di credulità, cioè di irresponsabilità.
LA STAMPA, 27.06.1997
UN PRUDENTE LAVORO DI COSMESI
Il capitolo della giustizia era l'ultimo tassello da sistemare dentro la Commissione bicamerale, e perciò era anche l'ultimo vero rischio che i doveva essere fronteggiato. Ieri aleggiava di nuovo la paura che il ritorno in scena della Lega potesse dare luogo a un voto «eccentrico» sugli emendamenti alla bozza Boato, con il pericolo di un incidente simile a quello che si era determinato con il colpo sulla bilancia in favore del presidenzialismo. Si è quindi cercato di neutralizzare il problema con il ritiro degli emendamenti e la decisione di votare sulla bozza Boato. Era la soluzione più cauta perché consentiva di non entrare troppo in profondità nel merito dei due temi più rilevanti, quello della separazione delle carriere e della composizione del Csm. Come si sa, si tratta di due argomenti che toccano insidiosamente da vicino il rapporto fra politica e magistratura. Di solito, quando si parla di separazione delle carriere, ci si diffonde su concetti astratti come la «terzietà» del giudice, rispetto al pubblico ministero identificato come parte in causa. Ma in realtà questa apparente astrattezza nasconde un problema molto concreto, riassumibile all'incirca così: in genere i magistrati (o una parte di loro) hanno sempre guardato con sospetto la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici, in quanto temono che sia solo il primo passo verso la subordinazione dei procuratori al potere politico. Allo stesso modo, gli stessi magistrati hanno guardato con preoccupazione alle ipotesi di modifica della composizione del Consiglio superiore della magistratura, temendo che un mutato rapporto fra membri togati e membri «laici» penalizzasse l'autonomia giudiziaria. Detto questo, sarebbe sbagliato pensare che fra i partiti ci sia un accordo non scritto ma sentito e voluto da tutti per riequilibrare il rapporto con i giudici. Come si è visto con il voto a sorpresa che ha bocciato la parziale depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti, esistono ancora in Parlamento fasce trasversali, che vanno da Alleanza nazionale al Pds, che si considerano ancora «dalla parte della giustizia», o che quanto meno non rinunciano a tradurre in chiave politica la dimensione giudiziaria. Dunque la questione della giustizia non è soltanto un possibile terreno di scontro fra procuratori e classe politica, ma è anche un tema che può, ancora oggi, essere giocato politicamente nel confronto interno alla classe politica e ai partiti. Proprio per questo l'appuntamento di ieri era delicato: perché malgrado le dichiarazioni di responsabilità, nonostante le controassicurazioni reciproche fra il Polo e l'Ulivo, e nonostante «lo spirito costituente» che i più ottimisti sentono spirare nella Bicamerale, c'era il fondato timore che il voto potesse radicalizzarsi, mettendo a rischio questi ultimi giorni di lavoro della Commissione. C'era la minaccia leghista, c'erano i dubbi di Rifondazione comunista: ce n'era abbastanza per non essere tranquilli. Naturalmente, è prevalsa la prudenza: si sono ritirati gli emendamenti e si è proceduto in modo da consegnare alle Camere una serie di formulazioni sostanzialmente aperte, che il Parlamento dovrà definire in seguito. Forse questo è l'ultimo atto della «normalizzazione» che sta avvenendo nella Bicamerale. Non c'è da scandalizzarsi del termine, dato che ogni paese che abbia vissuto una fase di eccezionalità deve tornare alla normalità. Solo che qui si sta assistendo a un processo costituente ritagliato sulle misure dei partiti. Se il compito della Bicameerale era di normalizzare la politica, probabilmente c'è riuscita, approfittando dell'impossibilità di fallire, cioè della propria condanna al successo; se doveva modellare istituzioni adeguate a una società moderna, in modo da conferire visibilità e impulso alle scelte dei cittadini-elettori, l'obiettivo non è stato neppure approssimato. Anche la giustizia non ha fatto eccezione a questo schema. Si cominciò con l'innesco di un conflitto a elevata intensità con i magistrati; si finisce, a quanto sembra, con un lavoro soprattutto di cosmesi, e che lascia spazio al Parlamento per individuare successivamente il punto preciso di compromesso. Di sicuro la Bicamerale è riuscita a stemperare i conflitti. Che stia producendo un progetto in grado di migliorare il funzionamento delle istituzioni, è molto ottimistico dirlo.
LA STAMPA, 30.06.1997, SOCIETA' CULTURA E SPETTACOLI
DA COSSIGA A BERLUSCONI LA ROTTURA DEGLI SCHEMI
Il dilemma dei capi delle rivolte è il loro controverso rapporto con la plebe. Non con la classe, il popolo, il quarto stato: la plebe. C'è un termine specifico, «oclocrazia», che serve proprio per designare il governo della plebe (o di un tiranno sostenuto da essa sostenuto) e il vocabolo ha tutta l'aria di segnalare problemi. Non è affatto casuale, in questo senso, che Silvio Berlusconi si sia attribuito la definizione di Masaniello: lo ha fatto per identificare il cortocircuito politico determinato dalla sua entrata in politica, che faceva saltare i moduli tradizionali di mediazione politica, la rottura degli schemi di riproduzione e di cooptazione con cui l'establishment si perpetuava. Puntualissima, l'opposizione a Berlusconi non è venuta solo da sinistra. Certo, il primo a designare il cortocircuito con incisiva animosità fu Fausto Bertinotti, che trattò il Polo come il rastrello elettorale della «plebe borghese», intendendo con questa espressione ceti disintegrati, fasce anarcoidi della società italiana, giudicate insensibili ai processi e ai meccanismi della democrazia rappresentativa, orientate solo alla ricerca dell'utile individuale e assoggettate al carisma del capo. Ma un'opposizione al masaniellismo berlusconiano è venuta anche dai ceti legittimati del potere italiano, dai sancta sanctorum del potere economico e istituzionale. Sta di fatto che in un saggio apparso di recente (Stanchi di miracoli, a cura di Ilvo Diamanti e Marc Lazar, ed. Guerini e associati), Jean Blondel definisce il risultato delle elezioni del 1996 come «la rivincita della classe dirigente sui parvenus». Non è un capo della plebe Umberto Bossi, che lo sarebbe se avesse dato retta del tutto alla sua vera indole politica, mettendo sulla scena il lato «popolano» della Lega a cui si è più volte appellato, ed è finito invece a rincorrere il sogno di un'identità nazionale alternativa. Errore, o si è un capo della plebe o si è un capo di stato. L'aut aut non consente doppiezze. Qualche riferimento masaniellesco si può trovare piuttosto in qualche esponente di punta del finale di Prima Repubblica, ad esempio l'indimenticabile Paolo Cirino Pomicino, «'o ministro», di cui le cronache narrano che capeggiò un'irruzione di tifosi nella sede partenopea della Rai per assistere in diretta alla partita del Napoli, agitando lo slogan «guaglio', accà trasimme tutt'e quante». Ma di veri Masanielli, disposti a percorrere sino in fondo la loro traiettoria di autori e martiri della loro rivolta, non se ne sono visti tanti. Non era un Masaniello l'inventore dell'Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini, che si preoccupava più che altro di interpretare i gusti di quell'Italia che tra fascismo e antifascismo si sentiva attratta dalla voglia di gridare «abbasso tutti» e di rifugiarsi nelle pieghe del proprio destino piccolo borghese e ministeriale. Anche andando a ritroso nel Novecento, non se ne trovano facilmente: Benito Mussolini, che di sicuro aveva in mente il «pòppolo», cominciò dalla rivoluzione per finire anche lui a cercarsi un profilo da uomo di stato e da fondatore di imperi: e quando diceva «Italia proletaria e fascista, in piedi...», tendeva più che altro a miscelare l'enfasi nazionalista con un riferimento di classe, da vecchio socialista qual era stato. No, bisogna andare più indietro. Si deve risalire a Cola di Rienzo, «tribuno del popolo» nella Roma esattamente di 650 anni fa (la ribellione da lui guidata è del 20 maggio 1347), passare per Michele di Lando, il capo del tumulto dei Ciompi nella Firenze di fine Trecento. Oppure, più avanti, pensare all'«Armata cristiana e reale» sollevata contro i giacobini napoletani dal cardinal Ruffo, composta di briganti come Fra Diavolo e di poveri contadini, un esercito di «banditi di Dio», reazionario come talvolta sa essere reazionaria la plebe, e giungere a Ciceruacchio, al secolo Angelo Brunetti, trascinatore di folle a suon di oratoria tribunizia durante la difesa della Repubblica Romana nel 1849, che nessuno ricorderebbe se non l'avesse ripescato a suo tempo Francesco Cossiga. Già, Cossiga, il più ribelle delle massime autorità, il presidente che dava tono e verve alla rivolta anti-istituzionale. Forse, al di là di Berlusconi, il vero Masaniello dei nostri tempi è stato lui.
LA STAMPA, 01.07.1997
DUE ANNI SENZA CONFLITTI
La Commissione bicamerale chiude i suoi lavori, ed è come se il sistema politico tirasse un sospiro collettivo: di sollievo, di scampato pericolo, di grazia ricevuta. Nel suo genere infatti, il documento approvato è un capolavoro di mimetismo: la fisionomia dell'ipotesi di riforma costituzionale varata ieri è la fotografia esatta della politica italiana attuale, una riproduzione perfetta fin nei minimi particolari. L'importante non era che emergesse un vincitore, ma che non ci fosse uno sconfitto. E quindi ecco il semipresidenzialismo temperato, il federalismo depotenziato, il bicameralismo moltiplicato, la legge elettorale ulteriormente complicata, la questione giudiziaria rinviata. Tuttavia, giunti a questo punto sarebbe un esercizio sterile demolire criticamente l'impianto delle riforme. Probabilmente il nostro paese ha perduto il momento magico in cui, nel momento di massima crisi dei partiti, sarebbe stato possibile costruire un'architettura istituzionale innovativa e nitida, svincolata dai condizionamenti di parte e dagli equilibri parlamentari. La politica italiana ha attraversato il suo mare fra due sponde d'acqua miracolosamente rimaste aperte; quando è giunta fortunosamente sulla riva opposta, le acque si sono rapidamente richiuse. Nel santuario della Bicamerale non c'erano «padri costituenti» autorevolmente ispirati dalla divinità delle riforme, bensì professionisti politici faticosamente costretti a trovare un accordo. Chi oggi, fra i censori più aspri, sostiene che questo accordo è peggiore di un fallimento aperto, si dedica a un'esercitazione teorica, o a una manifestazione di giacobinismo gratuito: perché la Bicamerale non poteva fallire. Il contraccolpo di un fallimento sarebbe stato insostenibile per tutto il sistema politico. E quindi la Commissione presieduta da D'Alema è riuscita nel suo intento: ha pagato una serie infinita di mediazioni e ha prodotto ciò che poteva produrre. E dunque piuttosto che guardare al passato, conviene guardare al futuro. Perché il destino delle riforme è tutt'altro che semplice o scontato. Ci sono numerosi esponenti nei partiti che, per una ragione o per il suo opposto, sperano silenziosamente che inoltrandosi nel Parlamento, fra lentezze procedurali e opposizioni opache, la trasformazione istituzionale semplicemente si inabissi, riducendosi a fenomeno carsico. In effetti il cammino ulteriore delle riforme è ancora ben più che difficile. Ma, di nuovo, non si vede con quale credibilità i partiti e gli uomini politici potrebbero presentarsi all'opinione pubblica sulla scorta di un crollo che avvenisse in corso d'opera, con le fondamenta già costruite e i primi mattoni già sistemati. Malgrado non riscuota più l'interesse che aveva suscitato nei cittadini durante l'ondata referendaria, la trasformazione istituzionale è un compito che il ceto politico si è assunto verso i cittadini e che è obbligato a portare a termine. Per avvicinarsi al traguardo, occorre che l'accordo stipulato nella Bicamerale venga confermato e sostenuto in Parlamento da coloro che l'hanno sottoscritto. Non sarà un'impresa facile, perché le Camere sono un formidabile moltiplicatore di emendamenti e di correzioni, ma l'idea di fondo che regge lo schema è piuttosto semplice: si tratta di attraversare i prossimi due anni bloccando i conflitti politici. Dobbiamo avere cioè una transizione «congelata». Massimo D'Alema, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini hanno il compito di consolidare in Parlamento il compromesso raggiunto nella Bicamerale, agendo affinché i cespugli dei due schieramenti principali non impediscano il cammino. L'accordo comprende inevitabilmente come concetto cardine l'intoccabilità e l'inamovibilità del governo Prodi. Sono molte, come si vede, le pedine da tenere sotto controllo sulla scacchiera, forse troppe. Ma va anche detto che questa classe politica non può rischiare che si consolidi un «fronte del no» alla nuova Costituzione. Il processo innescato dalla Bicamerale comprende infatti un meccanismo delicatissimo, il referendum confermativo che dovrà sottoscrivere la soluzione costituzionale approvata dal Parlamento. È un momento lontano, ma fin d'ora va messo a fuoco che incertezze e conflitti dei partiti non comportano solo un ulteriore peggioramento delle formule istituzionali proposte, ma nel caso di scelte al ribasso incorporano il rischio di un disastroso faccia a faccia fra il popolo sovrano e la classe politica. Non si sottolinea questo particolare per prospettare visioni apocalittiche, ma per porre in rilievo che il lavoro istituzionale non si esaurisce qui. Si è conclusa una fase, ne comincia un'altra; e sarebbe opportuno che, con un aggiustamento di sguardo, i rappresentanti del popolo pensassero non solo al tecnicismo dei compromessi ma anche al momento in cui il popolo esprimerà il suo giudizio.
LA STAMPA, 09.07.1997
LA SPALLATA
Non appena la politica sfiora la giustizia si scatenano guerre: è un copione al quale dovremmo essere ormai abituati, anche se per la verità non ci si abitua mai. La percezione di uno scontro ora sordo e ora invece conclamato è uno degli aspetti meno rassicuranti sul funzionamento delle istituzioni, sulla credibilità della politica così come sulla fiducia verso la magistratura. Talvolta infatti si è avuta l'impressione che da parte dei magistrati ci fosse un rifiuto preconcetto rispetto alle riforme concepite in Parlamento e nella Bicamerale: che insomma la giustizia accusasse nel suo insieme la politica di voler mutare le regole per colpire l'indipendenza dell'ordine giudiziario. In altre occasioni, invece, il tema della giustizia è diventato l'oggetto strumentale di scontro fra le parti politiche, fra quelle proiettate all'attacco dei procuratori e quelle schierate a difesa. Negli ultimi giorni, in seguito alle parole del pentito che ha fatto incrociare in una complessa storia i destini di Tiziana Parenti e di Ilda Boccassini sembrava che il copione venisse ripreso integralmente. Si era già registrato l'attacco di Silvio Berlusconi, che dopo avere inveito contro Antonio Di Pietro, aveva allargato il campo a tutta la magistratura, riducendolo al rango impiegatizio, per coronare il suo sfogo con l'abbraccio simbolico a Tiziana Parenti, la grande nemica del pool di Milano. A questo punto ci si poteva aspettare che la sceneggiatura mostrasse i distinguo di Alleanza nazionale, puntualmente arrivati con le dichiarazioni di Maurizio Gasparri e di Ignazio La Russa («sulla giustizia noi siamo i moderati; Forza Italia è l'ala estremista»), mentre si poteva dare per scontata qualche ferma replica di Massimo D'Alema, anch'essa regolarmente pervenuta nella serata di ieri. Solo che nel frattempo era accaduto qualcosa di imprevisto. E cioè che prima quaranta deputati di Forza Italia, guidati dal capogruppo Beppe Pisanu, e poi l'intero gruppo forzista del Senato, hanno rivolto un'interpellanza al ministro della giustizia, chiedendo in sostanza di inviare un'ispezione nella Procura di Milano e di sospendere dalle sue funzioni il pubblico ministero Ilda Boccassini. È piuttosto strano, innanzitutto, che un partito si schieri come un sol uomo contro un sostituto procuratore, sponsorizzando così le denunce a prima vista piuttosto fantasiose rivolte dal pentito Veronese alla Boccassini. Ma la stranezza di questa iniziativa aumenta a dismisura se qualcuno ne trae tutte le conseguenze. Perché il senso di questa vicenda appare uno e uno soltanto. Vale a dire che si è autorizzati semplicemente a pensare che Forza Italia sta tentando di dare una spallata, forse quella definitiva, contro la Procura di Milano. Finché era Berlusconi ad accusare di varie iniquità i magistrati milanesi, le toghe rosse, i settori di una magistratura «politica» coalizzata ai suoi danni, si trattava di una sua personale strategia di risposta alle inchieste e alle azioni giudiziarie che lo avevano messo sotto tiro, condivisa dal partito ma senza un'esposizione pubblica risolutiva. Invece oggi è l'intera Forza Italia che si muove all'attacco, con intenti liquidatori, cercando il faccia a faccia finale. È arduo dire se sono state valutate tutte le implicazioni di questo atto. Se sono state analizzate a fondo, il maggiore partito del centrodestra si assumerà naturalmente la responsabilità di avere innescato uno scontro che potrebbe avere ripercussioni imprevedibili sia in Parlamento sia nell'opinione pubblica. Se invece c'è stata una cattiva valutazione, un calcolo affrettato, bisognerà che qualcuno, nel Polo ma anche all'interno di Forza Italia, consideri con la debita attenzione che sarebbe dannoso per tutti se una volontà di vendetta coagulatasi su base emotiva diventasse lo strumento al servizio di un'avventura.
LA STAMPA, 17.07.1997
GIOCO D’AZZARDO AL TESTACCIO
Il mistero del Testaccio è durato poche ore, facendo vibrare l'aria di tensione, e poi si è sciolto con un colpo di scena plateale. Sembrava impossibile che Di Pietro e D'Alema si fossero incontrati come congiurati solo per confrontarsi accademicamente sulle prospettive delle riforme costituzionali, e difatti la materia di quel dibattito privato era ben altra. Ecco dunque una nuova figura della fenomenologia italiana, il Di Pietro candidato dell'Ulivo, nel collegio «sicuro» dove era stato eletto Pino Arlacchi. Scende sul tavolo l'ultima carta, mai giocata, sempre incombente, della transizione politica. È un evento importante. Ed è un evento controverso, in grado di scatenare dissensi anche dentro la coalizione di centrosinistra: perché riesce molto discutibile, per chi è alieno da impulsi giustizialisti, giudicare normale la candidatura parlamentare di un uomo coinvolto in una vicenda giudiziaria da cui dipende la sua onorabilità. C'è un collegamento così facile, così immediato, fra la nuova avventura politica di Di Pietro e i vantaggi che ne può ricavare in termini di autodifesa, da rendere censurabile perfino sul piano della decenza estetica l'accordo del Testaccio. Ma fin qui siamo sul piano del gusto o del galateo politico, di criteri impalpabili. Mentre la candidatura di Di Pietro non è un avvenimento mondano da trattare in chiave di buona o cattiva educazione pubblica: per questo risultano francamente sconfortanti le ricostruzioni che cominciano a circolare, dalla proposta gentilmente formulata da Arlacchi all'atteggiamento pronubo di Prodi, in un clima buonista in cui nell'Ulivo si parla dell'impegno politico dell'ex pm come di un servizio alla collettività, e Di Pietro parla in modo ispirato della propria volontà di «rafforzare l'ala moderata dello schieramento». Storie. Operazioni di questo tipo non si fanno per bontà o per distrazione. La candidatura di Di Pietro è una decisione politicamente impegnativa, che si avvale cioè di una decisione consapevole di D'Alema. È un calcolo, o un complesso di calcoli. Il primo di essi consiste probabilmente nel considerare che Di Pietro è meglio averlo amico che nemico: le vicende giudiziarie solo un'altalena, oggi il protagonista di Mani pulite è in difficoltà, ma domani potrebbe andare in crisi il suo avversario, cioè Berlusconi. Tanto vale giocare la propria scommessa e mettersi in casa Di Pietro. Ma, così facendo, D'Alema compie un salto qualitativo nella sua strategia, anzi, un brusco scarto di lato. La cooptazione di Di Pietro infatti porta nel cuore della politica la guerra della giustizia. Il segretario del Pds sceglie di sponsorizzare il contendente storico di Berlusconi, lo conduce dentro le proprie file, ne fa inevitabilmente un simbolo politico. E quindi sfida la sprezzante reazione del Cavaliere. È un gesto che significa: nemici come prima, come sempre, più che mai. Che cosa ha indotto D'Alema a questo passo? Pensare che un politico iper-realista come il segretario della Quercia possa farsi trascinare da una deriva giustizialista non è credibile. Fra i suoi complessi calcoli avevamo visto realizzarsi l'accordo con Berlusconi e il Polo che ha fatto da architrave al progetto della Bicamerale, attraverso un rispecchiamento reciproco di legittimazione politica. Bene, è concepibile che D'Alema sia disposto a gettare nella spazzatura quell'accordo solo per mettere in squadra un uomo e la sua presunta popolarità politica? È possibile che per lui il compromesso costituente, a cui si è adattato a fatica, accettando sconfitte e subendo lezioni professorali, possa valere meno di un candidato nel collegio Firenze-Mugello? La conclusione di questa storia sembra già scritta: essendo la riforma della giustizia il punto più delicato del processo di riforma, la scelta di candidare Di Pietro può significare la decisione di stracciare i patti e di tornare alla guerra guerreggiata. Può darsi che D'Alema lo faccia a ragion veduta, sfidando anche i giudizi di «insensatezza» che gli rivolge Bertinotti e quelli di inopportunità che gli rivolgono i Verdi. Oppure può darsi che sia un'altra prova del suo esasperato tatticismo, di una trasparente volontà di trasformare il Pds in un'organizzazione «pigliatutto», in un oggetto a intensità ideologica irrilevante. Sia come sia, il «calcolo Di Pietro» in realtà è un azzardo. E non si tratta di un azzardo isolato, su cui ci si gioca la posta di una sola puntata. È un azzardo che può fare saltare tutti i tavoli su cui D'Alema ha giocato. Poco male, potrebbero dire i suoi avversari. Malissimo, diranno invece tutti quelli che nella mossa di oggi non vedono solo una scommessa arrischiata, ma piuttosto l'innesco della mina che può fare saltare la strada che doveva condurre l'Italia, dopo le sue indefinibili rivoluzioni, alla normalità.
LA STAMPA, 19.07.1997
NESSUN PRIVILEGIO
Romano Prodi si è preoccupato di sottolineare che il disegno di legge sulla parità scolastica «non andrà a scapito» della scuola statale, a cui anzi verrà riservata un'attenzione speciale per riqualificarla. Ha fatto bene a sottolineare questo aspetto, perché la riforma tocca uno degli aspetti più delicati del rapporto fra lo Stato e la società. Il progetto del ministro Berlinguer tende a configurare un sistema dell'istruzione «integrato», in cui il settore privato si affianca allo Stato svolgendo un ruolo pubblico. Si prevedono infatti garanzie sia per gli standard dell'insegnamento sia per la libertà di accesso. E quindi non si tratta di un regalo al mercato o ai privati: in prospettiva è una ristrutturazione profonda del sistema scolastico, che una volta attuata avrà effetti rilevanti su tutta l'articolazione dell'istruzione, sulla sua qualità e sulla sua adeguatezza alle necessità di una collettività moderna. Sarebbe quindi una grossolanità considerare il progetto Berlinguer come una «pax ulivista» con le scuole cattoliche, o anche come il prezzo pagato dal ministro postcomunista ai Popolari, eredi della Dc. Nelle sue linee generali, la riforma sembra accettabile: tale perlomeno da non consentire rilievi di incostituzionalità, e soprattutto da non precostituire le condizioni di una separatezza esclusiva della scuola privata. Non sembra che ci si avvii verso un sistema scolastico composto da una serie di ghetti dorati, e neppure da luoghi di «secessione sociale», dove si sperimenta l'isolamento soddisfatto dei ceti privilegiati. In questo senso, le critiche che si sentono nel centrodestra («una presa in giro»), soprattutto nei settori più legati all'idea di una divisione netta fra pubblico e privato, di una liberalizzazione più esplicita, o comunque di un'autonomia molto più spinta delle scuole cattoliche, danno l'idea che la riforma Berlinguer è lontana dal prefigurare un Far West scolastico. Detto questo, tuttavia, sarà bene che alle parole di Prodi segua qualche fatto, perché quando si parla di scuola statale non si deve mai dimenticare che essa non produce soltanto istruzione e diplomi: produce anche beni pubblici che non sono facilmente quantificabili. La scuola statale infatti è stata, e in futuro dovrebbe continuare a essere, un'istituzione chiamata a produrre integrazione sociale e nazionale. Non è una fissazione giacobina vedere nella scuola statale un'agenzia in grado di temperare le differenze nella società e di ridurre le differenze culturali, di identità, di benessere e status. In un paese segnato da forti differenze e squilibri (quelli fra Nord e Mezzogiorno sono solo i più vistosi), la funzione della scuola pubblica ai fini della costruzione di un'identità nazionale condivisa e del raggiungimento di una matura cittadinanza democratica rimane insostituibile. C'è da sperare quindi proprio l'innescarsi di processi di concorrenza determini un miglioramento spontaneo della qualità della scuola pubblica. Ma a questo scopo occorre che tutti siano in condizione di competere alla pari, e quindi che la scuola statale non venga abbandonata a se stessa. Chi ha assistito al degrado dell'istruzione pubblica negli ultimi anni fa fatica a essere fiducioso. Ed è inquietante il pensiero che per inerzia o incuria possa svilupparsi una situazione in cui la scuola pubblica continuerà a decadere, sostituita (per chi può) da scuole di élite indifferenti alla comunità circostante. Va bene la riforma, quindi, e andrà anche meglio quando si potrà verificare il suo contenuto in termini finanziari. Ma non dimentichiamoci che l'istruzione non ha bisogno solo dei grandi progetti che fanno rumore per un giorno. C'è bisogno, ed è un bisogno ormai quasi da ultima istanza, di una politica per la scuola: costante, assidua, paziente. Perché una riforma non esaurisce il problema dell'istruzione, cioè il problema cruciale dell'Italia di fine secolo.
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