LA STAMPA
LA STAMPA, 27.11.1996, SOCIETA' E CULTURA
LEGA, FIGLIA DELLA DC E DEL "MALE DEL NORD"
senza descrizione
LA STAMPA, 30.09.1996, SOCIETA' E CULTURA
MA IN ITALIA SERVIREBBE IL GARANTE
Scoraggiare vivamente l'idea di fare il dizionario degli intellettuali italiani. Perché bisognerebbe innanzitutto creare un comitato di intellettuali per definire chi sono gli intellettuali, nominare il relativo Garante, dare l'incarico a un accreditato centro studi. E poi: per i francesi è facile, gli intellettuali li hanno inventati loro, ne hanno fatto una professione, un ceto, una figura sociale, un interlocutore del potere, uno stereotipo. Da noi invece l'intellettuale è una figura indistinta. Un eclettico, un versatile: è effettivamente il «tecnico dell'universale», una specie di meccanico dei grandi sistemi, meglio se grandissimi e irriducibilmente complicati. Lo si chiama sul cellulare quando il sistema è in panne, e lui porta la cassetta degli attrezzi per smontarlo ed emettere la diagnosi. Max Weber poteva permettersi di consigliare a chi chiedeva «visioni del mondo» di andare al cinema. Oggi invece il mercato chiede senza ironia solo fotogrammi di Weltanschauung. In cui, protagonista o comparsa, l'intellettuale comunque compare. Compare Veltroni che manipola da giocoliere i suoi generalismi veltronici. Ed ecco Cacciari, passato rapinosamente dall'angelologia al federalismo. O preferite una lettera semiseria di Arbasino, un reportage rock di Baricco, una bustina polemica di Eco, un'interpretazione storica di Vassalli, un giudizio politico di Velasco, un'intervista a Modigliani mediata da Beppe Grillo? C'è, basta chiedere. È caduta ogni paratia. Non avevamo avuto il banchiere umanista, e di recente, per strani scherzi delle ferrovie ai danni della letteratura, il Boiardo assimilato al Magnifico? Confusione, confusione. Sulle colonne dei giornali Giovanni Sartori non propone scienza politica, ma la veritiera e ultimativa formula a due turni per governare l'Italia. Scienziato? No, intellettuale. Simmetricamente, gli intellettuali politicizzati da Forza Italia, i Colletti, Melograni, Pera, Rebuffa, Vertone, sono l'iperbole dell'impolitico, nel ruolo presunto di fornitori di idee al Principe, e nel ruolo reale di propugnatori di interpretazioni liberali non negoziabili, lievemente ossessive. E quindi come si fa a circoscrivere e individuare lo status di un tecnico così generalista? Impossibile. La categoria comprende il tassista engagé, l'inviato alla Spezia, Bertolucci e i suoi adoratori, Santoro e i suoi sollaboratori, lo scrittore Siciliano e il giurista Scudiero, ma anche il leghista che proclama la secessione al Caffè Commercio e il signore in età che citando De Felice insiste sulla tesi della grandezza di Mussolini «se non fosse entrato in guerra». La Francia è cartesiana, razionale, enciclopedica, illuminista. Per noi italiani, cultori della insondabile complessità del moderno, il dizionario servirebbe solo a dire «c'è questo, c'è quello», e soprattutto per controllare se ci siamo tutti noi, e infine per gioire con felicità insensata se le pagine gialle dell'intellighenzia avranno dimenticato qualcuno di quegli altri.
LA STAMPA, 02.12.1996
L’ALTERNATIVA NON E’ IL PASSATO
Malgrado l'alone di imprecisione che circonda i suoi orientamenti e le sue scelte, il governo Prodi ha puntato buona parte della propria credibilità politica sul raggiungimento di alcuni dei parametri di Maastricht, in modo da poter partecipare fin dal 1999 all'Unione monetaria. Quindi il governo di centrosinistra non ha vie di scampo: o centra l'obiettivo europeo, oppure è politicamente finito. Diverso sarebbe stato se, di fronte alla determinazione dei principali paesi europei di procedere verso l'Euro, si fosse valutata la partecipazione italiana alla moneta unica come un evento dai tempi troppo stretti e dalle modalità troppo rigide. Era stato Prodi stesso a dire e a ridire ai suoi critici che voleva portare in Europa «un paese vivo e non un paese morto», e quindi la soluzione di un ritardo programmato, concordato puntualmente con i partner europei, sarebbe stata tutt'altro che irrazionale. Ma poiché il governo ha deciso di tentare il tutto per tutto al fine di prendere parte all'unione monetaria fin dalla prima fase, la discussione sull'opportunità di ritardare l'ingresso italiano (in modo da alleggerire la pressione sulla società e l'economia del nostro paese) dovrebbe di per sé avere poco spazio, almeno se si prendono alla lettera i pronunciamenti di prodi e Ciampi. In realtà sulla fermezza di Prodi qualche dubbio è lecito, visto che parlando con lo Herald Tribune ha accennato alla possibilità di avvicinare, ma non di raggiungere, il parametro del deficit pubblico al 3 per cento del Pil. Questione di pochi decimali. Ma dietro quei decimali, che pure possono scavare un solco fra l'Europa e l'Italia, c'è anche una questione politica rilevante. Il governo dell'Ulivo ha compiuto infatti un investimento altissimo sulla dimensione europea. Ha chiesto ai cittadini un contributo pesante, non solo attraverso tasse specifiche, ma anche mettendo in conto un indebolimento della congiuntura economica, un rallentamento alla crescita del reddito, un raffreddamento dei consumi. Ma appunto per questo occorre mettere in conto un aspetto complementare. Si possono infatti chiedere sacrifici, imporre nuove tasse, si può imboccare un sentiero di estremo rigore; ma tutto questo a una sola condizione: che le misure adottate dal governo vengano percepite senza ambiguità dai cittadini come la fase decisiva e finale del risanamento. Se invece si rimane fra contorni di incertezza la situazione cambia, e cambia radicalmente. Perché se alla fine del primo trimestre ci si rendesse conto che i provvedimenti assunti fin qui non sono riusciti a mettere il deficit pubblico in linea con Maastricht, non ci troveremmo più dentro una questione contabile, in cui si tratta di ridurre i decimali alla ragione. Ci troveremmo invece dentro una questione duramente politica, dove quei decimali diverrebbero montagne. In sostanza, è difficile capire se il governo ha valutato sino in fondo le possibili implicazioni della sua scommessa europea. E soprattutto se ha messo in conto il contraccolpo bruciante che si avrebbe nel caso che la prospettiva europea restasse lontana malgrado gli sforzi richiesti al paese. Di qui a marzo, potrebbe diventare necessaria una manovra correttiva. Ma questo governo è in grado di affrontare una fase di ulteriore severità finanziaria? Oppure ha già bruciato sulla finanziaria e l'eurotax tutte le sue risorse politiche e la sua credibilità? L'opposizione, o meglio, le frange più movimentiste del Polo, incarnate dal Ccd, hanno già scommesso che il governo attuale non sarà in grado di reggere il peso politico della possibile nuova stangata. Fare politica significa anche disegnare scenari: e dunque Pierferdinando Casini si è fatto portavoce della possibile soluzione nel caso di una «maledetta primavera»: governo di unità europea, con l'esclusione di Rifondazione comunista, ma ancora presieduto da Prodi. Sorpresa. fino a ieri, il Polo chiedeva o si augurava la caduta del governo Prodi, considerandolo il responsabile di un plumbea recessione. Oggi i postdemocristiani del Polo sono disposti ad accettare anche un Prodi bis. A quale scopo? Ma di rientrare nel gioco politico, naturalmente; e auspicabilmente di far saltare la linea di divisione fra il Polo e l'Ulivo, cioè il crinale del bipolarismo. Tutti insieme per l'Europa significa rimescolare le carte, mettere la politica in un crogiuolo, forse provocare la fusione dei Poli per favorire la nascita di qualcos'altro, nuove ricomposizioni, nuove aggregazioni. È un disegno politicamente efficace: solo che per raggiungere il nobile approdo dell'Europa propone in cambio di rifare qualcosa di simile all'Italia della proporzionale. Per adesso, in realtà, è bene che ciascuno affronti gli esiti delle proprie azioni secondo un criterio vincolante di responsabilità. Quindi è bene che il governo affronti la campagna di primavera assumendosi tutto il peso dei risultati che avrà ottenuto, positivi o negativi. Dato che sulla questione europea ha impegnato tutto, sarà opportuno che interpreti il responso sull'efficacia delle politiche attuate come un giudizio definitivo. Lo ha detto lo stesso Prodi: «se non andiamo in Europa mi dimetto». Nella sua concisione era un ottimo programma, e c'è da augurarsi che venga interpretato con la coerenza che merita.
LA STAMPA, 03.12.1996, SOCIETA' CULTURA E SPETTACOLI
IL PAESE DEGLI ERRORI
Si fa presto a dire ignoranti: il fatto è, potrebbe dire un Ceronetti, che l'ignoranza vera è una virtù, una condizione ontologica che avvicina misteriosamente alla beatitudine e alla santità, allude in modo disarmante al divino e alle sue prerogative. Invece, quando Umberto Bossi, come è successo di recente, chiama in causa il gulasch ungherese intendendo il gulag sovietico, si possono fare matte risate, ma non è affatto detto che il capo della Lega sia un ignorante. Molto più probabilmente è uno che ha imparato troppo in fretta, che ha stratificato nella sua rete neurale una quantità eccessiva di informazioni: di tanto in tanto scatta un cortocircuito beffardo ed ecco il gulasch al posto del gulag, un lapsus formidabile perché sembra connaturato con la fisionomia di Bossi, studente fuori corso, inventore di mitologie, straordinario orecchiante e dominatore di pizzerie. Dagli strati dialettali del Bossi prima maniera usciva una volta la «gabina» elettorale, che ben presto divenne quasi una sua civetteria, una strizzata d'occhio ai militanti della Lega in quanto movimento «popolano», un segno di riconoscimento: gli altri sono gente leccata che parla con un birignao politico impregnato di falsità: la Lega parla la lingua dei suoi elettori, va dritta alla sostanza delle cose, parla come mangia. E se talvolta nel menù del giorno c'è il gulasch, ancora meglio, è un tocco di Mitteleuropa in più. D'altronde, quando Berlusconi dice «chiacchere», oppure «è un fatto prodromico», non usa proprio il linguaggio del nucleo duro del suo elettorato, dei promotori finanziari e dei venditori di pubblicità? È difficile quindi oggi riconoscere gli ignoranti «veri». Lo stesso Adriano Celentano, che si autoqualificò con la sigla di «re degli ignoranti», e quindi portatore di un messaggio di ingenuità contestatrice, non è un naïf sino in fondo: in quanto piuttosto è un teorizzatore, un rielaboratore di informazioni messe insieme alla rinfusa e assemblate in prodotti dottrinari. In qualsiasi bar si incontrano tipi umani cosiffatti, che svelano dietrologie colossali e macchinazioni cosmiche. Assistere a uno spettacolo di Beppe Grillo significa assistere alla estremizzazione scientifica di questo procedimento: si svelano nessi causali tra fenomeni apparentemente remoti, immaginando di conseguenza soluzioni meravigliosamente eccentriche, a cui nessuno pensa, o a cui pensano soltanto emarginati e misconosciuti, vittime designate della scienza e della cultura ufficiali. Per un paese con indici di lettura non europei, l'ignoranza comunque è un peccato (o una condizione) evidentemente meno grave dell'esibizione di cultura. La competenza è tollerata soltanto quando è limitata, settoriale, specifica, e quindi approfondita in una sola dimensione, che si tratti di terremoti, di entomologia o di paleoantropologia. In modo da dare al pubblico televisivo la possibilità di sbalordirsi per le conoscenze esoteriche dell'esperto, immediatamente configurato come attraente mostruosità, un freak della conoscenza. Nel caso invece di una cultura «generale» che si esprime con l'appropriatezza del lessico, e magari con una certa complessità nell'articolazione del pensiero, nasce subito l'insofferenza. Troppo complicato, commenta fra sé la Mara Venier di turno, i bambini ci guardano, e anche le nonne, e non possiamo fare crollare l'audience con certe esibizioni. Perché l'ignorante vero si rivela nella sua tenace indifferenza, e anzi per il suo rancore, verso la forma. Ciò che conta, per lui, è solo ed esclusivamente la sostanza. Il favore popolare verso Di Pietro è dato certamente dall'azione svolta nell'indagine Mani pulite, ma è sottolineato dalla consistenza autenticamente popolare dell'ex più ex d'Italia. Dallo storico «che ci azzecca», ai sette definitivi «basta!» delle ultime dimissioni, il vocabolario di Di Pietro è quello che ci vuole per solleticare la voglia di materialità: quando il Tonino nazionale dice «soldi» si sente ancora adesso il frusciare di lontane mazzette, quando parlava dei cantieri da riaprire sembrava di sentire il rombare di camion e il rumore delle betoniere. E tanto meglio se l'ortografia e la sintassi vacillavano, come dicevano i disfattisti del suo ministero: perché l'attivismo non si fa imbrigliare da troppe regole. Il fatto è che la forma è fastidiosa. Non appena Ernesto Galli della Loggia ha criticato sul Corriere della sera la qualità dei tre volumi del progetto per Roma olimpica, indicando puntigliosamente gli errori fattuali (fra cui le regioni italiane che sarebbero 19 anziché 20 e l'onnipresente Di Pietro designato come ministro degli interni anziché dei lavori pubblici) e gli strafalcioni formali della traduzione in inglese, che dà luogo a un «anglo-romanesco» tale da indurre Galli della Loggia a chiedere: «Come si può affidare l'organizzazione di una cosa complessa e irta di insidie come le Olimpiadi a chi dimostra di non essere neppure in grado di far eseguire una traduzione decente dall'italiano all'inglese?». Ma ciò che è risultato più interessante è la risposta del sindaco Rutelli, il quale ha ammesso che la traduzione all'amatriciana era piena di errori e refusi. «Ma - ha aggiunto in modo apodittico - la bontà del progetto non viene messa in discussione». Vale a dire: la forma faceva schifo, ma la sostanza è buona, garantisco io. E il direttore del Comitato Roma 2004, Raffaele Ranucci, aggiunge con animo esulcerato che le critiche di Galli della Loggia gli fanno «melanconicamente intendere che il più importante e diffuso quotidiano italiano ha deciso di assumere una linea contraria al nostro progetto di organizzare a Roma i Giochi Olimpici del 2004». Dietro alle censure verso una traduzione deplorevole ci sarebbe quindi una macchinazione, o per lo meno una presa di posizione aprioristica: mentre noi, noi del comitato, «in questa candidatura crediamo». * * * Siamo agli atti di fede, dunque, e magari nei pressi di un conflitto tra fede e conoscenza. Credete voi...? Crediamo! Ed è un conflitto che si presenta quasi ogni giorno e su qualsiasi argomento, dato che negli ultimi anni gli italiani si sono dovuti sottoporre a un apprendimento a tappe forzate. Hanno dovuto fare un corso di recupero sul liberalismo, per anni disprezzato come l'espressione del privilegio «borghese». Ha scritto su questo giornale Enzo Bettiza il 24 novembre: «Chi liberale, chi liberista, chi liberal, chi liberalcattolico, chi liberalsocialista, pare che tutti, non solo a sinistra, siano animati dalla volontà di riportare nella pericolante società italiana della seconda Repubblica il soffio di una filosofia politica che ha avuto in Croce il più eminente capostipite». Tutti laureati in liberalismo (eventualmente con i corsi di sostegno reclamizzati negli spot televisivi, che lanciano il diseducativo messaggio che ci si può laureare senza fatica e senza frequenza). Così come fino a pochi mesi fa il termine dominante, il passe-partout del grand hotel politico era «liberaldemocratico». Logico che il passaggio accelerato dalla vulgata marxista a Popper e Hayek abbia prodotto qualche sfilacciatura. Anche perché il passaggio al liberalismo è avvenuto insieme alla riscrittura della legge elettorale e soprattutto al dibattito sulla riforma istituzionale, che ha imposto una full immersion in settori di competenza che prima erano pressoché tabù. Con il risultato che tutti si sono dati volonterosamente all'approfondimento dell'ingegneria costituzionale, studiando le leggi elettorali e le formule istituzionali nostre e altrui, salvo poi trovarsi spiazzati all'improvviso allorché un maestro come Giovanni Sartori citava lì per lì il presidenzialismo finlandese, gettando nello sconforto gli astanti. E anche adesso Sartori non perde occasione per sottolineare con la matita blu gli erroracci dei presunti esperti di riforme, smontando regolarmente le false convinzioni associate al sistema maggioritario e alle sue interpretazioni di comodo. L'altro settore critico, su cui ci si è dovuti fare una cultura fin troppo rapidamente è stato nell'economia. Dismal science, scienza triste (ma con una sfumatura in più, di malinconia, di depressione) nella definizione di Carlyle, l'economia è stata felicemente evitata ed evitabile negli anni della grande dilapidazione, quelli che coincidono con la fase finale della Repubblica dei partiti. Adesso invece ci si è dovuti dotare dei principali strumenti analitici, per poter circolare senza troppi timori tra le grandezze macroeconomiche. Ciò nonostante la differenza concettuale tra il deficit, cioè il fabbisogno annuale determinato dal saldo fra entrate e uscite, e il debito pubblico, vale a dire il montagna incantata dei due milioni di miliardi accumulata dallo Stato, questa differenza rimane ancora indistinta, incerta, ballerina. L'economia è piena di trappole. Si accende la tivù, la sera, e il telegiornale informa che l'inflazione si è ridotta. Dopo di che, servizio sul campo ai mercatini della frutta e verdura, in cui si chiede alle brave massaie che cosa ne pensano del calo dei prezzi: confondendo piuttosto fastidiosamente calo dell'inflazione, cioè il calo dell'aumento, con il calo vero e proprio: e quindi inducendo le massaie a legittime manifestazioni di sfiducia e talvolta di furore. Insomma, più che di ignoranza bisognerebbe parlare di inadeguatezza. Ce ne stavamo bene, qui, indifferenti ai parametri di Maastricht, al doppio turno alla francese, al modello Westminster, al federalismo tedesco, al rapporto fra deficit e Pil. Fino a non troppo tempo fa nel nostro paese si discuteva ancora se si sarebbe potuto realizzare il socialismo senza la dittatura del proletariato. Adesso ci si è adeguati, ma il passaggio è stato troppo repentino per essere indolore. È stato come passare dalla cucina della nonna, o della trattoria sotto casa, a un ristorante esotico, con proposte quasi incomprensibili. Alzi la mano quindi chi, all'estero, di fronte alle indicibilità della nouvelle cuisine o all'incomprensibilità delle portate non si è salvato indicando sul menù l'unica cosa che aveva capito: gulasch, e crepi l'ignoranza.
LA STAMPA, 16.12.1996
DIETRO IL FOLCLORE LA POLITICA
Il congresso di Rifondazione comunista si è chiuso con la conferma che il partito di Bertinotti non è disponibile a recitare una parte subalterna nella sinistra. Inutile dire che fa una certa impressione assistere allo spettacolo di una platea di partito che rivendica insieme al suo leader la propria irriducibilità all'omologazione socialdemocratica, alla logica del capitalismo e al funzionamento del mercato. Bertinotti insomma è l'ultimo esponente che reclama politicamente un'alternativa di sistema, e i militanti di Rifondazione sono una tribù residuale felice della propria diversità. Ma questa iconografia di un partito legato a mitologie tardomarxiste e a romanticismi castristi rischia di fissare un'immagine di comodo. Com'è avvenuto infatti durante questo congresso, che in genere è stato accolto dall'informazione soprattutto nel senso del folclore politico. C'è da dire, piuttosto, che Bertinotti e Rifondazione fanno effettivamente politica, qui e ora. Innanzitutto si va sempre più chiarendo il loro ruolo esplicitamente concorrenziale rispetto al Pds. Il partito neocomunista sarà pure un semplice «indicatore del disagio sociale», come ebbe a dire il ministro Andreatta, cioè un raccoglitore di tutti i tipi di insofferenza verso i partiti, gli schieramenti, i provvedimenti economici. Ma in realtà il consenso raccolto per le ragioni più diverse nella società, non esente da coloriture populiste, viene poi speso politicamente dal vertice del partito in modo lineare, e comunque in funzione fortemente competitiva rispetto a D'Alema. Rifondazione è in crescita nell'opinione pubblica, in quanto può permettersi di rastrellare pressoché tutte le manifestazioni di dissenso e di malessere. Bertinotti poi produce una sua sintesi spettacolare, che gli permette perfino di lanciare al Pds la «sfida per l'egemonia». Dovrebbe essere chiaro che nel lungo periodo Bertinotti non ha speranze, e che il destino della sinistra è quello di trovare un equilibrio che le permetta di proporsi nella sua interezza come soggetto di governo, e non come espressione di antagonismo. Ma nel frattempo Rifondazione può giocare suggestivamente le sue carte, proponendosi come il massimo portatore di contestazione rispetto all'ordine esistente, ma anche come il principale custode della conservazione per ciò che riguarda ad esempio l'assetto costituzionale, e sul piano economico come il garante dello stato sociale, vizi assistenzialistici e corporativi compresi. Proprio per questa combinazione di antagonismo e di conservazione, di rivoluzione e di keynesismo sgangherato, di scontro sociale e di tutela collettiva, Rifondazione comunista è un partito autenticamente postmoderno. Ma dalla sua postmodernità può permettersi di dare la propria impronta a un governo a cui non partecipa (e rispetto al quale ribadisce che vuole tenere le mani completamente libere). Sta di fatto comunque che il governo dell'Ulivo è gradatamente diventato «il governo dell'Ulivo più Rifondazione», e quello che nasceva da una mediazione politica di centrosinistra è diventato sempre più marcatamente un governo «di sinistra». Ogni volta che si chiede a Romano Prodi quale sia stato il peso di Rifondazione nelle decisioni del governo, il presidente del consiglio non nasconde la sua irritazione e nega ogni cedimento. Ma in realtà il compromesso con Bertinotti c'è stato, ed è stato un compromesso continuo. È sbagliato parlare di un «ricatto» complessivo di Rifondazione comunista nei confronti del governo, mentre non è affatto sbagliato parlare di ricatti, al plurale, gestiti politicamente da Bertinotti con l'obiettivo di portare a casa risultati politici. Questo compromesso ha fatto sì che Rifondazione comunista, che predicava una virulenta posizione anti-maastrichtiana, abbia accettato integralmente la prospettiva europea; in cambio ha ottenuto una politica di riaggiustamento praticata con un sensibile incremento del peso fiscale, cioè con le tasse progressive che al segretario di Rifondazione piacciono quasi quanto gli scioperi. Quindi l'«impolitico» Bertinotti, l'apocalittico in versione tv, in realtà non è affatto impolitico. Si muove dalla sua posizione estrema per condizionare il governo e per rivendicare pubblicamente questo condizionamento come un risultato conseguito attraverso la lotta politica. Dopo di che, ciò che risulta curioso è che in questi mesi si sia assistito al delinearsi di un legame via via più forte fra Prodi e Rifondazione. Non è del tutto automatico individuare le ragioni di questa relazione preferenziale, perché è vero che in gran parte dipende dall'interesse contingente del presidente del consiglio, spesso desideroso di smarcarsi dal Pds. Ma al di là dei tatticismi, c'è anche da rilevare certe affinità, certe sensibilità comuni tra Rifondazione e gli «estremisti di centro» del Partito popolare, a cui nemmeno Prodi è insensibile. Sulle questioni istituzionali, come sulla riforma del welfare state, non c'è una distanza grandissima fra Rosy Bindi e Bertinotti. E Prodi amministra questa contiguità implicita nel proprio interesse politico, cercando così di riequilibrare il rapporto con il Pds. È un gioco pericoloso, perché giostrare fra gli opposti è il tipico modo per amministrare situazioni eccezionali, e non la normalità di cui ha bisogno il Pds per dimostrarsi a tutti gli effetti un moderno partito di governo. E quindi non c'è da stupirsi se il sorriso di Prodi al congresso di Rifondazione e la soddisfazione triofale di Bertinotti hanno come contraltare la freddezza di D'Alema, e se questo sentimento freddo vira non di rado verso l'insoddisfazione per il governo.
LA STAMPA, 23.12.1996
LA FINE DELLA POLITICA NEUTRALE
Quale che sia il risultato a cui porterà, l'intervento del ministro Treu nella controversia sul contratto dei metalmeccanici è una delle prove risolutive della fine prematura del modello «concertativo» su cui era stato costituito il governo Prodi. Naturalmente non occorreva attendere l'iniziativa del ministro del lavoro per individuare l'esaurimento dello schema consensuale nella gestione della politica economica. I recenti scontri tra il presidente della Confindustria Fossa e il governo avevano già mostrato l'emergere di un rapporto altamente conflittuale fra settori imprenditoriali ed esecutivo. Il contratto dei metalmeccanici tuttavia ha messo bruscamente allo scoperto che la figura geometrica a tre lati (composta da governo, sindacati, industriali) su cui doveva reggersi l'equilibrio politico e sociale garantito dal governo dell'Ulivo non è più un equilatero, ma si è deformata in un triangolo scaleno. I lati insomma sono diventati di lunghezza diversa. Se non fosse così, non si sarebbe avuto un intervento come quello di Treu, preoccupato di suggerire anche il dettaglio degli aumenti salariari (duecentomila lire mensili). Entro una prospettiva accettata di politica disinflazionistica, il governo avrebbe potuto indicare semplicemente il quadro delle compatibilità economiche, stimolando le parti a chiudere il contratto entro le compatibilità stesse. Con l'ingresso nella contrattazione, e con l'indicazione per l'accordo di una cifra assai più vicina a quella chiesta dal sindacato che non a quella dichiarata accettabile dalla Federmeccanica, l'esecutivo ha semplicemente dato la prova ulteriore di non essere in una posizione terza, e meno che mai in una posizione neutrale. Non sarebbe un gran male, perlomeno nel senso che la presa di posizione governativa sgombra il campo da numerosi equivoci. Adesso si sa che il governo di centrosinistra si avvia a consolidarsi come un governo dai comportamenti esplicitamente «socialdemocratici». È un esito per molti versi naturale, se non fosse che è stato raggiunto in modo caotico. Il centrosinistra infatti aveva ottenuto il mandato a governare presentandosi come un migliore gestore dei conflitti sociali, come il depositario di una superiore sapienza e prudenza nella regolazione degli interessi economici. Ora invece la maggioranza è costretta ad abbandonare gli abbellimenti retorici. Si trova nella condizione di dover governare il paese da sinistra. E questa ricollocazione dell'esecutivo non è avvenuta sulla base di precise ispirazioni programmatiche, bensì in seguito alle continue compromissioni imposte da Rifondazione comunista. Non è affatto un caso che Fausto Bertinotti sia diventato il protagonista assoluto e spettacolare della trattativa sul contratto dei metalmeccanici, costringendo anche Massimo D'Alema a rincorrerlo e a incalzare il governo per proporre una soluzione. Tutto questo comporta conseguenze piuttosto ragguardevoli. Perché nulla in teoria vieta che un governo di sinistra sia in grado di produrre una politica di sviluppo economico e di incentivo alle imprese, offrendo quindi anche al mondo imprenditoriale una sponda eficace. È difficile, specialmente in un periodo di stagnazione e di vincoli crescenti, ma non impossibile, soprattutto se questa sponda è fatta di realismo e prevedibilità dei comportamenti. Invece la situazione attuale appare pochissimo prevedibile. La questione sociale, di cui la controversia sul contratto dei metalmeccanici è un aspetto, ha cominciato a mischiarsi con la questione politica. Ciò significa che l'accordo fra parti private, imprenditori e sindacato, sarà il frutto di un accordo parallelo fra parti politiche appartenenti alla stessa maggioranza. Il rischio principale è che questo modello si replichi all'infinito, conferendo non solo alle relazioni industriali un inconfondibile sapore di anni Settanta. E chi rischia di più in questa prospettiva è proprio l'azionista di riferimento del governo, cioè Massimo D'Alema. Il quale nell'ultima settimana ha puntato a due obiettivi di notevole rilievo. Prima infatti ha cercato di proporsi come l'autentico perno del centrosinistra, prospettando un contenuto «egemonico» del Pds fino al centro dello schieramento politico. E subito dopo, con un eloquente discorso alla Camera sul tema del finanziamento dei partiti, ha rivendicato, prima ancora che il primato, la dignità della politica, candidandosi implicitamente come perno centrale dell'intero sistema politico italiano. Per il profilo a cui D'Alema ambisce, quello cioè di un uomo politico che non nasconde le sue ambizioni di leader di parte ma neppure quelle di interlocutore per tutto il paese, dev'essere molto insoddisfacente osservare l'andamento convulso, e in definitiva poco razionale, che l'azione di governo assume allorché mette il dito fra posizioni conflittuali. Con ogni probabilità l'immagine del governo, in quanto governo di sinistra, non è più modificabile. Si tratta però di farla diventare un'immagine affidabile, coerente, non la somma di due fisionomie (cioè di due sinistre) incompatibili. D'Alema si è assunto il compito del grande razionalizzatore di sistema, lavorando con pazienza e determinazione per l'avvio delle riforme istituzionali. Ma nello stesso tempo deve razionalizzare politicamente il centrosinistra, che è un'operazione apparentemente più limitata ma probabilmente perfino più difficile. Altrimenti, dissoltosi tristemente il triangolo della concertazione, rimarrebbe intatto il triangolo con Prodi e Bertinotti. E neppure un uomo politico abile come il capo del Pds può pensare di offrire una prospettiva di governo e di sviluppo al paese basandosi su una serie continua di infedeltà e sui poco brillanti compromessi successivi.
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