LA STAMPA
LA STAMPA, 30.09.1998
UNA STAGIONE FINITA
Malgrado tutto, Francesco Saverio Borrelli non è mai stato un simbolo. Troppo intellettuale, borghese, sosfisticato: il simbolo autentico di Mani pulite era il «plebeo» Di Pietro. Borrelli non ha mai lanciato proclami sulla diffusione di Mani pulite nel mondo: si direbbe piuttosto che abbia trattato le indagini su Tangentopoli come un esercizio di razionalità organizzativa. A suo tempo non ha mancato di spedire avvertimenti al mondo della politica, invitando chi aveva «scheletri nell'armadio» a farsi da parte. Ma sarebbe sommario attribuirgli un'etichetta giustizialista. Dal giorno dell'arresto di Mario Chiesa, il 17 febbraio 1992, a oggi, il freddo, razionale, illuminista Borrelli ha attraversato un'altalena sconvolgente: era il capo di una struttura investigativa divenuta popolarissima perché i suoi uomini avevano messo allo scoperto Tangentopoli; poi, in seguito a una guerra via via più rovente con Berlusconi e il Polo, è divenuto la «toga rossa», l'esempio più scandaloso dell'uso politico della giustizia. In questi anni in realtà Borrelli ha convissuto non solo con l'aspro conflitto politico innescato dalle inchieste giudiziarie e dai processi, ma anche con un impulso, un orientamento, una tentazione coessenziale con Mani pulite, che ha serpeggiato per tutti questi sei anni e che non è mai giunta a compimento: la tentazione (sommata alla percezione della necessità) di dare una sistemazione a ciò che l'inchiesta di Milano aveva aperto. È una vicenda che comincia assai presto, se è vero che è proprio uno dei pm di punta del pool, Gherardo Colombo, a ipotizzare una soluzione politica per Tangentopoli, solo pochi mesi dopo l'arresto di Mario Chiesa, nella consapevolezza che la magistratura non potesse assumersi i doveri dlela politica. Sotto il governo Amato, nel marzo 1993, un tentativo organico di arrangiamento viene praticato con la fallita operazione del decreto Conso, affossato come tentato colpo di spugna. Nel luglio 1994 è la volta del decreto Biondi sulla custodia cautelare, quello che provoca la rivolta televisiva del pool e lo scatenamento del «popolo dei fax». All'inizio del settembre successivo, ecco «l'articolato di Cernobbio», una specie di disegno di legge preparato da Di Pietro con il pool e alcuni avvocati milanesi per una «soluzione legislativa» di Tangentopoli. Infine c'è da sottolineare l'episodio più controverso dell'era Mani pulite, cioè l'addio di Di Pietro alla magistratura, quella toga abbandonata il 6 dicembre 1994 che ieri Borrelli ha ricordato come la delusione più grave della sua esperienza di magistrato. Il fatto è che la questione giudiziaria è fortemente condizionata da una transizione politica irrisolta. Se un sistema elettorale più lineare avesse condotto a un rinnovamento radicale di partiti e schieramenti, e se la riforma delle istituzioni avesse avuto successo, il ridisegno dei confini fra politica e magistratura sarebbe avvenuto fisiologicamente, come effetto della nuova architettura. Dal momento invece che la giustizia è restata una fonte di conflitto fra i due schieramenti principali (e anche all'interno del centrosinistra), si è assistito allo scambio mancato dentro la Commissione bicamerale, e quindi al suo fallimento. Quindi la decisione di Borrelli di abbandonare il pool è forse figlia di una rassegnazione giustificata dal succedersi degli eventi. La parte «storica» di Mani pulite è agli atti. Ora rimarrebbe da trovare quell'equilibrio che è saltato in modo drammatico e che non si è ancora riusciti a ripristinare. I grandi progetti istituzionali si sono rivelati fallimentari; l'azione giudiziaria ha perduto l'alone di consenso generale che aveva all'inizio. È probabile quindi che Borrelli abbia pensato che il miglior modo per rientrare nella normalità consista nel ridare peso ai meccanismi dell'ordine giudiziario, alle funzioni di carriera. Visto che la rivoluzione è rimasta incompiuta, tanto vale tornare alla burocrazia: nella certezza che l'unica riforma davvero praticabile è quella di laicizzare le inchieste, reinserirle in funzionamenti spersonalizzati, rinunciando defininitivamente agli eroi, da una parte, e ai geni del male, dall'altra.
LA STAMPA, 03.10.1998
SE IL POLO BATTE UN COLPO
Una concezione meccanica del bipolarismo sta portando l'opposizione ad autoescludersi dalla vicenda politica. Come risultato, la crisi del governo Prodi viene percepita come un processo che avviene tutto dentro il cerchio stregato e intoccabile del centrosinistra, come se fosse un cupio dissolvi autogestito, e con il centrodestra che se ne sta beato a guardare. Si tratta di valutare in primo luogo se la logica bipolare contempli come unica strategia per l'opposizione quella di assistere inerte allo spettacolo della coalizione avversa che va in pezzi. Oppure se non sia il caso di agire politicamente, di intervenire nella crisi, di prendere iniziative per condizionare il succedersi degli avvenimenti. Per varie settimane il Polo si è limitato a guardare con scetticismo quella che ha considerato a lungo l'ennesima sceneggiata di Bertinotti, per poi manifestare un interesse esclusivamente estetico per l'aggravarsi della frattura nella maggioranza. Berlusconi ha diramato i soliti sondaggi prodigiosi, Fini e Casini hanno ripetuto di aspettarsi il solito mediocre compromesso capace di salvare in extremis il centrosinistra. E adesso, mentre la crisi raggiunge ogni giorno livelli crescenti di gravità, il Polo continua a fare da spettatore, ancora del tutto avulso dal gioco. Sarà rigorosamente bipolare, ma questa non è una strategia. È tutt'alpiù voyeurismo politico. Guardare da fuori ciò che avviene dentro la maggioranza può portare a qualche soddisfazione vicaria, ma difficilmente a risultati politici di qualche entità. Fossimo ancora nella Prima repubblica, davanti a una crisi seria avremmo assistito a un lavorio di diplomazie, a contatti fra correnti contigue di partiti opposti, a tentativi dell'opposizione di modificare gli equilibri di potere e comunque di esercitare un'influenza sulla ssfumatura finale delle soluzioni. Ieri l'eccesso, cioè i balletti partitocratici, adesso il nulla. Con il risultato che il protagonista assoluto della crisi, a parte Bertinotti, è inevitabilmente Cossiga con i suoi ultimi indiani centristi, l'unico uomo politico che perlomeno ha cominciato ad aggirarsi intorno al recinto dell'Ulivo e a sollevare nuvole di fumo e ipotesi politiche. Ciò che sembra sfuggire ai capi del Polo è che l'estraneità tende inevitabilmente a confermare se stessa: restare fuori adesso significa avere buone probabilità di restare fuori anche in futuro. Non ci sono infatti, malgrado gli avvertimenti lanciati per dovere d'ufficio di D'Alema, ragionevoli possibilità di elezioni anticipate. La finanziaria deve essere approvata in ogni caso, pena un cataclisma nazionale. Il realismo comunista di Cossutta si pone con una certa angoscia il problema dei contraccolpi che avrebbe l'accusa di riconsegnare l'Italia alla destra. Tutto questo mentre l'intelligenza politica di Cossiga è alla ricerca dell'occasione migliore per dare un ruolo risolutivo all'Udr, eventualmente sotto il manto dell'interesse nazionale, della laica responsabilità civica, del cristianissimo bene comune. Tutti sono in movimento quindi, tranne il Polo. Ma può uno schieramento politico aspettare la caduta di Gerico semplicemente facendo squillare di tanto in tanto le cattiverie antigovernative di Tremonti o le certezze apodittiche dei Pisanu e dei La Loggia? Oppure non sarebbe il caso di cercare di inserirsi nelle pieghe della crisi, per individuare un punto critico ed eventualmente per forzare la situazione e orientarla a proprio vantaggio? Di per sé l'interesse del Polo e in particolare di Forza Italia è definibile semplicemente: il centrodestra ha bisogno di assecondare la crisi del centrosinistra e di mettere in rilievo i limiti dell'Ulivo, ma con i comportamenti di una forza moderata e responsabile, senza passare per il partito dello sfascio. Su un piano diverso, ma politicamente cruciale, il centrodestra ha la necessità di battere strategicamente Cossiga e l'Udr, cioè chi è portatore di un'alternativa secca di riaggregazione del centro moderato. C'è un modo per ottenere questi obiettivi? C'è sicuramente se il Polo è capace di mettere in discussione la sua linea di condotta, se accetta di rimettersi in partita, se non si fa incantare dalla propria sdegnosa solitudine. Uno fra questi modi, forse il più clamoroso ma non certo il più irrazionale, consisterebbe per esempio nel presentarsi davanti all'opinione pubblica e di annunciare ufficialmente che il centrodestra, per una bella e nobile serie di ragioni, decide di votare la finanziaria del governo Prodi, senza contropartite. Le conseguenze di una decisione del genere possono essere soltanto immaginate. Ma vogliamo elencarne qualcuna? Grave e forse definitiva battuta d'arresto dell'Udr, imbarazzo della maggioranza, interesse dei Popolari e di tutta l'area centrista dell'Ulivo, dimostrazione di responsabilità politica, successo d'immagine fra i cittadini, e via a catena. Sono effetti virtuali, naturalmente, dal momento che nessuno nel Polo sembra particolarmente desideroso di uscire dall'isolamento. Quindi allo stato dei fatti è fantapolitica. Ma o ci sono iniziative di questo tipo, originali, decise con piglio manovriero, anche politicamente sfrontate e bipolarmente eretiche, oppure il Polo si esibirà ancora una volta nel suo piccolo Aventino antigovernativo, la regolare specialità di fine anno che non maschera del tutto la sua inefficacia politica.
LA STAMPA, 14.10.1998
MA E’ ALTO IL PREZZO DA PAGARE
La prudenza del presidente della Repubblica è diventata di nuovo protagonista della fase politica. Occorreva trovare il modo di mettersi alle spalle il voto sulla fiducia che aveva costretto il governo alle dimissioni, di cicatrizzare le ferite nei partiti e nello schieramento di centrosinistra. Il Quirinale ha trovato la formula nel «pre-incarico» a Prodi. È un metodo che serve a stemperare le conflittualità e ad accertare se effettivamente esiste la base parlamentare necessaria per sostenere un nuovo governo. Ma è anche una scelta che rivela le difficoltà oggettive di trovare una soluzione convincente alla crisi. Per ora si può solo dire che Scalfaro ha preso una decisione pressoché obbligata: l'indicazione unanime dei partiti dell'Ulivo, senza candidature subordinate, insieme con il possibilismo di Cossiga, conduceva automaticamente a Prodi. Nello stesso tempo tuttavia c'è da osservare che la crisi è lungi dall'essere risolta e che i passaggi possono essere ancora numerosi e complessi. Cossiga e l'Udr infatti, in cambio di un via libera, devono dimostrare di avere sradicato l'Ulivo in quanto alleanza politica. Prodi, al contrario, per dare seguito alla sua rivendicazione di «coerenza personale e politica» è obbligato a minimizzare il ruolo dell'Udr, a sottrarsi alle condizioni che gli sono state proposte, a evitare un coinvolgimento politico consistente dei cossighiani nella prossima maggioranza. A prima vista si tratta di due posizioni che non sembrano incoraggiare le prospettive del Prodi-bis. Ma ammettiamo pure che fra qualche obbligata ambiguità si riesca formare un nuovo esecutivo: il suo compito si limiterà all'approvazione della finanziaria. Un compito sicuramente rilevante, e necessario per il Paese, ma chiuso in se stesso. Riesce difficile pensare che sia possibile intervenire su temi che richiedano intese più ampie, ad esempio sulla questione cruciale della legge elettorale (tanto più che ieri il Polo all'unisono ha giudicato un'operazione «da saltimbanchi» il nuovo mandato a Prodi, prospettando di conseguenza un'opposizione senza sconti). Ci troviamo quindi davanti a una soluzione di basso profilo, suggerita più che altro dall'incombere delle circostanze e dal convergere degli interessi sul punto di minore resistenza? È presto per dirlo con sicurezza, ed è presto anche per valutare quali implicazioni ha, sul piano politico generale, la soluzione basata «sulle forze politiche che hanno votato il Dpef». Di sicuro sappiamo solo che i giorni dopo la crisi sono stati percorsi da una sorda contrapposizione fra i partiti della coalizione di centrosinistra, a cominciare naturalmente dai Ds, e il partito virtuale dell'Ulivo. La ri-designazione del premier dimissionario è anche il frutto del timore che Prodi potesse radicalizzare le sue posizioni, agitare il simbolo dell'Ulivo in funzione anti-partitica, cercare mobilitazioni dal basso, approfondire le divisioni che esistono nel centrosinistra sulla natura e il formato dell'alleanza politica. Proprio per questo, mentre rimane intatto l'auspicio che un governo si faccia, e che riesca ad affrontare con linearità e puntualità il compito essenziale per cui verrà formato, viene spontaneo rilevare che le premesse da cui nasce sono largamente insoddisfacenti. Le condizioni elencate da Prodi per dare vita a un governo sono due: una coerenza politico-programmatica con l'esperienza precedente; una solida base di consenso parlamentare. Bene, le due condizioni sono in realtà una contraddizione piena. Soltanto con l'accettare la nuova designazione, Prodi ha negato di fatto tutto ciò che ha sostenuto negli ultimi giorni. Malgrado i toni sopra il rigo del suo intervento bolognese di domenica scorsa, il leader dell'Ulivo aveva visto trasformarsi lo schiaffo in Parlamento in un successo di stima per la coerenza e l'integrità del proprio comportamento. Il tentativo in cui è impegnato fin d'ora sarà invece intessuto di compromessi, di negoziati poco trasparenti, di accordi opachi. Comunque vada a finire, Prodi rischia di perdere una parte significativa della sua credibilità. La sua sconfitta alla Camera era stata brutale ma onorevole. Un suo eventuale successo, cioè la rinascita octroyéé come successore di se stesso, potrebbe consegnare agli italiani un uomo politico di lungo corso in più, e un programma, un progetto, un'idea in meno.
LA STAMPA, 19.10.1998
SE FINI STRIZZA L’OCCHIO
Il Polo si sta lentamente riprendendo dallo shock provocato dal contratto che sta per essere stipulato fra D'Alema e Cossiga. Ieri, nella Sala della Regina della Camera, durante l'assemblea dei parlamentari del centrodestra ha rifatto capolino la politica. Certo, all'inizio si è assistito alle prevedibili anche se talora violentissime accuse contro Scalfaro, «l'arbitro che gioca contro di noi», all'indignazione contro il furto di voti dei parlamentari cossighiani, agli annunci di manifestazioni contro la «congiura di palazzo» in corso di perfezionamento. Ciò rappresenta più che altro un'espressione di emotività politica, e sarebbe stato soltanto il sigillo dell'impotenza del Polo, se Gianfranco Fini non avesse avuto l'accortezza di rilanciare, delineando una prospettiva politica che sembra guardare molto al di là della situazione contingente. Il leader di An infatti ha posto nuovamente sul tappeto il tema dell'assemblea costituente, formulando così una sfida esplicita a Cossiga, storico sostenitore di questa soluzione. Perché la scelta di questa variante tattica? Da parte di Fini c'è la percezione nitida che il disegno di Cossiga potrebbe rivelarsi nel medio periodo molto insidioso per il Polo. Non è un segreto che la «politica tra complici», il patto a termine di cui ha parlato ieri su queste colonne Barbara Spinelli prefigura fin d'ora la nascita di uno schieramento di centro, alternativo al versante socialdemocratico, che avrebbe nel corredo genetico l'intenzione di svuotare il Polo, e l'obiettivo ancora più esplicito di marginalizzare politicamente An. La mossa del presidente di An nasce quindi prima di tutto da un intento autodifensivo. Fini sa bene che se oggi il Polo si autoemarginasse, se coltivasse l'illusione di fare opposizione di piazza e di strada, potrebbe rischiare prima uno sgocciolio poi un'emorragia verso l'Udr. Anche perché Cossiga farà di tutto per dimostrare che questo centrosinistra appena inventato è di fatto una grande coalizione (la più grande possibile nella situazione data), che essa è garantita e rappresentata in primo luogo da lui, e coloro che sono esclusi da questa intesa vanno considerati alla stregua di forze extraparlamentari. Il rilancio dell'assemblea costituente rappresenta quindi qualcosa in più di un messaggio. Se è vero che in politica una delle virtù migliori consiste nella capacità di scegliere gli avversari, Fini questa scelta sembra averla già fatta, e in modo tutt'altro che conformistico. Forse non è una forzatura vedere nella sua ipotesi, nel suo «spunto di riflessione» (come l'ha presentato ai parlamentari del Polo), almeno un pizzico di sfiducia sulla tenuta futura del centrodestra, e quindi un'apertura a soluzioni potenzialmente diverse. Per qualche aspetto, scegliere come avversario Cossiga oggi può voler dire scegliere un interlocutore che domani potrebbe tramutarsi in un punto di riferimento. È un momento in cui vincono i realisti, e Fini non manca certo di realismo. Ha preso atto che l'accordo di D'Alema con Cossiga si profila come qualcosa di politicamente pesante, forse cruciale, che ridisegnerà le linee interne di tutto il sistema politico. Siccome la politica del lamento non è nelle sue corde, comincia a gettare ponti. Potrebbe non ottenere risposte nell'immediato, visto che a questo punto non si vede quale interesse abbia Cossiga a movimentare nuovamente la situazione con l'elezione della costituente. Ma quelle a cui mostra di puntare sono le risposte per il futuro: oltre il Duemila. E chissà, forse oltre il Polo.
LA STAMPA, 25.10.1998
PARTITA INFINITA
Pace, innanzitutto, ai tifosi di buona volontà. Juve-Inter non è una rivincita, è solo un altro capitolo del loro duello infinito. La qualità essenziale del calcio è che a ogni stagione si riparte: i veleni dell'anno prima, le iniquità arbitrali, i rigori negati possono essere evocati solo dai viziosi del rancore. A mente fredda, un tifoso anche ragionevolmente fanatico dovrebbe ripensare a quella famosa entrata primaverile di Juliano su Ronaldo come a uno di quegli accidenti della storia di cui sono piene le cronache. L'importante è ricominciare; tutto il resto è storicamente «il passato di un'illusione». Magnifica illusione, naturalmente, una delle poche ancora coltivabili senza revisionismi. Anche perché il bipartitismo rappresentato da bianconeri e nerazzurri è uno dei meno imperfetti fra quelli sperimentati in Italia. Non si conoscono passaggi da uno schieramento all'altro, ribaltoni, trasformismi, e i «ladri di tifo» non hanno cittadinanza calcistica. Si diventa juventini o interisti obbedendo a misteriose alchimie antropologiche e psichiche, e non si cambia mai. Ciascuno poi interpreta la propria juventinità o il proprio interismo a proprio modo. L'amore tribale per una squadra è la somma di scelte infantili, e quindi potentissime, di decisioni irrazionali, e perciò indiscutibili. Per questo, Juve e Inter sono due storie parallele che si cristallizzano in due dogmi distinti e distanti. Quella bianconera è un'Italia condannata a vincere, e che vive la sua condanna con una tensione perenne, con una sottile e continua sofferenza che grazie al cielo (e grazie ora a Platini ora a Del Piero) trova rimedi di eccezionale efficacia. I suoi sostenitori si sono abituati a una squadra che non è la più forte: semmai è quella che vince di più. La differenza sembrerà capziosa, ma in essa si situa l'apprensività juventina, quella sensazione di fondo che fa apparire dovuti i successi, più dolorose le sconfitte, e inquiete perciò le aspettative. Il partito interista è tutt'altra cosa. Dai tempi eccelsi ma lontani di Suarez e Mazzola, per capire l'umore dei tifosi dell'Inter converrebbe leggere ciò che lo scrittore inglese Nick Hornby ha detto di sé in quanto tifoso dell'Arsenal (per decenni squadra avarissima, sgraziata, perfino dolorosa): «la condizione naturale del tifoso è un'amara delusione». L'Inter è una squadra che ha fatto soffrire i suoi sostenitori, è riuscita a dare corpo a tutti i loro timori, ha fatto angosciosamente avverare le previsioni più disastrose. Finché non è arrivato Ronaldo, cioè l'Asso, o l'Assoluto. Un giocatore che fa tornare la voglia di fare il tifo, al di là di ogni amarezza passata presente e futura. Che ha ridato agli interisti l'orgoglio di dichiararsi interisti. E di sfidare la Juve, una volta di più, in questo nuovo confronto autunnale: con i bianconeri che continueranno a lottare, per loro eterna condanna, e i nerazzurri a sperare, contro il passato della loro delusione.
LA STAMPA, 07.01.1997
IL DILEMMA DELLA BICAMERALE
Sarà che la parola «bicamerale» evoca il freddo e la polvere di misere stanze d'affitto in cui albergherebbero i Travet delle riforme, anziché il clima euforico di cui sarebbe portatrice l'Assemblea costituente, ma sta di fatto la commissione parlamentare che dovrebbe - forse, chissà - procedere al ridisegno costituzionale sembra riscuotere ormai solo un modesto interesse nell'opinione pubblica. Il tema delle riforme costituzionali è tornato in esclusiva al ceto politico, e sembra piuttosto difficile che possa rientrare al centro di una discussione corale della collettività. Eppure, proprio questo aspetto di scarso interesse pubblico non è affatto irrilevante, perché dimostra innanzitutto che il tempo delle rivoluzioni è finito. E di conseguenza viene a cadere il principio secondo cui a una situazione eccezionale occorre rispondere con una soluzione eccezionale. C'è stato probabilmente un momento nel nostro paese, fra il 1992 e il 1996, in cui il fallimento della «democrazia dei partiti» appariva tale da trascinare con sé le istituzioni. All'apice della crisi, l'unica via d'uscita era apparsa a diversi osservatori l'elezione popolare di un'assemblea che preparasse a caldo il nuovo contratto civile fra gli italiani. Ma il 1997 non si apre sotto il segno di catastrofi già scritte, bensì sotto un segno di incertezza. Incertezza tesa allo spasmo, che coinvolge tutti gli aspetti della vita nazionale: dall'economia, sottoposta a uno stress acuto, alla questione giudiziaria, sulla quale il ministro della giustizia Giovanni Maria Flick sta provando a scottarsi le mani come se le scottarono i suoi predecessori. Altrettanto incerto è il sistema politico, a causa di leggi elettorali che consentono la sopravvivenza ricattatoria di «riserve indiane», ma ripetute prove elettorali continuano a dimostrare che in genere il meccanismo bipolare è stato assimilato dai cittadini-elettori ben al di là di quanto avrebbero meritato per coesione e coerenza i due Poli maggiori. Quindi l'incertezza che grava sull'Italia è una situazione-crinale, dalla quale può nascere da un versante un virtuoso percorso di razionalizzazione, e dall'altro anche un sentiero di decadenza. Se si accetta questa premessa, la definizione dell'Assemblea costituente come unico e insostituibile strumento riformatore appare come una scelta soprattutto ideologica. Occorrerebbe spiegare infatti per quali ragioni l'eventuale assemblea costituente potrebbe rispecchiare equilibri politici diversi da quelli attuali, e perché la sua iniziativa dovrebbe sfuggire alle logiche di compromesso che si imputano preventivamente alla Bicamerale. E anche per quale magico artificio un'assemblea eletta in termini proporzionali riuscirebbe a non riprodurre tutte le differenze che esistono attualmente tra le forze parlamentari. È evidente piuttosto che la scelta per la Costituente fa corpo con un'ispirazione di fondo di tipo presidenzialista e con una concezione volta a reimpostare tutta la carta costituzionale in termini individualistico-liberali anziché personalistico-sociali. Che sono tutte - presidenzialismo e liberalismo - vocazioni legittime, ma non si vede per quale motivo potrebbero emergere nitidamente e maggioritariamente in un'assemblea eletta con il metodo proporzionale. Questo non l'hanno spiegato né Gianfranco Fini né Mariotto Segni, i quali sostengono che il presidenzialismo è maggioranza nel paese, e non nel parlamento, ma senza conforti empirici. La propensione a favore della Costituente rivela spesso anche il desiderio di un rimescolamento complessivo, il desiderio di dare un calcio alla scacchiera, nella speranza che poi qualcosa possa succedere. Può esser qualcosa che metta in discussione l'equilibrio su cui si regge il governo, oppure che metta lo scompiglio negli schieramenti come sono finora assestati. È necessario quindi uscire dagli equivoci. Gli equivoci di Fini (sottolineati da un esperto come Domenico Fisichella), dato che il leader di An è abituato a mettere sempre un grammo in più sulla bilancia per rendere incerta la pesata e quindi introdurre nuovo disordine nel sistema: disordine che naturalmente Fini suppone meglio curabile con soluzioni straordinarie, con «la partecipazione dei cittadini ad una fase autenticamente costituente», e via in crescendo. E sarà bene che si esca dalle incertezze strategiche alimentate da Silvio Berlusconi, firmatario per la Costituente ma non del tutto ostile alla Bicamerale, così com'è sempre curiosamente in bilico fra un passato di rivendicazioni integraliste del maggioritario e un presente di accordi «alti e nobili» per il bene del Paese. Mancano, all'elenco degli equivoci, quelli intrinseci al centrosinistra. Perché se nell'Ulivo e dintorni ci fosse la stessa convinzione che anima D'Alema, si potrebbero valutare le differenze specifiche sul tema delle riforme come naturali diversità di ispirazione politica, destinate a entrare nell'arena delle mediazioni politiche per essere composte. Ma invece si ha l'idea che nel centrosinistra, a partire dal presidente del consiglio, ci sia stata verso le riforme costituzionali una certa sospettosità, che alla fine si è trasformata disinteresse, e potrebbe diventare ostilità. Insomma la certezza che non convenga svegliare il can che dorme, e neppure quindi sacrificare la logica compromissoria del governo di oggi alla razionale concentrazione di potere resa eventualmente possibile, ma domani, dalle riforme. Degli equivoci in gioco, quest'ultimo non è il minore. Anzi, poiché rischia di vanificare la strada verso la Bicamerale, che è lì, a portata di mano, minaccia anche di essere l'inciampo più pericoloso, quello che risolverebbe ironicamente il dilemma fra la Commissione e l'Assemblea nel modo più stupidamente salomonico: nessuna delle due.
LA STAMPA, 09.01.1997, SOCIETA' E CULTURA
POPPER L’EREDITA’ CONTESA
L'aspetto più attraente della pensiero di Karl Popper è sempre stato la sua traducibilità divulgativa. Letto Popper, si poteva pensare di avere una cassetta degli attrezzi per aprire il meccanismo del mondo moderno e osservarne il funzionamento e i pezzi sparsi. Il metodo popperiano si era rivelato poi straordinariamente efficace, e anche felicemente anticonformista, quando era venuto il momento di discutere le «teorie», o meglio i costrutti utopico-mitologici, con i quali il pensiero della sinistra folk aveva edificato in Italia, durante gli anni Settanta, un teatro del mondo pretendendo di sostituirlo al mondo effettivo. Per chi le aveva incontrate, le parole di Popper erano state un balsamo deliziosamente minimalista, a fronte dei minacciosi massimalismi in circolazione allora. La società «aperta» era una boccata d'aria rispetto ai plumbei progetti di collettività pianificate. I suoi conflitti «deboli» ma incessanti, connaturati alla vita collettiva, confluivano in un sistema di descrizione che appariva infinitamente più ricco, moderno, addirittura spumeggiante, rispetto ai sistemi interpretativi fondati sui principi della lotta di classe. La definizione della democrazia come un semplice antidoto alla dittatura era perfino entusiasmante, se paragonato alla retorica con cui la parola democrazia veniva agitata e stravolta. La società aperta implicava domande non su chi (il popolo, i filosofi) deve comandare, ma su come si possa strutturare un sistema di controlli istituzionali per impedire che chi governa faccia troppi danni. C'è un prima e un dopo, anche per Popper. Prima, e si intende prima dell'Ottantanove, ad eccezione di alcune cerchie illuminate lo si considera un filosofo fastidiosamente fuori moda, un mitteleuropeo conservatore, un intellettuale arido e vecchio stampo, un «liberale». Dopo, cioè dopo la caduta del muro e della cortina, diventa una specie di guru popolare. Alla ricerca di fornitori di paradigmi, gli orfani del pensiero ideologicamente forte hanno creduto di trovare nel vecchio oppositore del neopositivismo viennese e della Scuola di Francoforte il nuovo Grande Solutore, il possibile timoniere che guida la zattera tra i flutti del naufragio postmoderno. Solo che Popper, per l'appunto, fornisce un metodo, o un antimetodo. Che risulta straordinariamente efficace per congetturare, smentire, falsificare, mettere alla prova e sconfiggere un numero sterminato di «ismi». Ma non dice poi granché sul «che fare». Va bene per un bagno di liberalismo, non per allestire un programma politico. Tanto più che oggi nuovi problemi sorgono e si affollano entro la società sempre più aperta, «globalizzata»: l'informazione e la comunicazione, che dovevano essere il bene primario del mercato, stanno diventando un sovraccarico insostenibile e quindi una fonte di distorsioni. La produzione di immaginario, a partire dalla televisione, ha perso di vista le convenzioni etiche e insidia l'umanità dall'infanzia. Su un altro piano, la creazione di merci senza lavoro umano, come la crescita economica senza recupero dell'occupazione, implica dilemmi inediti, e richiede soluzioni originali: nella speranza che la società aperta, il mercato, il capitalismo liberale, avendo sconfitto i loro nemici ideologici, non vengano sopraffatti dalla loro fisiologia, e rischino di morire del loro stesso successo.
LA STAMPA, 12.01.1997, SOCIETA' E CULTURA
POLITICA E PREVALENZA DEL CALZINO
Attenzione a non sottovalutare la recentissima discussione sul calzino corto, aperta sull'ultimo numero di Panorama da Giuliano Ferrara. «Niente è meno elegante di un'ansia di distinzione su scala di massa», scrive Ferrara, riferendosi, oltre che all'estetica del calzino lungo, alle cravatte degli assessori comunali e all'uso della pochette. Se fosse solo questione di eleganza vera o presunta, sarebbe il caso di dire qualcosa, oggi, anche sul montone da tribuna numerata di Gianfranco Fini, e anche fare un punto definitivo sui doppipetti del Cavaliere nonché, se si vuole, sui giaccottini di Romano Prodi: esattamente come a suo tempo gli stilisti giudicavano politicamente out D'Alema per i suoi pantaloni «color cane». Ma il punto non è questo. I calzini non appaiono invano nel cielo della storia. Se ci fosse di mezzo soltanto una scelta di stile o di gusto, discuteremmo blandamente del calzino come si sta già discutendo sulla rinascita dell'alternativa fra boxer e slip. E invece qui siamo nella sfera misterica dei grandi indizi politici. Osservato nella prima puntata del lerneriano Pinocchio l'afflosciarsi del calzino antitrust di Giuliano Amato, la memoria non può esimersi dal riandare al tragico 27 giugno 1991, allorché il caldo di Bari stampò col sudore la canottiera sulla camicia di Craxi. E non bisogna nemmeno dimenticare che l'inversione delle fortune politiche di Berlusconi fu resa memorabile dalla foto del clan alle Bermuda, in quella passeggiata in calzoncini e maglietta da jogging che rimane indimenticabile. Quando si comincia a parlare di canottiere, calze e mutande, vuol dire che per qualcuno sta cominciando a buttare male. Si tratta solo di capire, e bisognerà stare molto attenti, chi sarà la prossima vittima politica di questa nuova prevalenza del calzino.
LA STAMPA, 15.01.1997
DUE TRAPPOLE SUL CAMMINO DELLE RIFORME
Dopo che lo scontro tra Forza Italia e Alleanza nazionale sulla Commissione bicamerale era diventato acutissimo, non c'era che una via d'uscita, cioè l'arretramento di una parte. Il passo indietro è venuto da An. Un anno fa, giostrando dall'estremità del sistema politico, Gianfranco Fini era riuscito a provocare il fallimento del tentativo Maccanico, facendo emergere con il suo presidenzialismo oltranzista le contraddizioni dello schieramento di centrosinistra. Adesso l'interdizione non gli è riuscita. C'è stato un faccia a faccia tesissimo fra Berlusconi e il leader di An, ed è stato un conflitto che ha messo a rischio la tenuta del Polo per le libertà, e di cui sarà interessante valutare in seguito le conseguenze politiche. La decisione con cui Berlusconi ha tenuto la decisione di appoggiare la Bicamerale ha posto il suo principale alleato in una condizione insostenibile. Per il presidente di An la Commissione parlamentare per le riforme era sempre stata una seconda scelta, un «viottolo»: Fini ha sempre dichiarato che la via maestra verso le riforme consisteva nell'elezione di un'assemblea costituente. Le ultime iniziative di Francesco Cossiga gli avevano ridato la speranza che i giochi non fossero ancora fatti, che l'accordo tra Berlusconi e D'Alema potesse ancora essere sovvertito, che la Bicamerale potesse essere svuotata, che la parola in un modo o nell'altro finisse al popolo. Occorre anche considerare che per Fini e il suo partito la Costituente non rappresentava soltanto una scelta di metodo. L'assemblea eletta dal popolo avrebbe significato la possibilità di agitare il rifacimento integrale della Costituzione, cioè di spezzare il patto costruito nel dopoguerra dalla mediazione tra le forze antifasciste e di sostituirlo con qualche cosa di nuovo e di diverso, con un «nuovo inizio», con un superamento della storia e delle sue pregiudiziali. Questo disegno oggi sembra svanire. Per molti aspetti An viene normalizzata. Con la decisione di ieri il Polo entra infatti in un processo che non prevede discontinuità storicamente straordinarie. Se effettivamente ci sarà il passaggio alla Seconda Repubblica, esso avverrà tendenzialmente con una transizione morbida. Naturalmente ci sono ancora molte incertezze sul cammino delle riforme. La principale è che possano permanere, non solo nel Polo, atteggiamenti irriducibili, magari con l'obiettivo sottaciuto di provocare il fallimento sul campo della Bicamerale attraverso la dimostrazione quotidiana della sua inefficacia. Affinché la Bicamerale possa condurre a esiti decorosi, occorre quindi che il campo venga sgombrato da equivoci e possibili distorsioni. Innanzitutto essa non dovrà diventare lo strumento per la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Ciò significa che saranno dannose tutte quelle iniziative tese ad agitare come irrinunciabili tesi predefinite in termini oltranzisti (e non importa che si tratti del presidenzialismo o al contrario del parlamentarismo). In secondo luogo il destino della Bicamerale è legato alla sua capacità di non apparire come la camera di compensazione fra i partiti, in cui l'architettura istituzionale sarebbe un banale punto di equilibrio al minimo e il frutto di di compromessi pasticciati tra gli interessi delle forze politiche. Per sfuggire a queste due tagliole, occorre uno sforzo comune dei partiti per «laicizzare», se così si può dire, il tema delle riforme. Cioè per renderle il dispositivo che consenta quella concentrazione di potere che è necessaria, essenziale, per consentire in futuro l'esercizio efficace dell'attività di governo. Le riforme devono diventare l'attrezzatura che rende possibile affrontare politicamente e operativamente i temi del ridisegno dello stato sociale e la rimessa in efficienza dello Stato e della pubblica amministrazione. Il resto, vale a dire la retorica dell'intransigenza presidenzialista e dalla parte opposta i prevedibili vocalizzi sulla intoccabile centralità del Parlamento, appartiene ormai non alle riforme come operazione pragmatica, ma alle riforme come ideologia: un autentico vizio politico, e che purtroppo non ha molti antidoti, se non il giudizio dei cittadini sul modo in cui le forze politiche avranno interpretato la responsabilità che hanno assunto di fronte al Paese.
LA STAMPA, 19.01.1997
GLI ORFANI DELLA DC
Comunque lo si consideri, «latte bollente» è un maledetto imbroglio. Lo è innanzitutto perché la questione delle quote del latte ha radici che affondano nella scadente qualità dell'azione italiana al livello europeo, che ha dato luogo nel tempo a un succedersi di approssimazioni fallimentari e di compensazioni affannose, di errori marchiani e di trafelati tentativi di soluzione. Adesso invece il caso appare effettivamente irrisolvibile: dato che l'unione europea non fa sconti e conferma con vigore il divieto ai governi di assumersi il costo delle multe, vengono meno le classiche risorse della discrezionalità clientelare. Si esaurisce quindi la combinazione di inefficienza gestionale e di generosità risarcitoria; scompare la possibilità per l'esecutivo di correggere le distorsioni provocate dagli errori storici spostando a carico della collettività il pagamento delle multe per la sovrapproduzione. L'imbroglio oltre che maledetto è anche dannatamente complicato, perché riguarda solo una parte minoritaria dei produttori (meno del 15 per cento del totale), cosicché ogni tentativo di soluzione potrebbe assumere tratti di iniquità rispetto alla maggioranza che si è attenuta alla regola. Ma se si esce dall'aspetto contingente della protesta che ha bloccato Milano, la guerra del latte assume caratteristiche assai più insidiose di quelle di una semplice protesta corporativa contro regole non rispettate e contro le sanzioni relative. Su questo piano, infatti, è arduo dire qualcosa in più rispetto a quanto ha dichiarato il ministro Pinto: quota produttiva «insufficiente, ingiusta e insopportabile», ma regole da rispettare e multe, per gli allevatori, da pagare. Basta spostare invece il punto di vista per accorgersi che «latte bollente» rappresenta per la prima volta, e dunque con una evidente forza simbolica, un conflitto fra settori produttivi nazionali e unione europea. Ceti che finora erano stati protetti si trovano all'improvviso senza protezione, neanche quella assicurata malamente dalle furbizie; e nello stesso tempo viene messa allo scoperto anche la fragilità della costruzione europea, dato che affiora l'implausibilità di pagare multe in danaro sonante a una sovranità remota e impalpabile come quella di Bruxelles. Ci sono altri settori produttivi che stanno già scontando l'esposizione alla concorrenza determinata dall'integrazione sempre più stretta del mercato europeo. Ed è probabile anzi che nei prossimi anni la principale questione italiana sarà il conflitto strisciante fra chi ha perso la protezione, e deve competere con le sue forze, e chi invece continuerà a potersi annidare in contesti protetti. La guerra del latte unisce a questa dimensione un elemento ulteriore, cioè la concentrazione territoriale nel Nord, che ha reso possibile alla Lega, Bossi in testa, di calvalcare la protesta degli allevatori come se fosse cosa sua. In sé la protesta di Linate costituisce una spinta effettivamente secessionista, solo che la secessione è diretta sia contro Roma sia contro l'Europa. È la rivolta di un pezzo di società che ha visto disgregarsi il proprio referente politico, la grande madre democristiana, e che ora viene usata: dalla Lega, che cerca di farne l'avanguardia del disagio del Nord; e anche da Alleanza nazionale, che al momento buono non fa mancare la propria voce nazional-protezionista contro le inique sanzioni. Sono queste due forze politiche che possono trarre qualche vantaggio dalla protesta dei produttori: ma non bisognerebbe dimenticare che in questi casi alla vittoria o al guadagno degli strumentalizzatori corrisponde in genere la sconfitta, e la perdita, degli strumentalizzati.
LA STAMPA, 24.01.1997
RAGIONEVOLE DUBBIO
Quando c'è un ragionevole dubbio non si condanna nessuno: è un principio di civiltà giuridica. E la vicenda giudiziaria di Sofri, Pietrostefani e Bompressi è talmente costellata di incertezze, passi falsi, annullamenti, sentenze autocontraddittorie, che riesce impossibile pensare che con la conferma della condanna a ventidue anni di carcere per l'omicidio del commissario Calabresi si sia fatta giustizia. Si è semplicemente esaurito, per automatismo, per moto d'inerzia, un iter giudiziario, è giunta alla sua fisiologica conclusione una vicenda processuale che sembra riassumere tutte le distorsioni della giustizia italiana. Che questo ragionevole dubbio esista sembra arduo negarlo. La logica della condanna è tutta fondata sul principio che il pentito Marino, l'accusatore di Sofri, non aveva alcun interesse ad autoaccusarsi e ad accusare i suoi vecchi compagni. Le contraddizioni nelle sue ricostruzioni, gli errori fattuali, le imprecisioni, sono stati considerati delle appendici insignificanti a una verità ritenuta intrinsecamente solida, non scalfibile dalle verifiche degli testimoni. In secondo luogo, c'è il dubbio che nei confronti di Sofri sia stata messa in atto una volontà persecutoria: dubbio che viene reso esplicito dal fatto che la procura di Brescia indaga su due nodi di questa vicenda giudiziaria, che potrebbero rivelare una sorta di accanimento contro i vecchi esponenti di Lotta continua: una sentenza di assoluzione potrebbe essere stata motivata dal giudice in modo autodistruttivo, allo scopo di provocarne l'annullamento; pressioni sarebbero state esercitate sui giurati dell'ultimo processo per condurre a un verdetto di condanna. Non si capisce quindi per quale motivo una sentenza così grave e simbolicamente importante, che scrive o riscrive la storia di un periodo drammatico della vicenda nazionale, e che si abbatte con una violenza infinita sulle esistenze di tre persone a venticinque anni di distanza dal crimine loro contestato, possa essere stata emessa mentre erano pendenti indagini su gradi precedenti di giudizio. Possibile che la lentissima, fatiscente, inefficiente giustizia italiana dovesse dare una tardiva dimostrazione di velocità, di tempi da rispettare in modo ferreo, proprio mentre dovevano essere valutati episodi e atteggiamenti tutt'altro che insignificanti, almeno a prima vista, sulla credibilità dei processi precedenti? Detto questo, si apre un altro fronte. Perché ancora una volta, come è sempre è accaduto per le vicende processuali dell'ex leader di Lotta continua, è scattata la valutazione politica sulla sentenza. E qui, ancora una volta, si è mossa praticamente all'unisono la sinistra (a cui si è aggiunta la destra ultraliberale). Con un atteggiamento apparentemente lineare, basato per l'appunto sulla teoria del ragionevole dubbio sulla colpevolezza, ma che lascia trasparire invece, nei toni e nei modi, il tentativo di convincere dell'inesistenza di dubbi sull'innocenza. A giudizio di chi scrive, uno degli errori peggiori, in questa storia, sarebbe quello di cercare di sovrapporre al giudizio di colpevolezza raggiunto dalla giustizia formale un giudizio di innocenza trasmesso attraverso una giustizia sostanziale. L'eventuale errore dei tribunali e dei giudici non si può correggere con l'evocazione di una giustizia «giusta», una giustizia politica. Uno spirito liberale rifiuta sul caso Sofri le certezze di sinistra esattamente come rifiuta le certezze di destra. Quindi coltiva il dubbio che sia innocente esattamente come riflette sul fatto che poteva essere colpevole. Ieri due esponenti di Alleanza nazionale, Maurizio Gasparri e Francesco Storace, hanno parlato di «condanna esemplare», che inchioda i nemici politici di ieri alle loro responsabilità storiche. Se ci si divide su una sentenza in base alla propria ispirazione politica, questa è lotta di parte, è una manifestazione di tifo calcistico, non è razionalità giuridica né intelligenza storica. Con le certezze, e soprattutto con le certezze opposte, non si fa giustizia. Dal pasticcio giudiziario e storico che si tramuta in un incubo e si abbatte sul destino personale di Sofri, Pietrostefani e Bompressi, si può uscire soltanto usando la chiave che apre l'istituzione giudiziaria, approfondendo, a partire dalle indagini di Brescia, quel ragionevole dubbio che getta la sua ombra sull'ultimo verdetto.
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