LA STAMPA
LA STAMPA, 05.02.1997
D’ALEMA CONDANNATO AL SUCCESSO
La Commissione bicamerale per le riforme ha davanti a sé un compito straordinario: deve portare a termine il mutamento politico-istituzionale italiano, ricostruendo un impianto messo in crisi dall'abbandono del principio proporzionale. Per una parte del mondo politico, si dice ricostruzione e si intende restaurazione. Può essere. Saranno infatti i partiti a riformulare la seconda parte della Costituzione, e non un'assemblea eletta dal popolo. E fra i partiti serpeggiano volontà conservatrici, ora palesi ora dissimulate, in cui si esprime la convinzione che il metodo migliore per cambiare è cambiare il meno possibile. Ma detto questo, occorre anche sottolineare che l'eccezionalità del compito che la Bicamerale si trova davanti non lascia spazio a opportunità di riserva. O la Commissione riesce entro giugno a partorire il suo progetto, oppure il sistema politico subirà un contraccolpo disastroso e verrà sommerso dal discredito; e al di là del discredito si troverebbe comunque impantanato in una transizione senza fine, preda di un assetto amorfo e squilibrato. Si tratta allora di capire quali sono le condizioni necessarie affinché i settanta parlamentari presenti nella Bicamerale possano produrre un risultato accettabile. La condizione fondamentale è che la «piccola costituente» non dovrà essere condizionata da fondamentalismi sulle formule istituzionali. Chi entra nella Commissione con l'idea di brandire una soluzione ultimativa e non mediabile (e poco importa che sia il presidenzialismo o il cancellierato), ha ottime probabilità di trasformare la Bicamerale in una palestra politica e di condurla in un vicolo cieco. Inoltre ci vuole una robusta quota di realismo. L'assemblea dei 70 ha davanti a sé un tempo limitato, e se si diffondesse la velleità eroica di rifare da capo a piedi l'edificio istituzionale ne potrebbero nascere insopportabili frustrazioni. Si deve sapere che la scelta della Commissione parlamentare, invece dell'assemblea costituente, contiene una matrice implicitamente riformista, non rivoluzionaria. La Bicamerale insomma ha il compito di individuare correttivi: sarà poco esaltante, ma saperlo previene il rischio delle disillusioni. Anche perché è inutile negare che esiste - non può non esistere - un legame potenzialmente pericoloso fra l'attività della Bicamerale e gli attuali equilibri politici parlamentari. Maggioranze «anomale», diverse dalla costellazione di forze che sostengono il governo, potranno formarsi su aspetti marginali del processo di riforma. Ma, ad esempio, Rifondazione comunista non esiterebbe a scaricare sul governo eventuali intese raggiunte in chiave presidenzialista: Bertinotti lo ha sempre detto chiaramente, e non è una minaccia che si può esorcizzare facilmente. Tuttavia il realismo a cui è obbligata la Bicamerale non può prescindere dall'individuazione di almeno due obiettivi di fondo. Il primo è soluzione del problema principale della nostra struttura istituzionale, e cioè la fragilità del capo del governo, il principale sintomo della malattia che ha reso inefficiente la Repubblica della proporzionale. Oggi non si tratta più di una fisiologica esigenza di consolidamento istituzionale, per restituire un equilibrio all'intelaiatura dei poteri: si tratta di una necessità vitale in funzione dei colossali lavori di ristrutturazione (nei settori dello stato sociale e nella pubblica amministrazione) che qualsiasi governo dovrà affrontare in un futuro molto prossimo, e che per essere realizzati richiedono una stabilità e una certezza di governo che il nostro Paese non conosce. L'altro obiettivo da perseguire è la stabilizzazione dello schema bipolare. Sembrerebbe una banalità, ma le preoccupazioni non sono mai troppe. È vero che la Bicamerale non si occupa della legge elettorale, ma si può osservare che alcune delle formule «neoparlamentari» che vengono proposte dal centrosinistra sembrano particolarmente adattabili a una futura legge elettorale rirpoporzionalizzante. Eccesso di sospetto? Può darsi. Ma la distanza che separa il processo di riforma istituzionale dalle decisioni che verranno assunte sulla legge elettorale non promette molto di buono. Legiferare a stralcio infatti conduce di solito a conclusioni coatte. E se questa coazione portasse alla fine a un nuovo mostriciattolo come la legge regionale? Su questo tema, purtroppo, non ci sono né garanzie né certezze. O meglio: l'unica garanzia la può offrire l'uomo politico che ha rischiato tutte le sue carte sulla Bicamerale, mettendo in ballo il suo prestigio politico, cioè Massimo D'Alema. Il quale è condannato a farcela: si gioca il futuro sul successo della Bicamerale. Ma se lo gioca anche sulla qualità di questo successo. Perché alla fine, dal punto di vista della storia, sarebbe lui, D'Alema, l'unico responsabile di una Costituzione nuovamente pasticciata; e sarebbe ancora lui, dal punto di vista della politica, il leader che non è riuscito a creare l'ambiente in cui la sinistra possa competere con la destra come una forza del tutto moderna, portatrice di un proprio progetto, capace di esercitare scelte e non solo di suscitare alleanze.
LA STAMPA, 09.02.1997
PARAMETRI DI CIVILTA’
Oggi scioperano i ferrovieri, domani resteranno chiusi gli uffici delle poste. In seguito, fino al 23 febbraio, è previsto per i treni uno sciame di altre agitazioni, che ha fatto parlare la Commissione di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali di un «abnorme addensamento» delle proteste sindacali. Allorché si discute delle agitazioni nel settore pubblico, si rischia di cadere nelle litanie. Ma in questo momento ci sono alcuni aspetti che emergono con chiarezza, e pongono la questione degli scioperi pubblici sotto una luce diversa e più preoccupante. Non può sfuggire innanzitutto la clamorosa differenza che si è creata fra pubblico e privato, come ha sottolineato martedì scorso sulla Stampa Mario Deaglio: il contratto dei metalmeccanici si è concluso dopo una vertenza difficile e con un esito che incorpora necessariamente le compatibilità economiche interne e le condizioni competitive esterne; nell'area pubblica invece vige la regola dello sciopero preventivo: i ferrovieri cominciano a scioperare perché in questo caso si oppongono alla direttiva del governo sul riassetto delle ferrovie, mentre i postelegrafonici contestano il piano di riorganizzazione e le misure previste dalla legge finanziaria. Ricordare la raccapricciante prestazione dell'ente Poste (esposta alla Camera dal ministro Maccanico) serve soltanto a dare un esempio di come funzionano le sacche corporative di cui è ricca la pubblica amministrazione, e delle molteplici difficoltà che ostacolano le ristrutturazioni grazie al forte potere di interdizione detenuto dai sindacati. Un potere vischioso, denunciato nei giorni scorsi anche dal ministro dei trasporti Burlando come un fattore di inefficienza e di chiusura alle opportunità di mercato. Se la cattiva «cogestione» delle aziende pubbliche viene censurata da un autorevole esponente del Pds, iscritto alla Cgil, viene il sospetto che la situazione sia degradata al di là del concepibile. E questo induce a una riflessione ulteriore. Perché in questi mesi il paese è chiamato a uno sforzo eccezionale di risanamento per non smarrire la via verso l'approdo europeo, cioè per guadagnarsi fra un anno quel giudizio di ammissibilità all'Unione economica e monetaria che oggi tende, come si registra ogni giorno, al negativo. Per rovesciare questa valutazione occorre senz'altro acchiappare per la coda i principali parametri di Maastricht. Ma oltre agli indici ufficiali relativi alla finanza e all'economia esistono anche alcuni parametri occulti, a cui banchieri centrali e operatori politico-economici non sono insensibili, come non sono insensibili le opinioni pubbliche europee. Sono i parametri della credibilità politica e della stabilità sociale. Di fronte alle ordinate società dell'area del marco, il pensiero del disordine neolatino dell'Italia sarà pure uno stereotipo intriso di diffidenza, ma è anche un'inquietudine reale. Perché quando i tedeschi vengono in Italia misurano l'affidabilità del nostro paese sulla qualità del servizio pubblico, e il pensiero di condividere la moneta con il paese degli scioperi e dell'inefficienza dev'essere effettivamente angosciante. Poiché è inutile chiedere alle minoranze corporative di adeguarsi all'interesse collettivo, non resta che confidare nella capacità del governo di usare la mano ferma. Non foss'altro che per ragioni di equità: dal momento che il peso del risanamento risulterebbe insopportabile se la severità a cui una parte della società italiana faticosamente si adegua fosse ripagata con la tolleranza verso categorie ancora in grado di mantenere il privilegio con il ricatto.
LA STAMPA, 14.02.1997
BENTORNATA VECCHIA ITALIA
Si sciolga l'epinicio per l'Italietta che espugna il tempio di Eupalla con sommo disdoro degli albionici. Ci hanno anche fischiato l'inno, come mattocchi mediterranei, tradendo indecorosamente il fair play. Ma non importa. L'altra sera su Wembley non aleggiavano le formule del teoreta di Fusignano, ma il pragmatismo insigne di Rocco, Valcareggi, Bearzot, e anche, se non si offende, del grande vecchio di San Zenone Po, Gioannbrerafucarlo. Quindi niente eretismo podistico, niente squadra corta e magari gol presi comicamente in contropiede (gol in contropiede! a noi!). Ma sì invece alla praticità della scuola italiana, codificata nell'imperativo safety first, primo non prenderle. Per chi aveva patito la triste scienza della Zona pura, vedere Dino Baggio piantato ad personam su un frillo inglese dedito al culto del dribbling è stato un autentico regalo degli dei. È stato un salto all'indietro nel tempo, un bagno di gioventù. Mancava Rombo di tuono, dici: ma no, era lì in panchina, come accompagnatore. E mancavano gli eroi di una quarto di secolo fa, il greve ma generoso Chinaglia, la geometria compassata del gran bisiaco Capello. Ma per il resto non mancava niente. Le barricate, i palpiti. Ma da quanto tempo non capitava di anfanare per tutto il secondo tempo implorando il fischio finale, con il cuore strangugliato mentre gli inglesi producevano il loro veemente forcing? (Ottuso anzichenò, il suddetto forcing: epperò ancora una volta, in tempi di cieco pressing imperante, io non ho potuto fare a meno di ammirare lo stile ordinato con cui ripiegavano senza intralciare la rimessa altrui, come se una superiore civiltà gli avesse insegnato che se vuoi vincere devi contare sulle tue forze, non sugli errori indotti fastidiosamente alla difesa avversaria). Eccoli gli italianuzzi di sempre. Ed ecco di nuovo la squadra femmina, che aspetta l'attacco avversario per pararlo e contrarlo. Non si sono fatti neanche ammonire, segno che la praticità qualche volta va d'accordo con la lealtà sportiva. Adesso aspettiamo i cacaminuzzoli, che censureranno la qualità della prova. Hai voglia: perché quando si è visto il lungo lancio di Costacurta, e il controllo aereo dell'omarino sardo, Zola dico, io ho strillato al gol prima ancora del tiro, e non importa se quel prodigio balistico è stato incarognito dalla deviazione del suo marcatore. Io sciolgo il mio canto di vittoria, cara vecchia Italia. Adesso i critici strologheranno se l'abbiamo rubata, ma il vecchio Maldini, con quella tinteggiatura irrealistica sullo scalpo, esibita come una soave impudicizia, opporrà la sua furba balbuzie e la pratica difesa del luogo comune. Saluto anche lui, lo stilista eccelso capace a suo tempo di sovrane ed elegantissime distrazioni. Non si distragga ora, e non imbullisca, perché gli italiani tutto sanno perdonare fuorché il successo. A chi gli dirà che la vittoria di Wembley è stata il risultato di un clamoroso colpo di glutei, risponda citando Napoleone e i generali fortunati. Tanto, domani è un altro giorno, un'altra partita, un altro sogno del bel calcio che fu: e per la sfortuna, o il disculo, c'è sempre tempo.
LA STAMPA, 18.02.1997
PROVA DEL FUOCO A PRIMAVERA
Con il decreto che fissa le elezioni amministrative per il 27 aprile finisce il balletto sul posticipo del voto. Se l'intenzione del Pds, di Forza Italia e dei Popolari era quella di spostare in autunno il confronto elettorale per evitare il riflesso sulla Bicamerale di uno scontro politico acuto, bisogna dire che la firma del ministro degli Interni sembra sintetizzare un'altra sconfitta, dopo l'incidente che ha affondato miserevolmente la legge Rebuffa, del «partito dell'accordo», quello che ha per capi D'Alema e Berlusconi. A prima vista si direbbe che siano state prese le debite precauzioni perché il danno non sia troppo grave: la stessa scelta sul calendario di una data «alta» sembra studiata affinché i risultati del 27 aprile e del successivo ballottaggio lascino poi il tempo perché la Commissione dei Settanta possa cominciare a votare i progetti istituzionali avendo già assimilato l'esito delle amministrative. Eppure una scelta in sé neutra e lineare come il «non rinvio» delle elezioni contiene una quantità di elementi che fanno invece pensare che il gioco si è improvvisamente irrigidito, e che in molti hanno qualcosa da perdere dalla soluzione raggiunta. Perché in questo momento una campagna elettorale è un'incognita, e votare può far male. L'unico che in apparenza ne potrebbe trarre qualche vantaggio è il Pds, che può fare leva su una decorosa prestazione elettorale dei sindaci di centrosinistra, e che comunque grazie alla separazione delle scadenze elettorali vedrebbe ridotto nella portata un eventuale risultato negativo. Ma questo vantaggio politico è più che bilanciato dal fatto che l'intesa istituzionale tra Berlusconi e D'Alema, quella su cui si reggono la Bicamerale e ogni ipotesi riformatrice, viene esposta a una battaglia politica presumibilmente tutt'altro che morbida, con tutte le insidie che ciò comporta. Senza contare che l'approssimarsi del voto tende fisiologicamente a provocare una saldatura del Pds con Rifondazione comunista, aggiungendo ulteriori fattori di disturbo alla solidità e all'equilibrio dell'asse «istituzionale» del Pds con Forza Italia. Nel centrodestra l'effetto negativo delle elezioni può essere anche più appariscente, dato che c'è sicuramente una rilevanza politica di questa consultazione amministrativa, a cui tuttavia il Polo appare largamente impreparato. Se consideriamo le due città più importanti in cui si voterà, Milano e Torino, che avranno anche un sicuro valore simbolico, il centrodestra non ha ancora definito le sue candidature e sembra procedere alla ricerca di soluzioni estemporanee, fra grandi rifiuti e alternative impossibili. Inoltre si potrebbe sospettare che le elezioni del 27 aprile possano diventare anche il laboratorio per sperimentare il futuro del Polo: e soprattutto che questo futuro sia tutt'altro che facile, e che gli esperimenti possano risultare dolorosi. Come minimo, le prossime amministrative mettono Forza Italia di fronte al dilemma di come comportarsi con la Lega: deve inseguirla malgrado l'isolamento dichiarato da Bossi? Oppure mantenere rigorosamente il rapporto con Alleanza nazionale sfidando la possibilità di perdere in tutto il Nord? Sembrava tutto quasi sistemato, l'accordo istituzionale vicino, quello elettorale a portata di mano. E invece ora ricomincia la turbolenza politica. Il 27 aprile comincia quindi ad apparire come la prova del fuoco per la buona volontà riformatrice di D'Alema e Berlusconi. Per vedere qualcosa di positivo occorre quindi ricorrere al principio della necessità trasformata in virtù: se la loro intesa reggerà ai numerosi imprevisti della campagna elettorale, vorrà dire che era di qualità superiore alle previsioni.
LA STAMPA, 20.02.1997, TUTTOLIBRI
DA BERLINGUER A D’ALEMA IL PDS FUORI DAL GUADO
Che ci sia una continua inclinazione del Pds a rivedere la propria storia è noto da tempo. Qualche mese fa Luciano Violante ha aperto il fuoco contro il compromesso storico, definendolo «errore necessario»; poi Massimo D'Alema ha impegnato il suo peso politico per cominciare una certa opera di revisionismo sulla figura di Craxi. Mentre il partito si approssimava all'appuntamento del congresso, sono apparsi due volumi incentrati su una riflessione che prende in considerazione il periodo dal 1976 a oggi. Il saggio di Alberto Asor Rosa, La sinistra alla prova, nasce da una considerazione piuttosto classica, secondo cui la politica italiana è stata plasmata dal confronto politico fra cattolici e comunisti, e dalla configurazione che questo confronto ha assunto storicamente. Poste queste premesse, non stupisce che lungo il volume si dispieghi un giudizio largamente positivo su Aldo Moro, «il più illuminato e innovatore dei dirigenti democristiani», dotato di «senso strategico, visione d'insieme dei problemi, preoccupazione reale per i destini della nazione e dello Stato». L'incontro fra Moro e Berlinguer e la nascita della solidarietà nazionale costituiscono in questo senso una delle risposte possibili dopo le elezioni del 1976, in cui si erano avuti «due vincitori». Entrambi pensavano che in caso di nuove elezioni si sarebbe osservato un nuovo rafforzamento della Dc come anche del Pci, che avrebbe potuto produrre una situazione caratterizzata dalla possibilità di veto reciproco fra i due partiti. La scelta è la grande coalizione: «tutti gli sforzi dei due uomini politici convergono nel tentare di canalizzare dentro uno schema perfettamente non-bipolare la crescente, obbiettiva polarizzazione del paese». Secondo Asor Rosa il compromesso storico e la sua realizzazione politica, cioè i governi con la partecipazione del Pci, rappresentano l'ultimo momento in cui la politica del nostro paese mantiene una qualità adeguata alla durezza dei problemi. Con l'inizio dei «terribili» anni Ottanta comincia una fase che a suo giudizio rappresenta «la lunga, estenuante, sconvolgente, catastrofica» discesa agli inferi della Repubblica; quindi non l'avvio di un nuovo ciclo, ma la drammatica consumazione della Prima Repubblica, che con la cooptazione dei comunisti nell'area di governo aveva esaurito l'ultima risorsa disponibile. Dopo, occorre fare i conti con il Psi di Craxi, sottoposti a una «mutazione morfogenetica». Asor Rosa dipinge un ritratto del segretario socialista come di un uomo politico di grande intelligenza («non so se si possa parlare di genio») che usa tutte le sue risorse per scardinare le convenzioni politiche che reggevano la politica italiana, a partire dal rapporto di conflitto/confronto fra Dc e Pci. Non c'è un Craxi buono e un Craxi cattivo. C'è invece un uomo politico che per aprire uno spazio di sopravvivenza al suo partito lo colloca in una posizione fortemente anticomunista, con una polemica costante e aspra, e nello stesso tempo comincia ad approfittare della collaborazione governativa con la Dc per conquistarsi segmenti di potere, strappandoli al controllo dell'alleato. È in quel momento che comincia l'autoriflessine del Pci, almeno dal punto di vista culturale: viene posto sul tappeto il problema «se si potesse conseguire un livello più alto di efficienza e di funzionamento del governo, non contraendo ma allargando la base della democrazia». Cioè la cultura del Pci, soprattutto attraverso le esperienze delle riviste Laboratorio politico e Stato e mercato, si prepara all'appuntamento con il governo. Obiettivo che per essere raggiunto implica la trasformazione del Pci gestita da Occhetto, il passaggio attraverso il fuoco del fallimento catastrofico della politica italiana, e la sconfitta disastrosa del Pds e dei suoi alleati contro la nuova alleanza di destra, su cui si spostano «circa due terzi dei voti Dc e la quasi totalità dei voti socialisti... Craxi dimostra di avere ben lavorato per la destra profonda italiana». Al termine di questo tragitto non di rado drammatico, la sinistra italiana è una «sinistra tricipite», composta dal Pds, da Rifondazione comunista e dal sindacato. È la fine dell'unità, oppure l'inizio di un intreccio di relazioni necessariamente, attraverso il quale si riflettono politicamente i nuovi problemi? Potrebbe essere questa la domanda di fondo a cui offre una risposta il saggio di Giuseppe Vacca Vent'anni dopo. Ma la risposta di Vacca non è espressa attraverso la «narrazione storica» di Asor Rosa, bensì con un'analisi di sistema. Vacca osserva una crisi, cominciata negli anni Settanta, in cui i soggetti della sinistra «non vedono» la crisi dello Stato sociale. Questa incapacità di registrare la morfologia della crisi induce la sinistra a una interpretazione della crisi come crisi dello sviluppo capitalistico. E ciò è all'origine anche dell'incomprensione rispetto all'ondata neoliberista. La sinistra vede infatti nel neoliberismo «un oscuro disegno reazionario», senza coglierne gli aspetti di dinamismo economico e sociale. Sotto questo profilo, il giudizio di Vacca è tagliente: «Del complesso scenario degli anni Ottanta, fino all'86-87 il Pci non colse gli elementi essenziali» giungendo sempre un momento dopo l'evoluzione della realtà. Dietro i ritardi della sinistra, insomma, c'è quasi sempre un elemento di politicismo che tradisce l'analisi, e quindi l'azione nella realtà. Anche il compromesso storico, a ripensarci, era uno strumento del passato per tentare di reagire a una trasformazione sociale inedita.
LA STAMPA, 06.03.1997
IL QUIRINALE ALLA FRANCESE
È davvero eccezionale, l'iniziativa con cui il presidente della Repubblica ha convocato al Quirinale il governo per essere informato sul problema della disoccupazione e sulle misure che sono in programma per contrastarla. Proprio per la sua eccezionalità deve essere valutata con attenzione. Perché il primo impulso è di reagire sottolineandone alcuni aspetti «politici» che appaiono criticabili in quanto tali. La questione del lavoro, infatti, non è esplosa all'improvviso: era complicata ieri e sarà un rompicapo domani e anche negli anni venturi; proprio per questo diventa automatico valutare l'improvviso intervento del capo dello Stato in riferimento non tanto al problema in sé quanto alla situazione politica di questi giorni, turbata da minacce di instabilità e da conflitti all'interno della maggioranza che possono preludere a una crisi. Sotto questo profilo, è tutto da vedere in realtà se l'iniziativa di Scalfaro avrà effetti positivi o negativi sull'esecutivo e sulla maggioranza che lo sostiene. Può essere considerata una mano tesa, se otterrà lo scopo di limitare la conflittualità con Rifondazione comunista nella prospettiva di varare più rapidamente misure di superiore interesse sociale. Ma nello stesso tempo può anche essere giudicata come un gesto che sottolinea l'inerzia del governo, e che intende ricondurre la sua azione verso un obiettivo primario, colpevolmente trascurato in questi mesi. Tuttavia che a destra si protesti e a sinistra si approvi illustra piuttosto efficacemente il carattere inevitabilmente politico dell'operato di Scalfaro. Il Polo ha considerato l'iniziativa presidenziale come un intervento a favore del governo, e ha scatenato un'aspra polemica. Il centrosinistra ha visto nelle preoccupazioni presidenziali l'occasione per trovare un minimo comune denominatore nella coalizione, e ha applaudito. Certo, Scalfaro può essere stato mosso da ragioni anche estranee alla dialettica politica: nella sua funzione costituzionale di garante dell'unità nazionale il presidente della Repubblica può avere considerato che il drammatico divario nei tassi ufficiali di occupazione del Mezzogiorno rappresenti di per sé una ferita alla compattezza della collettività, una lacerazione inferta al principio di una cittadinanza «fondata sul lavoro». E in questo senso le recenti manifestazioni dei disoccupati a Napoli e a Messina possono avere rafforzato questa convinzione. Ma se questo è vero, non è lo Scalfaro «politico» che va criticato. Di fronte a un'emergenza infatti sarebbe stato in primo luogo più opportuno non limitarsi a coinvolgere il governo, come se si trattasse soltanto di predisporre gli strumenti tecnici, come la decretazione d'urgenza, per rendere più efficiente una gestione politica. Se l'occupazione è un'emergenza nazionale, e su questo non dovrebbero esserci dubbi, allora sarebbe stato il caso di coinvolgere l'intero Parlamento, con lo strumento costituzionale del messaggio alle Camere. Altrimenti da un lato è inevitabile che anche le più nobili intenzioni vengano decodificate e interpretate in chiave politica. E dall'altro non sfugge a nessuno che questo rinnovato interventismo del capo dello Stato ha una curiosa ma perfettamente percepibile sfumatura «francese», vale a dire semipresidenzialista. Ma non è detto, anzi è fuori discussione, che quanto è prerogativa di Chirac lo sia anche di Scalfaro. Almeno per ora, la nostra è ancora una Repubblica parlamentare. Il presidente della Repubblica non ha un «suo» governo di cui è tutore o controllore. Non è proprio il caso di censurare il capo dello Stato per leso parlamentarismo. Tuttavia occorre segnalare che anche quest'ultimo caso mette in rilievo una sostanziale, anche se lenta e neppure deliberata, «deriva» presidenzialista. Ciò significa che nell'incertezza politica che si è verificata in questi ultimi anni, e nella debolezza costante dei governi, il ruolo del presidente della Repubblica si è amplificato, ha preso a occupare spazi istituzionali nuovi, a esercitare supplenze. Di volta in volta, Scalfaro si è autonominato garante di Berlusconi rispetto alla condizione di proprietario televisivo, ha gestito con indubbia abilità la fase del ribaltone, è stato il regista del governo Dini. Oggi interviene sul lavoro, cioè su uno degli aspetti qualificanti di qualsiasi programma di governo. Dire che la sua è un'azione è politica significa allora non cogliere l'entità del problema. Che non è la coloritura di Scalfaro come uomo politico mascherato, ma la necessità di ridare a ciascuno il suo: cioè ridisegnare le istituzioni per trovare un equilibrio riconoscibile fra i poteri dello Stato.
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