LA STAMPA
LA STAMPA, 04.10.1996
E’ LA RIFORMA LA VERA ARMA DI D’ALEMA
Massimo D'Alema prepara il congresso del Pds, e sarà interessante esaminare le sue «tesi» per valutare come il segretario intende plasmare il partito. Perché D'Alema non è un segretario di transizione: è giovane, ha in mano il partito, possiede una certa capacità strategica, e soprattutto è riuscito a vincere le elezioni: se Achille Occhetto aveva avuto il merito di allontanare affannosamente il partito dai calcinacci del muro di Berlino, D'Alema ha compiuto l'impresa «storica» di portare il Pds al governo. Detto questo, non ci vuole molto a capire che il nucleo delle riflessioni di D'Alema è facilmente intuibile. Infatti il segretario del Pds non ha mai nascosto quali sono le sue intenzioni: creare un partito «pesante», una variante aggiornata del modello socialdemocratico, capace di conquistare le quote decisive dell'elettorato in parte grazie all'alleanza con le formazioni centriste, ma soprattutto attraverso una propria autonoma, razionale, realistica proposta di gestione politica ed economica di un paese moderno. È un progetto senza illusionismi, che lascia pochissimo spazio ai progetti leggeri che piacciono a Veltroni, alle ipotesi che vagheggiano un unico partito «democratico» di marca clintoniana. Ma è anche un disegno che in questo momento appare in grave difficoltà, per ragioni contingenti e per ragioni di fondo. Perché per concludere e consolidare la completa trasformazione del Pds, D'Alema deve prima risolvere il problema del rapporto con Rifondazione comunista. Il segretario del maggiore partito italiano non può sopportare in eterno di avere un concorrente a sinistra che guadagna popolarità proprio attraverso l'approfondimento della rivalità con il Pds. La situazione attuale, e il varo della finanziaria lo ha dimostrato in modo bruciante, mette il Pds nella condizione di essere il perno della maggioranza solo in quanto sopporta il peso maggiore della politica economica del governo. Gli altri prendono o prenderanno i meriti, D'Alema si prende la responsabilità effettiva in Parlamento e di fronte all'opinione pubblica. In condizioni simili, è facile prevedere che D'Alema imprimerà un impulso molto deciso alla costruzione del partito «unico» della sinistra. Il ragionamento classico che viene svolto in questi casi dice che lo spettro politico presente nei partiti socialdemocratici europei è sempre stato molto vasto e talvolta comprende, come nel partito laborista inglese, anche frange di stampo massimalista. Si potrebbe concludere che il calcolo di D'Alema è di buona qualità, se non fosse che la realtà sembra di qualità molto inferiore. Il fatto è che i rapporti a sinistra sono già cristallizzati, e non sembra facile trovare il modo per una saldatura tra i due tronconi dell'ex Pci. A Bertinotti e Cossutta non conviene l'unità della sinistra perché dall'estremità del sistema politico hanno un'infinita possibilità di variazioni tattiche. Possono giocare la loro caratterizzazione «antagonista» per condizionare la maggioranza e portare a casa risultati politici concreti, ma possono anche semplicemente opporre veti, farsi vedere nella propria funzione di guastafeste, e comunque esercitare di continuo un ruolo molto superiore alla propria consistenza. Il Pds ha compiuto sforzi notevolissimi per riuscire a presentarsi come una forza politica di tipo europeo. E quindi non è assolutamente nel suo interesse trattare alla pari con Rifondazione comunista in vista della costituzione del partito unico. Anche solo come ipotesi, federarsi in qualche forma con Bertinotti equivarrebbe a perdere qualcosa in credibilità, sul piano interno e internazionale, e di fronte a un'Europa politicamente moderata, ben prima di guadagnare voti sul piano domestico. E quindi il segretario della Quercia non potrà andare molto oltre la mozione dei sentimenti. Perché la persistenza di Rifondazione comunista nella politica italiana è dovuta certamente al fatto che è, come ha detto Nino Andreatta, «un indicatore del disagio»; ma soprattutto alla struttura del sistema elettorale, che offre favorevolissime opportunità a chi non entra nelle alleanze, o ci entra con un piede solo. Sarà difficile per questo che il partito unico della sinistra possa essere creato a tavolino, su base consensuale. D'Alema dovrebbe sapere che il futuro dei partiti e il formato degli schieramenti non è dato da processi politici spontanei, ma piuttosto dalla configurazione definitiva che assumerà il sistema politico-istituzionale. Finora, le regole del gioco, con l'ibrido di formula a un turno corretta da una zattera proporzionale, hanno consentito a Rifondazione di ricattare il Pds, minacciandolo di presentarsi da sola e quindi fargli perdere le elezioni. Domani, con un modulo elettorale più efficiente, dovrebbe essere D'Alema a mettersi nelle condizioni di poter ricattare Bertinotti, minacciandolo di farlo scomparire dalla scena politica. E perciò D'Alema dovrà chiedere al suo congresso non tanto un mandato romantico per aprire l'offensiva diplomatica «con i compagni di Rifondazione», ma un mandato esplicito per chiudere vantaggiosamente la partita della riforma istituzionale. Per poter trattare con i neocomunisti dall'alto della propria forza e non nella consapevolezza continua della propria debolezza.
LA STAMPA, 06.10.1996
ATTRAZIONE FATALE
C'è una disperata voglia di un leader alternativo, nella destra, malgrado le rivendicazioni di Silvio Berlusconi. Ma potrebbe davvero essere Francesco Cossiga, questo leader? Se si risponde di sì, l'ex presidente della Repubblica sarebbe un magnifico caso di uomo che viene dal passato, scivola anonimamente nel presente e si proietta gloriosamente nel futuro. Per il Polo l'idea è affascinante: mettere in gioco il picconatore della Prima Repubblica per costruire fondamenta e muri maestri della Seconda è un progetto pressoché irresistibile, come si è visto ieri, con le ovazioni a scena aperta all'assemblea dei Comitati per l'Assemblea costituente. Tuttavia le ipotesi per il ritorno in campo di Cossiga non sono affatto semplici. O meglio, sarebbero semplici se si assistesse fra breve al passo indietro, alla rinuncia, al ritiro di Berlusconi. In questo caso, preso atto che il suo sostituto politico naturale, cioè Gianfranco Fini, non ha la configurazione culturale né il partito adatto per coagulare il consenso dell'area liberale moderata, l'attrazione fra il Polo e Cossiga diventerebbe davvero fatale. Ma si può davvero pensare che un uomo come Cossiga, che è stato capo dello Stato, ha coperto cioè la maggiore carica istituzionale del Paese, accetti di tornare in campo diventando il leader di una parte politica? In passato, l'ex presidente ha sempre lasciato capire di essere indisponibile a diventare il punto di riferimento politico di uno schieramento. Nessuno può interpretare i suoi pensieri, ma risulterebbe senz'altro più adeguato alla sua figura un ruolo super partes. C'è un ruolo di questo tipo, oggi, nella politica italiana? No, non c'è. O perlomeno non c'è ancora. Ci potrebbe essere se si profilasse la necessità di liquidare il governo del centrosinistra e di sostituirlo con un governo di «salvezza nazionale». E in questo caso la destra vedrebbe in Cossiga una carta potentissima da giocare. Tuttavia occorre anche considerare che proprio il fascino che l'ex presidente emana per il Polo rappresenta una delle ragioni della diffidenza che ispira per il centrosinistra. Lo stesso Cossiga, reclamando un governo di salute pubblica con il coinvolgimento di entrambi gli schieramenti, si è premurato di fare il nome del possibile capo del governo, indicando Giuliano Amato. C'è anche ovviamente una ragione «storica», nei sentimenti che Cossiga ispira a sinistra. Né i popolari né il Pds hanno dimenticato hanno dimenticato la veemente azione da lui svolta al Quirinale, allorché le sue iniziative tesero a spezzare in due il Parlamento e la classe politica, collocando da una parte i rinnovatori e dall'altra i conservatori. Si può ricordare che nella fase più turbolenta del suo mandato Cossiga fece leva sul Partito socialista, mentre la maggioranza della Dc e il Pds si trovarono in una posizione di netta resistenza alle iniziative presidenziali. Dunque, è difficile che anche in una situazione decisamente eccezionale, con un governo di unione nazionale ed eventualmente il voto per la creazione di un'assemblea costituente, Cossiga possa effettivamente essere l'uomo che incarna il punto di equilibrio. È stato un principio di divisione, sono in troppi a negargli fin d'ora la possibilità di essere l'uomo dell'unità nazionale. In prospettiva, quindi, Cossiga può rientrare in politica, se si creano le condizioni straordinarie per permettere o reclamare il suo rientro. Ma è molto più probabile che l'ex capo dello Stato possa essere richiesto di un intervento diretto, dentro il confronto politico, soltanto da destra. Per preparare un duello con la sinistra più equilibrato, per ridare credibilità al Polo, per conferirgli quella caratterizzazione istituzionale che il centrodestra non ha mai avuto. A quel punto, però, la decisione di tornare in partita non deriverebbe più dalla spinta delle circostanze, non sarebbe più una necessità nazionale, e neanche una soluzione di garanzia per tutti. Sarebbe, molto più semplicemente, l'incontro fra una parte, il Polo per le libertà, e un cattolico liberale ibernato da una carica avuta in età relativamente giovane, poi scongelato dalle difficoltà e dalle crisi nella politica «nuova». Ma allora, il nuovo «sì» alla politica, il rientro nell'agone a capo di una parte, sarebbe una decisione tale da coinvolgere soltanto l'ex presidente: non richiederebbe né l'invocazione dello «spirito di servizio» di democristiana memoria né il sacrificio meritorio per la patria politica. Si tratterebbe di una soluzione inattesa, drammatica anche psicologicamente. E per praticare questa «soluzione a destra», ci vuole solo una cosa: la personale decisione di Cossiga, la sua voglia di reincarnarsi, di cambiare pelle e vita. Malgrado il fattore «C», il Cossiga sia un'eterna suggestione per l'Italia dei nostri anni, riesce difficile vederlo togliersi i panni istituzionali del passato per indossare un nuovo abito politico.
LA STAMPA, 10.10.1996, INTERNO
TRAGUARDO DIFFICILE MA COATTO
Alla commissione bicamerale manca sempre un nonnulla per prendere il volo e c'è sempre qualcosa che minaccia di abbatterla. Ieri, ad esempio, Gianfranco Fini ha ritirato in un colpo solo la sua candidatura e quella di Silvio Berlusconi per le vicepresidenze, annullando a quanto sembra il paziente lavoro di cucitura dei giorni scorsi. Nello stesso tempo, il governo è stato battuto alla Camera, riprendendo a scricchiolare e rivelando nuovamente sia la precarietà dei suoi numeri sia il suo problematico rapporto con il Parlamento. Date queste battute d'arresto, che sono molto meno slegate di quanto non sembri, potrebbe sembrare vicino all'aborto anche il progetto di accordo politico di vertice su cui Massimo D'Alema aveva puntato impegnandosi in prima persona. Ma prima di stabilire che senza un accordo di vertice la bicamerale si svuota, perde significato e si avvia a ingrigire precocemente, conviene prendere in considerazione alcuni aspetti di fondo. In primo luogo c'è da osservare che la bicamerale non è il «ripiego» di cui parla Fini. Si può parlare di ripiego quando c'è un'alternativa. Invece la commissione parlamentare è l'unico strumento per procedere in tempi ragionevoli al lavoro di riforma istituzionale. La soluzione dell'assemblea costituente poteva essere una via percorribile se fosse stata praticata in un momento di gravissima tensione politica, subito dopo la crisi prodotta da Tangentopoli, allorché poteva sembrare impossibile ricostruire la politica senza provvedere a un nuovo patto civile fra gli italiani. Ma l'assemblea costituente ha il difetto di non cadere dal cielo: in assenza di traumi storici la scelta di convocare le elezioni per la costituente non è una necessità storica ma una opzione politica. Una scelta cioè che può essere sostenuta da una parte ma anche fieramente combattuta dallo schieramento opposto, e quindi restare per l'eternità nella condizione del miraggio. La bicamerale, invece, proprio per la sua taglia minore, è un oggetto che si presta alla contrattazione politica. Non è un qualcosa che pone l'aut aut, il prendere o lasciare. Ma è anche uno strumento particolarmente sensibile ai problemi politici contingenti. In questo momento infatti, solo un'anima ingenua potrebbe pensare che la funzione primaria della commissione sia di selezionare e produrre le riforme. In realtà, la bicamerale si appresta a essere piuttosto la camera di compensazione degli interessi politici presenti in Parlamento. Per D'Alema, ma per tutto il centrosinistra, la commissione è una risorsa politica di grande rilievo. È il luogo infatti in cui può patteggiare con l'opposizione una modalità di convivenza: nel momento in cui la maggioranza parlamentare si trova di fronte a una finanziaria con la strada in salita, a cui dopo la sentenza della Corte costituzionale si è aggiunto il macigno dei decreti legge da convertire, il rapporto con l'opposizione non può essere messo sul terreno dei puri rapporti di forza. L'accordo sulla bicamerale rappresenta anche, se non soprattutto, la condizione primaria per dare luogo a un confronto non distruttivo con il Polo. Sembrerebbe più difficile, invece, comprendere gli interessi del Polo, rispetto alla bicamerale. Ma questo è un falso problema. Nel momento in cui l'assemblea costituente svanisce, continuare a reclamarla equivarrebbe infatti a un esercizio perfettamente accademico, o peggio all'abbaiare alla luna. E nello stesso tempo aprire il fuoco di sbarramento contro la commissione per non farla nascere o per farla morire al più presto vorrebbe dire praticare palesemente un ruolo da guastatori, con la dimostrazione fattuale della propria indifferenza al contenuto delle riforme e alla loro necessità per il paese. È probabile quindi che si assisterà a una fitta e protratta attività diplomatica, al tentativo di pre-accordi, alla ricerca di soluzioni preventive che inibiscano le tentazioni di entrare nella bicamerale per poi fare il gioco dello sfasciacarrozze. Questa tessitura diplomatica è estenuante perché coinvolge ad un tempo i due schieramenti, ma implica anche delle diplomazie «interne» ai Poli. Con tutto ciò, la bicamerale sembra una singolarissima miscela di impossibilità apparenti e di inevitabilità reali. Proprio questo destino pressoché obbligato non depone a priori a favore di risultati incisivi. Anche perché ancora non si vede come debba essere sistemato un cordone sanitario fra l'attività del governo (e del Parlamento) e il lavoro della commissione. L'invenzione della troika composta da D'Alema, Berlusconi e Fini incorporava la garanzia che la bicamerale restasse fuori dai conflitti politici fra maggioranza e opposizione, e contribuisse piuttosto a moderarli. Diplomazia difficile, quindi. Con la Lega sullo sfondo come convitato di pietra. E in prospettiva anche con il rischio che frazioni interne della maggioranza possano scaricare sul governo, con vendette immediate, l'eventuale l'insoddisfazione per le soluzioni istituzionali predisposte dalla commissione. Insomma, lo sforzo maggiore oggi è nell'individuare un percorso di garanzie e controgaranzie: un percorso complicatissimo, per arrivare a un traguardo necessario, anzi, praticamente coatto.
LA STAMPA, 22.10.1996, SOCIETA' & CULTURA
ITALIA. LA CULTURA DELLA BATTUTA
Sarà che i tempi sono convulsi, i giochi politici complicati, il bipolarismo incompleto come dice Giovanni Sartori, la società complessa come affermano i sociologi. Oppure sarà che tutto è riassumibile dal Teatrino italiano di Altan, appena pubblicato dal Mulino, in cui le figure, e quindi le persone e le cose, sono evaporate lasciando lì solo parole di chirirgica ferocia. Sarà così sicuramente. E deve essere per questo che non si accettano più né analisi in profondità né interpretazioni ponderose. I libri non sono mai troppo piccoli, e quando sono piccoli a sufficienza bisogna ridurli ancora a una formula: l'Italia di Giorgio Bocca? Un paese spaesato, anonimo, anomico. La tesi di Giuseppe De Rita? Che in Italia non c'è una borghesia, ma solo una bolla enorme di ceto medio che non sa essere classe dirigente. Segnarsela, questa: ceto medio, borghesia, bolla. Domani la si potrà ripetere pari pari. Ed è piuttosto curioso che in una società come la nostra, che per decenni si è dedicata al «dibbattito» e all'approfondimento della linea, all'improvviso si sia sentito il bisogno della sintesi, possibilmente fulminea. E meglio ancora se la sintesi è urticante, politicamente scorretta, velenosa al punto giusto. Perché la politica, ormai, si fa quasi soltanto con dichiarazioni che sono battute. Ecco Lucio Colletti che pianta spilloni al cianuro nel corpo semiaddormentato del Polo, o Pietrangelo Buttafuoco che distilla malvagità sulla destra e la sinistra (si deve a lui la letale sintesi secondo cui, nel momento di maggiore successo dei postfascisti, che reclutavano a man salva vecchi boiardi dello Stato, «Benito Mussolini è l'unico socialista che non possiamo riciclare in An»). Battute. Battute come genere letterario, ma ancora di più come principio di interpretazione e criterio di giudizio. Battute, verrebbe da dire, come «cultura della battuta». Non sfugge nessuno. Non Bertinotti, che riesumò una vecchia battuta secondo cui «in Italia fra i rivoluzionari e i riformisti non c'è mai stata grande differenza, perché gli uni non fanno la rivoluzione, e gli altri non fanno le riforme». Ma non sfugge alla maledizione della battuta nemmeno Silvio Berlusconi, che adatta barzellette storiche a se stesso, non sfugge D'Alema, battutista che dicono insigne, e nemmeno naturalmente Prodi (Robin Hood, i sorci verdi). E non fu Tremonti a dire che mettere Visco a fare la riforma fiscale equivaleva a piazzare Dracula alla presidenza dell'Avis? Bossi sulle battute ci vive: il governo sole al posto del governo ombra, I-taglia per esemplificare linguisticamente la secessione. Di battute ormai si vive, ma le battute possono anche uccidere. Mariotto, anzi «Svariotto», Segni fu distrutto dall'ironia di chi sostenne che era uno che aveva vinto la lotteria ma aveva perso il biglietto. I progetti legati all'alberello di Alleanza democratica (qualcuno forse la ricorderà) furono desertificati da Ernesto Galli della Loggia, che sviluppò fino a conseguenze catastrofiche il concetto di «cespuglio» della Quercia. Oggi, grazie all'inventività di Giampaolo Pansa, l'accordo possibile fra D'Alema e Berlusconi ha dato luogo allo spregiativo «Dalemoni». Qualcun altro, per scherzare sui virtuosismi di Veltroni, ha coniato il verbo «veltroneggiare», che vorrebbe alludere a certe sue capacità di fare magnifici funambolismi sul filo del convenzionale, e il neologismo è stato immediatamente ripreso in chiave critica contro il vicepresidente del consiglio da Emanuele Macaluso. E quindi conviene prepararsi, non farsi trovare mai scoperti. Operazione difficile, dato che la vita quotidiana e soprattutto la politica sono diventate una specie di infinito Blob, dove le battute si insinuano dappertutto, escono da una profonda analisi di Buttiglione o di De Mita e trapelano nelle considerazioni a posteriori di Occhetto, si infilano nell'economia, tracimano dal dibattito sulla riforma istituzionale (Costituente e Bicamerale, la strada maestra e il viottolo). Alt. Pausa. Ci vuole un manuale di sopravvivenza, un Bignami per orientarsi. Si può cominciare naturalmente con i classici moderni, a partire da Forattini su la Repubblica e Panorama, ma naturalmente senza trascurare il classicissimo Altan dell'Espresso, e il brillante, direbbe proprio Altan, Giannelli sul Corriere. Dopo di che, le cose si complicano. Perché su questo giornale il lunedì non si può naturalmente perdere il Parolaio di Pierluigi Battista. E nemmeno le rime piuttosto perfide del Senza senso di Stefano Bartezzaghi, o certe cattiverie di Fruttero & Lucentini. E chi vorrà mai rinunciare a un boxino di Arbasino sul giornale di Ezio Mauro, oppure a una insinuante letterina dell'autore di Fratelli d'Italia a questo o a quel quotidiano? A un corsivo sarcastico di Nello Ajello? A una spettegolata politica dell'Ajello minore sul Messaggero? Eh no, non si può rinunciare a niente. Occorre consultare con religiosa concentrazione l'ultima pagina di ogni numero di Panorama, intitolata Ipse dixit, che è un utile florilegio di frasi più o meno celebri della settimana, e possibilmente memorizzarne le migliori, e poi seguire i cortocircuiti dell'anonimo Merit sul Sole 24 ore, pedinare accuratamente Michele Serra sull'Unità. Perché altrimenti si rischia di ritrovarsi spiazzati in società, di credere di avere inventato un bon mot originale, di avere riscoperto un episodio curioso, e di essere squadrati con fredda riprovazione dai commensali perché l'hanno appena scritto Filippo Ceccarelli o Francesco Merlo. Oppure l'hanno già citato Biagi e Montanelli. Si potrebbe chiedere al ministro Luigi Berlinguer se non valga la pena di istituzionalizzare la cultura della battuta in appositi corsi universitari, o almeno in seminari e gruppi di studio del Dams. Si potrebbero fare anche diversi convegni, intitolati alla memoria di Maccari, Longanesi, Flajano, Mario Melloni. Convegni da tenere con relazioni brevissime, fulminee, una battuta e via. E premi, alla battuta dell'anno, del mese, del semestre. Viene in mente proprio Maccari quando ogni anno, all'assegnazione del Nobel per la letteratura, metteva sale sulle ferite: «Anche quest'anno rassegnato il premio ad Alberto Moravia». Per l'appunto, rassegniamoci. Non sarà una risata a seppellire nessuno, ma una continua raffica di battute a crivellarci, questo sì.
LA STAMPA, 23.10.1996, INTERNO
SAXA RUBRA SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI
La Rai sembra sull'orlo di una crisi di nervi, ed è per questo che non ci si riesce più a stupire di niente. Non ci si è stupiti per le dimissioni del direttore del tg1, Rodolfo Brancoli, dopo appena dieci settimane di lavoro, ed è stato accolto come qualcosa di molto vicino alla normalità il fatto che ci si sia subito messi a parlare di dimissioni anche per il Consiglio d'amministrazione. Dopo di che, non c'è da stupirsi se la frettolosa ricerca di un altro direttore ha portato al risultato piuttosto clamoroso del rifiuto preventivo di Giulio Anselmi, evidentemente poco desideroso di venirsi a trovare nella posizione di candidato numero uno del presidente Siciliano e di bersaglio di tutti i veti politici possibili. Come non risulta nemmeno stupefacente che per sostituire il mancato sostituto sia circolato il nome di Marcello Sorgi, responsabile del giornale radio da due soli mesi e fresco di gradimento della redazione: un'ipotesi «sciagurata» secondo il sindacato interno, e probabilmente anche secondo il buonsenso, che ha portato alla novità di uno sciopero per scongiurare lo spostamento del direttore. Potrà apparire una forzatura affermare che Saxa Rubra, con il suo intreccio di affiliazioni politiche e di blocchi corporativi, è un frammento che rispecchia il Paese nel suo complesso. Eppure osservando ciò che è successo negli ultimi mesi, il clima nevrotico che si è creato, gli psicodrammi provocati dall'addio di Michele Santoro e dalla rinuncia di Renzo Arbore, riesce difficile negarsi al sospetto che nel mondo piccolo della Rai sta succedendo qualcosa di troppo simile a ciò che sul piano generale si sta osservando per l'Italia attuale. Vediamo perché. I due momenti fondamentali della Rai nell'era dell'Ulivo, cioè l'insediamento del cda e le nomine al vertice dei telegiornali, sono stati un intreccio di lottizzazione e improvvisazione. La composizione del cda, privo di competenze specifiche, era un compromesso fra la dimensione letteraria e quella paramanageriale. Alle nomine si è poi arrivati attraverso le solite transazioni, e com'è noto le transazioni, quando si esauriscono le risorse da barattare, hanno la proprietà di condurre le ultime scelte sui candidati terzi, che risolvono conflitti altrimenti incomponibili ma al prezzo di soluzioni deboli. Tutto ciò ha dato una sensazione che si potrebbe definire di affanno curato con il velleitarismo: una sensazione non troppo diversa, per dire, da quella che si è avuta in questi ultimi tempi vedendo la Finanziaria raddoppiare in poche ore, o sentendo l'annuncio estemporaneo e non argomentato della rivoluzione fiscale. Come per l'economia si era pensato di produrre il risanamento sul velluto, senza sacrifici, così per la Rai evidentemente si era immaginato di trovare soluzioni che non incidessero sulle realtà aziendali più stratificate. E quindi Brancoli deve essere stato percepito come un fastidioso destabilizzatore, se davvero ha tentato di smembrare cordate e fazioni, ponendosi così come oggettivo elemento di tensione interna, così come Arbore doveva avere una funzione cosmetica ben più che funzionale. Non ci vuole molto a vedere una simmetria fra l'Italia in cui saltano i vincoli di lealtà fra le istituzioni, dando luogo a una serie di conflitti fra organismi fuori controllo, e una Rai in cui non si riesce a ristabilire una sicura e affidabile catena di comando. Forse ha ragione chi pensa che il servizio di informazione pubblica è un organismo così complesso che nessuno può pretendere di governarlo con l'autorità: a ogni livello, dalla presidenza alla direzione dei telegiornali, si tratterebbe soprattutto di galleggiare su fazioni politiche, gruppi sindacali, aree di privilegio professionale, ossificazioni burocratiche, senza alcuna illusione di cambiare alcunché. Si provi tuttavia a trasferire questo criterio al rango di metodo generale per governare il paese, e lo sconforto sarà irrefrenabile. Nella riunione odierna del cda dovrebbe essere individuato il nuovo direttore del tg1. Si tratta di una scelta che si è fatta straordinariamente delicata, non solo per il ruolo e la credibilità del maggiore strumento di informazione nazionale, ma anche perché il futuro direttore dovrà risultare anche il principale puntello del traballante consiglio d'amministrazione attuale. Posta questa premessa, le conseguenze dovrebbero essere obbligate. Non c'è più spazio infatti né per direttori scelti per assicurare qualche pennellata di modernità alla macchina del tg1 né per burocrati rispettosi soprattutto del quieto vivere. Dopo il grave fallimento collettivo (professionale, gestionale, politico) reso manifesto dal ritiro di Brancoli, ora il problema è se c'è la capacità di dare un segno che si vuole governare la Rai o se ci si accontenterà semplicemente di placare le acque. Dato che non si può ignorare lo straordinario peso politico attribuito dai partiti alla televisione (come dimostra l'agitarsi di leader e loro emissari per ogni nomina), il caso della Rai è già diventato un caso politico. Anche se il governo non è direttamente implicato, se dovesse acuirsi l'incapacità di controllo finora dimostrata per la Rai, nessuno scommetterà una lira sulla capacità del centrosinistra di gestire le altre realtà su cui si esercita l'attività di gestione, sulla sua propensione al rinnovamento, sulla sua volontà di non ripetere i contraddittori peccati fatti fin qui: commessi ora per congenita tendenza alla conservazione e ora per trafelata cedevolezza all'improvvisazione.
LA STAMPA, 08.11.1996
IL TRIANGOLO CON QUATTRO LATI
Nella coalizione che sostiene il governo brillano soprattutto le contraddizioni. Nello stesso tempo, con l'opposizione il centrosinistra rischia ogni giorno il muro contro muro. Converrà cercare di districare queste due malattie del maggioritario italiano, e vedere se c'è un medico e una cura prima che si cronicizzino con esiti nefasti. In primo luogo, il governo ha una palla al piede, «sconta un handicap sempre più grave» che ha nome Rifondazione comunista. È un giudizio non particolarmente originale, ma che assume i caratteri di una valutazione politicamente pesante se a formularla è Sergio Cofferati, che l'ha consegnata a un'intervista pubblicata ieri dalla Stampa. Perché le implicazioni dell'analisi del segretario della Cgil sono radicali, e possono essere così riformulate: può il governo dell'Ulivo convivere con il «partner esterno» rappresentato da Bertinotti? Secondo il leader della Cgil, no. O almeno non può convivere alle condizioni attuali, in cui ogni negoziato tra l'esecutivo e il sindacato è «a sovranità limitata» e ogni decisione concordata viene poi ridiscussa con Rifondazione comunista. Si tratta di una diagnosi fondata. Se vige il criterio della concertazione, occorre che non ci siano sedi esterne di ridiscussione. Il triangolo della concertazione ha tre lati (governo, sindacati e imprenditori) e se i lati diventano quattro siamo in presenza di un triangolo con quattro lati, cioè una figura irrazionale. Se all'orizzonte c'è il ridisegno complessivo dello Stato sociale, occorre un presupposto essenziale, «e cioè la piena titolarità del governo e la piena coesione della maggioranza». Fornita la diagnosi, Cofferati si rifiuta ragionevolmente di fornire terapie. Ci pensi Prodi. È lui che deve sciogliere l'equivoco di Rifondazione. E qui non siamo più nel terreno relativo al funzionamento del patto di concertazione. Si entra in piena bagarre politica. Perché l'equivoco del rapporto con Rifondazione viene da lontano. Prende forma con gli accordi di desistenza per le elezioni della primavera scorsa; si consolida con la fiducia parlamentare che Bertinotti ha concesso senza assumere impegni vincolanti; e si manifesta regolarmente durante l'attività di governo, allorché le scelte devono essere puntualmente patteggiate con Bertinotti. Per gestire una situazione così squilibrata ci voleva una buona spregiudicatezza politica, la capacità di opporre ricatto a ricatto, veto a veto. Questo compito spettava politicamente a D'Alema, ma il Pds soffre troppo la concorrenza del massimalismo di Rifondazione; e dunque la gestione del negoziato continuo con Bertinotti è stata delegata a Prodi: il quale, prima che interessi di partito da tutelare, ha come obiettivo prioritario la durata del governo, anche a costo pertanto di alcune concessioni di programma. Ma il problema della convivenza con Rifondazione deve essere valutato guardando al di là dell'emergenza attuale. In queste settimane è in gioco una posta troppo importante per sollevare il problema politico del come vivere senza Bertinotti. Vige il principio dello smussare gli angoli, con gli alleati e con l'opposizione. Prodi ha imparato a usare alla lettera il «troncare e sopire» manzoniano. Ieri ad esempio, dopo una giornata che aveva visto uno scontro frontale sulle deleghe della finanziaria, con Silvio Berlusconi che parlava di «dittatura fiscale», Prodi ha dichiarato che con l'opposizione è cominciato un dialogo. Mentre in realtà l'unica cosa che si capisce è che il Polo fa la voce grossa sulla finanziaria per dimostrare la propria determinazione contro il governo in vista della manifestazione antitasse di sabato, e che la faccia feroce contro la legge di bilancio è la maschera dietro cui si cela il possibile patteggiamento per la Bicamerale. Bizantinismi? Sì, ma non solo. Al momento c'è in campo una sola questione, e cioè il varo della finanziaria. Ma a partire dall'inizio del 1997 non si tratterà più di tenere sotto controllo le grandezze macroeconomiche. Entreranno invece in gioco i grandi temi che l'Ulivo aveva promesso di affrontare: le riforme istituzionali, la ristrutturazione selettiva del Welfare, la riforma del fisco, la ridefinizione di una politica di sviluppo e di modernizzazione del Paese. Sono compiti che implicano nello stesso tempo la saldezza della coalizione di governo e un modus vivendi con l'opposizione. Perché non sarà possibile mettere in moto un programma di riforme sostanziali dovendo passare ogni giorno sotto le forche caudine di Bertinotti, e neppure affrontando ogni giorno uno scontro parlamentare con il Polo. Qualcuno dovrà quindi quadrare il cerchio. Dovrà cioè tentare l'impresa simultanea di fare i conti sino in fondo con Rifondazione comunista, prendendo in pugno la barra della coalizione di centrosinistra, e contemporaneamente restare l'interlocutore riconosciuto del Polo sulle riforme costituzionali. Questo qualcuno è ovviamente Massimo D'Alema: tocca a lui e non ad altri il ruolo dello stabilizzatore della maggioranza e di garante dell'opposizione. È un esercizio che implica acrobazie e rischi molto elevati. Infatti se fallisce può significare l'addio ai progetti di razionalizzazione; ma se dovesse riuscire, allo stabilizzatore e al garante nessuno poi potrebbe negare una semplificazione e una razionalizzazione ulteriori, vale a dire la legittimazione definitiva come candidato alla guida del paese.
LA STAMPA, 13.11.1996
LA SOMMA DI DUE SCONFITTE
Ciò che si vede in questi ultimi giorni, dopo l'abbandono dell'aula di Montecitorio da parte del Polo, è un grave degrado della qualità della democrazia del nostro Paese, e stupisce che di fronte alla drammaticità del momento siano state così poche le voci che si sono affiancate a quella di Norberto Bobbio, che ieri su questo giornale ha stigmatizzato aspramente la scelta «irresponsabile» del centrodestra (e della Lega). Vale per le scelte politiche il criterio che esse devono essere adeguate all'entità dei problemi. Nel caso del Polo, invece, si è assistito alla scelta di un arma smisurata, che alla fine potrebbe ricadere non solo su chi l'ha lanciata ma su tutti i protagonisti in campo e produrre devastazioni nel sistema politico. Già adesso non si vedono vincitori possibili dello scontro; anzi, è possibile che in questo momento siano visibili soltanto due sconfitte simmetriche, una dell'opposizione e una del governo. Il Polo infatti ha creduto di potere incassare subito, in moneta politica sonante, il successo ottenuto a Roma sabato scorso. Sull'onda dell'entusiasmo per la conquista della piazza si è convinto di poter tentare una spallata con l'obiettivo di abbattere il governo. Mentre si possono individuare facilmente quali sono state le valutazioni che hanno fatto da sfondo a questa decisione, riesce al contrario incomprensibile come mai il Polo abbia creduto di poter effettivamente giocare la carta estrema dell'aventinismo sperando di ottenere qualche risultato. Quando infatti si apre un conflitto giocandosi tutto all'inizio, in seguito non ci sono risorse supplementari da schierare ed è impossibile graduare efficacemente l'iniziativa. Il fatto è che evidentemente Berlusconi, Fini e i loro alleati minori hanno creduto in una debolezza mortale del governo. Se ne devono essere convinti dopo il successo della mobilitazione di sabato scorso, che muoveva da un programma di protesta fiscale ma che conteneva almeno due altri aspetti politicamente caldi: l'identificazione del governo dell'Ulivo come un «regime» paracomunista, con la propensione all'occupazione del potere e a comportamenti illiberali, e l'attacco personale a Prodi come «Pinocchio», il grande bugiardo, la sintesi di ogni malvagità cattocomunista. Il Polo avvertiva dunque il bisogno di intascare qualcosa subito. Secondo buon senso, anche un compromesso sulle deleghe della Finanziaria, dopo la marcia in San Giovanni, in quanto «imposto» al governo da una posizione di forza, avrebbe rappresentato presso l'opinione pubblica una sostanziale vittoria. Mentre scegliendo la via del gesto estremo, ogni eventuale mediazione sarebbe sembrata un arretramento e quindi un insuccesso. Sotto molti aspetti quindi l'iniziativa del centrodestra è sembrata un esempio di cecità tattica. Perché non fosse tale occorreva che ci fosse una realistica possibilità di far cadere il governo. Ma qualcuno poteva razionalmente credere che in questo momento di emergenza, durante l'iter di una legge finanziaria decisiva per le sorti italiane, ci fosse una, una sola chance di sostituire in corsa il governo Prodi? Con tutto questo, anche il governo oggi veste i panni della sconfitta. Nessuno può credere che il poter votare più rapidamente la Finanziaria costituisca qualcosa di positivo dal punto di vista politico. Ogni giorno che passa si ha un'altra prova dello straordinario potere che Rifondazione comunista ha guadagnato sulla coalizione di governo. Ogni giorno aumenta la sofferenza del Pds, spina dorsale della maggioranza e vittima designata dell'accordo che lega sempre più stabilmente Prodi a Bertinotti. Sono due sconfitte diverse, naturalmente. Quella del Polo implicherebbe di per sé rilanci sempre più alti, che non si sa dove possano portare, e potrebbero condurre anche a un contraccolpo sfavorevole da parte dell'opinione pubblica moderata (confermando lo regola, tante volte applicata alla sinistra, secondo cui vincere in piazza non significa vincere politicamente). La sconfitta del governo è più sottile, strisciante, piena di inquietudini. Il centrosinistra puntava a governare in modo consensuale, e si trova ora a gestire uno scontro politico durissimo. Fino a qualche mese fa l'Ulivo poteva sperare di conquistare alla propria parte ulteriori fasce di ceti mediani, mentre oggi l'esecutivo Prodi, volente o nolente, appare come un governo marcatamente di sinistra. Doveva assecondare le riforme istituzionali, e oggi non si sa che fine farà la Bicamerale. Ma in entrambi i casi si tratta di sconfitte pesanti, che rischiano di lasciare tracce profonde se non ci sarà uno sforzo supplementare di composizione. L'unico, minimo aspetto positivo è che forse a questo punto nessuno dovrebbe avere interesse a rilanciare: il Polo per non venire accusato di avventurismo, il governo per non lavorare in glaciale solitudine. È su questa infinitesimale condizione che si gioca nelle prossime ore la possibilità di tornare a un conflitto politico di nuovo «normale».
LA STAMPA, 18.11.1996, INTERNO
IL RISCHIO DELLA NON POLITICA
Nell'offensiva della piazza che Polo e Lega, ognuno per suo conto, hanno scatenato contro il governo, colpisce il fatto che non esistono fattori «caldi» del conflitto, emergenze individuate, conflitti specifici. C'è la Finanziaria, come oggetto del contendere, ma in realtà la legge di bilancio è solo un pretesto dello scontro. Esiste piuttosto una condizione essenziale di incompatibilità fra la maggioranza e le forze che gli si oppongono: una condizione di fondo che divide la società in due parti, e che dunque consente a chiunque chiami i militanti a manifestare contro il governo di fare il pieno della piazza. Ma c'è anche una considerazione aggiuntiva: le manifestazioni extraparlamentari potrebbero essere percepite come qualcosa che compensa la difficoltà o l'incapacità di fare politica quando si è minoranza nel contesto del sistema maggioritario. Questa valutazione non riguarda tanto la Lega, la cui azione è orientata a trasferire la mobilitazione pubblica all'interno di istituzioni «altre» rispetto a quelle repubblicane. Riguarda invece il Polo al completo, che sta ottenendo successi vistosi sul terreno della protesta proprio nello stesso momento in cui la sua strategia pseudoaventiniana in Parlamento è apparsa ai limiti dell'autolesionismo. Umberto Bossi aveva bisogno di farsi vedere, di mostrare qualche muscolo, di lanciare qualche altro slogan e riguadagnare il centro dell'attenzione dopo il lungo silenzio seguito al fallimento della marcia sul Po del 15 settembre. E c'è riuscito, perché non c'è dubbio che fa una certa impressione sentire decine di migliaia di persone che scandiscono la parola secessione, così come fa ancora un certo effetto ascoltare che verranno indette le elezioni del Nord e si farà il referendum separatista. Ma tutto questo ha senso, se ce l'ha, soltanto in una prospettiva apocalittica. Le parole d'ordine della Lega diventerebbero d'attualità soltanto nel caso di drammatico fallimento delle politiche di riaggiustamento, e quindi di catastrofica marginalizzazione del nostro paese rispetto all'Europa. In ogni altro scenario la strategia separatista di Bossi serve soltanto a tenere unito il nucleo fondamentalista della Lega, a impedire la dispersione dei militanti, e al massimo a proporre il Carroccio come terzo incomodo a ogni elezione raccogliendo i voti di chi è scontento del Polo e dell'Ulivo. La situazione è considerevolmente diversa per i partiti del Polo. I quali si erano certamente galvanizzati in seguito alla manifestazione di massa in San Giovanni, ma poiché avevano bisogno di incamerare subito un successo politico conseguente dall'iniziativa antitasse, hanno operato la forzatura del ritiro dei parlamentari da Montecitorio. Anziché perseguire un compromesso che sarebbe stato accolto da tutti come una vittoria, hanno deciso di inasprire lo scontro. Dopo di che sono di nuovo scesi in piazza e hanno occupato i teatri, annunciando che anche al Senato il Polo si asterrà dalla partecipazione ai lavori della Finanziaria. Per non avere nulla a che fare con una Finanziaria «rovinosa» (Berlusconi), «ideologica», espressione delle «utopie» che stanno dando luogo a una «deriva comunista» (Fini). Già, ma qualcuno dovrebbe poi occuparsi di riportare la protesta dentro la politica, e nella sua sede naturale, il Parlamento. Anche perché finora, con l'aventinismo, il Polo è riuscito a produrre solo due risultati. Il primo è che il governo ha potuto approvare la Finanziaria alla Camera in via molto agevolata, e questo non può essere giudicato un grande successo. Il secondo risultato invece è che il Polo sta riuscendo a mobilitare il suo zoccolo più duro, riesce a esibire in pubblico folle di militanti e simpatizzanti tutti uniti da un disprezzo teologico nei confronti di Prodi e del «cattocomunismo». I raduni sono spesso esaltanti. Tuttavia è piuttosto dubbio che la radicalizzazione del Polo rappresenti una linea politicamente vincente. Fino a prova contraria, l'elettorato di centrodestra è fatto in larga parte di moderati. Trasformare Forza Italia e gli altri partiti in plotoni di estremisti, in falangi di «arrabbiati» è vantaggioso per la visibilità delle manifestazioni, ma non è detto che lo sia per le sorti politiche generali del Polo. I leader politici, specialmente quelli non abituati alle mobilitazioni di massa, sono quasi sempre propensi ad attribuire alla piazza un peso che nella società in generale è assai minore. Il rischio per il Polo è quindi di riuscire a mettere insieme un'ampia schiera di irriducibili, ma di perdere i contatti con la complessità dell'opinione pubblica. Se fosse così, la faccia feroce rispetto alle caute aperture di Prodi, la continuazione dell'aventinismo, il rilancio di un'opposizione indiscriminata e praticata con tutti i mezzi potrebbero rivelarsi strumenti utili non tanto per guadagnare il consenso dei cittadini, bensì per rafforzare l'identità dei militanti. Per certi aspetti, dentro il Polo potrebbe verificarsi una specie di sindrome leghista. Nel senso che il centrodestra potrebbe trasformarsi in qualcosa di settario, in un'opposizione dogmatica, in uno strato secessionista rispetto alle forme politiche riconosciute. Solo che la Lega ha sempre la stella polare della secessione, mentre il Polo ha al massimo quella della caduta del governo. E se il governo non cade, come non cade, la straordinaria mobilitazione del centrodestra assomiglia sempre più vistosamente a un trionfo sì, ma a un trionfo dell'impolitico.
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