LA STAMPA
LA STAMPA, 28.09.1997
EXTRACOMUNITARIO, UNA PAROLACCIA
Ieri il vicesindaco di Torino Domenico Carpanini, intervenendo a un convegno dedicato a «Il senso della sicurezza», ha detto che il termine «extracomunitario» verrà espunto dal vocabolario delle istituzioni cittadine. Non figurerà più nei documenti pubblici e nemmeno nei rapporti dei vigili urbani. Lì per lì qualcuno avrà pensato al repentino attacco di un virus legato alla sindrome del politically correct. La sinistra infatti è sensibilissima alle parole: per i suoi critici, più di quanto talvolta sia sensibile alle cose. Eppure, per una volta un eccesso di critiche sarebbe fuori luogo. Col tempo, l'aggettivo e il sostantivo «extracomunitario» hanno perso la pretesa di neutralità lessicale che voleva caratterizzarli quando sono stati coniati. Allora volevano ridurre a una categoria indistinta, non connotata né da colore né da lingua né da diversità ciò che era percepito immediatamente come diverso. Lentamente invece, in seguito alle sedimentazioni dell'uso, «extracomunitario» è diventato in pratica un sinonimo di «africano». Nessuno si sognerebbe di chiamare in quel modo uno svizzero, un americano o un giapponese; anche quando commette reati gravi, un albanese rimane un albanese (inoltre, per puntiglio si potrebbe ricordare che alla «comunità» si è sostituita ormai l'«unione» europea). Le parole non sono quasi mai oggetti clinicamente sterili: si portano sempre dietro qualcosa di simbolico, qualche infezione emotiva. Quando Bossi ha attaccato il papa, è stato rilevato che chiamandolo «polacco» lo equiparava a un lavavetri. C'è tanta sofferenza sociale, potenziale ed effettiva, dietro l'immigrazione, che togliere di mezzo la fonte di un equivoco significa forse eliminare altri equivoci, altri strumenti per etichettare gli altri come l'insopportabilmente altro.
LA STAMPA, 28.09.1997, SOCIETA' CULTURA E SPETTACOLI
LA STAMPA, 08.10.1997, SOCIETA' CULTURA E SPETTACOLI
L’IMPORTANTE E’ FARE SURF SULL’ONDA DEL SENTITO DIRE
Sapere qualcosa implica un confine. L'ignoranza invece è davvero sovrana: si può ignorare tutto. Risiede qui il vero approccio «interdisciplinare», sono questi i «percorsi» e «gli itinerari», «i crocevia» di cui sono ricchi i convegni, le quarte di copertina, i corsi di aggiornamento, fra Otto e Novecento, fra politica e cultura, fra economia e società: che cosa c'è di più aperto, disponibile, spalancato, dell'ignoranza? Si può diventare ignoranti su qualsiasi terreno, area, materia. Ci sono persone che a un certo punto della loro vita decidono che non vorranno mai saperne di qualcosa: una volta poteva essere la psicoanalisi, oggi sarà il mondo digitale di Negroponte. Ma perché essere ignoranti parziali quando c'è l'opportunità dell'ignoranza totale? L'importante è avere un lessico, un'attrezzatura linguistica da «tecnico dell'universale»: ciò che vale non è conoscere la storia (santo cielo, quei pedanti che citano Crispi o Giolitti, Depretis o Sonnino), bensì parlare astrattamente della storia stessa. Saper dire: «l'irruzione delle masse nella politica del Novecento», oppure «gli anni del consenso nel ventennio», senza saper niente né di masse né di ventenni. La versione più scafata dell'ignoranza consiste infatti nel tradurre tutto dal concreto all'astratto. Guai a usare un nome proprio, solo generalizzazioni. Keynes lo si può ignorare, il keynesismo no. Sapere niente del Meridione è consentito purché si sappia qualcosa del meridionalismo. La regola è: scivolare voluttuosamente sulla superficie dei concetti, come in un funambolico surf sull'onda del sentito dire. Così facendo, sarà difficile avere delle cognizioni, ma niente vieta di avere delle convinzioni. Fragili ma assolute. Precarie ma definitive. Definitive ma permutabili. Ieri si scommetteva sul marxismo, lo strutturalismo, la sociologia. Più tardi su Nietzsche, Heidegger, il pensiero debole, il ritorno del pensiero forte, magari Wojtyla: l'importante è essere nel trend. Perché stando lì non si sbaglia mai: insomma, non si è diventati sostenitori del bipolarismo ignorando pressoché tutto dei sistemi effettivamente bipolari? Non ci si è schierati per il doppio turno perché sembrava più elegante, e in più l'aveva detto Sartori? E alla fine non ci si è schierati contro Sartori perché, dai e dai, ci era venuto a noia? Il vero ignorante è quello che flirta con le soluzioni senza scampo: l'individualismo, l'ultraliberismo, la deregulation; ma poi, no, si cambia idea, radicalmente: ci vuole la comunità, il legame sociale, il bene comune, abbasso Milton Friedman, evviva Amartya Sen, o anche Bertinotti. È una festa, essere ignoranti: significa poter essere spregiudicati come quella volta che si liquidò trionfalmente Marx a favore di Proudhon. Oggi si potrebbe abbandonare lì per lì Hayek e Popper, dopo un fatuo innamoramento, e prendere una sbandata tardiva per Rawls (ah, il contrattualismo!) o per Dossetti (se si ha qualche propensione mistica). Bisogna solo avere un metodo. Non importa conoscere l'opera di Dahrendorf, ma saperlo trattare come «uno dei capifila del pensiero liberale contemporaneo», anche se nel frattempo fosse passato in seconda fila. Funziona per qualsiasi genere culturale o artistico o spettacolare: Trainspotting è «un inquietante documento sociologico» che lo abbiate visto o no, l'Espressionismo a Palazzo Grassi è «una rassegna degli incubi del secolo», e il Milan di Berlusconi e Capello «è un'accozzaglia di stranieri», anche se non lo si è mai visto giocare. Gli ignoranti sono onnivori, eclettici, versatili, poliedrici. Quanto agli studiosi, ai competenti, ai disciplinati, il Terzo Millennio e la Globalizzazione abbiano pietà di loro.
LA STAMPA, 13.10.1997
RIFONDAZIONE ALL’ULTIMA SPIAGGIA
E ora si vanno a vedere le carte. Per gli scettici, la riapertura di Rifondazione al governo era un espediente per prendere tempo. Con il passare dei giorni, infatti, perde consistenza la prospettiva delle elezioni anticipate, cioè l'elettrochoc contro la crisi «pazza», la terapia scelta da D'Alema e brandita soprattutto da Prodi. Si sa infatti che il presidente Scalfaro è ostile all'interruzione della legislatura. Che l'Ulivo sia tutt'altro che compatto verso le urne non è un segreto. Ci vuole poco dunque a sospettare che l'ultimo gesto di Bertinotti fosse una mossa dilatoria, uno spicciolo di politica da puntare cinicamente sull'ultima roulette ancora aperta per guadagnare tempo. Ma una ricostruzione del genere trascura un aspetto significativo: con l'ultima crisi, il prc era ormai una formazione politica residuale. Ciò che si è consumato negli ultimi giorni e che ha portato alla caduta del governo è stato un sacrificio mortale: Rifondazione ha fatto cadere l'esecutivo ma così facendo ha prefigurato la propria virtuale scomparsa politica. Fra tutte le soluzioni a cui può condurre questa crisi, infatti, a parte la ricostituzione della maggioranza precedente, non ce n'è una che contempli una sopravvivenza significativa del prc: il voto anticipato darebbe ai neocomunisti una rappresentanza modestissima, non molto oltre il «diritto di tribuna»; un governo di larghe intese favorirebbe una legge elettorale in grado di tagliare fuori le componenti irriducibili del sistema politico. Sulla rottura con il centrosinistra, quindi, Rifondazione ha giocato tutto, la propria rilevanza politica e gran parte del proprio futuro. Lo ha fatto sul filo della disperazione, altro che per narcisismo. D'Alema aveva trattato il prc come una corrente di minoranza del vecchio Pci, negoziando l'accordo con la Cgil e pensando che il centralismo democratico alla fine avrebbe prodotto la convergenza «unitaria». Rifondazione ha avvertito una minaccia gravissima alla propria integrità di partito, e ha fatto scattare la propria reazione: nichilista, incompatibile con la modernità, irriducibilmente massimalista, ma dettata da un istinto insopprimibile. Alla fine il confronto che si riaprirà fra l'Ulivo e il prc è un faccia a faccia ancora drammatico, ma rappresenta anche l'unica opportunità di sopravvivenza per Rifondazione. Perché l'esplorazione di convergenze tardive sugli stessi temi ritenuti non negoziabili pochi giorni fa è un crinale strettissimo per ritrovare una casa fra le elezioni anticipate e il governo di garanzia europea. Non va trascurato poi che in diversi settori del centrosinistra si era diffusa la sensazione che la rottura con Rifondazione era senza dubbio catastrofica per l'esperienza di centrosinistra, ma costituiva un ulteriore elemento di semplificazione: in ogni caso scompariva per la sinistra la necessità di mediare con un'altra sinistra irriducibile; nell'immediato, ci si toglieva pure il pensiero di dover sostenere una legge finanziaria «socialista», contrattata fino a risultare molto mediocre. È possibile perciò che il sentimento che fa da sfondo alla ripresa della trattativa non sia solo il sollievo per lo scampato pericolo, bensì anche una certa rassegnazione: che si tratti del governo di programma a scadenza annuale evocato da Bertinotti o di un'intesa tattica e precaria, si torna a una vita da separati in casa. Giuliano Amato aveva posto in luce che al di là dell'oltranzismo di Bertinotti c'era un oggettivo deficit di capacità riformista nell'Ulivo. Ora potrà anche darsi che la finanziaria passi senza troppe altre concessioni ai neocomunisti. Ma ciò che viene da chiedersi riguarda il futuro della coalizione: si era già visto che i grandi programmi avevano partorito misure modeste. E allora? Una volta «viste» le carte di Rifondazione, e magari trovato un accordo, che cosa potrà programmare in un anno il governo cosiddetto di programma? Forse niente più di una blanda routine. E dunque si tratterà di non farsi ingannare dai sorrisi, se l'accordo verrà effettivamente conseguito e se il governo Prodi potrà reincarnarsi in se stesso. Sopravvivere politicamente è un risultato importante, ma sopravvivere per consegnarsi all'immobilismo equivarrebbe a un'altra battuta d'arresto, forse più pericolosa, nel medio periodo, della rottura stessa.
LA STAMPA, 17.10.1997
E’ REGIME SE MANCA L’OPPOSIZIONE
Fino a qualche settimana fa il sospetto che il governo e la maggioranza potessero occupare spazi indebiti e irrigidire il loro potere fino a configurare l'idea di un «regime» era più che altro un esercizio intellettuale, una specie di esorcismo critico preventivo. Negli ultimi giorni invece il sospetto si è tramutato in accusa divenendo il leitmotiv di Silvio Berlusconi e quindi, malgrado vari distinguo, del Polo. Ora, c'è da intendersi: regime è un termine sgradevole, in quanto attribuisce agli avversari politici la tendenza, se non l'esplicita volontà, ad approfittare a man salva di un ruolo istituzionale per ingigantire le proprie sfere di influenza e di controllo. È una parola che si porta dietro intonazioni illiberali e perfino echi autoritari. Insomma, è un'accusa grave, da non usare nella polemica politica spicciola. Perché se ci trovassimo davvero di fronte a un regime incipiente, sarebbero consigliabili modalità straordinarie di opposizione, mobilitazioni di massa, accese rivendicazioni di libertà. È questa la situazione che stiamo vivendo nel nostro paese? Sembra difficile rispondere di sì. Se il «regime» dovesse dipendere da un uso strumentale della giustizia, c'è da sottolineare che Berlusconi ha acuito la sua polemica contro i magistrati che lo indagano, fino a chiedersi se la sinistra sia «beneficiaria o mandante» delle Procure, ma occorre anche rilevare che sull'argomento i suoi stessi alleati sono molto più cauti. È più probabile invece che ciò che viene definito come regime sia invece semplicemente un governo che, risolta l'ultima crisi, in prospettiva promette di vivere a lungo, facendo svanire le illusioni dei governi tecnici o di larghe intese, e consegnando dunque l'opposizione al difficile, faticoso ruolo che dovrebbe essere tipico proprio della minoranza. In un sistema politico che è stato plasmato da una lunghissima epoca di crisi politiche finte, spartizioni risarcitorie, patteggiamenti compromissori, trovarsi chiaramente in minoranza, e con scarsissime possibilità di contrattare quote di potere con la maggioranza, significa affrontare una situazione disarmante: e tanto meno soddisfacente se si pensa che l'avventura politica di Berlusconi era nata all'insegna di una vocazione aziendale e populista, tesa cioè a realizzare al più presto, senza mediazioni, con metodi manageriali o padronali, la volontà attribuita alla «gente». C'è anche un altro aspetto, oggi, che rende particolarmente frustrante restare fuori dal circuito del governo: ed è che se effettivamente Prodi e Ciampi centrano la moneta unica, i possibili dividendi di un'europeizzazione dell'Italia andranno ad assoluto vantaggio di una sola parte politica: il calo dei tassi, un ritmo di crescita più elevato, eventuali riflessi positivi sull'occupazione, l'opportunità di riduzioni del carico fiscale avrebbero un'unica sigla, quella del centrosinistra. Diverso è il discorso se protestando contro il regime si allude piuttosto a comportamenti sbrigativi dei partiti di governo sul piano delle nomine e sull'occupazione di settori dell'economia pubblica. Le designazioni alla Rai, alla Stet, all'Iri, all'Enel, tanto per fare un esempio, hanno configurato un sistema selvatico di spoil system, sregolato quanto sbrigativo, prevedendo talvolta, con tipico stile neospartitorio, anche le concessioni all'opposizione. D'altra parte alle condizioni date il fenomeno è inevitabile: mentre non è costoso attribuire la presidenza delle commissioni parlamentari di garanzia all'opposizione, la nomina dei dirigenti pubblici, oltre alle qualità professionali, implica un rapporto fiduciario, che rende a prima vista sconsigliabile la cessione di queste posizioni a esponenti della parte avversa. Esiste quindi, di nuovo, una questione di regole, sulle quali il Polo potrebbe utilmente confrontarsi con il governo chiamandolo a misurarsi su una proposta, così come esiste anche la necessità di consegnare al più presto al mercato i segmenti di economia ancora in mano allo Stato per sottrarli alle tentazioni della feudalità politica (in questo senso il destino della privatizzaszione dell'Enel suscita più di una preoccupazione). Tuttavia il Polo dovrebbe mettere a fuoco anche un altro aspetto. Infatti è probabile che intorno alla maggioranza in via di progressiva stabilizzazione si stratifichino assetti più ampi di consenso come anche di compartecipazione al potere. Ormai il centrosinistra è uno «schieramento sistema», che si estende dal moderatismo di Di Pietro passando per Ciampi fino a Bertinotti. Chi vi cerca qualcosa, lo trova. È anche per questo che settori dell'economia, grandi centri di interesse, aree culturali sono e saranno soggetti all'attrazione ulivista. Proprio una concezione realistica della politica non può sottovalutare l'addensarsi di convenienze, collateralismi, semplici opportunismi: cioè una possibile crescita strisciante di un consenso inerziale che nel lungo andare assesta le posizioni e crea vincoli via via più significativi. Di fronte a una prospettiva del genere, che forse per l'opposizione è quella più inquietante, il Polo anziché gridare al regime dovrebbe domandarsi se ha una politica. Difficilmente capiterà infatti un'altra occasione in cui il rimescolamento di carte appariva così vicino. E dunque il centrodestra dovrebbe tentare in primo luogo di tenere una posizione: non sulle questioni di facciata ma nell'elaborazione di una iniziativa coerente, cercando di elaborare soluzioni e di proporle in Parlamento, influenzando e correggendo le impostazioni del governo, ingaggiando battaglie sui temi davvero significativi. Altrimenti, non sarà un regime, ma l'era dell'Ulivo potrebbe assomigliare curiosamente alle grandi durate di Margaret Thatcher o di Helmut Kohl: non capi di un regime ma portatori di una politica rimasta troppo a lungo senza alternative
LA STAMPA, 31.10.1997
CONCERTAZIONI MACCHINOSE
Sulla trattativa per la riforma delle pensioni cominciata a Roma fra governo e sindacati si proietta qualche ombra, lo strascico politico della crisi di governo e della sua ricomposizione a tempo scaduto. Malgrado le parole di soddisfazione e di rassicurazione spese da Prodi e D'Alema a ricucitura avvenuta, è piuttosto chiaro che i temi che hanno intessuto l'accordo con Rifondazione comunista non sono stati definiti con esattezza. Tanto sulla riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore quanto sulla riforma della previdenza il governo sembra rivendicare discrezionalità. Nella politica economica le grandezze numeriche sono fissate, ma il modo per conseguirle è tutt'altro che definito: ed è per questo che si avverte un'eco di ambiguità, dal momento che Prodi tende a interpretare in modo piuttosto elastico ciò che invece Bertinotti considera vincolante. Il fatto è che dire discrezionalità significa dire politica. La scena è resa complessa in primo luogo dalla necessità di trovare un accordo non insoddisfacente per il sindacato, in particolare la Cgil, che durante la crisi si è trovata drammaticamente allo scoperto in seguito alla rottura con cui Rifondazione comunista ha affondato il patto «socialdemocratico» del sindacato con il governo. Quindi si tratta di tratteggiare un complicatissimo schema per limare le pensioni di anzianità, costruendo un nuovo sistema contrattato nei particolari, entrando nel merito di distinzioni problematiche fra «operai ed equivalenti» e il resto della forza lavoro, cercando di ottenere il massimo di ciò che il sindacato può concedere. E tutto questo impegno benché la soluzione di oggi sia da considare solo come un passo molto modesto verso la ristrutturazione dello stato sociale. In secondo luogo il negoziato sulle pensioni è un test importante per verificare la tenuta dell'accordo con il prc, che anche ieri non ha nascosto una certa irritazione per le ipotesi predisposte dall'esecutivo. Nel breve termine, si dovrà riscontrare se la soluzione della crisi di governo è stata una soluzione vera o figurativa, affollata di cose non dette, di allusioni imprecise, di fraintendimenti reciproci più o meno voluti. Ma non c'è solo un problema di breve periodo. Ciò che viene messo alla prova in questi giorni è la capacità residua del governo dell'Ulivo di esprimere una politica riformista. Perché non esiste soltanto un problema di quantità, cioè gli obiettivi di bilancio da raggiungere con la legge finanziaria per il 1998: c'è un problema di qualità delle misure, e cioè innanzitutto della loro capacità di equilibrare in modo duraturo i conti pubblici. È probabile infatti che Carlo Azeglio Ciampi riuscirà a ottenere un insieme di provvedimenti tale da soddisfare le esigenze di stabilizzazione; ma una volta che il ministro del Tesoro avrà assolto il suo compito primario, toccherebbe poi a Prodi riprendere il cammino verso gli obiettivi di modernizzazione strutturale che il centrosinistra aveva assicurato di saper realizzare. Oggi siamo davanti a una domanda cruciale: esistono ancora le condizioni per operare verso questi obiettivi? La trattativa sulle pensioni non darà una risposta risolutiva al quesito, ma qualche indicazione sì. Per ora il pessimismo non è un preconcetto: da qualche tempo sembra essere maturata nella maggioranza la convinzione che ormai l'approdo alla moneta unica è poco più di un atto notarile. È anche per questo che prima e dopo la crisi di governo si è diffuso come pensiero politico prevalente quello esemplificato dal «prima o poi un accordo si trova»: su tutto, sulle pensioni come sull'orario di lavoro; risolto l'essenziale, vale a dire la crisi politica, l'intendenza seguirà. Pensando anche che non sarà qualche centinaio di miliardi in meno a pregiudicare un cammino già così favorevolmente segnato. Un atteggiamento di questo tipo non rivela soltanto una concezione maneggiona della politica, ma anche l'accettazione sostanziale che in prospettiva di riforme serie se ne faranno poche. L'insidia è insomma che siamo già passati psicologicamente nella fase in cui non si tratta più di intervenire in profondità, di liberalizzare il mercato, di ristrutturare qualitativamente il welfare, di sgravare la società produttiva dalla pletora di leggi, regolamenti e vincoli che la soffocano, di ridare un senso all'amministrazione pubblica e alla scuola, ma ormai di assecondare un processo quasi inerziale con pochi e non conflittuali aggiustamenti finanziari qua e là, dove la resistenza è minore. Siamo in bilico insomma fra scelte di modernizzazione effettiva e una politica dei «taglietti» politicamente contrattati. E si rischia di perdere di vista che la permanenza in Europa, in un sistema rigido, sarà difficile già con il nostro modello di concertazione, con il peso di una politica macchinosa nella sua architettura stessa. Se si perde di vista anche la necessità di riformare ciò che deve essere riformato, e se l'orizzonte politico verrà saturato dalla richiesta di difendere quelli che vengono chiamati diritti acquisiti, e che sono in realtà aspettative corporate, forse sarà possibile imbellettare una riforma qualsiasi delle pensioni, ma sarà piuttosto improbabile acquistare il dinamismo sufficiente per ritrovarsi in Europa con la capacità di competere.
LA STAMPA, 10.11.1997
L’ULIVO ALLARGA LE RADICI
Le prime cifre elettorali che affiorano dallo spoglio dei voti nel collegio del Mugello sembrano attribuire un notevole successo ad Antonio Di Pietro. Un successo che fa piazza pulita della campagna elettorale «più bizzarra del mondo». Malgrado molti aspetti folcloristici, infatti, questa competizione contiene anche qualcosa di esemplare, per cui è ovvio trarne indicazioni consistenti per la politica nazionale. Il primo aspetto è che con l'elezione di Di Pietro il centrosinistra completa vittoriosamente il proprio assortimento politico. L'opposizione ha preso l'abitudine di strillare al regime con un automatismo ovvio, senza nemmeno preoccuparsi se in questo modo dietro la durezza delle parole mostra la propria disarmante debolezza politica, ma resta il fatto che con l'operazione Di Pietro lo schieramento di maggioranza assume definitivamente tutte le caratteristiche di una forza politica «pigliatutto», estesa dal moderatismo postdemocristiano al massimalismo anticapitalista (con quest'ultimo che si concede molte licenze ma non tradisce mai sino in fondo). Si tratterà di vedere se Di Pietro è un buon alleato o un uovo di cuculo, ma per ora l'inserimento sembra riuscito: con l'ex magistrato i voti aumentano rispetto all'Ulivo. Per il Polo, la campagna del Mugello era un'operazione di pura testimonianza, in cui Giuliano Ferrara, uno degli ispiratori del berlusconismo si è sacrificato in modo autodistruttivo, con un furore antidipietrista che probabilmente gli ha attirato molto più rancore che voti. Ma se la sconfitta nel collegio toscano era già scritta, e restavano da definirne solo le proporzioni, si possono sottolineare invece come estremamente negativi per il Polo i modi in cui è maturata. L'avere mostrato cioè a tutta l'opinione pubblica che Forza Italia «odia», come Ferrara in tv ha detto di odiare, colui che ancora molti italiani e forse anche diversi elettori di An e del centrodestra considerano ancora una specie di eroe popolare. E in ultimo la clamorosa conclusione del conflitto tra lo stesso Di Pietro e il direttore del Giornale Vittorio Feltri, che è stata percepita come una pietra tombale sulla credibilità delle accuse contro l'ex magistrato. Il risultato del Mugello andrà letto in relazione con i risultati delle amministrative nei grandi comuni il 16 novembre: perché se dovesse avverarsi l'effetto domino che molti prevedono, cioè uno sfondamento trionfale del centrosinistra, il Polo entrerebbe in una fase di piena turbolenza. Ormai da diverso tempo il centrodestra appare in deficit di iniziativa e credibilità politica. I sussurri e gli ammiccamenti su un imminente sgocciolio di parlamentari dal Polo all'Ulivo, sull'esempio di Ombretta Fumagalli Carulli, chiariscono bene come sia difficile restare utilmente all'opposizione. Le difficoltà e le contraddizioni dell'opposizione sono l'altra faccia dell'Ulivo nella sua versione mugellesca. Mentre il centrosinistra tenderà infatti inevitabilmente a consolidarsi, a occupare fisiologicamente uno spazio politico sempre maggiore, il Polo potrebbe essere alle soglie di un processo dissolutivo. La politica italiana dei prossimi mesi sarà quindi dominata da alcune domande di base: riuscirà un Ulivo così differenziato ed esteso a esprimere un minimo di programma riformatore senza impaludarsi nelle prorpie differenze? E, sull'altro crinale, un'opposizione ai minimi termini è lo strumento più adatto per introdurre qualche stimolo al rinnovamento? Oppure, per caso, non saremmo già orientati sulla strada di un'antica malattia italiana, quella di un sistema immutabilmente perfetto, senza governo e senza opposizione?
LA STAMPA, 13.11.1997
IL BOCCONE PUO’ ESSERE INDIGESTO
Con il tono rude e autocompiaciuto che conduce all'applauso i rioni e le platee, Antonio Di Pietro non ha perso l'occasione per maramaldeggiare ai danni degli sconfitti: il Polo è «cotto», e quanto a Berlusconi si tratterebbe solo di trovare il modo adeguato per dargli la buonuscita. Si può leggere tutto questo sulle colonne di questo giornale, e valutarne appropriatamente il tono baldanzoso. Il senatore del Mugello non sa, o forse sa benissimo, che così dicendo mette in luce una verità molto parziale. Perché è vero che il centrodestra è entrato in quella situazione di afasia che precede l'agonia politica. Quando poi escono dall'afasia gli esponenti del Polo si lasciano andare a un cupio dissolvi tra il voluttuoso e il livido: dopo l'accordo padronale del Giornale con Di Pietro, Giuliano Ferrara si lascia andare confessando di essere «un elefante di sinistra che viaggia con la destra solo per rimettere il diritto al suo posto naturale»; i postemocristiani guardano a Forza Italia come a un errore politico in sé; e le differenze politiche nella coalizione si approfondiscono, se è vero che Fini e Berlusconi hanno cominciato a darsi sulla voce anche a proposito della qualità dell'ordigno trovato a Roma vicino al Palazzo di Giustizia. Quello che non viene detto è che la crisi del Polo e la sua potenziale dissoluzione non sono solo un problema del centrodestra. In una situazione di bipolarismo ancora fluido non è detto che la crisi di uno schieramento rimanga recintata, anzi, può trasformarsi rapidamente in una crisi di sistema. Vale a dire che se il Polo si polverizza, si apre un vuoto: e in politica, se un vuoto si crea, qualcuno lo riempie. Infatti le candidature a spartirsi le spoglie del Polo sono già state avanzate. Tuttavia finora i Cossiga, i Martinazzoli, i Segni sono apparsi più che altro possibili attori di una strategia di Palazzo. Invece la baldanza dimostrata da Di Pietro è il riflesso della convinzione di potere all'occorrenza spostare voti. Per ora il senatore del Mugello ostenta modestia, inneggia all'unità, colora di elegia l'alleanza fra il «centro dei valori» e la sinistra moderata. Ma chi può scommettere su che cosa accadrà domani? Domani, o meglio domenica, accadrà in primo luogo che si verificheranno sul campo le previsioni che danno il Polo in caduta libera nelle elezioni comunali. Ma prima di ripetere ancora una volta che la prevedibile sconfitta elettorale del centrodestra aprirà un aspro dibattito sulla sua leadership, sarebbe il caso di valutare perché è probabile che i sindaci del centrosinistra sconfiggeranno severamente i candidati loro contrapposti. Anche perché è di qualche interesse notare che i trionfi pronosticati per i candidati ulivisti non sembrerebbero politicamente spiegabile: è vero o non è vero che il governo in carica infatti non ha perso occasione per scontentare tutti o quasi, ambienti confindustriali e pensionati, giovani e anziani, lavoratori dipendenti e lavoro autonomo? Come si spiega allora il plebiscito atteso per candidati che rappresentano nel territorio la stessa posizione politica che si esprime a Roma? Esiste una specificità locale che premia la capacità politico-amministrativa di Cacciari, Rutelli o Bassolino? I sindaci in carica hanno sempre un vantaggio di immagine in più rispetto ai loro avversari? Certo, c'è molto di questo. Ma c'è anche un altro aspetto, riassunto nel principio secondo cui vale per i sindaci ciò che vale per il governo. Ovvero: durare è di per sé un valore politico. Le deprecazioni pubbliche che hanno accolto in ottobre la rottura con Bertinotti sono la prova evidente che la stabilità fa premio anche sulla qualità politica. Si può criticare il governo, ma l'importante è che continui a fare il suo lavoro. Nel nome dell'Europa, per ciò che riguarda Palazzo Chigi; nel nome della prevedibilità per ciò che riguarda i sindaci. Insomma, sulla qualità si viene a patti, sulla stabilità no. Sembrerà la più banale delle constatazioni, ma al fondo di tutto questo c'è più di una lezione da trarre. La prima è che non conviene a nessuno augurarsi o puntare sulla distruzione dello schieramento avverso. La seconda lezione è che è politicamente probabile che non convenga a nessuno nemmeno puntare sulla turbolenza. Finché il centrosinistra tiene, cioè garantisce stabilità e durata, può attrarre consensi e garantire visibilità anche ai propri esponenti più deboli elettoralmente. Ma se qualcuno vedesse nella crisi presente e soprattutto futura del centrodestra un'occasione per tentare il grande rimescolamento, cioè, in altre parole, se a qualcuno venisse in mente di mangiarsi in un solo boccone un Polo ancora più «cotto», potrebbe forse ottenere notevoli risultati nel fluttuare sbandato di parlamentari e fazioncine disperse: tuttavia sarebbe tutto da dimostrare che la raccolta degli sbandati avesse un significativo equivalente fra gli elettori. E se questi ultimi pensassero che lo scombinamento dei Poli è un attentato alla stabilità? Una prova di avventurismo? E se malgrado sconfinamenti e ribaltini l'idea dominante fosse che è meglio un Prodi oggi che un chissachi domani? Insomma, in politica mai niente è precluso: ma potrebbe anche darsi che dopo il 16 novembre qualcuno spiegasse a Di Pietro che sarà meglio aspettare che il Polo rimetta insieme i suoi cocci senza interferenze esterne; e che in fondo la sua naturale baldanza conviene continuare a spenderla nelle file in cui è stato eletto, magari risparmiando sull'esibizione dei muscoli.
LA STAMPA, 17.11.1997
LE RAGIONI DI UN SUCCESSO ANNUNCIATO
Ci si attendeva un'affermazione massiccia, ma i primi dati mettono in rilievo un successo addirittura sorprendente dei sindaci dell'Ulivo nelle grandi città. Rutelli, Cacciari e Bassolino sfiorano il plebiscito, e forse l'entità della loro affermazione spiega anche l'astensionismo in crescita. Occorrerà esaminare a fondo i risultati per vedere analiticamente il comportamento degli elettori, ma il primo elemento da mettere a fuoco è proprio il peso che avrà nel teatro politico nazionale una vittoria robusta come quella ottenuta a Venezia, Roma e Napoli. In realtà è un successo ambiguo, e quindi non facilmente definibile, per lo schieramento vincente, dato che i sindaci dei comuni metropolitani sono riusciti a guadagnarsi una popolarità che travalica l'area di consenso del centrosinistra. Dunque non sarebbe appropriato considerare queste elezioni come un referendum di verifica sull'azione del governo Prodi e sulla coalizione che lo sostiene. La capacità amministrativa di Bassolino, la sapiente creazione di consenso da parte di Rutelli e l'abilità dialettica di Cacciari hanno in effetti poco in comune con l'attività dell'esecutivo. Resta comunque il fatto che nei grandi comuni il centrosinistra affrontava un confronto e un giudizio politico dopo una fase prolungata di misure di risanamento e di inasprimenti fiscali che avrebbero potuto penalizzarlo sensibilmente. La penalizzazione non c'è stata. Può essere che almeno in parte gli elettori abbiano valutato positivamente l'effetto dell'azione di riaggiustamento del governo Prodi-Ciampi, e che il probabile conseguimento della moneta unica sia stato considerato un risultato tale da fare aggio sui sacrifici imposti. In ogni caso l'Ulivo dovrebbe incassare questi risultati senza gonfiarli oltremisura. Ogni città è un'esperienza a sé, come si vede anche dai sondaggi sui capoluoghi di provincia, che offrono risultati meno coerenti, e che non consentono quindi di notare se da queste amministrative escono tendenze davvero omogenee. Per ora l'unico elemento poco discutibile sembra l'inadeguatezza del Polo a reperire una classe dirigente in grado di essere politicamente competitiva. Il centrodestra ha affrontato questo appuntamento con le urne con una miscela di improvvisazione e di rassegnazione. L'estemporaneità nella scelta delle candidature è stata anche il riflesso dell'inconsistenza territoriale dei partiti del Polo e in particolare di Forza Italia; ma se già prima del voto diversi esponenti del centrodestra prevedevano bufera, attribuendone la ragione alla incerta qualità delle candidature, questo fatalismo non fa che mettere in rilievo il deficit di credibilità del Polo rispetto a larghi settori di establishment. È possibile che i risultati delle elezioni sul resto del territorio nazionale correggano in qualche misura queste sensazioni, ma alla fine da questa consultazione dovrebbe uscire un risultato a due facce. Da un lato rafforzerà il centrosinistra, moderatamente ma significativamente perché sul piano numerico e di immagine la vittoria di Venezia, Roma e Napoli è talmente netta da essere interpretabile senza dubbio come un eccellente risultato complessivo. Dall'altro lato si profila invece una prevista ma non per questo meno dolorosa sconfitta del Polo: accentuata oltretutto da un clima generale che dà l'avventura del centrodestra agli ultimi scampoli, in attesa di iniziative di restaurazione del centro, di cambi di leadership, di nostalgie e di fughe in avanti che potrebbero movimentare ampiamente le prossime settimane.
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