L’Espresso
L'Espresso, 26/12/2007
si va verso Il Referendum
Non ci vuole una fantasia eccezionale per immaginare tutte le difficoltà che il negoziato "di sistema" fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sulla legge elettorale si troverà ad affrontare, oltre a quelle che ha già incontrato nelle prime mosse. Da un lato ci sono le infinite varianti che qualsiasi formula deve contemplare per non scontentare troppo i soggetti politici minori, partiti e partitini (che nel centrosinistra potrebbero praticare ritorsioni contro il governo, e nel centrodestra minacciare svolte strategiche sul piano delle alleanze elettorali, portando sino in fondo la politica delle mani libere). E in via complementare a complicare le cose ci sono gli interessi dei partiti, maggiori e minori, che si intersecano con la tattica, la visione e le ambizioni dei leader, nonché il problema della durata del governo, e quindi della coalizione un tempo chiamata Unione, e dell'ex Casa delle libertà: insomma, una scacchiera con troppe varianti. Tradotto in sintesi, il tema della legge elettorale può essere enunciato nel modo seguente, in una specie di nuovo Postulato delle impossibilità: «I conflitti sul sistema proporzionale sono il frutto della proporzionale». Vale a dire: noi ci troviamo già ora in una condizione proporzionale. Il metodo maggioritario è stato abbandonato dalla classe politica, sulla base del giudizio sommario secondo cui "il bipolarismo è fallito". Conta poco che il fallimento sia stato determinato dalla scelta suicida e folle del Porcellum, che reintroduceva la proporzionale esaltando il ruolo di ogni entità politica presente in un'alleanza politico-elettorale. Adesso si tratta di fare i conti con un consenso quasi generale che pretende il ritorno alla Repubblica manovriera dei partiti, delle contrattazioni post-elettorali, degli aghi della bilancia, dei due forni. Benissimo, ci vuole realismo, inutile fissarsi sulle illusioni. Tre politologi, Piero Ignazi, Luciano Bardi e Oreste Massari hanno rilanciato sul "Sole 24 Ore" l'argomento dell'uninominale a doppio turno (il sistema francese), ma il fascino della proporzionale è irresistibile. In primo luogo perché toglie drammaticità al confronto politico: c'è in tutti la convinzione ragionevole che con la proporzionale chi vince conquista il potere, ma chi perde non perde mai del tutto e mantiene un rassicurante potere di veto. Da questo punto di vista, anche le organizzazioni di rappresentanza economica, la Confindustria, le grandi aziende come Enel e Eni, il sistema bancario, il mondo dell'informazione, a cominciare dalla Rai, si sentono tutti rassicurati. Si torna all'Italia del patteggiamento, e ciò risulta terapeutico per l'ansia di chi non sopporta il sapore della sconfitta, nonostante il fantasma delle lottizzazioni future. Eppure proprio il sentimento proporzionalista impedisce una razionale scelta della formula: ragion per cui ci si accapiglia sul Vassallum di Veltroni, sul sistema tedesco con doppia scheda elettorale, sulle soglie di sbarramento del progetto Bianco, sull'ampiezza delle circoscrizioni nel modello ispano- germanico, ancora su eventuali "premietti" di maggioranza. Eh sì, decenza vorrebbe che il nuovo metodo favorisse la formazione e la competizione di due partiti principali, costringendo i satelliti a raggrupparsi. Ma per ottenere questo scopo occorrerebbe un accordo di ferro tra Berlusconi e Veltroni, che in troppi hanno interesse a sabotare, per convenienze di bottega, gridando all'"inciucio". È chiaro tuttavia che accontentando tutti si arriva alla proporzionale pura, cioè presumibilmente alla disgregazione del sistema politico. E allora la domanda sul "che fare" ha poco senso in questo momento. Sarà pure possibile anche un tentativo di Romano Prodi, per quadrare il cerchio, in modo che l'accordo fra Silvio e Walter sia blindato dal governo in modo da garantire gli alleati della maggioranza, quelli a sinistra del Partito democratico. Ma è molto più probabile che invece si vada inevitabilmente verso il referendum. A metà gennaio la Corte costituzionale esprimerà il suo parere in proposito. Se sarà positivo, tanto vale prendere atto che il referendum si profila come l'unico modo per superare l'impasse. E anche per far sì che i partiti tornino a dedicarsi alla politica. Perché sono mesi che ci si dedica al discorso sul metodo: che è un'attività cartesiana, ma che a un certo punto dovrà pur cedere il passo ai contenuti. Altrimenti, è vero che la metafora bizantina è abusata: ma si resterebbe sempre di qui all'eternità, nei corridoi della politica a disquisire del sesso angelico della proporzionale.
L'Espresso, 26/12/2007
Luttazzi fa autogol
Ciò che è sfuggito ai critici di Daniele Luttazzi nella querelle televisiva con Giuliano Ferrara, è che si è trattato di un duello fra spiriti irridenti: e nonostante Luttazzi si qualifichi (anche con apposite epistole a Dagospia e a questo giornale) come satiro politico, sottolineando politico, la vittoria è andata al politico satirista direttore del "Foglio", sottolineando satirista. Non solo perché di questi tempi la vena di Giulianone si è mostrata in abbondanza sul suo giornale con l'autocandidatura alla direzione prima de "l'Unità" degli Angelucci e poi del "manifesto" nella versione Cusani; da tempo infatti Ferrara conduce una battaglia sulfurea, in quanto fautore di D'Alema che sostiene il partito di Veltroni con il supporto di Berlusconi (ma in privato aggiunge sornione: «Sì, ma con la benedizione di Ratzinger»). Bene, contro un tipaccio così, l'esile Luttazzi aveva tutto da perdere: perché mentre molti lo criticavano per la maleducazione, il conduttore di "Otto e mezzo" ha pubblicato sul "Foglio" una recensione di Luttazzi, firmata dall'acribioso Christian Rocca, in cui si dimostrava che l'ormai celebre scena sadomaso che immortalava il ciccione nella vasca da bagno, sommerso da un profluvio sterco-urinario, era il calco di uno sketch di Bill Hicks vecchio di anni; la definizione del neologismo "giulianone" come l'esito immondo di una pratica sessuale alternativa si deve al comico Dan Savage; e un'idiozia sul volo di una mosca per cui Luttazzi si accapigliò con Bonolis, ritenendosi scippato, oltre che essere patrimonio dell'umanità ha il copyright del comico George Carlin. Conclusione: i satiristi farebbero bene a scegliere con attenzione i loro bersagli.
L'Espresso, 20/12/2007
Divina audience
Allora: Adriano Celentano piace comunque, anche con un programma irrisolto, e Roberto Benigni piace a tutti gli ammiratori della Divina Commedia, che sono tanti e fanno audience. Ma il problema filosofico e dantesco è il seguente: la Rai si salva con i programmi evento, quelli che fanno decollare lo share per una serata, sono circondati da un'onda di mediaticità, scatenano discussioni vere e finte? Oppure la strada è un'altra? Si tratta di intendersi, naturalmente. L'evento ci sta sempre bene, nel palinsesto, a meno che non sia una cattedrale nel deserto. Perché ci sono molti modi di intendere la televisione, ma vale per la tv quello che vale per la società: non c'è progresso se sono soltanto in pochi a eccellere. Poche università di punta non salvano il sistema della formazione universitaria; pochi vertici nella ricerca non testimoniano della qualità di un paese nel settore scientifico. O almeno, l'eccellenza sporadica non serve a riscattare la mediocrità quotidiana. Idem per la televisione. Una melassa di programmi bufala non è riscattata dal successo di qualche raro show eccentrico. Il Benigni dantesco piacerà anche ai teologi del Vaticano, e Celentano susciterà grandi aspettative (siamo persino riusciti a credere, e non ci sono parole, che si sarebbe assentato spesso in trasmissione per ragioni prostatiche), ma la qualità televisiva si fa con le medie, non con le punte. E la media della Rai va all'ingiù. Siccome non sembra esserci rimedio, vale la pena di insistere: via il canone, privatizzare, smetterla di parlare di servizio pubblico. Anche perché sta tornando la proporzionale, e se tanto ci dà tanto, un'altra spudorata lottizzazione è alle porte.
L'Espresso, 13/12/2007
Genio Gene
Gene Gnocchi in "Artù". Sotto: balletto del Teatro Nazionale di Praga (a sinistra) e "I giganti della montagna"
L'Espresso, 06/12/2007
Non facciamo i Gentiloni
C'è voluto lo scoop del quotidiano "la Repubblica", con la pubblicazione delle intercettazioni relative al coordinamento politico dei telegiornali e dei palinsesti, per tornare a parlare dell'anomalia assoluta rappresentata dal duopolio televisivo in Italia. Eppure il problema affonda nella notte degli anni Novanta, all'epoca dell'ingresso in politica del monopolista Berlusconi. Si sapeva tutto, dov'è lo scandalo, sostengono i più realisti. Ma trovarsi stampate le conversazioni inciuciste, dominate dal volere implicito del leader del centrodestra, ha provocato un effetto particolare; non è di tutti i giorni la prova che i fedelissimi sono così fedeli al capo da tentare di oscurare la morte del papa. Tanto che si è ricominciato a parlare della legge di riordino del sistema televisivo, ancora afflitto dagli effetti della Gasparri. Su questo punto occorrerebbe un tantino di radicalità. Perché la legge predisposta dal ministro Gentiloni, che andrà in aula dopo le festività, è una buona e volonterosa mediazione, ma non è affatto sufficiente a risolvere il problema. I difetti del disegno Gentiloni sono stati rilevati con chiarezza: nella proposta del ministro non c'è una fiducia sufficiente nel mercato, come si vede dall'idea del tetto alla raccolta pubblicitaria (fissato al 45 per cento, mentre oggi Mediaset oscilla sul 57 per cento); come pure il trasferimento nel digitale di una rete Rai e una rete Mediaset: non era più logico mettere sul mercato queste due reti? Non sarebbe stato l'embrione di un oligopolio se non altro più largo? In realtà, ogni discorso sul futuro della televisione in Italia è condizionato da due aspetti: in primo luogo, la presenza di Silvio Berlusconi come signore e padrone di Mediaset, che strilla all'esproprio, e fa strillare i suoi pretoriani, a ogni idea ispirata da una nitida concezione antimonopolista; e subito dopo c'è il totem premoderno del cosiddetto servizio pubblico svolto dalla Rai. Ora, che il servizio pubblico sia una favola è testimoniato dall'insufficiente, come minimo, attenzione dedicata dalle reti della Rai agli eventi collettivi, alle sessioni parlamentari, a tutto ciò che attiene generalmente alla "polis". Ormai il servizio pubblico, quello per cui si paga quella gabella arcaica che è il canone, è limitato alla trasmissione degli incontri della nazionale di calcio. Ma detto più esplicitamente, il servizio pubblico è in realtà un servizio politico, cioè la possibilità per i partiti e gli schieramenti di occupare spazio nell'informazione e negli organigrammi. Un residuo del passato anche questo, che soltanto con un certo ottimismo verrebbe risolto con il passaggio a una fondazione autonoma. Di recente il ministro Gentiloni ha sostenuto che la Rai deve «recuperare una maggiore autonomia dalla politica». Espressione infelice. Che cosa vuol dire «maggiore autonomia»? L'autonomia o c'è oppure non c'è, non si danno gradazioni intermedie. Proprio per questo, e in considerazione dello sviluppo del mercato e della tecnologia, sarebbe il caso che a qualcuno venissero in mente soluzioni un po' più radicali. Abolire il canone, per esempio, e non solo per gli anziani poveri e ultrasettantacinquenni, come previsto dalla finanziaria. Abolirlo e basta, perché sarebbe molto morale che la Rai vivesse soltanto con gli introiti della pubblicità. In secondo luogo, possibile che agli adepti del liberalismo e del liberismo non sia quasi mai venuto in mente che una magnifica piattaforma "di mercato" e pluralista consisterebbe nel privatizzare la Rai, e nello stesso tempo frazionare sul mercato Mediaset? Avremmo sei ottime reti, più La 7, a contendersi il mercato dell'audience e della pubblicità, ottima forma di pluralismo e quindi di maggiore libertà. Una delle obiezioni è che in Italia non esistono soggetti in grado di acquistare le reti messe in vendita. Può darsi. Ma potrebbero comprarle gli indiani, i tedeschi, gli americani, gli spagnoli. A chi appartiene Sky, forse a un'impresa italiana? E il telegiornale di Sky non fa più servizio pubblico, durante una giornata, di quanto non faccia la Rai in una settimana? Dopo di che, verranno i compromessi, i patteggiamenti, le minacce a Berlusconi anche da destra («Aspettiamo in aula la Gentiloni», come hanno già detto quelli di An). Ma l'argomento di fondo non dovrebbe essere eluso: vogliamo il mercato, la tecnologia e la modernità, oppure i balzelli come il canone, il condizionamento politico, il coordinamento realizzato grazie ai tirapiedi dei leader, le interviste contrattate, la lottizzazione degli ospiti, i veti? Non c'è bisogno di rispondere, la domanda è ovviamente retorica. Ma sarebbe il caso, d'ora in avanti, di non raccontarci storielle pensose e illuminate sul servizio pubblico e la sua antica filosofia, quella favola bella che ieri ci illuse ma oggi non dovrebbe illuderci più.
L'Espresso, 06/12/2007
Sostiene Luttazzi
E allora parliamone. In una tesa intervista ad Andrea Scanzi, pubblicata sulla "Stampa", Daniele Luttazzi sostiene che il silenzio critico sul suo programma "Decameron" (il sabato su La 7, seconda serata) si deve a una specie di vasta macchinazione: «Dietro c'è un disegno preciso: l'oblio. Vogliono disinnescarmi». Non sia mai. Noi ci sottraiamo alla cospirazione antiluttazziana. Ancorché disinnescarlo, lo inneschiamo. Perché è vero che Luttazzi fa il 6 per cento di share a mezzanotte, che per una rete come La 7 è un exploit, ma questo non è un giudizio sulla qualità delle performance satiriche di Luttazzi. Che sono ottime, soprattutto per chi apprezza il suo stile tagliente, le sue affilate cattive maniere. Ma forse una personalità disincantata come quella di Luttazzi potrebbe condividere il punto di vista che proviamo a esporre qui di seguito. Bene, la satira politica in tv è una palla. Siamo tutti reduci da giorni e giorni di politica in televisione, con "Porta a Porta" e "Annozero" e "Ballarò" e "Matrix". Sentire a mezzanotte Luttazzi che rifà le bucce al centrodestra e al centrosinistra ha un suono risaputo. Non vogliamo più sentire battute rancorose sul conflitto d'interessi: vorremmo che il conflitto d'interessi fosse risolto, radicalmente, con una legge. Perché alla fine la satira politica porta inevitabilmente a parlare di Clemente Mastella, e se non si parla di Mastella si ha il costante timore che fra poco si parli di Mastella, emblematizzato come male assoluto: sai che barba. Luttazzi è stilizzato e malvagio. Ci piace quando è surreale, non quando imita Marco Travaglio. A ciascuno il suo mestiere.
L'Espresso, 22/11/2007
I conflitti di Venditti
Freno, acceleratore, controllo volante degli sms, curva rapida, gioco di sterzo, di nuovo l'acceleratore, e poi, sulle note del suo ultimo disco, la voce inconfondibile di Antonello, core de 'sta città: «Indimenticabile... Indimenticabile». Passione per la musica che è tutt'uno con la passione per la politica, e per l'immersione totale nel disegno urbano della capitale. Venditti infatti attraversa Roma come uno che navighi nel mare di casa, mare ineluttabilmente "nostrum", i semafori come boe lungo mappe e rotte mentali apprese per espressa via cromosomica. L'album esce oggi, dopo una preparazione lunghissima nello studio di Colle Romano, con i suoi musicisti, il contributo di alcuni spunti di Maurizio Fabrizio, e l'assistenza di Sandro Colombini, suo produttore storico: «Ma ho chiamato di nuovo anche Gato Barbieri, con il suo sax sempre così emozionante, e perfino Carlo Verdone che suona benissimo la batteria nella sua canzone più allegramente politica, "Comunisti al sole" ("Resta sempre uguale a come sei, un comunista al sole / non cambiare, tanto resterai per sempre un sognatore...")». L'album si intitola "Dalla pelle al cuore", e logicamente è superfluo chiedere perché: «Ma perché la vita è sempre doppia, istinto e ragione, fisicità e spiritualità. Ha sempre due facce, come dico in una delle canzoni nuove, "Tradimento e perdono": perché l'amore è il perdono, e l'amore implica e comprende il tradimento. O almeno bisogna saper tendere verso il perdono, che io intendo come perdono cristiano...». E poi aggiunge, come per sottolineare questa duplice idea: «Puoi rinunciare a una delle due sostanze fondamentali, alla materia e alla mente? Puoi rinunciare all'anima, o al corpo?». Venditti come Cartesio, la res cogitans e la res extensa. Così in quella canzone dice che «tradimento e perdono fanno nascere un uomo», e si rivolge drammaticamente ai grandi campioni perdenti, quelli che hanno illuminato la notte con uno spettacolare scintillio e si sono spenti mentre moriva nel buio l'ultima traccia di luce, come Luigi Tenco, Marco Pantani, e il più amato, il "capitano" Agostino Di Bartolomei, genio romanista perduto dalla disperazione: «Ricordati di me, mio capitano, cancella la pistola dalla mano». Sta di fatto che anche il cantautore ha due facce: Antonello e il suo doppio Venditti, il laico e il cristiano, l'uno affascinato dalla politica come utopia concreta, e l'altro attirato dalla realtà viva della fede. Due fedi complementari, l'una che si riflette nell'altra. Antonello, poi, è un modo di dire: si chiama Antonio, e l'ha anche scritto in una canzone, è un ragazzone nato nel 1949 ovviamente "sotto il segno dei pesci", che si avvicina gloriosamente ai sessant'anni con la chioma che è un ricordo e un simbolo di quella della gioventù: «Il segreto è che noi siamo una generazione sospesa, divisa fra passione e ragione, fra amore e razionalità. Fa parte della nostra anima e del nostro corredo genetico». Eppure non è schizofrenia, e neanche manicheismo, questa separazione, questo dualismo: «Dobbiamo saperlo, che siamo tutti Giuda, tutti traditori». Per questo ha scritto un brano, per questo album, che evoca proprio Giuda: «Colui che per essere il migliore, ed esserlo fino in fondo, assume su di sé la responsabilità tremenda di denunciare il Cristo, per poi pagare con il suicidio, senza sconti». Lo fermano per strada, Antonello, lo salutano dalle auto. Lo sentono come uno di loro, per l'accento, il dialetto, la battuta scafata, e si capisce: è l'artista del popolo, colui che nel giugno del 2001 diede un concerto al Circo Massimo per festeggiare il terzo scudetto della Roma, raccogliendo una folla di un milione e 700 mila persone a scandire le sue canzoni romane e romaniste. Sono immagini del presente e immagini del passato. Venditti è un figlio della piccola borghesia romana. La madre, Wanda, se n'è andata quest'anno, a più di novant'anni: era un'insegnante di latino e greco vecchio stampo, implacabile, esigentissima con gli allievi, e una mamma più che impegnativa. Suo padre, anarchico bakuniniano da giovane, che finì prigioniero in Kenya per sei anni, ferito al collo ("Mio padre ha un buco in gola", tutto può diventare una canzone), divenne poi viceprefetto di Roma, con una delega simile alla protezione civile. In casa, c'è ancora il vecchio pianoforte Anelli su cui ha cominciato a suonare da piccolo, alla sua maniera. «Ero un ragazzino grasso, mi sono messo a scrivere canzoni anche per questo. Ho composto "Sora Rosa" a 14 anni, ma anche "Roma capoccia" è di quel periodo, nel periodo dell'adolescenza». Sono passati 17 o 18 dischi dagli esordi, non è un tipo da statistiche, Venditti. Lontani i tempi del primo incontro con Francesco De Gregori: «L'ho conosciuto al Folkstudio, dove alla fine degli anni Sessanta si andava per ascoltare la musica alternativa, sotto il comando assoluto di Giancarlo Cesaroni, il grande capo, un talento assoluto che come record personale poteva annoverare il fatto di non avere fatto suonare Bob Dylan nel suo locale». Forse nasce già lì il Venditti "politico", l'amico di Walter Veltroni e il cantore di Enrico Berlinguer, l'uomo di una sinistra romantica e piena di vocalità e di passioni: con quel disco memorabile siglato "Theorius Campus", metà di Antonello e metà di De Gregori, «con un nome simbolico e già rivelatore, metà teoria e metà pratica», un nome che richiama il personaggio inventato dai due cantautori gemelli, immaginato da Venditti come «un vecchio con la barba che quando suona l'organo sfonda il cielo». Venditti parcheggia la Smart davanti alla sua casa in Trastevere, magnifica "location" di una celebre pisciatina in "Ladri di biciclette", con un grande giardino interno, e un curioso bassotto tedesco, Alighiero, che si intrufola annusando fra le gambe e le sedie. Si può diventare ricchi, eh, con le canzoni? «Diciamo che ci si può trattare bene. Forse non sarebbe andata così se avessi dato seguito ai miei studi, laurea in diritto minerario e specializzazione in filosofia del diritto». Diritto minerario, una cosa eccentrica. «Ma allora andavo a studiare nella biblioteca dell'Eni, la mia idea dell'Italia era, ed è ancora, quella di Enrico Mattei, un paese che cresce e che trova gli strumenti per il proprio sviluppo. Solo che nel momento in cui mi sono laureato uscì il mio primo disco, e allora addio sogni di petrolio, sono arrivati i sogni di musica». Forse allora, in quegli anni Sessanta e Settanta, c'erano idee, utopie, comunque obiettivi da raggiungere. E invece adesso che cosa succede, Antonello? Forse arriva il disincanto, l'assuefazione, la stanchezza, anche la botta di cinismo: «Ma no, la vita è piena di complicazioni, tutte da interpretare. Piuttosto c'è da chiedersi come facciamo a dare una risposta ai nostri ragazzi, perché i figli ottengono soltanto risposte imprecise». Pensa, e lo dice senza veli, alla vita di suo figlio, Francesco Saverio, trent'anni, regista, attore, doppiatore, romanziere, sposato con Alessandra, figlia di Raffaele La Capria e Ilaria Occhini, che ha realizzato il video dell'ultimo disco, e che si sbatte nelle strettoie di un mestiere spesso complicato. «Per loro, per questi ragazzi, sembra che la risposta sia sempre altrove: in ragioni di potere, o in logiche clientelari, senza rispetto per il merito. Li abbiamo fregati, i ragazzi: li abbiamo sbattuti davanti a un computer, facendogli credere che dentro o dietro quel display ci sia un mondo, e invece è solo un imbuto, che li condanna alla solitudine». Per uscire dalla solitudine, a Venditti basta uscire di casa, incontrare il primo che capita, magari è don Guerino di Tora, il direttore della Caritas romana, uno degli amici con cui Antonello condivide le iniziative benefiche, le fondazioni, l'Africa. Perché Roma contiene tutti i momenti, tutte le dimensioni che piacciono a Venditti: «Roma è forma, è estetica, ma è anche contenuto. E se si vuole, tutta la mia storia va davvero nella direzione del partito democratico. Te lo ricordi il verso di "Roma capoccia", quello sulla maestà del Colosseo e la santità del Cupolone, non sono questi i due momenti fondamentali di un partito nuovo? Laico e cristiano come me, convinto che la solidarietà non è soltanto un meccanismo, deve fondarsi sulla carità, ossia su rapporti veri fra le persone». Mentre noi, in realtà... «Mentre noi siamo diventati egoisti anche nella cultura, nella sapienza, e rischiamo di non sapere più che cos'è la generosità, che cosa è il dono». n
L'Espresso, 15/11/2007
Metodo Paolini
Considerazioni su "Il sergente", la performance di Marco Paolini tratta da "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern, mandata in onda senza interruzioni pubblicitarie da La7. Autentico evento televisivo. Dati di ascolto più che raddoppiati rispetto alle medie della rete. Io, personalmente, non sono convinto della lettura data da Paolini di questo classico moderno, ma chissenefrega: ciò che conta è che La7 ha mostrato che cosa può fare una rete televisiva quando non è vincolata da palinsesti bloccati, coazioni a ripetersi, automatismi scontati. Voglio dire: c'è uno spazio per la fantasia e la creatività nei programmi tv; e mentre le sei reti generaliste proseguono con la loro programmazione autistica, il solito blob televisivo senza capo né coda, si aprono spazi e opportunità imprevedibili per chi voglia scompaginare le abitudini. Attenzione, non è detto che la formula dell'one man show di Paolini sia replicabile, e nemmeno che lo schema scardinante consista nell'introdurre cultura (teatro, cinema) nella programmazione normale. Il successo di Paolini (e della rete) vuol dire piuttosto che dentro l'omologazione totale ci sono possibilità di scomporre, di sorprendere, di andare a caccia di spettatori. E lo si può fare senza sbattere loro in faccia i soliti format di "culi & tette". Non c'è bisogno neanche di scomodare uno scrittore bravo e appartato come Rigoni Stern, e un attore di culto come Paolini. Basterebbe capire che si deve uscire dall'ovvio, e che uscire dall'ovvio paga. Il mercato è una brutta bestia, ma ama le invenzioni. Per chiunque voglia provarci, è un'indicazione di metodo: o di anti- metodo.
L'Espresso, 08/11/2007
Basta la parola
«Basta la parola!», esclama per indicare i pregi del confetto Falqui il Professor Tino Scotti, tuttologo, in uno dei primi sketch. E la parola magica, dal 3 febbraio 1957, ore 20,50, diventa Carosello, il primo contenitore di pubblicità della Rai, per il quale hanno lavorato registi come Pontecorvo, Olmi, Leone, i fratelli Taviani... E attori e cantanti come Totò e Eduardo, Dario Fo e Franca Rame, Mina, Rascel, Tognazzi, Vianello, Gassman, Manfredi... 100 secondi massimo di puro spettacolo che coronano il "codino" (lo spot di 35 secondi), creando intramontabili jingle che entrano nella lingua: «Lei non sa chi sono io», minaccia Aldo Fabrizi. «Il signore sì che se ne intende», approva Lina Volonghi. «Ma cosa mi dici mai», gongola arrossendo Topo Gigio... A 50 anni dalla nascita, "L'espresso" e "Repubblica" presentano una collana in quattro Dvd con il meglio di Carosello. Nel primo Dvd, a 8,90 euro in più, il periodo 1957-1963. Nei contenuti extra: interviste e testimonianze di Edmondo Berselli, Marcello Marchesi, Ugo Tognazzi, Enrico Vaime...; i "nonni" dei jingle; una selezione dei celebri codini; i Caroselli al cinema; cartoonist, uno speciale sui caroselli animati. F. T.
L'Espresso, 08/11/2007
Iper boncompagni
Il ritorno alla televisione di Gianni Boncompagni è avvenuto senza clamori su La7, con un programma, "Bombay", che dovrebbe riprendere integralmente il paradigma della televisione come "vuoto", o "nulla". È la televisione di Boncompagni, uno dei creatori televisivi più bravi, e soprattutto uno dei teorici più completi del niente televisivo. Solo che per entrare nella mente e nel cuore degli spettatori, Boncompagni ha bisogno di tempo, di ripetizione, di tormentini e tormentoni. Vista la prima puntata (il martedì, seconda serata), naturalmente non si sa ancora che cosa dire. "Bombay" richiama inevitabilmente "Macao", una specie di iper-televisione, o una meta- televisione, insomma pura "tv di tv". Senza significato, senza contenuti che non siano frammenti e frantumi di contenuto televisivo destrutturato. Non aumenta molto il significato intrinseco nemmeno l'uso di "esperti" come Giulio Andreotti e Arnoldo Foà, in fuorigioco e desemantizzati rispetto ai puzzle televisivi di "Bombay". In fondo, la televisione di Boncompagni non è fatta da programmi, ma da sottofondi: luci colorate, ballerine di Siviglia, gadget musicali. Il fatto è che ormai molti hanno imparato da lui come si fa questa televisione autoreferenziale e insensata. E allora, da un vecchio e nichilista genio della tv, ci si aspetta la zampata, cioè l'invenzione che scatena l'applauso intellettuale. Difficile farlo con una tv laterale come La7. Piccoli numeri di share, pubblico impaziente con il pollice sul telecomando. Ci vuole pazienza, in attesa che il meccanismo scatti, e il consenso si manifesti. Ma oggi gli spettatori ce l'hanno la pazienza? Voto: non classificabile, si resta in perplessa attesa.
L'Espresso, 01/11/2007
Walter format
I partiti come Dio comanda hanno il Pantheon. Numi tutelari che illuminano il presente e risvegliano echi dalle distanze remote di un passato glorioso. Ma il Partito democratico non è un partito classico. Non ha un passato né una memoria. O meglio, di memorie ne ha due, entrambe poco utili: possiede una parte della memoria del Pci e la memoria della sinistra democristiana. Quindi sarà meglio darsi da fare, alla svelta. Nell'impossibilità di edificare su due piedi il tempio della memoria, Veltroni potrebbe intanto pubblicare il nuovo album delle figurine Panini del Pd. Meglio che niente, l'album. Perché ogni album che si rispetti, per completare la collezione, deve eliminare i doppioni e gettare nel cestino le figurine fuori stagione. Provare per credere: mettere insieme le figure principali, della politica e soprattutto della cultura, per allestire la nuova costellazione "democrat", è un'impresa eroica. Implica sacrifici, abbandoni, riesumazioni, recuperi, salvataggi. In parte è un gioco al massacro e in parte un'operazione di cesello. Vogliamo cominciare? Si comincia dalla figurina numero uno, quella di Palmiro Togliatti: togliere, togliere. Il Pd non può avere niente in comune con la "doppiezza" e la "democrazia progressiva" del compagno Ercoli, che allora sarà stato il Migliore, per i comunisti, ma per tutti gli altri mica tanto. Magari, con la benedizione di Rosy Bindi e dei Dico, si potrà salvare un posticino per Nilde Iotti. Al posto di Togliatti, via libera per Alcide De Gasperi, il cattolico liberale che proprio Palmiro voleva mandare via a pedate: «Vattene via, odioso Cancelliere, o ti manderemo via a calci nel sedere». Ma fatta questa prima ardua scelta, bisogna aprire subito una bustina di figurine ancora più problematiche. Gramsci? Berlinguer? Qui forse si può essere meno radicali, e giocare di distinguo. Il filosofo imprigionato da Mussolini può essere utilmente collocato in una sezione di storici; mentre per Enrico Berlinguer ci vuole una didascalia a luci e ombre: che dimostri la capacità di staccarsi dal blocco sovietico, ma che critichi le contraddizioni e le lentezze dell'eurocomunismo. Invece via libera ad Aldo Moro, che per il talento di inglobare fenomeni complessi in vaghe nebulose potrebbe essere considerato una specie di Veltroni triste, e sul lato "radical" a don Milani, un altro dei precursori veltronici (già, "I care"). E se c'è bisogno di equilibrare il prete di "Esperienze pastorali" sul lato laico, c'è sempre l'ombra di Norberto Bobbio, che nella sua lunghissima vita e carriera ha parlato di tutto, e che dunque può essere chiamato a suffragio nel caso di problemi indecidibili, come autorità filosofica e giuridica rassicurante. Poi conviene andare alla radice, e liquidare la genealogia marxista. Tranne Marx, naturalmente, di cui si rifiuterà tutto, dal principio della lotta alla teoria del plusvalore, dalla struttura alla sovrastruttura, salvo il suo genio nel descrivere i processi storici di lunga durata: «Grande ammiratore della modernità borghese», si può concludere osservando in controluce la sua figurina, «basta leggere che cosa dice nel "Manifesto" del 1848». Invece pollice verso per tutti i filosofi marxisti o marxiani da Lukács in poi, e per i teorici della Scuola di Francoforte, Adorno, Horkheimer, Marcuse (con un'eccezione per Habermas, ma solo perché ha dialogato con Ratzinger). Se infatti si deve andare alla ricerca di padri fondatori e maestri di pensiero, il vero e sensibile "democrat" si inchinerà di fronte alla sacra figurina di Alexis de Tocqueville, l'autore di "La democrazia in America", il pensatore che individuò la sindrome della «tirannide della maggioranza». Ma in certe occasioni si potrà scambiare la figurina di Tocqueville con quella di Max Weber, maestro di ogni prospettiva liberaldemocratica. E poi si potrà andare a caccia dei pensatori moderni, l'insuperato John Rawls di "Una teoria della giustizia", filosofo contrattualista e neokantiano, l'autore di una delle ultime grandi teorie per "salvare" concettualmente e politicamente il welfare state; per poi arrivare alla filosofa più trendy, Martha Nussbaum, una sessantenne femminista liberale, costruttrice di un'idea di persona che integra razionalità ed emozioni, e il cui nome si associa inevitabilmente al guru Amartya Sen, l'economista di maggiore successo nell'ultimo ventennio (insieme al critico della globalizzazione Joseph Stiglitz), la cui analisi si è sempre rivolta criticamente allo sviluppo concepito soltanto in termini quantitativi. Diventano complicate le cose sul piano iconografico, perché a parte John Kennedy, e magari Bob Dylan e Joan Baez, e forse il "boss" Bruce Springsteen, il Pd nostrano non sembra dimostrare troppa fantasia. Ma niente paura, basta ricorrere al vecchio Jovanotti di "Penso positivo": «Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa». Un pensiero troppo eclettico? Ma no, basta interpretarne soprattutto il lato dell'immagine, dell'"icona", non le idee. Questo vale anche per i papi di riferimento: addio a Paolo VI, pontefice del dubbio cavernoso, e largo alle immagini di papa Giovanni XXIII, quello della veltronica carezza ai bambini, e all'ipermediatico Karol Wojtyla (di cui vale doppio la figurina che lo rappresenta sul monte Bianco mentre benedice la Russia, salvandola così solennemente dalle tragiche profezie di Fatima). Tanto più che c'è l'altra immagine, quella che lo raffigura mentre dice che ci sono nel marxismo dei «grani di verità», espressione adattissima all'ala sinistra e pensosa del Pd. Certo, con i papi e la chiesa bisogna andarci sempre cauti, perché si era già pedissequamente classificato Joseph Ratzinger fra i conservatori, anche in seguito ai peana di Giuliano Ferrara e degli atei devoti, quando lui, Benedetto XVI, viene fuori con la storia che il lavoro precario «mina le basi della società», e spiazza tutti. Meglio scendere di livello, quindi, e passare dal trono di San Pietro alla cultura popolare: per esempio, non si è ancora sentita una parola sull'inno dei democratici. È ormai tramontata la stella di "C'era un ragazzo" di Gianni Morandi, perché troppo legata a un'idea da anni Sessanta- Settanta, quando il Vietnam era "la sporca guerra", e non si valutava compiutamente la natura geopolitica dell'impegno militare americano. Quindi se si vuole un inno c'è sempre a disposizione l'ormai logora "Imagine" di John Lennon, che viene cantata anche nei saggi di fine quadrimestre della terza elementare. Tanto varrebbe, pur restando in area Beatles, ripiegare prudentemente su "Let it Be", che si rivolge alla Madonna e quindi soddisfa le istanze cattoliche; ma è ovvio che per noi ragazzi dei Sessanta l'inno rimane "È la pioggia che va" («Il mondo ormai sta cambiando / e cambierà di più / Ma non vedete nel cielo / quelle macchie di blu...»: l'hanno suonata anche all'ultimo congresso della Margherita, fra le lacrime dei delegati). Poi occorrono un romanzo e un film di riferimento. Per il romanzo, sembra ormai molto datato "Cent'anni di solitudine" di Gabriel García Márquez, troppo sudamericano e marginale rispetto alla globalizzazione; mentre guadagna punti ogni giorno il bestseller di Khaled Hosseini "Il cacciatore di aquiloni", storia afgana che ha appassionato il largo pubblico, guadagnando masse di lettori con un passaparola incessante. Quanto al film, si tratterà di aprire un dibattito, perché nonostante il sostegno di Veltroni, molti pensano che "Novecento" di Bernardo Bertolucci sia una pistolata che doveva celebrare il compromesso storico attaccando la cattiveria dei fascisti e la corruzione dei borghesi (per rinfrescarsi la memoria, si dovrebbe recuperare la stroncatura di Alberto Arbasino, su "la Repubblica", intitolata "L'epica nel pollaio"). Per trovare un film autenticamente "democrat" e anticattivista non dovrebbe esserci che l'imbarazzo della scelta, dallo spilberghiano "Schindler's List" in giù, magari proprio giù giù fino a "La vita è bella" di Roberto Benigni; ma molti preferiscono una storia americana tipo "Come eravamo" di Sydney Pollack, con Barbra Streisand giovane, ebrea e comunista, e Robert Redford bello, scafato e cinico. Oddio, c'è anche il caso che il Partito democratico risulti un fallimento, e allora occorrerà riprendere la figurina del sessantottesco "Una risata vi seppellirà". Ma anche in questo deprecabile caso, ci sono ormai alternative secche, decisioni obbligate: addio alle figurine di Sabina Guzzanti, e forse anche di Corrado suo fratello, e benvenuto al pensatore più in palla dell'arena democratica, ossia Neri Marcorè. Perché Neri Marcorè è leggero, gentile, quasi soave, suona la chitarra, imita benissimo il democratico Ligabue. Qualcuno ricorderà la sua versione di una delle canzoni più note di Ligabue: «Una vita da prodiano / sempre a prendere schiaffoni / a tenere tutti buoni / circondato da coglioni / Una vita da prodiano...». Qualche volta nelle figurine, nelle canzoni e nelle parodie, c'è la verità. Democratica. n
L'Espresso, 01/11/2007
da lucio al tg
Come dice il poeta: «Deve essere stata una costosa distillazione la marea del mare». Il poeta è Pasquale Panella, autore per Lucio Battisti del "corpus hermeticum" in cinque dischi che ha stravolto la canzone italiana. Ci vuole un certo gusto dell'azzardo per chiamare Panella a commentare l'attualità: lo ha fatto Michele Bovi con "Tg2punto.it", lo spazio quotidiano di mezza mattina che ha esordito l'8 ottobre. Un'ora di telegiornale, collegamenti, ospiti, rubriche, servizi, approfondimenti. Niente gossip, ed è una curiosa ed eroica novità per la tv mattutina. Ma che cosa c'entra Panella, il poeta postfuturista o presimbolista, l'allitteratore efferato, il giocoliere parolibero? Intanto, Panella recita, da bravissimo recitatore, alcune canzoni canoniche: da "As Time Goes By" ("Casablanca", a cinquant'anni dalla morte di Bogart) a "Casetta in Canadà" (prima in classifica nel 1957), a "Il capello" di Edoardo Vianello (per festeggiare i suoi 70 anni), in modo da porre la domanda terroristica: la poesia di Aldo Palazzeschi è davvero superiore a "Guarda come dondolo"? E Palazzeschi, lasciatemi divertire, è davvero superiore a Panella, uno che ha avuto il talento astruso di scrivere per Battisti: «Che ozio nella tournée di mai più tornare nell'intronata routine del cantar leggero l'amore...». Erano canzoni incantabili e incantate. Poi Panella ha collaborato con Riccardo Cocciante traducendo e scrivendo le sue opere tardo-moderne, ha scritto canzoni per Zucchero. Adesso commenta on line le hard news del Tg2. Dei suoi versetti satanici, beccatevi questo, quintessenza lirica del genio, intitolato "Stampa estera e nostrana": «Al Cairo, giornalisti tendenziosi, puniti con ottanta frustate... Qui, spesso, giornalisti tendenziosi puniscono noi con ottanta righe».
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