L’Espresso
L'Espresso, 15/01/2009
Malinconia da detective
Non è affatto una novità, perché "Siska" va in onda da sei stagioni, ma adesso che la serie è ricominciata su Rete4 (due episodi la domenica sera, prima serata) occorre creare gruppi di ascolto e di fan per questa fiction che deve battersi a mani nude contro la serata calcistica. E allora bisogna dirlo subito: come Derrick, come Köster, e come l'indimenticabile Matula di "Un caso per due" (meglio in tedesco: "Ein Fall für Zwei"), anche il commissario Siska possiede il fascino ineguagliabile e abietto dei telefilm polizieschi tedeschi. Innanzitutto è ambientato a Monaco di Baviera, città meridionale e insensibilmente corrotta, ma per apprezzare la serie bisogna soffermarsi sui particolari: quelle case in cui l'arredamento nuovo sembra incorporare il vecchio, quelle piscine con le foglie nell'acqua, quel senso di degrado autenticamente tedesco, in cui tutto sembra sfumare pericolosamente verso l'autunno, la nostalgia, il disfacimento, la voglia di Mediterraneo, tra famiglie sfasciate, vecchi forse pedofili, conviventi non sbarbati, figli banalmente degenerati. E gli attori, meravigliosi. Perché la Germania, anzi, Crande Cermania, è un paese civile, che evidentemente sostiene il teatro con contratti televisivi agli attori di prosa, i quali inevitabilmente sono tutti sulla via della maturità, tanto da avere un'aria inconfondibile e vissuta, come vicini di casa in disarmo: gli uomini leggermente consumati, le donne con le borse sotto gli occhi, e nessun segno di lifting. Tanto che perfino il crimine, in quelle storie, sembra connaturato alla routine di quella fiacca quotidianità. E quando il commissario prende il colpevole, un po' dispiace.
L'Espresso, 08/01/2009
Serve un tiro mancino
Probabilmente è vero che per la sinistra l'imperativo è "ripartire da Obama". Ma si tratta di capire quale Obama. Perché è vero che il presidente eletto è un simbolo, anche emozionante, dell'apertura multiculturale, e la dimostrazione della infinita capacità innovativa di un'intera società. Ma oggi la sinistra non può limitarsi ad agitare le passioni. Ossia la sfera dei diritti, l'inclusività, la tolleranza, la laicità, il rispetto per le culture altre. Siamo davanti al vecchio ma infallibile discorso di Albert Hirschman, il più strenuo ideologo novecentesco del possibilismo riformista: c'è un tempo per le passioni e un tempo per gli interessi. Talvolta le due dimensioni dell'agire politico si intersecano, talora l'una prende il sopravvento sull'altra. Adesso si tratta in primo luogo di mettere a fuoco gli interessi, ossia cercare le ragioni profonde della crisi economica che il mondo comincia con grandissima fatica a fronteggiare, per creare i fondamenti di una risposta politica. A quel punto verrà il tempo delle passioni. Intanto, occorre far sapere che la destra non ha argomenti. Naviga a vista, investita dalle ondate di burrasca che ha creato. È il "pensiero unico" che ha creato il mostro. È la versione euforicamente estremista del liberismo che ha combinato il pasticcio. Perché la recessione, o la depressione, contemporanea è stata innescata proprio dal pensiero filosofico, e dai conseguenti programmi economici, della destra. Tutto è cominciato con l'offensiva neoconservatrice ai tempi della campagna per Ronald Reagan, allorché i grandi centri culturali della destra americana elaborarono il programma di fondo del mondo nuovo: il cui pilastro era che le differenze sociali non costituivano un male in sé. Le grandi ricchezze, in questa visione panglossiana, "sgocciolano" verso il basso (l'effetto "trickle down"), creando investimenti e benessere diffuso. Quindi, tagliare le tasse, favorire l'offerta economica e i consumi, evitare la redistribuzione, opporsi a qualsiasi programma "socialista", confidare nella capacità equilibratrice del mercato: ecco il programma su cui si sono impegnati Reagan e Margaret Thatcher, e che ha dettato l'agenda politica dei governi anche europei per un trentennio. Già, ma bisognava sapere che il crescere della disuguaglianza avrebbe provocato l'incepparsi dell'economia. Senza poter distribuire reddito con l'intervento statale (o con l'inflazione, o con il debito pubblico), la domanda aggregata, in termini keynesiani, cede. L'economia si blocca. Quel gran genio di Keynes lo aveva detto ottant'anni fa. E allora che cosa si è fatto? Si sono fatti indebitare i ceti medie medio-bassi, sostenendo i consumi con i mutui "subprime", il credito facile, gli acquisti a rate, le carte di credito "revolving". Poiché con l'andare del tempo l'indebitamento complessivo diventava preoccupante, l'hanno cartolarizzato e proiettato nel circuito finanziario mondiale: quando qualcuno, sadicamente, ha bucato per prova i "salsicciotti", cioè i prodotti finanziari tossici, è cominciata a venire giù pioggia acida. Questa ricostruzione sarà semplificatoria, ma è utile per smontare l'idea che la crisi attuale sia soltanto un problema tecnico, derivante dall'assenza di regole e dalla spregiudicatezza dei centri finanziari. E soprattutto serve per dire che la sinistra europea deve avere chiaro qual è l'orizzonte economico in cui si trova e i compiti che ha davanti. Ovvero: fare una diagnosi realistica della fase depressiva e rilanciare una proposta che contenga, bene in vista, un profilo di società desiderabile alternativo a quello della destra. E allora: qual è questo profilo di società desiderabile? Quali sono i fondamenti di una realtà economico-sociale a cui la sinistra deve rifarsi? Sotto questa luce, la tradizione culturale può aiutare; rifarsi al passato ha un senso. Perché la vicenda europea, negli anni del suo massimo sviluppo, si è modellata sul cosiddetto "modello renano" (così definito da Michel Albert agli inizi degli anni Novanta), cioè l'economia sociale di mercato, nata in Germania ma diffusasi con varianti nazionali specifiche in tutta Europa. Codificata culturalmente dagli "ordoliberali" di Friburgo, applicata dai cristiano-democratici Adenauer e Erhard in Germania, ma accettata e reinterpretata dai sinistra dai socialdemocratici tedeschi nel programma di Bad Godesberg, l'economia sociale di mercato intreccia mercato e welfare in modo flessibile. Oggi c'è la necessità di adeguare i sistemi di protezione sociale alle nuove necessità determinate dall'evolversi del mercato: ma nello stesso tempo una sinistra che abbia qualcosa da dire, e voglia fare qualcosa, deve porsi il problema di rivolgersi alle società contemporanee con una sua formula politica. Altrimenti si arrocca a difesa di modelli già al tramonto, colpiti ineluttabilmente dalla globalizzazione, oppure insegue faticosamente i vecchi modelli della destra neoconservatrice, senza accorgersi che il paradigma è cambiato. Per ciò che riguarda l'Italia, il problema politico-culturale della sinistra è di arrivare a una sintesi, che i tempi ristretti della fondazione del Partito democratico non hanno reso ancora possibile. Il Pd ha tante idee e tanti filoni culturali ma non un mainstream, una prospettiva centrale. E nello stesso tempo torna a essere rilevante il rapporto con la sinistra alternativa. Il sacrificio del 13-14 aprile 2008 è risultato cruento. Ma non sarebbe intelligente ignorare la realtà delle sinistre escluse dal Parlamento. Possono essere lasciate alla loro esistenza marginale, a inseguire le utopie della "decrescita", o il ritorno all'artigianato, indicato come soluzione da Richard Sennett (l'autore di "L'uomo flessibile", un fortunato saggio sugli effetti della grande liberalizzazione, che ora descrive le potenzialità del saper fare in "L'uomo artigiano", un affascinante libro da poco tradotto da Feltrinelli); oppure possono essere di nuovo riportate, le sinistre alternative, a misurarsi con la sfida del governo dei processi socio- economici contemporanei. Questo è un tema essenziale, altro che l'arcaica frattura, continuamente riesumata, tra riformisti e massimalisti. Come disse una volta Fausto Bertinotti: «Una vecchia battuta dice che in Italia fra riformisti e rivoluzionari non c'è una grande differenza, perché gli uni non fanno le riforme e gli altri non fanno la rivoluzione». Ecco, si tratta di uscire da questo circolo vizioso, e cominciare a rivolgere all'opinione pubblica il messaggio che il paese va riformato, rimesso in efficienza, riportato alla decenza, e ancora una volta il centrosinistra può farlo, risultando credibile come nel 1996, allorché la proposta di modernizzazione attenta alle compatibilità sociali ebbe successo e fu perfettamente capita dall'elettorato. Altrimenti si vedrà all'opera la "modernizzazione conservatrice" del Pdl, un intreccio di illusionismi nostalgici (il grembiule, la maestra unica, magari il presepio, le mezze stagioni, "una volta qui era tutta campagna", Dio-Patria-Famiglia) e di tagli efferati alle strutture pubbliche. Oppure il tentativo di modernizzare il paese cominciando dalla coda, ora partendo dall'articolo 18, ora colpendo i presunti "fannulloni" nell'impiego pubblico, quando in realtà si tratta di rimettere in sesto le infrastrutture essenziali (ferrovie, poste, strade, ponti, scuole, ospedali) e di far funzionare i servizi immettendo nella pubblica amministrazione una ragionevole ed efficace catena di responsabilità. In sostanza, non è vero che destra e sinistra sono uguali e indistinguibili. La destra ha una essenziale capacità mimetica, per cui fino all'altro ieri era fatta soltanto di liberisti spinti, mentre oggi è affollata di protezionisti altrettanto convinti. Quindi occorre essere capaci di differenziarsi, senza perdere di vista la realtà in cui il nostro paese è inserito, ma recuperando e ripensando i criteri e i valori fra cui siamo cresciuti, economicamente e socialmente, con modalità adeguate alla trasformazione che ci coinvolge. Si tratta di usare i parametri del mercato e della concorrenza per favorire una società più giusta, meno castale rispetto a quella dell'Italia di oggi, favorendo la mobilità sociale. Certo non è un compito facile, ma per la sinistra italiana c'è molto tempo davanti, e quindi la possibilità di ripensare i propri programmi e di rendersi credibile prima come opposizione e poi come progetto alternativo di governo.
L'Espresso, 08/01/2009
SEGRETI DI ADOLESCENTI
Chi va a caccia di serial di qualità non dovrebbe perdere la nuova tranche di episodi di "Mad Men", che con i primi 12 episodi ha segnato una tappa importante nella televisione di intrattenimento, con la sua ricostruzione degli anni Sessanta e del mondo della pubblicità. Ne riparleremo. Nel frattempo, ci si può consolare con "La vita segreta di una teenager americana", scritta e prodotta da Brenda Hampton, 11 episodi in onda sul canale satellitare Fox dalla fine di ottobre. La serie racconta le vicende di una ragazza di 15 anni, Amy, che si ritrova incinta e non vuole rivelare chi sia il padre (mentre i telespettatori vengono adeguatamente informati). I più esperti di telefilm ricorderanno forse la matrice di questi telefilm generazionali: si tratta di "Beverly Hills 90210", dove le storie di ogni episodio mettevano al centro un problema sociale o culturale (la droga, l'onestà, il rapporto padri e figli). Anche in questo "La vita segreta di una teenager americana" la trama fa sempre emergere piccoli spaccati comportamentali dell'America contemporanea. E forse un segnale del successo e della capacità di coinvolgimento della serie è dato da un certo numero di blog che sono stati costituiti per discutere gli episodi. La povera Amy si metterà insieme con l'autore del misfatto, o la loro storia resterà soltanto quella di una notte "speciale" al campo estivo, come ha confessato proprio lui, Ricky? Le teenager di casa nostra non hanno dubbi: «Spero di no, perché mi sembra un gran bastardo», scrivono nei loro post. E questo ci dice che un bel po' di America, e non soltanto l'America della fiction, è arrivata fin qui, come sempre.
L'Espresso, 10.09.2009
David il genio
Abbiamo parlato diverse volte dello show di David Letterman, abbandonato dalla Rai e ripescato ora da Sky Uno. Quindi rischiamo di ripeterci. Ma dopo l'esibizione di Paul McCartney, "inventata" da Letterman alla sua maniera, c'era da restare davvero ammirati. E quindi eccoci qua, di nuovo, alle prese con l'eterno Letterman. Il "Late Show" va in onda dallo studio che fu di Ed Sullivan, dove più di quarant'anni fa i Beatles esordirono in America. Letterman non si è accontentato di ospitare McCartney, ma lo ha indotto gentilmente a esibirsi con la sua band dalla terrazza dello studio. Nella strada sotto si erano radunate nel frattempo centinaia di persone, come era avvenuto in una delle ultime storiche performance londinesi dei Beatles. Ecco quindi il genio di Letterman. Si prende un protagonista e lo si consegna al pubblico, per vedere l'effetto che fa. Paul McCartney non è un talento della comunicazione, e si è limitato a cantare due canzoni. Una era "Get Back", un celeberrimo rocchettino dei Beatles; l'altra una mediocre canzone della sua successiva carriera, lunga e spesso trascurabile. Ma il punto è la costruzione dello spettacolo, quella combinazione di improvvisazione finta e di preparazione vera in cui Letterman è un maestro. Tale quindi da far perdonare un certo appannamento, di recente, nelle battute, una qualche ripetitività nell'umorismo della "Top Ten List". Più invecchia e più Letterman diventa situazionista. Forse non c'è un altro show televisivo al mondo in cui avviene ciò che avviene al Late Show. Lo si può guardare anche per caso, senza impegno, se capita: sapendo che comunque qualcosa succederà.
L'Espresso, 30/12/2008
I pornoscemi
Mentre il ciglio comincia a pesare, in certe ore della tarda serata, può capitare che il pollice si fermi su programmi come "Sos Patata" o "69 cose sexy da fare prima di morire". E allora io sarò stato colto da un attacco di bacchettonismo, ma devo dire che quando sento le voci di quelle di "Sos Patata", doppiate come deficienti, che strillano e squittiscono, ho la tentazione di rinunciare al sesso, anche quello immaginario, per le prossime stagioni. Quanto alle 69 cose che sarebbero da fare prima di morire, a parte l'esprit de finesse del titolo, e facendo i dovuti scongiuri, l'imbarazzo aumenta. Perché con "Sos Patata" la faccenda si risolve semplicemente con un tocco sul telecomando, mentre le patate squittiscono. Ma se vi capita di restare qualche istante sulle 69 cose, qui l'affare si complica, perché cominciano a passare scene dove dei belloni fanno grugniti con delle bellone, simulano quelle cose lì, oppure le più light le fanno davvero, boh. E allora, noi dovremmo sapere che la pornografia è una cosa onesta: uno vuole vedere sesso, e lo guarda. Fatti suoi. Ma il sesso contingentato della tv satellitare è una ciofeca di quelle burine, un soft porno piuttosto deprimente. E ci si chiede: ma li guarderà qualcuno, questi programmi? E perché? Insomma, perché ci dovrebbero essere telespettatori che invece di spararsi un dvd porno di quelli tosti, o almeno accedere alla parte "hot" di Sky, dovrebbero guardarsi queste versioni edulcorate e sceme? La risposta, naturalmente, non c'è. Personalmente, quando incrocio questi programmi, all'improvviso mi viene voglia di una fiction sui papi.
L'Espresso, 23/12/2008
Silvio in stile Perón
Bisognerà pur cercare di capire il misterioso progetto di Silvio Berlusconi per l'Italia. Dunque: da una parte si registra un comportamento mediocre rispetto alla crisi economica, senza misure significative. Anzi, si ha l'impressione che per diverso tempo il capo del Pdl non abbia messo a fuoco la gravità della recessione, forse contando che la provincia italiana potesse essere risparmiata dai disastri del capitalismo americano. E già questo potrebbe essere il segnale notevole di una cultura invecchiata, che non sa a registrare la complessità dell'economia contemporanea, nella quale è vero, come nelle teorie matematiche del caos, che un battito d'ali di farfalla a Los Angeles può provocare un uragano a Miami, e uno shock bancario a New York può investire anche Unicredit e altre banche italiane. Sta di fatto che i provvedimenti assunti dal governo appaiono modesti, spesso più di facciata che di sostanza (come l'orrenda social card), e comunque gravemente inadeguati se, come sembra, la crisi dovesse inasprirsi nella primavera prossima. Non dimentichiamo che il governo ha esordito con la misura epocale della detassazione parziale degli straordinari, mentre già si profilava, a saper guardare la realtà, l'esplosione della cassa integrazione: formidabile capacità di previsione, come accade sempre con la destra. Invece, nello stesso tempo, Berlusconi appare lanciatissimo nella sua specialità preferita, ossia l'attacco alla Costituzione, in particolare per ciò che attiene alla giustizia. Ora, la giustizia nel nostro paese è un sistema sfasciato. Per rimetterla in sesto occorrerebbero probabilmente non tanto campagne contro l'obbligatorietà dell'azione penale e per la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, che contengono sempre il sospetto della volontà di vincolare i procuratori all'autorità politica, bensì riforme di funzionamento, tali da restituire efficacia alle procure e ai tribunali. È sempre il solito discorso: le riforme e le misure predisposte da qualsiasi governo resteranno lettera morta se non si innesteranno sulla ricostruzione di una linea di comando e di responsabilità. Ma evidentemente Berlusconi e i suoi ministri sono poco preoccupati dei funzionamenti reali. Altrimenti, mentre si festeggia l'esordio dell'alta velocità fra Milano e Bologna, si accorgerebbero delle enormi possibilità di miglioramento (diciamo così) del traffico ferroviario fuori dal binario futuribile dei supertreni. Dunque, Berlusconi è il capo di un governo ideologico, dove alcuni ministri inseguono le loro ubbie, altri evocano ogni due per tre le loro posizioni accademiche, e fra poco si assisterà a nuove invenzioni: dopo le solite brillantissime trovate sull'età pensionabile di uomini e donne, a quando il grande ritorno sul tema dell'articolo 18? Gli astratti furori del governo sembrano ignorare che anche nelle regioni più ricche e produttive nelle aziende si sta procedendo al taglio dei precari e degli interinali, mentre la cassa integrazione raggiunge volumi impressionanti. Mentre lo scenario diventa allarmante, Berlusconi sembra quindi in bilico fra il minimalismo andreottiano e una vocazione peronista. Ma quale sia il suo disegno vero, nessuno lo sa. Non c'è più il catalogo con «le nostre ricette», il liberismo dei primordi, l'adorazione di Reagan e della Thatcher, il "meno tasse per tutti". A guardare le cose con freddezza, si sa che le crisi possono essere utilizzate per intervenire sulla struttura di un sistema-paese: l'allarme sociale e l'inquietudine economica rendono possibili quelle riforme che in tempi normali sono rese impervie dalla mediazione politica. Niente di tutto questo. Nonostante il lodo Alfano, Berlusconi espone le reliquie del programma che fu, per ridimensionare i giudici, e su un altro piano per dividere il sindacato. Altro che governo "pro labour", come dicono i ministri "socialisti" del Pdl. Siamo davanti all'unione mistica fra la mediocrità governativa e la violenza antistituzionale. Ma allora, se vi piace, que viva Silvio Giulio Perón Berlusconi!
L'Espresso, 23/12/2008
A scuola da Bertolino
La domenica sera, sul tardi, chi intercetta su Raitre "Glob - L'osceno del villaggio", potrebbe avere qualche sorpresa. In primo luogo perché il programma è piuttosto indefinibile: non si capisce bene se è un talk show o semplicemente uno show. Ma ultimamente gli ospiti sono azzeccati, di solito non sono quelli stravisti in tv, e offrono l'occasione di qualche curiosità. Che so, Massimo Fini che divulga il suo pensiero antimoderno. Ma "Glob" offre anche l'opportunità di una valutazione complessiva sul conduttore, Enrico Bertolino. Ebbene, Bertolino è un bravo intrattenitore. Aveva alcuni vizietti, come abusare del parolacciarismo, un metodo che consente di risolvere comunque una sequenza umoristica quando non viene la battuta buona. Ma adesso sta affinando il mestiere. Ha sempre quell'aspetto più da funzionario o da manager milanese che non da comico, tuttavia introduce nella televisione italiana una tonalità rassicurante: vale a dire l'idea che la tv non è soltanto un dominio del romanesco. Bertolino è settentrionale, di nascita e formazione milanese, e insieme a Claudio Bisio, Aldo Giovanni e Giacomo e a non troppi altri è uno degli ultimi eredi di quella cultura che a Milano riuscì fra gli anni Cinquanta e i Sessanta a intrecciare lo spirito della capitale del Nord con un sentimento nazionale. Lo si vede nei dialoghi (ad esempio con Lucia Vasini, dove mima un maschilismo di notevole efficacia). Infila sempre qualche parola hard di troppo, ma adesso la qualifica come slang di ambienti e "culture" precise, depotenziando l'eventuale volgarità. Non sarà mai un "prodotto" di massa, Bertolino; ma un buon intrattenitore, accidenti, sì.
L'Espresso, 18/12/2008
Commissario per il PD
Il marasma in cui è precipitato il Pd è dovuto a varie ragioni, e la più seria deriva dalle ondate di sofferenza politica provenienti dalla sconfitta del 13-14 aprile, nonché dall'andamento schizofrenico del "dialogo" con Silvio Berlusconi, che prima ha attirato Walter Veltroni in campo aperto, e poi lo ha colpito a freddo. Ma è anche chiaro che nel Pd le linee di contrasto interno sono numerose. Innanzitutto c'è un'incertezza sulla strategia generale del partito: la problematica alleanza con il partito giustizialista di Antonio Di Pietro è stata data per sciolta un giorno sì e l'altro pure, ma agli annunci non sono seguiti i fatti, e l'ex pm trova continue occasioni per esercitare una concorrenza vistosa verso il Pd. Nel quale in prospettiva si profilano almeno due ipotesi, se non proprio due progetti. Da un lato si vede la scia del progetto veltroniano fondato sulla «vocazione maggioritaria», che vede nel partito un potenziale di consenso ancora inesplorato, e quindi lo considera in grado di candidarsi a governare la nuova modernizzazione del paese, alleandosi eventualmente soltanto «con chi ci sta», cioè condivide il programma generale del Pd. Questa sarebbe la direttrice ufficiale. Ma su un altro lato, quasi mai dichiarato ufficialmente, serpeggia l'idea che il Pd è, crocianamente, un "ircocervo", cioè una chimera, un ibrido; e dunque occorre favorire la nascita di un'alleanza al centro, con l'Udc, e di un'altra a sinistra, con i partiti residui della Sinistra Arcobaleno. Se poi questa strategia dovesse portare alla disgregazione del Pd, con i centristi da una parte e gli ex comunisti dall'altra, niente paura: si riesuma il politicissimo "centro-sinistra con il trattino", con tanti saluti al partito nuovo e il ritorno alla rassicurante coalizione tra realtà diverse, senza ubbíe uliviste o "democrat". Quest'ultima scelta, modellata su schemi di realismo politico assoluto, sarebbe il riconoscimento che contro la destra attuale il Pd non ha chance, e quindi deve cambiare schema di gioco. Se poi si aggiunge che negli ultimi giorni si sono susseguite dichiarazioni di esponenti "nordisti" come Sergio Chiamparino, Filippo Penati e Massimo Cacciari, i quali hanno riaperto la questione territoriale, rilanciando l'ipotesi del Partito del Nord (il sindaco di Torino alludendo anche a possibili evoluzioni nel rapporto con la Lega), ci si accorge che il Pd in questo momento è un partito davvero ipotetico: si alimenta di ipotesi conflittuali, senza che risulti chiara, e sottoscritta dagli organi dirigenti, un'idea complessiva. Mettiamoci sopra, come suggello terminale, la crisi territoriale, con l'emergere di una questione di legalità che coinvolge diverse amministrazioni locali (vedi il numero scorso de "L'espresso"), e non manca nulla alla constatazione di una piena emergenza. Con l'aggravante che l'emergenza non è riconosciuta; anzi, lo sforzo principale dei dirigenti consiste nel negare, ridimensionare, sottacere: insomma, il troncare e sopire di manzoniana memoria, che tuttavia non può occultare la profonda sfiducia che si è impadronita del partito, e il senso di delusione negli eletti, di frustrazione nella base e di disarmo morale nell'opinione pubblica vicina al riformismo del centrosinistra. Basta sommare tutti gli elementi appena ricordati, e l'incapacità di svolgere un'opposizione convincente al governo di Silvio Berlusconi, modestissimo e gravemente insufficiente rispetto alla crisi, per rendersi conto che il Pd è in emergenza: anzi, oltre l'emergenza. E allora, se ci si trova in una condizione eccezionale, non serve a nulla far finta di niente, e pensare di risolvere i problemi con negoziati e accordicchi interni. A condizione eccezionale, soluzioni eccezionali. Non i coordinamenti, le riunioni burocratiche, le procedure standard. Ci vuole qualcosa di solenne, che mostri alla società italiana la percezione esatta di un problema straordinario. Occorre la mobilitazione di tutte le risorse personali, parlamentari e locali, per procedere a un esame della situazione fuori dai criteri ordinari e a uno "stringiamci a coorte", proprio in senso patriottico, dei principali dirigenti. Ci sono severe opposizioni a un'ipotesi del genere. Il rischio evocato è quello di un sostanziale commissariamento del Pd. Ma che dire? Meglio un commissariamento di fatto che una unità formale e fittizia, il retorico "nessuno tocchi Veltroni", il patteggiamento fra le correnti alle spalle del segretario. Il Pd rischia l'asfissia da consenso domestico. Ma se la piaga rischia di essere cancrenosa, meglio, molto meglio allora il medico impietoso.
L'Espresso, 18/12/2008
sono il gassman dei poveri
Christian De Sica è il caciarone, il coatto di lusso, e volendo anche il perfetto "cazzone" da film di Natale, con la risata alta come un nitrito; il quale all'improvviso si è trasformato in un ex giovin signore, colto e arguto: in pratica un miracolo. O meglio, il risultato di un libro strepitoso, "Figlio di papà" (Mondadori), che riscatta un'esistenza e una carriera, se c'era bisogno di riscattarle. Perché a conoscerlo, Christian, non sembra proprio il personaggio dei suoi film, un cesellatore del "vaffanculo" che chiude le sequenze. Piuttosto, De Sica gigioneggia con l'età: come perdonargli di avere scritto «Sono un bel vecchio»? Figurarsi, a 57 anni. Civetterie che giocano con i narcisismi venuti giù dai rami della famiglia: «Ma no, il fatto è che io sono figlio di un vecchio; mio padre aveva cinquant'anni quando sono nato. A me non piace affatto invecchiare: i vecchi sono tutti nevrotici, ossessionati da qualcosa. E io quando mi guardo allo specchio, vedo i danni dell'età e rabbrividisco: i peli che diventano bianchi, il sedere schiacciato...». Cielo, il dramma della "culotte de cheval". «Ahi, non mi faccia fare la figura di quello che passa il tempo a contemplarsi il profilo. La vecchiaia mi piace così poco che sono anche convinto che l'esperienza non serva a niente. Serve a diventare disincantati, cioè a perdere entusiasmo. Per dire, mio figlio Brando arriva tutto eccitato e dice: con i miei amici abbiamo trovato a Trastevere un ristorante pazzesco, sembra di essere nella Roma del Medioevo; e io che conosco Meo Patacca da quasi mezzo secolo, rispondo "Fantastico, dimmi dov'è". Perché bisogna lasciarsi meravigliare, altrimenti che gusto c'è?». D'altra parte è un dono di famiglia quello di far convivere l'affetto e l'umanità con il cinismo cinematografaro: «Ma io ho cercato di vivere rispettando me stesso; ho provato a essere il più libero possibile, anche se questo viene visto male, e allora si è costretti a fingere. E invece occorre trovare una sfera di relazioni in cui si è autentici». La famiglia, per esempio, o le famiglie: perché se Vittorio De Sica ha condotto un'esistenza vicina alla schizofrenia, da bigamo perfetto, Christian è un punto di riferimento per una famigliona estesissima. Fratelli, sorelle, amici, amiche. Amanti? Nel libro c'è l'episodio di quando la madre, Maria Mercader, si confida con Cesare Zavattini perché teme che Christian e Isabella Rossellini siano troppo innamorati e abusino della loro vitalità. E il padano e pagano Zavattini, a sorpresa: «Come bestie devono scopare, come bestie!». Lui minimizza: «Ho una moglie che conosco da quando lei aveva 14 anni». Silvia, sorella di Carlo Verdone. «Allora erano tutti preoccupatissimi perché io ero già grandicello, avevo 21 anni, e tutti sapevano che avevo un mio successo con le mignottelle: si sa, il giro dello spettacolo. Ma io ero proprio innamorato, non volevo solo farmi la ragazzina, e allora loro, i Verdone, hanno organizzato quasi un matrimonio, con un prete, a cui ho dovuto dire che l'amavo, per dimostrare le buone intenzioni». Adesso la moglie Silvia è anche il suo agente. «Sì», risata, «ma non è che mi costi di meno». Tutto in famiglia, però. «Il mio sogno, sa qual è? Vorrei una famiglia larghissima, un castello dove abitare tutti quanti, un sacco di soldi, niente preoccupazioni. E vederci la mattina e la sera, per il cazzeggio». Un sogno provinciale? «Da giovane mi piaceva correre a New York, a Londra, per le mostre, gli spettacoli. Adesso invece, ci si trova quando si è in vacanza, a San Giuliano Terme, fra Lucca e Pisa, e lì sperimenti davvero la provincia. Non solo perché hai intorno tutta la famiglia, ma per la gente del luogo, veri e orgogliosi, che se vinci l'Oscar, e ritorni un po' tronfio, ti mandano subito a cagare». Rieccoci con il turpiloquio. «Fuori dal set non parlo così». Ma nei film sì. Ora sta per uscire "Natale a Rio" (il 19 dicembre), l'ennesimo film delle vacanze, la solita storia caciarona. «Non faccia l'intellettuale schifato. Sono stato a vederlo con Aurelio De Laurentiis, il produttore, in uno studio dove presenta sempre il film di Natale, e mi sono stupito io stesso perché Neri Parenti, il regista, ha fatto un capolavoro: ritmo, freschezza, vivacità». Alzo le mani e mi arrendo, De Sica. «Sono due storie che si intrecciano, io e Massimo Ghini siamo i padri, poi ci sono Michelle Hunziker e Fabio De Luigi». Con Ghini, Christian ha già fatto "Natale a Miami" e "Natale a New York". «Un fratello. Siamo quelli del turacciolo, l'ho scritto anche nel libro». Già, il turacciolo bruciato, per annerire la chierica, dove i capelli si diradano. «Ecco, con Massimo stiamo ore a parlare di regia e recitazione, di cinema, metodo Stanislavskij, psicotecnica, e di Lee Strasberg e Actor's Studio, ma poi siamo i compari del turacciolo». Non dica così, De Sica, proprio lei che è l'eroe e la vittima, il protagonista e il martire dei cinepanettoni. «Non dica così lei, per favore. Ci vuole tecnica anche per la farsa. E la tecnica si impara con la pazienza e il tempo, lavorando. Vede, io ho fatto una quantità di film insieme a facce proletarie, come Massimo Boldi o Jerry Calà. Mentre io ero il figlio dell'autore di "Umberto D.", il rampollo di De Sica, un Gassman dei poveri, con la voce impostata e la pronuncia da attore. Per essere credibile nei miei ruoli ho dovuto lavorarci molto, perché per essere un parolacciaro devi diventare autentico». E quindi si sente, o meglio si sentiva, incompreso: «Eh sì, perché il film di Natale fa tanti soldi, ma tanti, mi creda, e allora provoca il rifiuto dell'intellighentia. Senza che nessuno degli intelligenti si accorga che come l'abbiamo descritta noi, i Vanzina e io, per esempio, la borghesia italiana, non l'ha fatto nessun autore pregiato, di quelli che la critica adora. La scena nel primo film di Natale, con i filippini che guardano i padroni, increduli di quanto sono volgari, dice degli anni Ottanta più di molte analisi sociologiche». Queste sono le giustificazioni alte del trash, De Sica. E togliere il mestiere ai sociologi è concorrenza sleale. «No, è che non si vogliono vedere le cose. Quando ho fatto la pubblicità col vigile Persichetti, su un giornale mi hanno dato del fascista. Solo perché ho fatto il vigile, vestito dai panni dell'autorità. Del fascista: a me, che sono sempre stato di sinistra, con un padre di sinistra, il maestro del neorealismo, culo e camicia con Zavattini». Nel libro c'è una storia memorabile. Qualcosa di simile a una "Schindler's List" autarchica, in cui dopo l'8 settembre 1943 Vittorio De Sica salva una folla di ebrei e candidati alla deportazione girando un film senza pellicola in una chiesa romana, grazie alla complicità di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. «Ecco. E quelli mi danno del fascista». Fascista di certo no, De Sica, ma se si guarda indietro, lei che sa fare tutto, recitare-ballare-cantare, non le viene qualche rimpianto? In parole vanziniane, non si dà talvolta del coglione? Forse poteva essere un fuoriclasse, un re dello spettacolo, una star a Broadway. «Non ci voglio neppure pensare. L'importante è buttarsi dentro la realtà e il mestiere. Poi qualcosa succede. Pupi Avati mi ha offerto un ruolo nel suo prossimo film. L'idea mi piace, vorrei farlo. Paolo Sorrentino, l'autore del "Divo", ha sempre l'idea di affidarmi una parte in un film comico. Chissà. Intanto verso febbraio esce il dvd del mio spettacolo teatrale, realizzato da mio figlio Brando, "Parlami di me": il teatro l'ho fatto soprattutto per non cristallizzarmi». Insomma per uscire dalla trappola del cinema natalizio. «Non ricominci. Un critico famoso, una volta mi ha detto: "Io parlo male di tutti quelli che fanno i soldi"». Era Goffredo Fofi. «Lo ha detto lei. Io voglio stare in pace con tutti. Ho un'idea romantica dello spettacolo. L'idea di una comunità. Com'era negli anni Cinquanta in via Veneto, quando Totò incontrava Ercole Patti alla libreria Rossetti, e Sergio Corbucci parlava con Federico Fellini...». Volemose bene. Tutti d'amore e d'accordo. A proposito d'amore, c'era anche Zavattini, naturalmente. Sale alto un nitrito, ed è il miglior De Sica: «Come bestie, devono scopare, come bestie!». n
L'Espresso, 18/12/2008
Non sparate su Gifuni
La fiction di Raiuno su Paolo VI, "Papa nella tempesta", non ha suscitato entusiasmi. Pare addirittura che il film di Fabrizio Costa, con protagonista Fabrizio Gifuni, non sia proprio piaciuto a Joseph Ratzinger (ma se fossimo negli autori, nel regista e anche nel produttore non ci preoccuperemmo troppo: a Benedetto XVI è piaciuto a tal punto il saggio di Marcello Pera, "Perché dobbiamo dirci cristiani" che ha voluto mandare all'autore una lettera di plauso, prontamente stampata come prefazione; quindi, come si può arguire, per quanto riguarda film e libri siamo nell'ambito non dell'infallibilità, ma del "de gustibus", e quindi liberi tutti). I critici sono stati assai severi. Ma chissà se sono stati obiettivi. L'autore di questa rubrica ha visto le tre ore del film televisivo notando una certa finezza intellettuale, rara in televisione: quando in una battuta, in un brevissimo dialogo, in due sequenze si deve far capire una colossale riflessione, un'enciclica come la "Populorum Progressio" o la "Humanae Vitae", il rischio della supercazzola è sempre in agguato. E invece gli autori e Gifuni sono riusciti a far comprendere la filosofia e i dubbi di papa Montini. Piuttosto, la fiction aveva altri difetti, caratteristici di certa fiction italiana. Comprimari così così, tempi di recitazione approssimativi. Ma con tante schifezze che circolano sui nostri schermi, prendersela con "Paolo VI" non è giusto. Adesso però i papi vanno all'esaurimento. Suggerimento per la produzione: non sarebbe di qualche interesse passare ai cardinali? (E poi ai vescovi, ai parroci, ai cappellani, ai preti semplici. Magari con fiction di tre minuti, che costano anche meno).
L'Espresso, 11/12/2008
Così parlò Cesare
Vedi Cesare Cremonini, agile ed elastico, che si aggira scivolando come un pesce nell'acqua nel centro storico di Bologna, oltrepassando via Santo Stefano e il Pavaglione, per raggiungere un locale più che etnico, regionale e pugliese, a un passo dalla storica via Riva di Reno, e ti chiedi chi sia, e che cosa sia, questo ragazzo di ventott'anni, circondato da una setta adorante, non estesissima ma piuttosto convinta, che lo ha eletto a massimo musicista italiano sotto la trentina e sembra disposta a passarci insieme almeno i prossimi vent'anni. Lui lo sa, naturalmente, che ha l'obbligo di comportarsi come un caposcuola, perché altrimenti si guarderebbe bene dall'aprire il suo ultimo disco con un preludio solo strumentale collocato culturalmente fra il Settecento e il vaudeville, senza decidersi se convenga virare verso i cicisbei e il minuetto o verso i drammi multietnici della globalizzazione, eventualmente temperati da un sound molto melodico e dai dovuti profumi di spezie esotiche. Il nuovo tour è già partito, "absolutely sold out", mentre l'ultimo album, "Il primo bacio sulla luna", è schizzato ai vertici delle classifiche, mentre i critici parlano con una certa soddisfazione di echi beatlesiani e di sonorità tutte italiane, una miscela difficile e comunque, quando riesce, infallibile, anche se le canzoni non sono canzoni-canzoni, come ai tempi dei Lùnapop, di "50 Special" e degli echi delle escursioni sui colli bolognesi, quando il giovanissimo Cremonini, figlio musicale dei Queen e di Freddie Mercury, poteva essere assimilato a ultima, estrema e ultramoderna incarnazione dell'Equipe 84. Sono passati, molto inconsapevolmente e molto alla svelta, quasi dieci anni, e l'adolescente scatenato e allegramente incosciente è diventato un protagonista controllato, quasi un "young urban professional" qualche decennio dopo gli anni Ottanta. Il figlio di un dietologo più che ottantenne e di una più giovane brava professoressa con vent'anni di meno, dopo il liceo e una figurativa iscrizione a Scienze politiche, sfiora infatti insidiosamente l'età adulta, e cerca con razionalità il proprio stile e un modo di essere. «Mi telefona tutte le sere mio padre, e mi dice che ha paura di morire, e allora m'incazzo, più o meno, e gli dico che non può deludermi, che deve affrontare il futuro e il destino con la dignità che mi ha insegnato». Ah, la saggezza del giovane Cremonini. Intanto non ha ancora maturato quella particolare attitudine burocratica, per cui si lavora alla musica dalle nove alle cinque: il piccolo Cesare ha ancora qualche vezzo da rockstar giovane, scrive canzoni all'alba, si fa venire in mente una soluzione chopiniana o beatlesiana alle "sei e ventisei" della mattina, come da canzone omonima, dopo notti che hanno l'aria di essere state seriamente impegnative; e si sveglia allora piuttosto spettinato, da figlio veritiero di una scapigliatura che appare molto bolognese ma potrebbe pure essere molto londinese: chi se ne frega, la location in fondo non importa, conta il mood. E il mood tende a mitologizzare, come si fa alla sua età per dare una cornice al quadro: «Tutte le mie canzoni sono frammenti di un'autobiografia». Viene voglia di rispondere bruscamente: e chi se ne frega, Cremonini, dell'autobiografia. Saranno le solite storie e storielle, le ragazze, le fidanzate, gli amori, i cassetti con i memorabilia e le reliquie delle ultime passioni, i pacchetti di sigarette ciancicati e «le tue calze rotte la notte in cui ti sei ubriacata». Ma lui ha bisogno di sintetizzare, di concettualizzare, di organizzare mentalmente tutte le "stories" personali, mentre tutt'intorno i piccini e le piccine che lo hanno riconosciuto implorano muti uno sguardo o un autografo. L'avevo incontrato qualche epoca fa, al premio per i testi delle canzoni organizzato ad Aulla, quando era in carica il facinoroso sindaco Barani, quello del monumento ai martiri di Tangentopoli, e quando l'imberbe Cremonini insieme con i vecchi Lùnapop spopolava in allegria fra le ragazze (con esiti perfino pubblicamente imbarazzanti, dati gli assalti e gli agguati); mentre adesso sembra passato alla fase riflessiva degli amori saggi. Poi l'avevo visto in qualche concerto tecnicamente precario, quando sembrava che la perfezione della sala d'incisione fosse tradita dall'esecuzione "on the field", e invece irrompere alla grande in un programma televisivo del mostro sacro Celentano, quando si era messo a rivaleggiare a zompi e a balzi con Adriano, senza pudori né complessi, proprio come un predestinato, uno baciato dalla stella del narcisismo. Adesso, dopo alcuni dischi "en solitaire" come "Bagus" e "Maggese", sembra uno dei pochi artisti italiani convogliati a quella particolare professione che è l'idolo delle sbarbine: eppure con un patrimonio raro di tecnica, con il gusto di classicheggiare negli arrangiamenti, di introdurre strumentazioni vintage, di provare soluzioni canore e musicali inventive, spessissimo sofisticate, e comunque tutt'altro che ovvie. Sicché: il ragazzo Cremonini si trova in una singolare e paradossale condizione, modellata in primo luogo dalla consapevolezza di una cultura musicale, che lo induce a sperimentare, e a non accontentarsi degli stereotipi; ma poi anche da una certa coscienza dell'età, che lo porta a nascondersi, a mettersi addosso una maniera di ex adolescente, di giovane adulto, di un "professional" che prova a mediare acrobaticamente fra la deontologia e il cazzeggio, senza mai scegliere, ma senza rinunciare a un che di pragmaticamente bolognese, che impedisce le fughe troppo romantiche, e quindi modera in maniera molto opportuna i patetismi post-giovanili. Resta poi, l'ultimo disco, quello del bacio sulla luna, più lo ascolti e più ti piace. In certe canzoni come "Louise", per esempio avverti echi degli anni Sessanta che in certi momenti sembrano degli arcaici Monkees, e addirittura della nostra Caterina Caselli, sicché dopo un riff di chitarra elettrica d'antan non ti stupiresti di sentir partire le note di "I'm a believer", o perfino di "Sono bugiarda", per cantarlo all'italiana. Ed è curioso allora vedere questo costruttore di "hit song", di pezzi da cantare e da classifica, che si muove come perfetto essere sociale, senza nascondere i manierismi, gestendo le movenze, attento ai modi di dire, forse più preoccupato di nascondere che di mostrare. Tanto che viene voglia di dirgli: Cesare, non nasconderti, lasciati guardare, fatti sentire, mettiti alla prova. E lui allora guarda di sottecchi il suo manager e scopritore, il leggendario Walter Mameli, e cerca quasi di ribellarsi. Dice le solite cose, che non vuole essere un divo, e che va a caccia di una sua autenticità. Ma in fondo, con pochi altri italiani giovani, con Tiziano Ferro e lo zio più anziano Jovanotti, Cesare Cremonini sa che fra poco dovrà scegliere. Scegliere se essere "soltanto" un artista, un cantautore, un talentuoso giovane uomo di spettacolo, oppure qualcosa di diverso. Per adesso lui crede di essere ancora e soltanto un musicista. Ma nella crisi generale del mercato discografico, "cantare" non significa nulla, comporre canzoni ancora meno, arrangiarle e produrle idem come sopra. Il giovane Cesare può diventare definitivamente un piccolo eroe dello show system; ma forse c'è un traguardo che consentirebbe di rendere il suo ruolo più significativo, «per dimostrare al pubblico che nella vita è vero il vero, ma pure il suo contrario...» ("La ricetta... Per curare un uomo solo", dall'ultimo album). Ecco, se c'è un destino possibile e augurabile per il bravo musicista e cantante Cremonini è quello di fare il possibile per diventare vero, qualcosa di simile a un leader generazionale, insomma: un esempio. n
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