L’Espresso
L'Espresso, 06/09/2007
Se Unione fa rima con tassazione
Dietro la concezione delle tasse espressa dall'Unione dev'esserci una incomprensione del paese reale. Non si spiega altrimenti il forcing autolesionista che ha dato luogo alla sortita sulla tassazione delle rendite al 20 per cento. Non tanto perché la misura non sia "giusta" o "in linea con l'Europa", ovvero "compresa nel programma del centrosinistra": tutto vero, ma la catastrofe comunicativa nasce dalla sensazione che si tratti di un nuovo balzello. L'aumento, se non si è capito male, ci sarebbe (da due a due miliardi e mezzo di euro), ma il senso dell'intervento su questa porzione del regime fiscale andrebbe nel senso di una razionalizzazione complessiva. E allora ditelo, fatelo capire, argomentatelo: non lo si può presentare slegato da una concezione di fondo, dentro un quadro riformatore, altrimenti i cittadini capiscono una sola cosa: mani nelle tasche. Tutto questo mentre il gettito tributario continua a superare le previsioni, per ragioni che non sono ancora state spiegate con chiarezza. E soprattutto mentre il centrodestra sta coordinando tutti i propri sforzi per dipingere il governo Prodi come un'idrovora che drena risorse dal sistema economico e spegne la crescita. Nello stesso tempo, l'ex Casa delle libertà, compreso Pier Ferdinando Casini, conduce una campagna per imporre i propri stereotipi e la propria retorica all'opinione pubblica. Uno dei più martellanti sostiene che il livello di tassazione "percepito come giusto dai cittadini" è un terzo del reddito. E su questa bubbola per babbei la propaganda diventa asfissiante: tutti gli esponenti grandi e piccini del centrodestra la ripetono con compunzione, facendola diventare una realtà autoevidente. In realtà, basta leggere gli ottimi e sintetici articoli di Nicola Cacace sull'"Unità" per rendersi conto che la propaganda dei berluscones è una bufala colossale, che il livello di tassazione italiana è solo leggermente superiore alla media europea, che rimane un problema di eccessiva tassazione del profitto d'impresa (temperato come sempre da livelli di elusione molto elevati), eccetera eccetera, con tanti saluti alla favola delle tasse a un terzo del reddito. Ma per rispondere alla campagna del centrodestra, che nell'autunno diventerà martellante, e di cui Umberto Bossi ha già dato un saggio con la storiella militare del fucile («C'è sempre una prima volta»), occorre una consapevolezza un po' più sofisticata di quanto l'Unione non abbia dimostrato finora. Vincenzo Visco avrà tutte le ragioni a ricordare che il problema risiede nella «pandemia» dell'evasione, che nonostante tutto è a livelli intollerabili per un paese europeo evoluto. Ma l'azione del "cane da guardia" Visco, terrore dei commercialisti e del lavoro autonomo, rappresenta solo una faccia, quella cattiva, dell'azione fiscale del governo. Ce ne dovrebbe essere un'altra, legata all'uso della leva fiscale come strumento per favorire la crescita. E su questo punto l'Unione brancola. Aveva cominciato male il suo lavoro, rimodulando la curva dell'Irpef dopo il "regalo" di Giulio Tremonti nella scorsa legislatura, senza accorgersi che colpiva indiscriminatamente il lavoro dipendente qualificato, cioè il settore sociale dove l'Ulivo aveva il maggiore insediamento («Solo voi potete capirci», aveva ridacchiato con un po' di imbarazzo Pier Luigi Bersani quando glielo avevano fatto notare). Ma eravamo ancora nella plumbea stagione post-berlusconiana in cui sembrava che i conti fossero allo sfacelo e quindi il sacrificio obbligatorio. Oggi invece sarebbe il momento di agire per dare slancio al paese, e non soltanto alle aziende, già gratificate dal taglio del cuneo. Invece, il modello di pensiero prevalente nell'Unione sembra quello di una distribuzione del vantaggio fiscale a stralci, in parte "ai redditi più bassi", "alle famiglie", in parte "alle imprese", sempre con una concezione che sembra preferire il sostegno egualitarista più che l'incentivo. In realtà, si tratterebbe di far capire a settori consistenti della società italiana che il governo non ha intenzione di mettere i bastoni fra le ruote alle aree più dinamiche, che non intende più penalizzarne il reddito. Anche perché sono queste categorie che hanno visto tutte le corporazioni protestare e ottenere qualcosa dopo ogni protesta, per riprendere a protestare subito dopo, dato che la protesta conviene. Solo il lavoro dipendente tace, perché la sua rappresentanza naturale, il sindacato, ha un solo pensiero fisso, le pensioni. Forse, un pensiero su questo tema da parte di Enrico Letta, candidato "democrat" in sintonia con un'idea di sviluppo, non sarebbe sgradito, a quell'elettorato così mortificato e così prezioso.
L'Espresso, 06/09/2007
Ipnosi da rigore
La7 ha rimandato in onda la finale del Mondiale di calcio 2006, con il commento alternativo di Bruno Pizzul, e l'iniziativa si presta a considerazioni epistemologiche. Liberiamo subito il campo da un problema: la nuova-vecchia telecronaca di Pizzul è stata professionale e utilmente distante, senza enfasi inutili. Ovviamente tutti conoscono il risultato, tutti hanno visto lo stupido "cucchiaio" su rigore di Zidane nel primo tempo e il pareggio di Materazzi, i tempi supplementari, i rigori con l'errore di Trezeguet. Non ci si stancherà di ripetere che la prima provocazione, molto in anticipo sulle opinioni di "Matrix" sulla sorella di "Zizou", è stato proprio l'irridente rigore di Zidane, che ha mortificato Buffon, oltretutto in seguito a una decisione arbitrale dubbia. Sono cose che non si fanno, specialmente in una finale mondiale. Negli istanti decisivi il calcio è fair play, rispetto degli avversari: non si sarebbe stupito nessuno, almeno fra quelli che ricordano le leggi fondamentali del calcio, se qualcuno si fosse preso la briga di sbriciolare un ginocchio al campione francese, così impara. Ma il punto cruciale dal punto di vista di teoria della conoscenza è quello che riguarda la conclusione ai rigori. Ecco, io ho intercettato almeno cinque volte quella fase cruciale, restando ogni volta ipnotizzato. E per una distorsione della curva temporale, o per un fenomeno psicologico curioso, ogni volta mi dicevo: no, gli italiani non ce la fanno. È successo anche questa volta. Capirai, mi dico, se Grosso riesce a mettere dentro l'ultimo tiro, quello decisivo. Un mancino, oltretutto (non bisogna mai fare tirare i rigori ai mancini, sono troppo prevedibili: il portiere è avvantaggiato perché non capisce la finta). E invece Grosso ha segnato anche questa volta. Miracolo: pure in questa occasione il sospiro di sollievo è stato superiore alla soddisfazione. Infatti anche Pizzul, si è trattenuto dal manifestare troppo entusiasmo. Ha evitato di urlare il triplice «Campioni del mondo!» che non ha mai potuto gridare, e ha concluso bene il programma. Per tutti noi che nella gara delle bighe ogni volta facciamo un tifo sfrenato per Ben Hur e i suoi cavalli, contro il romano cattivo, anche la finale di Berlino entrerà negli eventi storici che continuanamente replicano una leggenda non scritta a priori. Forza, azzurri, la prossima volta, cercate di vincere prima dei rigori!
L'Espresso, 30/08/2007
Rossa come la vittoria
Andatelo a dire agli operai della Ferrari che la Ferrari è un mito. Qui a Maranello, nella fabbrica più bella del mondo, dove le linee di montaggio sembrano quinte teatrali, e il montaggio una rappresentazione scenica, si lavora duramente sulla materia. Si prendono acciai, matasse di cavi elettrici, blocchi di alluminio, sellerie, componenti elettroniche, e nel giro di una giornata viene fuori una Ferrari. Gli operai (ma più che operai sono operatori, specialisti dell'assemblaggio sul confine in cui la meccanica sfiora l'arte) contemplano con aria critica ogni vettura, socchiudendo un occhio come per prendere la mira, e alla fine della giornata licenziano il capolavoro. Voilà. Non vogliono saperne di miti, leggende e robetta leggera del genere. Non siamo nella bellettristica dell'automobilismo. Qui il mito è fatto di materia, di sostanza, di pesantezza, di realtà. Andate a Modena nella casa museo di Enzo Ferrari, e anche il presidente della fondazione, il direttore di "Quattroruote" Mauro Tedeschini, vi racconterà ammiccando che qualcuno sostiene che nel cortile della vecchia abitazione e prima officina del Drake, in certi giorni di umidità padana, si sente ancora l'odore dell'olio industriale che ha intriso lo sterrato, quasi un secolo fa. Sarà vero, sarà falso, sarà boh. Tuttavia un prodotto in fondo prevedibile come un'automobile ha davvero il bisogno essenziale di un alone mitologico intorno a sé. Altrimenti per quale motivo un londinese della City, arricchitosi con i derivati, dovrebbe bonificare centinaia di migliaia di euro (veri, non virtuali o "subprime"), per portarsi a casa una granturismo del Cavallino rampante. Stesso discorso per l'emiro di qualche improbabile emirato vicino a Dubai, che ne avrà magari una collezione, in garage blindati vigilati forse da una schiatta di eunuchi ignari della fine dell'impero ottomano. Eppure, per intuire il mistero della Ferrari, bastava visitare, nella primavera scorsa, la mostra "Mitomacchina" al Mart di Rovereto, e contemplare la Ferrari Barchetta, disegnata da Pininfarina, tirata in pochissimi esemplari negli anni Cinquanta (in una data che non sta bene precisare, naturalmente, perché i miti non soggiacciono alla sofferente mediocrità umana del tempo, anche se doveva essere il 1957), per restare stecchiti di fronte a un capolavoro autentico. Non soltanto perché uno di quegli esemplari appartenne anche all'Avvocato Agnelli, certificatore di stile e massimo trendsetter dell'epoca, ma perché la bellezza di quella vettura bicolore, verde nella parte superiore e blu metallizzato nella carenatura bassa, il suo stile supremo, l'essenzialità sovrumana del design, la perfezione estetica rendevano la Barchetta un oggetto assoluto: e si capisce poi che finisca al MoMa, accanto ad altri capolavori artistici del Novecento, magari facendone sfigurare qualcuno lì vicino. Insomma si tratta di decidere se la magia della Ferrari nasce dalle corse e dalle avventure di piloti e motori oppure da una produzione industriale che rasenta l'assoluto meccanico ed estetico. Com'è noto, tutto nasce dalla follia cocciuta di Enzo Ferrari, che era pazzo due volte: perché si era messo in testa di costruire le auto più belle del mondo; e in secondo luogo perché c'è riuscito, come solo ai matti può accadere. E quindi anche oggi risulta un po' difficile districare i due aspetti, sport motoristico e produzione commerciale. Nei primi anni Novanta, quando a Maranello arrivò Luca Cordero di Montezemolo, le Ferrari in pista prendevano un secondo e mezzo al giro; e le auto prodotte dal reparto industriale sembravano trattori: grande rumore, un volante manovrabile solo con sforzi erculei, l'antitesi hegeliana del comfort. Il ferrarista doveva soffrire. C'era un prezzo da pagare al mito. Montezemolo strillò: «Voglio il servosterzo!», e lo ottenne. Chiese: «Chi è che controlla la concorrenza?», e in fabbrica lo guardavano come si guarda un alieno: la Ferrari non ha concorrenti. Arrivò il servosterzo, il "customer care", insieme con tutte le astrattezze tecnologiche che oggi sono naturali. E soprattutto arrivò Michael Schumacher. E qui si vede il talento di un leader: perché per colmare il divario con le Renault e le MacLaren, un buon dirigente della Fiat avrebbe cercato di migliorare le monoposto della Formula Uno, impiegandoci magari vent'anni, un passettino alla volta, con grandi fatiche e scarse soddisfazioni. Oggi miglioriamo il carburatore, domani le candele, poi l'elettronica, e il carbonio, e i freni, e i cavalli, e le gomme... E invece "Luca" saltò qualche mediazione intellettuale e meccanica, assumendo il miglior pilota del mondo, proprio lui il grande Schumi. Lo pagò uno sproposito, ma i fatti dimostrarono che sapeva quel che faceva. Tuttavia quasi tutti si sono dimenticati che prima di rivincere il Mondiale di Formula Uno, Montezemolo ci ha messo un'eternità. Eppure, qui si vede il "touch", qui si vede la classe: per alcuni lunghissimi anni, Montezemolo è riuscito a trasformare ogni sconfitta nell'aspettativa di una vittoria. Ogni gran premio era una sofferenza. Ogni sofferenza diventava una speranza. Si era innescato un circuito positivo, che faceva sentire i suoi effetti benefici anche sul terreno commerciale. Così, quando arrivarono i successi, sembrarono perfettamente naturali, una derivazione fisiologica del mito, una filiazione della divinità ferrarista. Invece, quanta fatica, quanta dedizione, quanto "commitment". Perché l'egemonia ferrarista sulle piste mondiali nasceva certo dalla compattezza di "quella sporca dozzina" capeggiata da Jean Todt; ma anche dalle sperimentazioni continue del reparto industriale. Andate, andate a vedere a Maranello la galleria del vento disegnata da Renzo Piano, e resterete sbalorditi. Ma non dimenticate di entrare nella fabbrica più bella del mondo, dove alla temperatura costante di 23 gradi centigradi, senza che si senta il minimo odore di olio meccanico, con isole vegetali e arboree che rendono più naturale l'ambiente, fra operai o operatori che si muovono con classe innata, con l'eleganza antica e modernissima dei meccanici emiliani, emergono un paio di vetture al giorno (una virgola uno, per l'esattezza). E lì vicino, un robot di sofisticazione pazzesca infila una pallina nell'azoto liquido, a una temperatura vicina allo zero assoluto, per infilarla poi in un'apposita cavità del monoblocco: riprendendo la temperatura normale e quindi dilatandosi, lo sferoide si fissa nel futuro motore come nessuna saldatura potrebbe garantire. Ecco. Questo è il mito. Una faccenda di robe dure, metalliche, novecentesche, gestite da meccanismi e software del nuovo millennio. Una sintesi. O forse un esempio di che cosa potrebbe essere l'Italia, se tutta l'Italia fosse capace di assomigliare alla Ferrari. n
L'Espresso, 30/08/2007
Si è ingolfato il centro
C'è un padre spirituale per tutti loro, i centristi cattolici: se ne sta ritirato e guarda con serena sollecitudine le manovre centriste. Naturalmente si chiama Camillo Ruini, è stato il presidente della Cei, ma soprattutto ha avuto un ruolo strategico nel riposizionare politicamente la Chiesa in Italia. Prima con il "Progetto culturale", un manifesto che assumeva l'identità nazionale come uno dei pilastri del cattolicesimo, e anche di quel cattolicesimo diffuso, semi-anonimo e poco impegnativo, che per Ruini fa parte del corredo genetico italiano. E poi con l'intuizione, politica e politicista, concretatasi nell'opposizione al referendum sulla procreazione assistita, con la chiamata all'astensione. Ma ciò che il cardinale Ruini non ha mai nascosto è la sua inquietudine per la perdita dello strumento politico per eccellenza della Chiesa, la Democrazia cristiana. Questa è ormai storia: Ruini aveva seguito quasi con angoscia la disintegrazione democristiana dopo Tangentopoli, e mentre Mino Martinazzoli cercava di tenere insieme i cocci con il Partito popolare, aveva ribadito la sua convinzione che la Dc non avesse tradito il suo mandato: «L'unità politica dei cattolici è stata un valore», disse ripetutamente. Sempre lì si ritorna. Al centro, al cattolicesimo, allo scudo crociato, alla sigla "Libertas". E serve a poco sottolineare ciò che sanzionò uno dei massimi studiosi del fenomeno democristiano, l'allora docente di sociologia politica Arturo Parisi: «L'unità è finita con il referendum sul divorzio, anno 1974». Vale a dire: dopo di allora, ogni ipotesi di ricostituzione di un partito unico dei cattolici, sotto una sola sigla, era destinato al fallimento. Sottoposta alle spinte e alle tensioni del sistema dell'alternanza politica, la Dc, qualsiasi forma assumesse, era destinata fisiologicamente a disgregarsi. Solo la sovrapposizione del partito "cattolico" con l'area del potere aveva consentito di tenere insieme tutte le correnti e i particolarismi democristiani. La diagnosi era severa e difficilmente contestabile. Ma c'è sempre una tentazione che serpeggia, e che talvolta riaffiora. La prospettiva della Chiesa come soggetto autonomo dalla politica, che sostiene una gamma di posizioni e di principi senza guardare in faccia chi ne sia il portatore (ovvero la linea dei cattolici democratici come Pietro Scoppola e Luigi Pedrazzi), è sempre stata considerata troppo "illuminista" dalla gerarchia. Anzi, troppo «debolista», razionale ma astratta, come argomenta il politologo Piero Ignazi: «C'è stata un'abitudine troppo forte al rapporto privilegiato con un partito specifico perché il Vaticano si accontenti di qualcosa di meno». Il pregiudizio dei vertici ecclesiastici verso il centrosinistra è noto. La diffidenza era stata mitigata dalla simpatia dei parroci e delle associazioni di base per il Prodi del 1996, inteso come un'alternativa all'"edonismo" di una proposta considerata pressoché aliena dalla visione cristiana (come dimenticare che lo scrittore Vittorio Messori dichiarò che «per le televisioni berlusconiane Dio non è neanche un'ipotesi»?). Ma in seguito la credibilità del centrosinistra si è molto smorzata. A suo tempo l'autodefinizione di Prodi come «cattolico adulto» è spiaciuta non soltanto alla Cei. E la chiesa si sente troppo sfidata non solo dal "laicismo" di alcune frange dell'Unione (il contrario della «sana laicità» di papa Ratzinger), ma anche dalla continua pressione sui temi di confine, dalla "propaganda" dei temi omosessuali, dagli zapaterismi e dal riemergere di posizioni anticlericali. A cui non hanno posto rimedio le posizioni filocattoliche di Francesco Rutelli, con i suoi scarti dal referendum sulla fecondazione assistita alla prefigurazione delle alleanze «di nuovo conio». Fra i candidati alle primarie del Pd, Rosy Bindi ha alle spalle il peccato dei Dico, e Enrico Letta non si è ancora guadagnato leadership e carisma. Chi ha cercato di proporsi come tramite esclusivo è stata l'Udc. Ma agli occhi di molti cardinali e vescovi il partito di Pier Ferdinando Casini non è strategicamente rilevante, almeno fino al momento in cui il suo leader non dovesse assumere un ruolo più centrale nel centrodestra (senza contare che l'exploit "sex & drugs" dell'udicino Cosimo Mele è stato visto come una caduta di immagine e quindi di credibilità). Per il momento può essere più interessante il rapporto a raggiera con i leader "locali", come Letizia Moratti e, sempre a Milano, il sempiterno Roberto Formigoni, utilmente collocato al centro del network di Comunione e liberazione. Anche il rapporto con Silvio Berlusconi è ombreggiato di ambiguità. Una parte della gerarchia vaticana ha pensato di poter giocare con il capo di Forza Italia da potenza a potenza, cercando di sfruttare il bisogno di radicamento e di identità del suo partito, senza però nascondersi che da parte di Berlusconi la strumentalizzazione politica dei temi cattolici era evidente fino all'improntitudine. Finora le figure principali dell'era Ratzinger sembrano esprimere rispetto alla destra un atteggiamento apertamente neodemocristiano. La destra è la mano dura, il liberalismo gridato, il forzaleghismo campanilistico ed elusore, l'antiprodismo esasperato. Il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone e il presidente della Cei Angelo Bagnasco si collocano in una posizione più moderata. Il cardinal Bertone al meeting di Rimini ha esposto una sua visione sulle tasse, in cui ha unito il «dovere» di pagare le tasse alle «leggi giuste» che dovrebbero presiedere al potere impositivo dello Stato. Non dovrebbe sfuggire l'ambiguità intrinseca della parola "giusto" allorché ci si riferisce alle leggi e al fisco. Chi definisce se le leggi sono giuste? L'atteggiamento verso il fisco è discrezionale? Non si pagano le imposte perché lo Stato consente l'aborto? Sempre lo scrittore Messori si è arrampicato su una china scivolosa per spiegare che una certa resistenza al fisco è giustificabile quando i tributi vengono considerati iniqui (e il vescovo di San Marino, Luigi Negri, si è avventurato in una difesa antimoderna della discrezionalità del pagamento delle tasse, secondo una logica da ancien régime). Per tutti questi cattolici diffidenti verso lo Stato, potrebbe diventare di qualche interesse l'ipotesi di un centro politico come quello evocato da Clemente Mastella. Cioè un "prodotto" da mettere sul mercato elettorale senza pretese di egemonia culturale, ma con l'ambizione di condizionare sistematicamente le alleanze e il funzionamento stesso della democrazia. Insomma l'idea di mettere insieme la gran parte dei residui democristiani, a cominciare dall'Udc e dall'Udeur, possibilmente sottraendo qualche frazione di voti e qualche personalità ai margheritici del Pd, un po' di ex dc rifugiatisi in An, per creare una formazione capace di modificare in profondità lo schematismo bipolare. Anche se per ora il riflesso automatico degli schieramenti ha posto il veto su questa ipotesi, essa contiene molte più possibilità tecniche, in chiave politica, di quanto non ne possedesse il progetto del centro cattolico messo in capo all'ex segretario della Cisl, Savino Pezzotta, e a una varia congerie di cosiddetti "teodem". Oltretutto, la suggestione di un piccolo (ma non troppo piccolo) centro cattolico è irresistibile in primo luogo per molti di coloro, come Bruno Tabacci, che continuano a pensare che il bipolarismo è fallito. E va a genio anche al mainstream ecclesiastico, che non si è mai appassionato alle "astrattezze" bipolari, e che è piuttosto indifferente ai ragionamenti sul formato della politica e al modo di funzionare delle sue istituzioni formali. Se dovesse nascere il centrino, potrebbe assomigliare a una minestrina riscaldata. Ma se la minestrina fosse ruiniana e utile a ridare forza al corpicino del cattolicesimo politico italiano, perché dire no? n
L'Espresso, 30/08/2007
Notti tragiche a sognare un gol
Quattordici agosto, vigilia di mezza estate. In tv, il Trofeo Tim, cioè un triangolare di calcio fra Juventus, Inter e Milan (su Canale 5, l'intera serata). Bene, siamo a Ferragosto, le vacanze sono noiose come sempre, nelle località di villeggiatura le famiglie hanno già cominciato a sbranarsi (infatti numerosi omicidi apparentemente inutili si susseguono lungo la Penisola, per la soddisfazione del Tg5, amante della cronaca secondo la lezione di Enrico Mentana), e quindi qualche volonteroso può anche dedicare tre ore e mezzo a una serata di calcio "amichevole", cioè accademico, nel senso che non c'è niente in palio. Certo ci vuole una certa dedizione, perché il calcio è già noioso di per sé, non succede mai niente, e quando accade una inezia la fanno rivedere 12 volte. Ma mettiamo che il clima agostano di questa estate freschissima (nonostante l'effetto serra) induca qualcuno a impegnare la serata per vedere queste partitelle. Se siamo d'accordo sul punto che ognuno è libero di passare il tempo libero come vuole, ci si può mettere davanti al teleschermo. Bella festa iniziale, con tanti bambini con la maglia rossonera, sicché ci si chiede: così piccoli e già milanisti, possibile? Poi, fischiato il primo calcio d'avvio, di solito si resiste dai 12 ai 13 minuti: dopo di che, la palpebra si appesantisce, precipita, si incolla. La soddisfazione principale, prima di precipitare "fra le braccia di Morfeo", come direbbe un telecronista di Mediaset, consiste nel fare un calcolo di quanti budgedt pubblicitari vengono sprecati in seguito all'abbiocco di massa. Non sono molti soldi, perché è presumibile che d'estate le tariffe vengano limate, ma la soddisfazione è comunque notevole. Solo che la pennichella serale non dura molto. Ci si sveglia dopo un'ora, con la sensazione di avere chiuso gli occhi su Alex Del Piero e di averli riaperti su Pippo Inzaghi. È un prodigio televisivo di dissolvenze e di trasfigurazioni oniriche. Nel frattempo però ci si rende conto che il gioco espresso in campo è molliccio. E ci si chiede: ma in città, con le molteplici possibilità della metropoli e anche della provincia, chi mai si sarebbe messo davanti alla tv a guardare il Trofeo Tim? Aspettiamo lumi dall'Auditel. Magari sarà stato un trionfo. Sono i misteri della tv. Fortuna che ci si può riaddormentare, e siccome fra un gol e l'altro passano ore, buonanotte cari, buonanotte.
L'Espresso, 23/08/2007
Romano Prodi il professore precario
Durante le sue vacanze a Castiglion della Pescaia, Romano Prodi si è infilato in una discussione piuttosto gratuita sull'oro della Banca d'Italia, mentre proseguiva la polemica sulle tasse e l'obbligo dei cattolici di pagarle, dando a Cesare con quel che segue (fra l'altro, è apparsa singolare la posizione assunta dai paolini di "Famiglia cristiana", che hanno sviluppato riflessioni non dissimile da quelle degli evasori più convinti). Eppure, con i soliti limiti del governo e della maggioranza, e fra i consueti ululati dell'opposizione, c'è da dire che Prodi sembra un po' meno precario di quanto apparisse qualche mese fa. I sondaggi, in tempi vacanzieri, probabilmente non lo dicono, ma il presidente del Consiglio si è leggermente rafforzato. Con questi chiari di luna, questo piccolissimo risultato ha qualche non insignificante effetto politico. In sintesi, il fatto è che Prodi finora è rimasto vittima del più colossale fraintendimento da parte dell'opinione pubblica a cui si sia assistito negli ultimi decenni. Risultati sostanzialmente positivi, comunque siano stati ottenuti, sono stati percepito dai cittadini come una catastrofe. La crescita che Silvio Berlusconi sognava la notte, i conti sotto controllo, la disoccupazione al minimo dal 1992, l'inflazione bassa, i soldi del cuneo graziosamente forniti al sistema delle imprese: sono tutti aspetti che saranno discutibili sul piano della qualità intrinseca, ma che comunque appartengono alla categoria dei dati di fatto. A cui si può aggiungere una politica estera riannodata alla tradizione del paese. E a cui si è sommata subito prima delle vacanze l'approvazione della riforma pensionistica, con l'ammorbidimento dello scalone e una serie di misure che si concreteranno in una certa quota di redistribuzione a vantaggio dei pensionati più poveri. Bene, di fronte a questi elementi, sarebbe il caso che qualcuno, nel governo, riuscisse a spiegarsi con gli elettori. Non si tratta soltanto di un problema di comunicazione, dal momento che il governo ha le sue responsabilità nell'avere penalizzato a forza di tasse proprio i ceti sociali in cui il centrosinistra aveva il massimo insediamento; ma un minimo di informazione coordinata non sarebbe inutile. Anche perché si ha la sensazione che il governo Prodi, la maggioranza e la legislatura non debbano cadere a stretto giro di posta. Nonostante tutti gli annunci di Berlusconi, che promette il crollo dell'Unione a ogni uscita pubblica, e a dispetto di una certa voglia di manovra dalle parti del centro della coalizione di centrosinistra (con Clemente Mastella ringalluzzito dall'idea di un piccolo grande centro capace di condizionare entrambi gli schieramenti e di diventare ipoteticamente risolutivo), non sono ancora emerse ipotesi minimamente convincenti sull'eventuale dopo Prodi. Va da sé che se la sinistra radicale vuole riconsegnare il Paese alla destra non ha che da provocare la caduta del governo: eppure anche all'autolesionismo c'è un limite. Ma soprattutto in questo momento si ha l'impressione che problemi piuttosto seri ci siano anche nel centrodestra. Ernesto Galli della Loggia ha scritto che il vero dominus della coalizione, in assenza di idee altrui, è ancora Umberto Bossi. An va in una direzione ancora imprecisata, verso un destino postdemocristiano, pagando qualche prezzo almeno simbolico e romantico alla destra di Francesco Storace; e Pier Ferdinando Casini invoca larghe intese che nessun altro vuole perseguire. In queste condizioni, Prodi si trova nella condizione ideale per far valere le sue caratteristiche principali. L'ostinazione, la capacità di affrontare i problemi uno alla volta, una pazienza suprema nel gestire la mediazione fra i suoi alleati. Certo, non sono doti su cui si può contare per un recupero straordinario di consenso. Ma in questo momento il centrosinistra ha a disposizione due risorse: una è per l'appunto la tenuta del governo Prodi, che mattone dopo mattone dovrebbe continuare a realizzare pezzi del celebre programma di 281 pagine. L'altra è la nascita del Partito democratico, che con il movimento anche un po' caotico suscitato dai candidati determina qualche insperato fenomeno di mobilitazione, per ora negli apparati e negli eletti, ma da settempre in poi, prevedibilmente, anche fra i cittadini che voteranno alle primarie del 14 ottobre. Quindi ogni giorno positivo guadagnato da Prodi è un giorno guadagnato anche dal Pd e dal centrosinistra. E viceversa. Contrariamente alle previsioni, può darsi che il Professore e il nuovo partito si aiutino a vicenda. È la fantasia della politica: qualche volta anche le crisi più gravi diventano una leva su cui appoggiare il recupero.
L'Espresso, 23/08/2007
Tremate le zebre son tornate
Saran belli i rossoneri, saran belli i nerazzù: ma le zebre, ma le zebre, quelle piacciono di più. E quindi si può anche cantare al popolo della serie A, ai tifosi, ai dirigenti, ai manager, ai maneggioni, ai presidenti, ai procuratori, agli allenatori: tremate, tremate, le zebre son tornate. Erano state condannate al rogo in quanto streghe, le zebre da arrostire, a causa del teorema per cui la cupola di Luciano Moggi aveva corrotto i campionati (e tutti gli altri, povere mammole, sante verginelle, avevano assistito allo scempio, reagendo soltanto con pie giaculatorie). Precipitati, come dicono le gazzette sportive, «nell'inferno della serie B», gli juventini tutti, dai giocatori ai tifosi, riemergono finalmente nell'empireo calcistico italiano, guidati dal presidente Cobolli Gigli, immacolato fin dal liliaceo cognome. Il primo effetto è che si sta già diffondendo una certa preoccupazione, fra tutte le squadre da scudetto e nel vasto campo degli anti- juventini. Perché mettiamo che la Juventus vinca due o tre partite di fila, al nuovo esordio in serie A, e allora si diffonderebbe il terrore, il "pavor nocturnus", lo scompiscio diurno, insomma la cachessia, perché come si spiegherebbe, eh cari, che la Juve signora dei campionati col buco vinca senza i complotti moggiani? Anche perché immaginiamo la scena: la Juve in cima alla classifica, con i giornali che titolano a caratteri pazzeschi, Moratti che trema, Mancini che sbianca (altro che le solite deliziose mêches), Galliani che sviene in tribuna, Berlusconi che ammutolisce in diretta. E noi, intendo noi corrotti, noi congiurati che li han visti a Pontida, noi telefonatori di arbitri, noi delle schede telefoniche svizzere, insomma, noi della Juve, in testa alla classifica, con l'elegantissimo Cobolli che direbbe «son soddisfazioni, dopo tanta merda», e l'allenatore, Claudio Ranieri, un vero anglosassone, un "mister" con la zazzera grigio metallizzato, di quelli che se potessero parlerebbero inglese anche in Italia, che alla domanda se pensate allo scudetto risponderebbe ogni volta con irriducibile aplomb: «Noi non facciamo programmi», e poi anche, «Noi giochiamo alla giornata», specificando «day by day, of course». Certo, perché il ritorno della Juve nella serie maggiore significa il ritorno alla normalità, alla prima Repubblica del calcio, ai tempi in cui si poteva dire: «Le partite durano novanta minuti» (specialmente quando l'arbitro in piena sudditanza psicologica concedeva alle zebre un rigore al novantunesimo). Occorre anche confessare, prima di cadere nella faziosità più trucida, che per ora le cose in realtà non vanno benissimo alle zebre, dato che il precampionato è risultato una ciofeca, anche se poi la Juve ha rifilato cinque pappine alla Roma. Soprattutto la difesa, a parte Buffon, fa acqua da tutte le parti ma soprattutto, dicono i critici più autorevoli, dalla parte di Zebina: ma si sa che le difese basta registrarle, e i buchi verranno colmati. Mentre c'è qualche inquietudine più seria per l'attacco. Perché sarà pur vero che ormai lo stile Juve è stato ripristinato, abbiamo messo in panchina Lapo Elkann, a centrocampo John detto Jaki, a sostegno Montezemolo e in prima linea Marchionne (farà il tifo per Marchionni?), ma l'attacco è un problema serio. Primo, perché Trezeguet ormai sembra uno di quei chirurghi che se non è arrivato il bonifico restano fermi in sala operatoria, mentre il paziente è già anestetizzato, con le mani alzate, immobili, in attesa della ricevuta, altrimenti non operano: e Trezeguet non la butta dentro, aspetta il contratto, il bonus, l'indennità di scalamobile. E come tutti i centravanti che hanno da ridire sull'ingaggio e la durata del contratto aveva fatto sapere che gli si erano azzerate le motivazioni. Gli saranno tornate, queste motivazioni? Situazione in fondo non troppo dissimile a quella di Alessandro Del Piero, il quale tiene famiglia ed è un genio nel fare scene madri con la dirigenza: ma come, un tale affronto a me, la proposta di un contratto risibile all'uomo della fedeltà assoluta, alla bandiera juventina, all'uomo zebra! Sicché alla fine i dirigenti bianconeri cedono sempre e gli allungano il contratto, che ormai scadrà quando Alex avrà raggiunto quota 96, non nella classifica dei gol ma nella somma età-più-anzianità, cioè quando sarà da pensione secondo l'ultima riforma previdenziale post scalone e potrà cedere il suo posto a suo figlio. Però il problemino tecnico-tattico è interessante, perché Del Piero ha l'età di Cristo, e la convinzione di poter arrivare ai mondiali del 2010. Chissà se Ranieri avrà la forza di Fabio Capello, che non guardava in faccia nessuno, e dunque mandava Del Piero in campo con il contaminuti, convinto che fosse un campione da usare a mezzo servizio. Che bei tempi, quando l'attaccante invecchiato veniva arretrato a centrocampo, reimpostato nel ritmo, condizionato al nuovo ruolo, e insomma si adeguava, cambiava numero sulla maglia e non rompeva le scatole. Ai tempi dei tempi, l'ha fatto Giampiero Boniperti, a Torino, l'ha fatto Alfredo Di Stefano a Madrid. Mica delle schiappe. Eppure Alex pretende ancora di giocare là davanti, togliendo spazio anche al neoacquisto Iaquinta proveniente dall'Udinese; ma soprattutto esercita quei ricattini sentimentali in cui è tecnicamente insuperabile: se la società non mi allunga il contratto fino al duemiladiciassette, o duemilaventitré, vuol dire che non crede in me... Ovvio che Del Piero sia un simbolo, ma per qualcuno è un simbolo peloso, che quando occorre la tecnica e la forza ricorre al sentimento, per poi fare certi suoi miracolosi o fortuiti gollettini che lo rendono imprescindibile, insostituibile, insindacabile, sicché anche Cobolli Gigli deve chinare il capo e reclinare il giglio. Comunque tremate, le zebre ritornano. E non vogliamo neppure pensare che la Juve possa vincere il torneo (anche se è esente da impegni internazionali, e quindi il suo campionato sarà meno oneroso). Ma dopo un'estate in cui ci hanno promesso Ronaldinho, e non è arrivato neppure Shevchenko, e in cui ragazzotti di medio calibro oppure adolescenti non giudicabili sono stati spacciati per assi stellari, bisognerebbe rendersi conto che il campionato italiano è un torneo di media tacca, rispetto agli inglesi e agli spagnoli. Più o meno al livello del campionato turco. E dunque può anche darsi che la Juve piuttosto precarizzata di questi tempi possa dire la sua, fra tanti turchi napoletani spacciati per turchi brasiliani. Nel qual caso, guarderemo le facce di chi voleva fare l'arrosto di zebra. E non ci prenderemo rivincite volgari. Diremo soltanto: bentornate zebre. Il vostro ritorno in serie A è il ritorno dell'optical. È il ritorno al passato e alla normalità, quando le casacche erano bianche, a righe nere. Ritorna l'ufficialità delle figurine Panini, per la gioia, fra gli altri, di Walter the Candidate. Già, ci starebbe bene una lista per il Pd: "Bianconeri per Veltroni", ottimo. Ma bene anche "Bianconeri per Walter". Oppure "Zebre per W" (anche se, diciamolo sottovoce, sembra più facile vincere le primarie che il campionato). n
L'Espresso, 23/08/2007
Che bella vita da cani
Gli show di prima serata di Raiuno si dividono in due categorie: la serie A è quella degli spettacoli milionari, con le superstar e la possibile presenza in studio o fra il pubblico del direttore di rete Fabrizio Del Noce; la serie B invece è quella dei programmi che costano meno, non hanno troppe pretese, e magari fanno ascolti superiori alle previsioni. Prendiamo il caso di "Mi fido di te", lo spettacolo condotto da Fabrizio Frizzi: la classica serata di un giorno da cani, dato che la trasmissione è basata su una sola ideuzza, cioè ospiti che vengono in studio con il loro cane e raccontano le loro storie di rapporti umani e canini. Naturalmente per vedere un programma del genere ci vuole una dedizione particolare: bisogna appartenere a quei sei o sette milioni di italiani che posseggono un esemplare canino, o almeno essere fra gli altri sei o sette milioni che hanno in casa un gatto (ma vanno bene anche conigli, criceti, canarini, pappagalli e pesci rossi, perché chi tiene in casa un animale impara ad amare tutti gli animali). Insomma, bisogna essere portati. Avere l'inclinazione. Dopo di che, il divertimento è assicurato, perché i cani, di razza o meticci, che arrivano in studio scortati dagli ospiti sono di solito attori perfetti, e protagonisti di storie talvolta meravigliose. Ad esempio è incantevole la vicenda di Paolo Belli, l'uomo orchestra della scuderia Ballandi: ha un cagnolino nuovo che è diventato il cane guida del suo cane cieco. Ma anche le altre storie, come quelle raccontate da Corinne Cléry con il suo bassotto vecchissimo, un matusalemme dei basset hound, sono state di notevole effetto. Notevole anche l'apparizione di Paola Barale, al meglio della forma fisica e del look, con i suoi tre chihuahua. C'erano anche altre avventure, come quella di una ex reclusa diventata in carcere esperta di pet therapy, a dimostrazione che gli animali sono uno strumento di redenzione.Alla fine, "Mi fido di te" risulta un programma tollerante e per famiglie, apprezzatissimo anche dalla labrador nera di chi scrive, che abbaiava con entusiasmo davanti agli esemplari più attraenti. Di solito gli ospiti parlano con molto buonsenso. L'unico difetto, i filmati sulla vita famigliare vista dalla parte dei cani, con scenette domestiche che sono un po' melense. Per il resto, dieci e lode a tutti, Frizzi compreso (che oltretutto ha una perfetta faccia da cagnone).
L'Espresso, 09/08/2007
Fini, numero due in cerca d’autore
Come leader politico Gianfranco Fini è un uomo fortunato. Basta guardare la sua storia: è uscito senza pagare prezzi, in voti o in scissioni vere, dal bozzolo di «fascista del 2000», in cui si era racchiuso da solo, allorché sosteneva che i valori fascisti erano inalienabili, non soggetti al mutare della storia; gode di un favore popolare che appare in diretta proporzione alla sua assenza di scelte (sarebbe difficile stabilire, ad esempio, quali sono le linee di politica economica di An, se è a favore o contro le liberalizzazioni, a quale modello di crescita il partito è legato); e infine adesso ha avuto il colpo di fortuna della fuoruscita da An della destra di Francesco Storace e di Teodoro Buontempo. Anche quest'ultimo caso assomiglia molto a una vincita alla lotteria. Perché l'esodo volontario dei colonnelli della destra più tosta toglierà qualcosa alla vocazione "identitaria" di An, ma spalancherà al partito lo spazio al centro del sistema politico. La meravigliosa idea postdemocristiana di Fini sta per giungere al traguardo. A questo punto il postfascista, postnazionalista, postpopulista Fini potrebbe dedicarsi alla conquista dell'elettorato centrista, proponendosi come leader politico in proprio, e candidando il proprio partito a rappresentare i ceti moderati. In fondo An è pur sempre il vecchio partito dell'ordine missino, il partito dei marescialli e della disciplina: se i facinorosi delle borgate e i destri duri se ne vanno, si spalancano praterie per il partito della rassicurazione, della protezione sociale e legalitaria, e naturalmente anche il partito presidio delle mille corporazioni che si sentono insidiate dalle ubbie liberalizzatrici della sinistra. Qual è il problema, allora? Semplice: Fini non esisterebbe se non avesse avuto alle spalle Silvio Berlusconi. Fin dal 1993, quando il Cavaliere all'inaugurazione del supermercato a Casalecchio dichiarò la sua scelta per lui, ancora missino, candidato sindaco a Roma contro Francesco Rutelli, il capo di An sa di dovere tutto a Berlusconi. Berlusconi lo ha sdoganato politicamente, Berlusconi gli ha dato un posto nel governo, Berlusconi gli ha offerto la possibilità di fare lo statista internazionale, con il ministero degli Esteri e il lavoro con Giuliano Amato per la Costituzione europea. E poi il capo di Forza Italia sa distinguere le cose che contano dalle sciocchezze. Quando si scherza, Berlusconi può divertire il popolo forzista con le sue battute goliardiche («Da una parte cinquanta trombe che squillano, dall'altra cinquanta squillo che trombano») o raccontare barzellette sulla donazione a don Verzè per la ricerca sulle staminali (per venire smentito il giorno dopo dal prete boss del San Raffaele: «Mai visto un soldo»). Ma quando si fa sul serio, Berlusconi ha sempre riconosciuto che Fini era «l'alleato migliore». E dunque il capo di An è al bivio: se a 55 anni vuole per il futuro prossimo un ruolo di numero uno dovrebbe finalmente decidere di giocare in proprio. Per fare il Sarkozy dovrebbe liquidare il suo Chirac. Ma Fini sa che per guadagnarsi la leadership del centrodestra dovrebbe aprire un contenzioso con Berlusconi, e al momento il centrodestra non se lo può permettere. Le elezioni possono arrivare alla svelta, e non ci si può presentare alle urne con un'alleanza in pezzi. E allora Fini ha optato per una strategia morbida. Nell'assemblea nazionale di An, sabato scorso, ha criticato Berlusconi: avere fermato il processo unitario del centrodestra è stato «un errore strategico», e quindi con l'arrivo dell'autunno An lavorerà in proprio, per rafforzare la sua «identità aggregante». La spiegazione sarebbe che il processo di aggregazione che avviene nell'Unione con il Partito democratico non è un fenomeno irrilevante, e richiederebbe processi unificanti anche a destra, verso il Partito unico dei moderati o il Partito delle libertà. In realtà, la presa di posizione di Fini è quella di un personaggio in cerca d'autore: cioè il ruolo tipico dei possibili e sempre procrastinati successori a Berlusconi. Abbiamo già Pier Ferdinando Casini, l'erede della democristianità; Giulio Tremonti, l'ideologo "forzaleghista"; Umberto Bossi, il detentore del potere di veto. Adesso sembra scendere in pista, o in scena, anche Fini, il capo dell'Italia nazionalcorporativa. Forse è tardi. La classe dirigente del centrodestra sembra essersi consumata con Berlusconi. Gli eredi del capo di Forza Italia sono cresciuti grazie alla tutela del grande capo; ma è anche possibile che per questo, quando si troveranno con il vento in faccia, non avranno più la forza di uscire dalla loro funzione di numeri due.
L'Espresso, 09/08/2007
Tremonti d’alta quota
C'è chi si considera in linea di successione rispetto a Silvio Berlusconi per una sorta di fisiologia politica, poiché è baciato, non si sa bene perché, dalla popolarità: Gianfranco Fini. C'è chi è un possibile successore in quanto amministra una porzione dell'eredità democristiana e quindi è il titolare della rappresentanza del voto moderato: naturalmente, Pier Ferdinando Casini. Ma tutti gli eventuali eredi dell'inventore di Forza Italia, del Polo e della Casa delle libertà, compresi Gianni Letta, Letizia Moratti e la cavallina del Cavalier Caligola, Michela Vittoria Brambilla, dovranno fare i conti con il candidato ombra, l'uomo delle visioni strategiche e totali, insomma il professor Giulio Tremonti. Il quale ha scelto una propria strada, diversa dagli altri uomini politici del centrodestra. L'obiettivo: conquistare la Cdl attraverso la cultura. Impresa non facile, dato che il centrodestra è un coacervo di detriti culturali: ancora oggi Forza Italia ha «istinti di mercato, non una cultura di mercato», come disse Giuliano Amato alla nascita della destra post prima Repubblica. Alleanza nazionale, nonostante le proclamazioni sulla «destra identitaria», come ripete sempre Gianni Alemanno, è un contenitore di ideologismi depotenziati. L'Udc è la portatrice del tradizionale pensiero fatto di cattolicesimo e di liberalismo leggero, con l'eco della "dottrina sociale" della Chiesa. E la Lega? Fermi tutti, la Lega è importante. Perché è sempre stata uno dei perni del pensiero politico di Tremonti. Fu Tremonti a ricucire i rapporti con Bossi. Anzi, è stato Tremonti il creatore del "forzaleghismo", cioè l'ideologia che oggi è alla base del patto di ferro di Forza Italia con il Carroccio. Per capire quale sia l'impianto culturale del tremontismo bisogna prenderlo sul serio: e prima di tutto riconoscergli una coerenza nel tempo: Tremonti si era accorto delle potenzialità disgregative della globalizzazione già all'epoca di "Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione", anno 1993, un libro che comprendeva, oltre al suo, saggi di Sabino Cassese, Francesco Galgano e Tiziano Treu. Dunque, da sinistra era sbagliato considerare Tremonti un ultraliberale canonico. A leggere la "Lectio Tremontiana" (così figura il titolo sul suo sito www.giuliotremonti.it), cioè la "lezione sulla politica" in 4 mila parole tenuta il 14 luglio a Padova nella sede della scuola giovanile estiva di Forza Italia, i fondamenti del pensiero tremontiano sono messi in chiaro subito: nel "mundus furiosus" successivo alla caduta dei blocchi geopolitici della guerra fredda, «si è spezzata la catena Stato-territorio-ricchezza». La ricchezza si è dematerializzata, tutti i confini sono diventati porosi: il "pensiero unico", che con le formule della Banca mondiale e del Fondo monetario, cercava di riportare tutta la realtà di oggi a un «uomo a taglia unica», si è esaurito presto. È durato dieci anni, dice Tremonti. Il neoliberismo ultras si è scontrato con le dinamiche furibonde del mondo dematerializzato, delocalizzato, derealizzato. E quindi? Secondo l'ex ministro dell'Economia, oggi conviene ricorrere a formule empiriche, di portata meno generale: «Mercato se possibile, governo se necessario». La formula non è dissimile da quella sanzionata nella revisione dell'Spd a Bad Godesberg nel 1959, e dalla pratica di Ludwig Erhard, prima ministro e poi successore di Kornad Adenauer, uno dei principali autori della "economia sociale di mercato". Difatti, l'obiettivo polemico di Tremonti è il «mercatismo», «sintesi inefficiente di liberalismo e comunismo», insomma una superfetazione ideologica che si scontra con i dinamismi reali del mondo attuale. La denuncia tremontiana era contenuta in un libro del 2005, "Rischi fatali", dove già nel sottotitolo e a proposito della Cina si accennava al «mercatismo suicida». Dunque, la concezione tremontiana disegna un orizzonte di crisi. «Dopo quasi due secoli, la sinistra non è più il progresso e il progresso non è più a sinistra». Siamo alla fine dell'età delle masse, alla fine del mito dello sviluppo scientifico lineare, di fronte alla crisi dello Stato nazionale, e all'inutilizzabilità del keynesismo, cioè del "deficit spending" in funzione sociale. E allora, davanti allo spettro che si aggira per il mondo, la "Krisis", qual è la risposta? Non è nella postpolitica, dice Tremonti, non è nel pensiero debole, non è nella «ideologia delle liberalizzazioni»: il vuoto non può essere colmato «dal populismo leggero, dal relativismo, dal sincretismo, dal veltronismo». Già, Veltroni. È lui il totem negativo, il «Truman show» politico, lo spettacolo «in cui tutto è falso», in cui la sinistra sostituisce i vecchi bisogni con i desideri. Il Sessantotto ha abrogato l'autorità. Walter è il Sessantotto «aggiornato». Allora, di fronte al pensiero debole post-sessantottesco, degradato nel consumo, la formula di Tremonti richiama cinque parole pilastro: Autorità, Responsabilità, Valore, Identità, Ordine. In tutta la "lectio" non c'è la parola chiave del centrodestra, "libertà". Siamo davanti a una restaurazione filosofica? L'ideologo Tremonti non ci va leggero: «Il nostro problema, in un'età di crisi universale, è quello di conservare valori che per noi sono eterni». Ai Dico e ai Cus si oppone «una visione antica e forte della società, fatta da principi e da doveri». Quanto all'Identità, anche qui non si scherza: «La difesa dell'identità è la difesa delle nostre diversità tradizionali, storiche e basiche: famiglie e "piccole patrie", vecchi usi e consumi, vecchi valori». Eccola dunque la destra tremontiana: un tanto di Colbert nella reinterpretazione sarkozista, con un pensiero alla frattura fra "Gemeinschaft" e "Gesellschaft", cioè fra comunità e società, individuata da Ferdinand Tönnies alla fine dell'Ottocento: «Saremo infatti più forti, nel futuro, solo se saremo più ancorati al nostro passato. Per inciso se - a differenza che nel resto dell'Europa - in Italia non ci sono (...) gli orrori della xenofobia, è anche per questo. Ed è anche per merito della fondamentale funzione democratica esercitata dalla Lega Nord». Il "progetto culturale" di Tremonti è curioso perché è onnivoro. Di tanto in tanto riecheggia temi francofortesi: «Dobbiamo dunque e possiamo reagire alla dittatura del relativismo. Una dittatura di tipo soft, ma pur sempre una dittatura». Sembra di risentire certe tesi di Herbert Marcuse sulla «tolleranza repressiva». Ma in Tremonti l'apocalittismo francofortese è rovesciato nella ricerca di un nuovo equilibrio, un ritorno alla tradizione, forse quell'autenticità oggi corrotta dal postmoderno. Si avvertono echi di corporatismo tedesco, si sente qua e là l'eco del primo ideologo della Lega, cioè Gianfranco Miglio: ma in Miglio c'era una tragicità mutuata dalla lezione di Carl Schmitt, in cui è il sovrano, il decisore, a tagliare il nodo di Gordio, cioè il viluppo delle contraddizioni politiche. In Tremonti ci sono formule, talvolta luccicanti per un alone fuori tempo: «Rispetto al consumismo, noi preferiamo il romanticismo». Ancora l'Ottocento. Nella sintesi tremontiana, alla crisi della tarda modernità si reagisce in due modi: «In verticale», con la concentrazione del potere nel leader (modello Sarkozy) o «in orizzontale», con le grandi coalizioni (il modello Merkel). Come ha dichiarato di recente in un'intervista a Sergio Rizzo, la democrazia oggi richiede «più potere ai governi a fronte di più domanda di governo che viene dai cittadini». O l'uomo forte, o il governo forte. È una concezione coerente, ma tutt'altro che tranquilla. Sembra prediligere l'autorità alla auto- organizzazione sociale. Il consolidamento del potere all'articolarsi delle istituzioni. Di sicuro, rispetto alle strutture sovranazionali privilegia l'aspetto locale, territoriale, quel «misto di paura e di orgoglio, una riserva di memoria, un retroterra arcaico e umorale che negare, comprimere o sopprimere, non solo è difficile. È dannoso». Così stando le cose, si capisce che la rappresentazione di Tremonti non è affatto una proposta programmatica esclusiva per Forza Italia. Il partito di Berlusconi infatti ha una piattaforma culturale fondata su una vulgata liberale. Invece il Tremonti-pensiero è tutto fuorché ovvio. Innesca un arco voltaico che intende saldare la vecchia destra con una destra "nouvelle". Insomma, è una sintesi che progetta di mettere insieme il forzaleghismo con il "law & order", ultima riserva culturale di An. La sua base politica, ambiziosa, è in un partito unico del centrodestra. Non è detto che piaccia a Berlusconi. Non piacerà a Fini, che trova esposte concezioni che il suo partito non riesce a elaborare. È il manuale del partito di Tremonti. Dovranno tenerlo d'occhio a sinistra, perché è una concorrenza insidiosa. Ma dovranno prenderlo sul serio anche a destra, perché quella tremontiana è un'alternativa: a tutti i partiti della (ex) Casa delle libertà. n
L'Espresso, 09/08/2007
Gran Premio Formula Voyeur
L'osceno, come il diabolico, si nasconde nei particolari. Chi ha visto l'incidente capitato al pilota inglese Hamilton nelle prove ufficiali del Gran premio di Formula uno al Nürburgring, non è rimasto colpito dalla dinamica: alla velocità di 260 chilometri l'ora salta una ruota, la MacLaren di Hamilton parte per la tangente, rimbalza sulla ghiaia e si infila nella barriera di pneumatici. Tutto comprensibile. Era stata molto più spettacolare, qualche gara fa, la carambola del polacco Kubica, che era servita a dimostrare la tenuta della cellula di sopravvivenza delle macchine attuali. Ma l'incidente di Hamilton ha avuto una caratteristica particolare: poiché è stato seguito "in soggettiva" dalla telecamera posta sulla vettura, si è potuta vedere tutta l'uscita di pista, fino all'impatto con il muro di gomme. A colpire molti spettatori sono stati gli istanti che hanno immediatamente seguito l'urto: un'inquadratura perfettamente centrata ha mostrato le gambe del pilota inglese, scosse da un tremito irrefrenabile. Era un movimento convulsivo, che sembrava segnalare una condizione terribile per il giovanissimo Hamilton. Il quale è poi riuscito a portarsi fuori dalla vettura ma solo per accasciarsi sul terreno. È chiaro che se si montano le telecamere sulle monoposto si accetta il rischio che mostrino "tutto". Un rischio accettabile dal momento che la tecnica ha praticamente espulso la morte dalla Formula uno. Ma se mostrare una scena è giusto, far vedere numerosi replay di quella scena può non essere giusto affatto. Rivedere per l'ennesima volta le gambe di Hamilton agitate come in una diabolica pedalata è sembrata una specie di peccato mortale dettato dal voyeurismo tecnologico. Certo, la Formula uno è noiosa e va vivacizzata. E nel caso di Hamilton non si sa a chi dare la colpa: alla regia tedesca?, all'inconscio tecnologico che vuole esibire tutto, compresa la morte in diretta? (perché poteva effettivamente trattarsi di una tragedia in diretta). Ma il reality show sulle convulsioni di un corpo traumatizzato dovevano risparmiarcele. Vista una volta, quella scena, poteva essere semplicemente affidata alle parole dei cronisti (molto brava, anche in questo caso, tutta l'équipe della Rai). Perseverare è effettivamente diabolico, e lo spettacolo del corpo offeso nel pomeriggio del sabato non è riscattato dal lieto fine della vicenda, con Hamilton in pista e in tv 24 ore dopo.
L'Espresso, 02/08/2007
Pensionato non buttarti via
Certo, non è detto che ci sia la necessità estetica o morale di guardare uno show di prima serata come "Dal Lago di Garda... Stasera mi butto» (vista la puntata di martedì 17 luglio, prima serata). I conduttori del programma, andato in onda da Arco nel Trentino, sono Caterina Balivo e Biagio Izzo. Sono i tipici programmi in cui si è quasi certi di incontrare Alba Parietti (che invece pochi giorni dopo presenziava al Festival delle voci nuove di Castrocaro); e invece all'improvviso sbuca il volto dell'olimpionico Jury Chechi: ma che ci fa? Vabbè che un'ospitata non si nega a nessuno, sia in senso attivo sia in senso passivo, ma è proprio necessario che una gloria nazionale vada a buttarsi stasera? Il problema, tuttavia, il punto cruciale, è un altro: perché il pubblico di "Stasera mi butto" si diverte? Per avere lumi converrebbe recuperare il saggio di Francesco Piccolo "L'Italia spensierata", in cui si racconta un atroce pomeriggio passato fra il pubblico di "Domenica In", che per molti aspetti è illuminante. Anche nel caso di "Stasera mi butto" la gente fa una certa impressione: soprattutto gli uomini danno l'idea di essere dei coatti del divertimento. Partecipano a giochi rispetto ai quali sono inadeguati, cantano canzoni che non sono capaci di cantare, ascoltano uno sketch tremendo su Adamo ed Eva (no, Adamo ed Eva no, con la storia della costola, quella no!), fanno di tutto per assumere una faccia da televendita e sghignazzano. Non c'è nulla di più triste dei sessantenni entusiasti (finto-entusiasti?) che fanno i mondani quando vengono chiamati dal presentatore. Si vedono anche da questi particolari i danni fatti da un sistema previdenziale troppo generoso, che manda i lavoratori in pensione troppo presto: una volta a riposo, i pensionati vanno in televisione, con i risultati che si vedono. Acchittati, tinti, stirati, abbronzati, fanno i mondani, producono grandi risatacce, si piegano in due dal ridere: magari fino a ieri sono stati distinti manager o ottimi rappresentanti di commercio, chi lo sa. E adesso invece sono lì a farsi compatire, e talvolta a farsi prendere in giro. Alla fine, viene il dubbio che davvero la televisione sia ciò che è diventata, marmellata e melassa, perché ha raggiunto un'identificazione perfetta e totale con il pubblico. Ma allora, vietato lamentarsi della tv: conviene in primo luogo lamentarsi di noi tutti, gli italiani televisivi.
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