L’Espresso
L'Espresso, 25/10/2007
Il dilemma di Walter
C'è la vittoria e c'è il problema. La vittoria è stata soprattutto la partecipazione alle primarie del Pd, piuttosto clamorosa se si pensa che ancora una volta il risultato era già scritto. Il problema viene domani, ma comincia adesso, subito. Perché la nascita del Partito democratico, suffragata dai quasi tre milioni e mezzo di votanti, è tutt'altro che un risultato burocratico. Incide sulla composizione del centrosinistra. Si mette in parallelo al governo Prodi, avviando una specie di surplace da pistard, il cui svolgimento è tutto da verificare. Ma siccome con le primarie si è avuta la conferma che dalla crisi della politica si esce soltanto con la politica, cioè con un processo istituzionale fatto di procedure formalizzate, dovrebbe anche essere chiaro che adesso la politica, in una parola Veltroni, dovrebbe cominciare a ragionare sull'evoluzione possibile del centrosinistra. L'assemblea generale di fine ottobre con i 2.400 delegati eletti sarà una specie di grande e festosa cerimonia. È difficile aspettarsi grandi novità. Tuttavia di qui in avanti il neo segretario del Pd dovrà applicarsi fondamentalmente a una sola questione. Banale e difficile insieme. Ossia come vincere le prossime elezioni. Un'impresa eroica, se si guarda ai livelli di consenso del governo Prodi. Ma anche un'impresa che Veltroni può tentare, dal momento che fra tutti i leader del centrosinistra è il più capace di sollevare ondate di emozione politica e di scalfire certe barriere di cruda ostilità che segnano il bipolarismo italiano. Tuttavia il Veltroni "uno e trino", sindaco, segretario e leader del centrosinistra, si trova davanti a un dilemma corposo. In questo momento, l'Unione sembra una montagna della Pusteria, imponente e fragile, a rischio di frattura e frana. Il "piccolo principe" (secondo la definizione del libro che gli hanno dedicato Marco Damilano, Mariagrazia Gerina e Fabio Martini) ha già dichiarato durante la campagna per le primarie che per poter governare occorrono alleanze coerenti, e non assembramenti larghi e tumultuosi. Ciò significa che Veltroni ha ben chiaro che nella prossima stagione il Pd può trovarsi nella condizione di dover ridefinire il perimetro del centrosinistra, facendo i conti con tutta l'area della sinistra radicale. Ma è anche evidente che qualsiasi pronunciamento pubblico sulla fine dell'Unione così come la conosciamo significherebbe lo smottamento della maggioranza attuale e di conseguenza lo schianto del governo. Il dilemma del neo leader è quindi davvero "bicornuto" come un sofisma fallace. Ogni soluzione implica potenzialmente il fallimento dello schema: senza la sinistra oltranzista infatti il centrosinistra non vince; insieme con quella sinistra non governa. E allora? Veltroni ha ripetuto in ogni occasione, ben prima del discorso di investitura al Lingotto, che il Pd dovrà essere un partito «a vocazione maggioritaria». Il che significa che deve andare a prendersi i voti nella società, convincendo l'opinione pubblica, anche uscendo dal cerchio rigido dei partiti e degli schieramenti. Sotto molti aspetti per Veltroni si prospetta un'operazione "blairiana" basata su tre pilastri: partito nuovo, leadership e programma. È su quest'ultimo punto cardine che si gioca la sua credibilità come possibile vincitore. Vale a dire: il segretario del Pd vince la sfida (o almeno la affronta in condizioni praticabili) se prende le mosse dall'impianto programmatico del partito, non dalla tessitura di alleanze e mediazioni con tutta la variegata galassia del centrosinistra. Il sentiero è stretto, e la sua azione sarà fortemente influenzata dal tipo di regole elettorali con cui si svolgerà, quando si svolgerà, la competizione. Ma perdere tempo con un appello fondato sull'umanitarismo, la solidarietà, la genericità sarebbe, per l'appunto, uno spreco. Il Partito democratico ha bisogno di un'anima: tradotto in termini meno sentimentali ciò significa che occorre rendersi conto che è solo una parte della sinistra. E proprio in quanto tale può permettersi di specificare che cosa è e che cosa vuole, vale a dire quale identità politica intende assumere e quale profilo di società e di governo ha in mente. Le mediazioni possono aspettare. I volonterosi votanti delle primarie hanno detto che si aspettano un leader e un partito. E allora tocca al leader di questo partito parlare nel modo più chiaro possibile. Non per guadagnare il consenso preventivo dei partiti alleati, ma la credibilità necessaria per proporsi come guida di un progetto di modernizzazione del paese: qualche volta, e non è un paradosso, la ragionevolezza e la capacità strategica hanno bisogno di una dose di radicalità.
L'Espresso, 25/10/2007
I vizi di house
Come si sa, la notizia della stagione è che il dottor House trasloca da Italia 1 a Canale 5. Peraltro il miglior telefilm di tutti i tempi va ancora in onda su Fox (canale 110 di Sky), ma è la replica della serie precedente. Roba da viziosi (io sono un vizioso). Su Italia 1, vista la puntata di lunedì 8 ottobre, intitolata "Insensibile", che aveva per protagonista una ragazza incapace di avvertire il dolore, e finiva in modo piuttosto splatter, con la scoperta che la paziente aveva nell'intestino una tenia di otto metri (House gliela estraeva con un'operazione da kamikaze della medicina e della chirurgia). Ma non è qui il problema. La puntata è stata funestata da un audio imperfetto, e sono incidenti che succedono. Poi c'è da aggiungere che nella tv generalista la pubblicità sta invadendo anche gli spazi non pubblicitari, con scritte varie, confondendo così comprensione di trame complesse. Infine, il sospetto dei sospetti. Il sospetto dei tagli. Lo so che bisognerebbe avere le prove, ma il fatto è che quella puntata del telefilm era praticamente incomprensibile. Sarà stato l'audio. Sarà stata la pubblicità debordante. Ma se invece fossero stati proprio dei tagli malaccorti, praticati per infarcire di pubblicità il telefilm senza uscire dai tempi previsti dal palinsesto? Ma no, è impossibile, i contratti lo vietano. Già, è impossibile. Non viene fatto mai. Insomma, qualche volta viene fatto, ma raramente. Questa volta non sarà successo. Sono io in realtà che sono rimbambito e non capisco le trame. Guarda che cosa vado a pensare. Voto per la puntata "Insensibile": sarebbe un 7 meno, ma con un taglietto andiamo a 6 più.
L'Espresso, 11/10/2007
GOVERNO a ostacoli
Magari non è la svolta. Forse non servirà a restituire il consenso perduto sulla scia dell'antipolitica e di una dilagante delusione. Può darsi benissimo che per il centrosinistra nella versione di Prodi, cioè alleanza politica larghissima dall'Udeur a Rifondazione, autentico comitato di liberazione nazionale dal berlusconismo, il tempo sia già scaduto, e che l'esperienza dell'Unione si aggiri nevroticamente nei dintorni del capolinea. Si metta anche in archivio che i sondaggi manifestano la tendenza deprecabile di inclinare sempre al peggio. E poi? E poi, punto e a capo. Il presidente del Consiglio abbassa il crapone e tiene duro. Tanto da giustificare l'ammirazione di Eugenio Scalfari per la sua testardaggine, per la sua ostinazione reggiana, da vero "testaquadra", nel tentare e spesso conseguire mediazioni in apparenza impraticabili. Ma se Scalfari fosse giudicato non sufficientemente obiettivo e neutrale, ecco la sentenza di Mario Monti, grand commis europeo, possibile intestatario di un governo di transizione e di garanzia nel caso di collasso del governo, sostenitore a tempo debito della necessità di unire la politica italiana al centro, su un'area di misure politiche essenziali: «L'abilità e la tenacia senza pari di Romano Prodi, unite alla capacità di Tommaso Padoa-Schioppa e di Vincenzo Visco, hanno prodotto quella che forse è la migliore manovra oggi possibile». Naturalmente il consulente di Nicolas Sarkozy, l'elegante bocconiano Monti, chiariva sul "Corriere della sera" tutte le obiezioni possibili alla legge finanziaria, senza lesinare i giudizi dettati dalla teoria economica: «Una Finanziaria grave: mostra i limiti che, nella presente configurazione politica italiana, non permettono una politica economica adeguata ai problemi del Paese». La migliore Finanziaria possibile, e nello stesso tempo una Finanziaria grave: sono i due confini fra i quali si colloca un complesso di misure di contenimento, di galleggiamento, di compromesso, prodotto a fatica all'interno di una coalizione isterica. In ogni caso, dentro l'establishment il varo della Finanziaria è stato accolto con qualche soddisfazione. Per il presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, «siamo sulla buona strada». E si capisce: Montezemolo ha portato a casa il taglio del cuneo fiscale, e dopo avere condotto un durissimo attacco antitasse all'assemblea generale della sua associazione, prima dell'estate, può assaporare l'ulteriore taglio dell'Ires e dell'Irap previsto dalla manovra. Nel suo ambiente, si vedono sorrisini e si ascoltano note vellutate: «Dopo tutti gli attacchi da destra, dopo le accuse di essere stato troppo molle con il centrosinistra, ecco un presidente di Confindustria che ha incassato per le imprese risultati che i falchi non avevano mai ottenuto». Di fronte a queste considerazioni a Palazzo Chigi storcono il naso. Nessuno accetta l'etichetta di un doroteismo illuminato. «Qui non si tira a campare». Il ministro per l'attuazione del programma, Giulio Santagata, osserva: «Abbiamo fatto tutto il possibile, e anche qualcosa di più, per mettere insieme una manovra equilibrata. Perché noi non abbiamo una strategia di sopravvivenza: o meglio, siamo consapevoli che le chance di resistenza del governo sono legate soltanto, anzi esclusivamente, ai risultati prodotti dalla continuità dell'azione di governo». Continuità sempre a rischio, naturalmente, dato che i numeri al Senato sono noti. Ma dopo il varo della Finanziaria si intravede qualche insperato barlume. Sarà per via della leggendaria testardaggine. Ma se Berlusconi ha annunciato nei giorni pari e nei giorni dispari la caduta imminente del governo e della coalizione, e la spallata non è mai riuscita, può anche voler dire che il governo assomiglia sempre più al paradosso classico del calabrone, l'insetto che secondo le leggi dell'aerodinamica non sarebbe in grado di volare, ma ignora le regole della fisica e quindi vola. O almeno svolazza. O almeno non cade. A parlare con lo staff del premier si ottengono spiegazioni multiple. Il bicchiere è mezzo pieno. Se economisti come Tito Boeri e Pietro Garibaldi parlano della manovra come di una nuova grande occasione mancata, la risposta è una serie di dati tutti positivi. Le finanze pubbliche sono tornate sotto controllo, il deficit tocca un risultato migliore di quello concordato con l'Unione europea, è stato ricostituito un 2,5 per cento di avanzo primario, il debito ha ripreso a calare rispetto al prodotto lordo, la spesa pubblica è stata fermata (dopo i cinque anni berlusconiani di crescita inesorabile, mezzo punto l'anno). Bisogna ripartire da questi dati, dicono a Palazzo Chigi. Il navigatore Prodi guarda con preoccupazione alle fibrillazioni politiche, alle mosse di Lamberto Dini, al malpancismo di Clemente Mastella. Ma se si guarda allo scenario d'autunno, al di là degli incidenti possibili in sede parlamentare, i punti critici veri, su cui si concentra l'attenzione di Prodi, sono due. Il primo è l'idea di una "ripartenza", cioè la sensazione che dopo il lancio del Partito democratico con le primarie del 14 ottobre sia necessaria una sterzata. Un rimpasto, un Prodi bis, una spettacolare riduzione del numero dei ministri, una risposta razionalizzatrice alla ventata antipolitica. Storie, risponde all'unisono l'ambiente prodiano, guardando con qualche diffidenza alle ipotesi di restituzione delle deleghe da parte dei ministri "democrat", fatte o lasciate circolare da Walter Veltroni. Ridurre il numero dei ministri significherebbe infilarsi in un negoziato imprevedibile nelle modalità e nei contenuti. Troppo pericoloso, anzi, «ricominciare da fermi sarebbe demenziale». Il realismo di Prodi nasce dalla convinzione che il centrosinistra è un cantiere, e se si muove un'impalcatura tutto l'impianto rischia di entrare in fibrillazione. "Quaeta non movere", quindi, ammesso che ci siano zone di quiete nella maggioranza. Prodi si aggira nella struttura labirintica dell'Unione prendendo nota di ogni problema e ogni difficoltà, ma con la sicurezza che per il centrosinistra non ci sono progetti realisticamente possibili oltre il suo governo. Lo ha ripetuto fino allo stremo. Lo ha fatto capire in tutti i modi. Fatemi cadere, e poi spiegatelo all'opinione pubblica. Lavorate per un governo istituzionale, con la scusa di approvare la nuova legge elettorale, e poi andate a raccontare all'elettorato che avete lavorato per il re di Prussia, ossia per il ritorno trionfale di Berlusconi. Meglio restare calmi, puntare sulla durata. Il secondo punto critico riguarda il voto dei lavoratori sul welfare: ma su questo aspetto Prodi e i prodiani sono più tranquilli. Certo, dicono, c'è la manifestazione del 20 ottobre, ma a questo punto la questione è affrontabile. Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, ha capito che una eventuale delegittimazione del governo sarebbe pericolosa anche per il sindacato. «Si tratta di spiegare alla base operaia», dice sempre Santagata, «che sul welfare abbiamo investito risorse importanti, che migliorano la condizione dei lavoratori: gli scalini sono meglio dello scalone, gli ammortizzatori sociali pongono qualche rimedio alla precarizzazione del lavoro, il bonus ai pensionati poveri è un segnale significativo di attenzione alle aree più deboli. Si può sempre sostenere che si doveva fare di più, ma intanto noi queste misure le abbiamo adottate. Così come bisogna ricordare che la manovra, oltre a frenare l'andamento della spesa corrente, fa crescere la spesa per investimenti. Vale a dire ferrovie, Anas, case». Ecco fatta allora la strategia di Prodi. A chi lo accusa di non avere tagliato le tasse, il presidente del Consiglio ricorda che nel decreto ci sono due miliardi per gli incapienti, e nella Finanziaria due miliardi per la casa (taglio dell'Ici e detrazioni per gli affitti). Se si somma il miliardo di detrazioni fiscali per le imprese, finanziato con modalità simili a quelle adottate in Germania (con l'allargamento della base imponibile), si configura una riduzione sostanziale di cinque miliardi. Resta sempre lo stupore, quasi l'incredulità, per l'insofferenza dei cittadini, rispetto a un complesso di risultati non disprezzabili. «I berluscones sono stati bravissimi, hanno convinto l'Italia che abbiamo provocato una slavina di tasse, e noi non siamo stati minimamente capaci di spiegare il profilo dell'azione di governo». E poi ci si è messa la travolgente ondata antipolitica, il "vaffa" di Beppe Grillo, la documentazione degli sprechi della "casta", i privilegi dei dirigenti di partito, le cadute di stile, di tono, di decenza. Quindi adesso l'imperativo è: portare a casa la legge finanziaria, sperando che i moniti del presidente Napolitano, «non abusare del voto di fiducia», non comportino difficoltà ulteriori. Puntare sul fatto che chi la dura la vince. Sapendo che occorrerà superare un altro Vietnam quando bisognerà andare alle Camere per il rifinanziamento delle missioni militari all'estero. E che nel medio-lungo periodo si staglia sull'orizzonte politico l'incognita del referendum Guzzetta-Segni, con le possibili ritorsioni dei partiti minori. Anche se dicono che «in questo momento il referendum è lontano», a Palazzo Chigi tutti hanno ben chiaro che di fronte alla minaccia referendaria sono già pronti i piccoli killer, disposti a tumulare governo e legislatura pur di evitare la ghigliottina della formula elettorale che uscirebbe dalla consultazione referendaria. Ma la tecnica del Prodi cadente e non caduto è quella del buon cristiano paziente: «Ogni giorno la sua pena». Inutile anticipare i dolori. Anche se a mezza voce i suoi collaboratori lasciano intendere che se vorrà evitare l'arma "fine di mondo" del referendum, «Romano dovrà riprendere in mano il gioco della legge elettorale». Non è la sua specialità, ma quando dice che durerà tutta la legislatura Prodi non fa propaganda: ci crede davvero, o almeno pensa che sia possibile provarci, nonostante tutti i vaticini e tutti gli annunci di sventura. E che solo lui, con la sua «leggendaria cocciutaggine» è in grado di salvare il centrosinistra da se stesso. n
L'Espresso, 11/10/2007
zingaro gad
Il ritorno di Gad Lerner con "L'Infedele" (26 settembre, La7) ha messo subito il dito nell'occhio degli spettatori: "Zingari: un popolo di troppo". Quella di Lerner è una tv laterale, che affronta spesso argomenti coriacei. È laterale rispetto alla tv normale, naturalmente (non appena in trasmissione il sindaco di Livorno ha parlato di "salotto" televisivo, Gad si è incacchiato di brutto). Il fatto è che in tutto questo parlare di antipolitica si dimentica spesso la società italiana: e basta avere visto un filmato dell'"Infedele" sui rom per notare quale carica di violenza contenga la psicologia nazionale (e non parliamo, per carità di patria, degli interventi nei blog, dove la società civile dà il meglio). Il tempo lento di Lerner è l'antitelevisione, che forse oggi è uno degli antidoti possibili all'antipolitica. Perché la discussione, fondata su argomenti e non su attacchi personali, porta dentro lo studio televisivo quella drammaticità che latita nei talk show. Nei "salotti" del piccolo schermo non c'è dramma: a volte c'è chiacchiericcio, a volte farsa, a volte vergogna. Siamo tutti troppo consapevoli che lo spettacolo vuole la sua parte, e che quindi, proprio per la sua formula in controtendenza, "L'Infedele" sarà sempre destinato a quote di audience ristrette; e siamo tutti così mitridatizzati dal veleno quotidiano inoculato dai media che spesso il dibattito lerneriano appare fuori moda. Ma essere fuori moda non significa essere fuori tempo: la drammaticità della tv lenta può andare al cuore dei problemi. Non porta a soluzioni facili, ma misura lo spessore dei conflitti.
L'Espresso, 04/10/2007
beppe grillo L’algerino
La premessa è che il professor Giovanni Sartori è il maggiore scienziato politico italiano, possiede un prestigio indiscusso, ha un alone di autorità internazionale. Liberaldemocratico a pieni titoli, ha insegnato a tutti che cos'è la democrazia. Se non abbiamo capito male a suo tempo, secondo la lezione di Sartori, la democrazia è un sistema di governo articolato in istituzioni, fatto di procedure, determinato da processi formalizzati. (È anche tante altre cose, ma questa sintesi estrema dovrebbe essere sostanzialmente corretta). Bene, la settimana scorsa, sulla prima pagina del "Corriere della Sera", Sartori ha pubblicato un editoriale che potremmo considerare una specie di evento culturale. Parlava di Beppe Grillo, che «ci sa fare», della "casta" descritta da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, della terra che trema sotto la classe politica. Usava parole come «putrefazione»; ventilava un possibile «tsunami»; e concludeva: «Confesso che una ventata - solo una ventata - che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili». Il professor Sartori ha ripetuto concetti simili anche nel programma di Santoro "Annozero". Per questo non sembra un'esagerazione parlare di evento culturale, a proposito del Sartori ingrillito. Perché se il venerato maestro di tutti noi getta la spugna, e dichiara che il sistema politico italiano è da buttare, e il ceto politico da liquidare, non so come la pensi l'opinione pubblica media, ma c'è da prenderlo sul serio. Sono quasi vent'anni che si cerca di razionalizzare il sistema politico della Repubblica. Siamo passati attraverso ondate (o ventate) di populismo, in coincidenza con Tangentopoli e in seguito alle sferzate antipolitiche di Silvio Berlusconi e della Lega; sono stati cercati rimedi istituzionali con i referendum elettorali dei primi anni Novanta, con l'imperfetta legge elettorale semimaggioritaria, battezzata "Mattarellum" proprio da Sartori, con tentativi farraginosi di riforma costituzionale. Può essere che i rimedi siano stati insufficienti. D'altra parte, contro l'incerto e ondivago sforzo di raddrizzare le gambe storte del sistema, e contro la transizione infinita, si è abbattuto anche il disastro della legge elettorale approvata unilateralmente nel 2005 dalla Casa delle libertà, il "Porcellum" (altra definizione di Sartori). Ma a questo punto, è inutile stare a sottilizzare: Sartori è andato giù con la scure: putrefazione, Seconda Repubblica palude imputridita. Non rimane che rivolgere al maestro, con una certa angoscia, la domanda classica: "che fare?". Perché è stato lui a insegnarci che la politica si può migliorare solo attraverso le istituzioni: e noi ci eravamo convinti, adottando la via faticosa dei miglioramenti graduali, delle riforme possibili, dei compromessi praticabili. I sistemi politici si possono modificare attraverso trasformazioni istituzionali; con l'emergere di leadership e proposte culturali nuove; con la trasformazione dei partiti. In Italia, abbiamo provato tutte queste strade, e il risultato è ormai chiaro: non una transizione incompleta ma una transizione spezzata. Probabilmente Sartori potrebbe aggiungere che le democrazie cambiano anche in conseguenza di vicende traumatiche: una sconfitta in guerra, un cambio di regime istituzionale come la fine di una monarchia. Tuttavia le rivoluzioni devono creare altre istituzioni, pena il fallimento. Lo ha insegnato Tocqueville, lo ha spiegato Hannah Arendt. Forse Sartori ha in mente che i sistemi democratici più o meno putrefatti possono essere travolti da eventi esterni, o eccentrici rispetto alla politica tradizionale. Il caso citato più di frequente è quello dell'Algeria, che procurò alla Francia il passaggio dalla ingestibile Quarta repubblica all'efficienza politica della Quinta. Solo che il nostro algerino si chiama Grillo, e la nostra Algeria è un'Algeria interna, fatta di un "popolo" astioso, anzi rabbioso, convinto che si possa andare verso modalità di democrazia diretta, felice di spedire il proprio insulto, "vaffa", verso tutti. In sostanza, già le proporzioni sono squilibrate, se è vero che la Francia ha avuto il generale De Gaulle e noi abbiamo Beppe Grillo. Sicché non resta che prendere atto dello scarto di Sartori; ma poi viene naturale chiedergli davvero come agire, secondo quali prospettive, in che direzione. Si può anche augurarsi che la Repubblica imputridita venga spazzata via: ma dopo, e anche intanto, caro maestro, "che fare"?
L'Espresso, 04/10/2007
un marziano a sinistra
Se ci sono i "Gendarmi della Memoria", vuol dire che qualcuno l'ha sequestrata, la memoria. È la prima constatazione, ovvia, scontata, però spontanea, che si prova ad aprire il nuovo libro di Giampaolo Pansa (Sperling & Kupfer, in libreria il 2 ottobre). Anche il sottotitolo in copertina, stampato sopra una mano di bianco che copre l'ineluttabile colore rosso, è piuttosto esplicito: "Chi imprigiona la verità sulla guerra civile". Non c'è il punto interrogativo, e per i lettori appena smaliziati la domanda contiene in sé la risposta. Basta avere letto qualche pagina degli ultimi libri di Pansa, da "Il sangue dei vinti", la ricostruzione che ha riaperto il confronto, o meglio lo scontro, sulla nostra storia divisa, fino a "La grande bugia", uscito l'anno scorso, e che ha destato ancora più clamore dei precedenti. Ma se si cerca di sfuggire a una lettura pavloviana dei "Gendarmi", ci si accorge che il libro di Pansa è ancora più insidioso di quanto non abbia voluto intendere la sinistra più dogmatica, quella dei Sandro Curzi e Marco Rizzo, e quella degli storici alla De Luna. Perché completa un pensiero perseguito con puntiglio, approfondito, scavato, indagato con totale dedizione intellettuale. Per gli avversari, e anche per i nemici del pansismo, si tratterà di un altro capitolo dell'opera di instancabile denigrazione della Resistenza praticata da uno che «lo fa per i soldi», produce «un'operazione commerciale», con il «libro vergognoso di un voltagabbana» (come titolò "Liberazione"), tramutando in un cospicuo affare privato la modestia economica della ricerca storica. Oppure di un esempio dell'inconsistenza storiografica severamente censurata, come ricorda Pansa, dallo storico Sergio Luzzatto: «L'audience giampaolopansista corrisponde al ventre molle di un'Italia anti-antifascista prima ancora che anticomunista... Un Paese felice di sentirsi ignorante, e di farsi illuminare dal Robin Hood di Casale Monferrato». Per chi desidera ripercorrere la campagna di attacchi scatenatasi all'uscita della "Grande bugia", Pansa è prodigo di pagine, a cominciare dalla spettacolare incursione avvenuta il 16 ottobre 2006 nella sala di un albergo di Reggio Emilia («Triangolo rosso? Nessun rimorso», diceva il cartello della dozzina di incursori denominata "Antifascist Militant"). Tuttavia le contestazioni e le minacce, proseguite in altre città, a Bassano come a Castelfranco Veneto, rappresentano soltanto un complesso artificio indiziario: dietro gli indizi c'è una questione ben più controversa della difesa occhiuta della mitologia resistenziale e del repertorio antifascista. Un passo indietro. Si può leggere ancora una volta "I Gendarmi" come un capitolo ulteriore della luttuosa epopea raccontata meticolosamente da Pansa. Gli ultimi giorni della Liberazione e la stagione della vendetta contro i perdenti. Sequenze illividite dall'odio, in cui trascolorano le ombre dei repubblichini fucilati, dei fascisti trucidati, delle donne innocenti stuprate e uccise barbaramente, delle sepolture senza nome e delle ricerche senza risultato: eppure, concentrarsi su queste descrizioni, sulle morti sconosciute, sugli eccidi innominabili e a posteriori giustificati con l'inganno, equivarrebbe a perdere di vista il nucleo vero e bruciante del libro di Pansa (ma a questo punto converrebbe dire della sua opera complessiva). Libro e opera sgradevoli per la sinistra italiana. Anzi, "sgradevoli" è un eufemismo. Forse "distruttivi" sarebbe più adeguato, se non fosse che Pansa rivendica con chiarezza e forza la sua cultura di sinistra. Tali comunque da meritare attacchi violenti e soprattutto esorcismi: come il «rovescismo fase suprema del revisionismo», nella formula usata dallo storico torinese Angelo d'Orsi prima su "Liberazione" e poi sulla "Stampa". Perché la tesi finale di Pansa è una e una sola: «Non c'è riformismo senza revisionismo». E qui occorre fermarsi. Perché ci vuole poco a capire che a questo punto l'argomentazione di Pansa, del "pansista", del "completista", del sostenitore di una storiografia che racconti e comprenda anche la tragedia dei vinti, si proietta su tutta la vicenda che ha portato la sinistra italiana dal Pci al Pds, e condurrà dai Ds al Partito democratico. È la convinzione che, senza un approfondimento spregiudicato della propria storia, nessuna evoluzione è credibile. Senza un atto di rottura, senza un riconoscimento formale della drammaticità di una vicenda, giurando e spergiurando invece sulla indefettibile continuità di una parabola che comincia con la Resistenza e si dirama nel Pd veltroniano, l'avventura della sinistra rimarrà soltanto un santuario oleografico. Cioè un travisamento della realtà. Sotto questa luce, parafrasando Pansa, Palmiro Togliatti, il Migliore, alias il funzionario dell'internazionalismo, il "compagno Ercoli", resterà il costruttore sapiente di un'esperienza di comunismo nazionale, l'uomo che con il memoriale di Jalta individuò le contraddizioni del Pcus. Il suo successore, Luigi Longo, sarà il depositario dell'eredità togliattiana, un duro ortodosso ma anche il primo critico dell'invasione di Praga nel 1968. Enrico Berlinguer sarà sempre venerato come il portatore di una "diversità" comunista, opposta al degrado morale del sistema di potere democristiano e socialista. Dopo la transizione di Alessandro Natta, postremo esponente della natura ideologica del Pci, il movimentismo di Achille Occhetto verrà ricordato come la febbrile consapevolezza della necessità di cambiare ideologia e sigla, giusto in coincidenza con il crollo del Muro di Berlino. E così via, fino alle sofferenze di Piero Fassino, il primo segretario a tentare una riconsiderazione del craxismo e a lanciare l'anima oltre l'ostacolo verso l'orizzonte "democrat" come compimento della vicenda del Pci. Altri studiosi italiani, come Ernesto Galli della Loggia, hanno individuato nel continuismo il peccato originale della sinistra. Ma Pansa è un intellettuale "sui generis", sfrontatamente anti- accademico, portato a credere, come San Tommaso, solo in ciò che vede e in cui può ficcare il dito. Tant'è vero che il suo scrupolo di cronista lo conduce a recuperare il commento né scandalizzato né conformista dell'ultraortodosso e ultrapragmatico Giorgio Amendola, ai tempi della demonizzazione di Renzo De Felice, lo storico "pugnalatore" (secondo Nicola Tranfaglia), colpevole di avere trattato il Ventennio da entomologo, e non con la lente dell'ideologia approvata, ai tempi dell'"Intervista sul fascismo". Opinione che va messa a confronto con il giudizio recente di uno dei santoni del comunismo "di massa" e di movimento, Pietro Ingrao: «Provo collera contro gli attacchi che vengono fatti alla Resistenza, alla lotta di Liberazione, da parte di alcuni giornalisti...». Alcuni giornalisti. Una definizione che è una miscela di superiorità e di sprezzo. L'avversario innominato, ridotto a una non entità. Da parte sua, Pansa non edifica ideologie. Lascia cadere i giudizi fra le righe delle sue cronache: «I miei libri non piacciono a quella parte della sinistra italiana che è rimasta bambina». Ossia che crede alle favole e rifiuta di guardare la realtà: «Si tappa le orecchie, urla che non vuole sentire, accusa lo sfavolatore, chiamiamolo così, di commettere un delitto». Ma a proposito dei «Gendarmi delle Favole», Pansa non si tira indietro, trae le conseguenze: «Nelle teste dei miei cacciatori c'era un grumo totalitario, insopportabile in un Paese democratico. Ma purtroppo sopportato, e qualche volta incoraggiato, da partiti che siedono in Parlamento». La battaglia di Pansa è quella di un alieno a sinistra. Un uomo la cui polemica abbatte le mitologizzazioni del passato (come ebbe a giudicarle anche un intellettuale di sinistra, Silvio Pons, direttore della Fondazione Istituto Gramsci: «A sinistra c'è una tradizione consolidata che porta a valorizzare la propria storia. Ma che a volte è sconfinata nella mitologia»). Ma le cui critiche investono, e questo dovrebbe essere più preoccupante, l'avvenire. Perché senza il passato non c'è futuro. Ecco il «perfetto Walter Veltroni», prodigo di solidarietà privata quanto avaro di solidarietà pubblica, «capace come nessuno d'incarnare la banalità del bene». E anche tutta la nomenklatura in procinto di reincarnarsi nel Partito democratico, da Anna Finocchiaro a Pierluigi Bersani: ultimo esempio o vittima, secondo Pansa, del riflesso condizionato comunista. Bersani infatti non si candida contro Veltroni per la segreteria del Pd, annunciando la propria decisione con una lettera «imprevista e imbarazzante». In cui spiega che si ritira dalla corsa, rinunziando alle proprie ambizioni, per non «disorientare il nostro popolo, che non avrebbe capito». Sono anche questi gli scherzi, maligni, della storia. Effetti del passato che non vuole saperne di passare. Come se sul futuro gravasse un'ipoteca: quella di non avere voluto guardare alle rotture, alle tragedie, alle colpe, di avere sempre giustificato e quasi mai spiegato, e anche di avere capito senza averlo riconosciuto. Per ragioni di interesse superiore, perché lo imponeva la correttezza ideologica, la moralità di partito. Tutte cose che non esistono più, come non esiste il «popolo» a cui si riferiva Bersani per spiegare il suo ritiro. Ma può una sinistra che vuole ignorare la propria storia, che ha concepito ogni cambiamento come una svolta, più o meno naturale, e non come una discontinuità, eventualmente densa di tragedia, magari psicologicamente stridente, presentarsi come un soggetto politico nuovo? Alla fine di tutto, di alcuni libri, di cento polemiche, di mille dibattiti, e anche di tanti insulti, forse questa è la domanda più forte e dolorosa dell'alieno Pansa. n
L'Espresso, 04/10/2007
i nulla vedenti
Il programma condotto da Paolo Bonolis con la collaborazione di Luca Laurenti, "Ciao Darwin", sottotitolo "L'anello mancante", è giunto alla quinta edizione e va in onda il martedì in prima serata su Canale 5. La collocazione testimonia che è considerato un programma di punta. Aldo Grasso ne ha parlato come di un'occasione mancata. Ma "Ciao Darwin", sebbene non parli dell'evoluzione della specie, parla dell'evoluzione della tv. La trasmissione di Bonolis infatti è tv contemporanea allo stato quintessenziale: con un'operazione alla Tarantino (uno dei "Kill Bill", per intenderci), "Ciao Darwin" prende archetipi televisivi e li piazza in un orizzonte mitologico. Sono frammenti ripescati dall'intrattenimento pop, o dai primi programmi di Gianfranco Funari, proiettati nella tv generalista di oggi e fatti diventare icone della post-post-postmodernità. I risultati di audience non interessano. Importa poco anche il contenuto. Ciò che conta è che si tratti di immagini televisive, con lo schermo decomposto e Bonolis in un box in basso a sinistra che dialoga con degli infelici. Sono in gioco strutture di realtà divenute "fictional", televisività pura, Bonolis-pensiero e Bonolis-ideologia distillati in sequenze tv. Si potrebbe sostenere che nessuno ha mai capito la logica di "Ciao Darwin", se non fosse che come dice il cantautore poeta amico di Veltroni ed elettore della Bindi, «non c'è niente da capire». "Ciao Darwin" è il nulla, come disse Gianni Boncompagni di "Macao", ma è un nulla fatto di televisione, tv che si autoriproduce, partenogenesi assoluta. Non è neppure necessario guardarlo, il programma: basta sapere che c'è per esserne coinvolti o complici. È il quinto o sesto potere, siamo suoi prigionieri. E d'altronde, il linguaggio di Bonolis continua a essere il migliore artificio inventato per la tv di oggi, metà Renato Zero e metà Alberto Sordi, con pennellate auliche. Voto: ineluttabile.
L'Espresso, 27/09/2007
tsunami a palazzo
Si attaccano al dogma dell'insostituibilità di "Romano". La pattuglia prodiana asserragliata a Palazzo Chigi si comporta come chi è nell'occhio del ciclone: tutto intorno è bufera, uragano, fortunale; loro stanno attaccati alle maniglie di soccorso, ancora convinti che il tempo è dalla loro parte. Aspettare la prossima Finanziaria. «Time is on my side», canticchia Giulio Santagata sulle note di Mick Jagger. «Io governerò per tutta la legislatura», ripete Prodi ad ogni pie' sospinto. Traduzione per il popolo: questo governo sta in equilibrio sulla fune, ma nessuno può permettersi di farlo cadere. Il grande complotto intestato ai poteri forti e a Walter Veltroni? Una bufala: «Nessuno può assumersi l'azzardo di prendere il posto del premier con una manovra trasformista». Allora un governo istituzionale, di garanzia, di salute pubblica, insomma la solita ipotesi Marini? Storie, sempre le stesse storie. Eppure se è bastato il "Vaffa Day" di Beppe Grillo a sconvolgere la politica italiana vuol dire che la crisi di consenso è irrecuperabile, proprio come ha scritto Eugenio Scalfari pur prendendo nota della tenacia a prova di bomba di Prodi. «Ma si tratta di vedere se Grillo fa male solo a sinistra o anche a destra», insistono a Palazzo Chigi. Già, anche un commentatore austero come Stefano Folli, sul "Sole 24 Ore", ha fatto presente che la vertiginosa folata protestataria di Grillo ha fatto invecchiare dalla sera alla mattina anche la Casa delle libertà. Umberto Bossi ha fatto la figura del vecchio reazionario, sentendosi evidentemente espropriato del ruolo di arruffapopoli. I circoli della rossa Michela Vittoria Brambilla sono apparsi all'improvviso come delle conventicole di gente entusiasta ma senza un grande futuro. Gianfranco Fini, come al solito nei momenti cruciali, è impegnato altrove, a sfottere Veltroni davanti ai goliardi post-missini, a condurre i suoi giochi politicanti senza capo né coda. E il grande leader supremo, Silvio Berlusconi, è diventato totalmente taciturno, probabilmente infastidito, lui il grande antipolitico, dal fatto che qualcuno addirittura più antipolitico di lui gli abbia rubato la scena. Anche perché Grillo potrebbe essere una meteora, ma è comunque un corpo astrale che si trascina dietro in prevalenza un elettorato di sinistra, come ha mostrato Ilvo Diamanti. Mentre circolano sondaggi che danno in flessione grave la sinistra oltranzista classica (Rifondazione comunista poco sopra il 3 per cento, i Comunisti italiani all'1), un altro politologo attentissimo al mutare dei rapporti fra società civile e politica, Roberto Cartocci, sostiene che «l'apparire della "cometa Grillo" illumina tutte quelle aree sociali in cui si manifestano domande a cui i partiti non sanno o non possono offrire risposte». Il che equivale a dire: il sistema politico si è inceppato; il centrosinistra non è riuscito a dare la sensazione di intervenire sui temi che l'opinione pubblica considera rilevanti; c'è una distanza culturale che oggi appare incolmabile e che difficilmente potrà essere colmata con l'esperimento in vitro del Partito democratico. In queste condizioni riesce complicato articolare una proposta politica credibile, capace di ricostruire consenso. Per certi aspetti sembra valere lo schema ironicamente descritto a suo tempo dal maestro degli scienziati politici italiani, Giovanni Sartori: «Ormai in Europa si vota sempre contro il governo. Se si vota contro se non fa le riforme, perché in questo modo blocca la crescita. E si vota contro se le riforme le fa, perché allora vengono attaccate rendite e posizioni di privilegio». Ma se questo è vero sembra possibile soltanto un'abdicazione della politica. Certo, non si può dimenticare che il processo di razionalizzazione del sistema politico è stato silurato nel 2005 dall'introduzione del "Porcellum", la riforma proporzionale varata in via unilaterale dal centrodestra per limitare la vittoria dell'Unione e per tentare di impedire l'attività di governo. Un attentato al paese, lo aveva definito allora Arturo Parisi. Il risultato è visibile agli occhi di tutti: ormai non si può più parlare di una transizione incompleta; siamo di fronte a una transizione interrotta. E quindi risultano sempre meno credibili gli appelli a trovare una soluzione condivisa, nella prospettiva di restituire efficacia al meccanismo elettorale. Resta sullo sfondo la prospettiva del referendum Guzzetta-Segni, ma c'è anche da fare i conti con la stanchezza indicibile di dover puntare di nuovo sul rifacimento dei meccanismi: ossia sulle procedure, sui tecnicismi, quando la sensazione che si è diffusa è quella di un sistema incorreggibile. Per questo passa nell'opinione pubblica l'urlo di Grillo: «Io i partiti li voglio distruggere». Che sarà una protesta irrazionale, ma risulta in completa sintonia con l'insofferenza per la «Casta». E mette in luce il girovagare a vuoto dei protagonisti politici. Di fronte alla denuncia "populista", infatti, ogni progetto di razionalizzazione, ogni risparmio di spesa, ogni taglio dei costi viene percepito come insignificante. Ha un bel da dire, Prodi a "Porta a Porta", di avere ridotto del 30 per cento lo stipendio della compagine dei ministri. È come annunciare di avere cominciato a vuotare l'oceano con il cucchiaio, un nonnulla di fronte allo spreco e agli scandali, agli aerei di Stato, alle pensioni parlamentari, alle spese demenziali delle comunità montane finte. E il piano Santagata di moralizzazione dei costi della politica? Al massimo sarà considerata un'operazione di maquillage. Di fronte al sentimento di indignazione di massa, nessuna misura può risultare efficace. È logico quindi che allora si sviluppino strategie alternative, serpeggianti, non sempre dichiarate ma in fondo rintracciabili. Con il tentativo di risolvere finalmente la partita fuori dagli schieramenti bipolari, al centro. Che cosa significa la piccola secessione di Lamberto Dini, uno dei 45 saggi del Pd, che ha annunciato di non confluire nei "Democrat" e di lanciare il manifesto dei "Liberaldemocratici"? E che cosa vuol dire la defezione di Domenico Fisichella, anche lui fuori dal Partito democratico? Nell'immediato è semplicemente l'annuncio di nuovi ostacoli per Prodi, che al Senato dovrà mettere a bilancio nuove tensioni tra riformisti e sinistra estrema (e quindi si troverà di fronte a un altro e più evidente problema di disfunzionamento della maggioranza, con le ripercussioni che si possono prevedere in termini di credibilità e di consenso del governo). Ma in una prospettiva più ampia, non va sottovalutato il giro di contatti più o meno segreti che coinvolge gli ambienti ex democristiani, un lavorio oscuro che tenta di preparare una risposta iperpolitica alla crisi della politica. La premessa è sempre la stessa: muove dalla considerazione del fallimento del modello bipolare. Il mantra neocentrista, avanzato da Clemente Mastella durante l'estate e fatto circolare dagli ambienti democristiani, suggerisce che c'è la possibilità concreta di creare uno spazio politico che va dall'Udc all'Udeur, con un potenziale di attrazione su settori della Margherita e anche di Forza Italia. Il ragionamento dei centristi è semplice: se si va al voto nelle condizioni attuali, niente e nessuno può impedire la riscossa di Berlusconi. Può darsi che, dopo la vittoria alle primarie del Pd, Veltroni sia in grado, con una campagna elettorale moderna, mediatica, spettacolare, di limitare i danni: ma per essere competitivo dovrà tenere insieme tutto il centrosinistra, con il rischio di incorrere inevitabilmente nelle traversie che hanno messo in crisi Prodi. E allora, è il ragionamento, conviene muoversi per modificare strutturalmente il disegno degli schieramenti. Puntare a una formazione di centro in grado di superare qualsiasi soglia di sbarramento e di proporsi («alla tedesca», come dice confidenzialmente il vecchio navigatore Paolo Cirino Pomicino) come perno per una rinnovata politica dei due forni: ovvero in modo da risultare determinante per qualsiasi ipotesi di governabilità. Mica male, come progetto di massima: rispondere all'antipolitica con una strategia di politicismo puro. Ma se il centrodestra si limita a incamerare il consenso che sfugge all'Unione, e il centrosinistra non riesce a invertire il giudizio dell'opinione pubblica, non ci sarà da stupirsi se dalle rumorose boutade di Grillo verranno ottime occasioni per le silenziose formichine dell'eterno centro. n
L'Espresso, 27/09/2007
I forzati del Kamasutra
Il reality show "Sex Therapy" in onda su Sky Vivo è il classico programma che si guarda di nascosto, cambiando canale se arriva qualcuno in salotto. Il format è noto: coppia di dementi un po' fissati con il sesso (nessuno gli ha ancora spiegato l'ultimo grado del cool: «Ormai lo fanno solo i portoricani»). Questi poveri infelici sfortunatamente hanno qualche problema orgasmico o di insoddisfazione generale sotto il profilo erotico. Ancora non sanno che il sesso, quando è praticato fisicamente, è la cosa più insoddisfacente della vita. E quindi, ahi loro, si consegnano alle sevizie dei sessuologi, che organizzano una corsa a ostacoli verso il sesso perfetto. La terapia comincia con l'esclusione della copula dalla vita dei disgraziati, in modo che questi comincino ad apprezzare le infinite varianti intellettuali e anche materiali dell'impero dei sensi. E a questo punto è detto tutto. Conviene ammirare i protagonisti, veri italiani medi contemporanei, né belli né brutti, ma acchittati, palestrati, forse tatuati: con le donne che pur soffrendo si prestano alla mignotteria, e gli uomini che cercano di assomigliare ai calciatori, quasi riuscendoci. Capigliature, pettinature. Alla fine, l'accoppiamento dopo la terapia è rivolto più alla soddisfazione degli spettatori che a quella degli attori. Lo spettacolino conclusivo, con posizioni ardite, magari non conduce a parossismi orgasmici, ma porta alla convinzione rassicurante che così fan tutti, magari anche i portoricani, e quindi anche le noiose notti in Italia possono essere un po' movimentate. Voto al programma: chi se ne frega.
L'Espresso, 20/09/2007
Qui finisce il sessantotto
Non siamo mica in Francia, dove Nicolas Sarkozy ha fatto sapere: «Io sono l'anti Sessantotto», e via andare con l'ordine, la legalità, la pulizia, il rispetto, l'educazione, senza tanti fronzoli mondani e liberal. Eppure a Parigi, dopo le battaglie nel Quartiere latino, l'impulso del Maggio si era rapidamente spento sotto il pugno di ferro del generale De Gaulle. Qui siamo in Italia, dove il Sessantotto è durato politicamente dieci anni, e socialmente e culturalmente un'eternità. Ha permeato l'autunno caldo del 1969, le lotte della classe operaia che doveva conquistare il suo paradiso, le grandi avanzate della sinistra nel 1975 e nel 1976, il Settantasette bolognese con l'Anti-Edipo di Guattari che attaccava la «repressione», fino alla chiusura del sipario, reale e virtuale, simboleggiata dall'assassinio di Aldo Moro nel 1978. Ma soprattutto il pensiero sessantottesco e l'ideologia sessantottina si sono stese sull'antropologia italiana, impastandosi con l'idea stessa di sinistra e diventando il vero senso comune nazionale. Ma adesso ha cominciato a tirare un'aria diversa. Come se, dopo quarant'anni, lo spirito del tempo, che soffia dove e quando vuole, avesse deciso di chiudere i conti, chiudere la fase, chiudere la partita del Sessantotto. Sessantotto adieu, allora. Basta alzare il naso e si sente aria di restaurazione. Indizi, sintomi. Che cosa vorrebbe dire, altrimenti, la sortita del ministro Giuseppe Fioroni, che rimette al centro della scuola tabelline e sintassi? Per decenni ha avuto corso il principio supremo del sessantottismo, cioè il no al nozionismo. Subordinata: largo allo "spirito critico". Non ci vuole un'anima reazionaria per registrare i danni inferti dalla lunga ventata antinozionista, nel senso che l'intreccio di genericità, di sociologismi, di astrazioni, di politichese ideologizzante si è sedimentato nella cultura scolastica, ha trasformato i libri di testo, anche alle elementari, in una nuvola vaporosa di nulla centrifugato, braudelismi in versione pop, storia e microstoria sociale, "materiale e immaginario" mischiati alla meno peggio: per cui nessuno scolaro è più capace di recitare a memoria i sette re di Roma o citare l'episodio di Muzio Scevola che si brucia la mano, ma sa qualcosa di vago sulla "vita quotidiana delle donne nella Repubblica romana". Ridateci gli Orazi e i Curiazi, e pure «Romolo e Remolo», à la berlusconiènne. Ma il ritorno alle nozioni è la spia di un cambiamento d'epoca o è solo un postdatato velleitarismo di stagione? Prendiamo l'altro grande totem della cultura sessantottesca, ossia la battaglia antimeritocratica. Quarant'anni fa, battersi contro il merito come criterio di giudizio e di selezione era un'etichetta progressista, fondata sull'idea che nella società di classe i privilegi assegnati a priori dalla società capitalistica impedivano agli ultimi di competere con i primi. Somma ingiustizia, diceva una delle icone sessantottesche, don Lorenzo Milani, «fare parti uguali fra disuguali»: vale a dire che il merito era considerato soltanto lo specchio della disuguaglianza di classe. L'egualitarismo diventava quindi un altro principio inderogabile. Mentre oggi non è solo la Confindustria, con le parole del suo presidente Luca Cordero di Montezemolo all'assemblea generale, a proporre la meritocrazia come fattore progressista della società: anche l'ala più esplicitamente riformista del futuro Partito democratico, da Enrico Letta a Pier Luigi Bersani, interpreta il merito come uno strumento per infrangere le barriere di una società castale. Già, la casta: il bersaglio dell'ormai più che celebre libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, ma anche della piazza virtuale e reale di Beppe Grillo. Il fatto è che quarant'anni fa si proponeva di aggredire il privilegio con la lotta di classe, cioè con un'azione collettiva organizzata politicamente; mentre adesso di collettivo non c'è quasi più nulla. In fondo anche il Vaffa Day di Grillo assomiglia più a una somma di individui, all'esprimersi di una società molecolare, che non al lavoro "di massa" che agiva attraverso il sindacato, i partiti, i gruppi politicizzati. L'età presente sembra tornata alla realtà descritta dal teorico ottocentesco Gustave Le Bon, alla psicologia delle folle anziché alla coscienza delle masse. E quindi tutte le grandi opposizioni del Sessantotto, a partire dalla dicotomia destra/sinistra, risultano scalfite. Allora, sulla scia delle tesi dei filosofi francofortesi come Herbert Marcuse e Theodor W. Adorno, il processo dialettico vedeva da un lato il sistema del "dominio", cioè la complessità del tardo capitalismo (vulgo: "il sistema"), e dall'altro le classi alienate, espropriate materialmente e spiritualmente dal potere. Marcuse aveva creato addirittura il concetto della "desublimazione repressiva", ovvero la modalità con cui il sistema medesimo tollerava le trasgressioni, purché fossero ininfluenti sul funzionamento complessivo. Oggi invece la trasgressione, l'adorniano scarto ripetto alla norma, è diventato politicamente fastidioso. Se il Sessantotto era tutto un fiorire di slogan intellettuali contro la famiglia borghese, contro il matrimonio, contro il filesteo decoro famigliare, oggi si è assistito a uno slittamento di criteri inesorabile. La famiglia è tornata a essere un valore primario da spendere in politica, e non solo da parte di Pier Ferdinando Casini e di Silvio Berlusconi. Mentre quarant'anni fa, quando il privato era politico, la liberazione sessuale, che avrebbe trovato voce e presenza pubblica nel movimento femminista, aveva come premessa e conquista la libertà di contraccezione, oggi circola come motto il ritorno alla "natalità". La coppia, che allora veniva considerata una struttura storica da superare, magari con le comuni e con la creatività erotica, è tornata a essere considerata il nucleo vitale della società, una forma sociale storicamente immodificabile che riscuote il favore e l'ammirazione intellettuale dei boys di Giuliano Ferrara, commosso dalle iper-storie sentimentali di Annalena Benini sul "Foglio", strazi e gioie di coppie che si spezzano, si riuniscono, eccedono, infine si normalizzano. Quindi addio ai grandi destrutturatori, a Ronald Laing e David Cooper, con le loro teorie sull'antipsichiatria, l'io diviso e la disgregazione della famiglia, ai guru come Ivan Illich, che voleva «descolarizzare la società» e «distruggere la scuola». La grande triade su cui si era articolato il Sessantotto, Marx-Marcuse-Mao, secondo la tagliente ideologia teutonica di uno dei leader del Sessantotto tedesco, Rudy Dutschke, è finita in archivio (al massimo resiste Mao, come Che Guevara, in quanto immagine totale, celebrata anche nella rassegna che si apre a Parma il 21 settembre, intitolata "Mai dire Mao - Servire il pop"). Il marxismo-leninismo, che era la formula dogmaticamente indiscutibile, una concezione immacolata del verbo rivoluzionario, appartiene alle anticaglie: ma quali avanguardie, ma quale partito, la scena del mondo si stende fra la società atomizzata del capitalismo liquido e le esplosioni disordinate dello scontro di civiltà alla Huntington. Lo stesso atteggiamento di simpatia e sintonia con i movimenti terzomondisti, ispirato principalmente dal furibondo pamphlet anti-imperialista di Frantz Fanon, "I dannati della terra", è stato messo a durissima prova nel momento in cui gli ultimi del pianeta, gli abitanti delle favelas, i migranti, hanno cessato di essere una risorsa potenziale della rivoluzione globale e vengono percepiti come un problema della situazione amministrativa locale. Argomento che assume un peso politico fortissimo nel momento in cui la sicurezza, cioè il law and order, la tolleranza zero, viene impugnata a sinistra in una competizione non tanto subliminale con la destra. Singolare destino per una concezione culturale che aveva privilegiato l'insurrezione contro la stabilità, la protesta contro il governo, l'immaginazione contro il realismo, lo spontaneismo contro le istituzioni, nel segno del grido ritmato secondo cui "lo stato borghese si abbatte e non si cambia", e della battaglia contro l'"autoritarismo". E non serve a molto ricorrere al vecchio adagio secondo cui si nasce incendiari e si diventa pompieri. Piuttosto, non sarà insignificante notare che il vero vincitore filosofico in questo cambio d'epoca non è neppure la destra liberista, esplosa con il boom reaganiano e thatcheriano negli anni Ottanta, con l'edonismo individualista e la curva di Laffer, che avevano già fatto a pezzi le idee anticonsumiste; ma piuttosto il pensiero che ha per sommo interprete Joseph Ratzinger, con il suo repertorio basato sul binomio "fides et ratio". A fine luglio, Benedetto XVI aveva qualificato il Sessantotto come «una fase di crisi nella cultura in Occidente». Certamente, ha più titoli e strumenti il papa a censurare il «relativismo intellettuale e morale del Sessantotto», di quanti non ne abbia Sarkozy. La "fides" è in antitesi con la secolarizzazione innescata dal Sessantotto, la "ratio" è un antidoto all'irrazionalismo dell'"immaginazione al potere". Se ora la crisi apertasi quarant'anni fa si richiude, qui nei confini domestici ci saranno molti sospiri di sollievo: anche se non è detto che sia un gran vantaggio veder tramontare i vecchi sogni della rivoluzione e della rivolta, per ritrovarsi nel proliferare caotico, catodico e internettiano dell'antipolitica. n
L'Espresso, 20/09/2007
Miss per un quiz
Uno dei fenomeni antropologici nuovi della televisione contemporanea è il cambiamento di qualità nei partecipanti ai quiz (o meglio al game show, secondo il lessico degli esperti). La qualità riguarda non le doti intellettuali o le conoscenze, dato che per partecipare a uno spettacolino a domanda e risposta non ci vuole nessuna competenza in nessuna materia. Concerne invece l'aspetto fisico, e in particolare l'aspetto delle donne che partecipano come concorrenti. Le quali sono diventate via via delle belle donne (anche i maschi, per la verità, sono un po' migliorati, ma il fenomeno è vistoso soprattutto con il côté femminile della partecipazione). Per rendersene conto basta dare un'occhiata a programmi preserali o post- telegiornale: per intenderci, quelli diretti di volta in volta dai Frizzi, Conti, Insinna, Pupo, Amadeus eccetera. L'esempio migliore attualmente è "L'Identità", la trasmissione condotta da Fabrizio Frizzi, proprio perché i concorrenti non devono saper fare nulla. L'obiettivo è di indovinare l'identità di alcune figure ospiti, e l'unica qualità richiesta ai concorrenti è una certa intuizione e una buona dose di fortuna. Ecco allora: le concorrenti non sono più anonime, non hanno dedicato una vita agli studi di materie noiose, di elenchi sconfinati, di particolarità meticolose. Si caratterizzano per l'aspetto fisico, due occhi che bucano lo schermo, le curve armoniose, la scollatura che sottolinea le curve suddette. Si vede benissimo che il loro scopo principale non sono i soldi: se arrivano, bene, si comprerà l'auto nuova al marito o al fidanzato che è in studio e che, interpellato sulle decisioni della moglie o morosa, dirà sempre: «Sono dalla sua parte». Ma in realtà alle donne che arrivano in tv interessa più che altro realizzare il proprio show: apparire per quel quarto d'ora warholiano di presenza e di popolarità a cui tutti, ma soprattutto le gnocchette, hanno diritto. Quanto alle brutte, si dirà, qual è il loro destino? Innanzitutto, si sappia che le brutte non esistono più, se non per loro colpa o disattenzione. E quindi non ci vogliono rimorsi o sensi di colpa. Che bellezza sia. E la televisione si apra all'avvenenza come unica dote: d'altronde, le veline che cosa sanno fare, se non apparire? Forse, dare anche al popolo la possibilità dell'apparizione televisiva è il vero progressismo, oggi.
L'Espresso, 13/09/2007
Incubo Lucignolo
Ormai "Lucignolo" è un programma storico di Italia 1: anzi, si può dire che sia un programma- manifesto. Se cercate l'Italia berlusconiana e post berlusconiana la trovate lì, nei lustrini, nel binomio "culi & tette" in versione Mediaset, nelle notti luccicanti di "Lucignolo". Di recente, il clou era rappresentato dall'incursione della "Diavolita" Melita Toniolo al meeting di Comunione e liberazione a Rimini. La ragazza in rosso aveva un solo mandato: interpellare gli ospiti, soprattutto i politici, chiedendo loro di completare lo slogan «abbasso le tasse». Ogni volta che si vede un uomo politico a cui qualcuno, una iena o una diavolessa, rompe le scatole mentre arriva da qualche parte, alla Camera o a un congresso, viene da pensare: altro che casta, i leader e i comprimari sono i migliori fra noi; di solito restano calmi, rispondono (nel caso, Piero Fassino rispondeva anche con un certa prontezza e un certo spirito), reprimendo la voglia di affibbiare semplicemente un ceffone. Tutto questo montato con immagini in cui la suddetta Diavolita faceva la doccia e opponeva eroicamente il generoso petto agli sguardi degli spettatori. Altri momenti di notevole interesse: quando la pupa approcciava i ragazzi di Cl, forse senza sospettare che i cattolici sono birbe come gli altri, e quindi rischiando di essere allegramente "harassed", cioè palpata on the road. Dopo di che, qualsiasi spettatore o critico si dovrebbe chiedere: ma chi càppero è questa Diavolita? Fortuna che c'è Google, da cui si viene a sapere che dovrebbe essere «l'inquilina sexy» di un qualche Grande Fratello. Soddisfatti? A quel punto ogni persona di buon senso riprende a fare zapping, naturalmente. Ogni volta che si ripassa su Italia 1 ci sono scene di feste in locali e discoteche, più tardi sequenze delle riprese fotografiche per il calendario di Diavolita o di "Lucignolo", chissà, qualche volta con Melita seminuda a cavallo (non potrei giurare che fosse proprio Diavolita, da animalista ero più interessato al cavallo). Sotto il profilo sociologico, "Lucignolo" è un programma entusiasmante: fa intendere che l'Italia è un paese senza speranza, irrecuperabile, in cui si fanno solo happy hour, feste e party. Non è un'immagine distante dalla realtà. L'unico dissenso è che il messaggio implicito del programma è "solo un Berlusconi ci salverà", e su questo, ce lo consentano, abbiamo i nostri diabolici dubbi.
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