L’Espresso
L'Espresso, 26/07/2007
clemente per vocazione
Caro Clemente J. Mimun, ci scusi per questi consigli non richiesti. Ma adesso che si è insediato sullo scranno più alto del Tg5, le confessiamo che siamo preoccupati. Vede, abbiamo tutti la sensazione che la battaglia politica raggiungerà il calor bianco, e che il suo Editore mobiliterà tutte le risorse disponibili per creare un clima favorevole a sé e negativo per i suoi avversari. Ci è capitato di vedere un settimanale del gruppo che nell'ultimo numero ha pubblicato quattro editoriali, diconsi quattro, tutti per dimostrare quanto è insopportabile Romano Prodi con il suo governo. Lei non cada nella trappola. Dicono che si debba a lei l'invenzione del "panino"; ma ai nostri occhi lei rimane il creatore dell'Almanacco del popolo in chiave moderna, quando trasformò il Tg2 in un rotocalco popolare, in cui la parte dedicata al costume e all'intrattenimento, con i servizi sull'estate e sull'inverno, e con i problemi delle mezze stagioni, bilanciava quel tanto di politica che si riteneva strettamente necessaria. Quel telegiornale ha fatto scuola. Non tanto per ciò che ha compiuto il suo predecessore Carlo Rossella al Tg5: Carlito lo conosciamo bene, e sappiamo quale sia il suo godimento intellettuale nel trasformare le notizie in intrattenimento. Ma anche l'insospettabile direttore del Tg1, Gianni Riotta, ha capito che il telegiornale non è semplicemente una fonte di news, ma una forma di televisione, e cioè di spettacolo, da condire con una visione "sociale" su ciò di cui parla la gente: il sole, il caldo, il mare. Quindi lei non rinunci alla sua vocazione. Ha certamente la possibilità di prendere le notizie e di trasformarle in una clava contro il governo, la sinistra, Veltroni, il Partito democratico, la sinistra alternativa. Ma a che servirebbe? A nulla. Non serve a niente maramaldeggiare contro la sinistra. Da lei ci aspettiamo uno scintillio, il glamour, una patina di sciccheria, e quando occorre una full immersion nel popolo. Non ci deluda. La nazione ha bisogno anche di una destra dal volto umano. Tanto, lo sanno tutti che il paese, e quindi l'audience, è di destra. È un paese di vecchi, di pensionati che amano incazzarsi, di prepensionabili che pensano solo alla pensione. Non ci metta dell'intenzione in più: lasci che le cose vadano come vanno. Almeno, subiremo il ritorno della destra come una malattia, come una fisiologia: lei, per favore, ci metta un po' di humour.
L'Espresso, 19/07/2007
Chi terrà insieme le due sinistre?
Di qui al 14 ottobre, data di fondazione del Partito democratico, ci sarà la possibilità di analizzare le prospettive del "partito nuovo", e di capirne le potenzialità. Ma c'è un problema che finora è stato solo sfiorato, e che è a suo modo un problema eterno, cioè strutturale, per il centrosinistra. Vale a dire la convivenza fra le due sinistre, quella liberal-riformista e quella "alternativa". A essere meticolosi le sinistre sono ben più di due, dal momento che andrebbero considerate le componenti ambientaliste e neosocialiste. Ma se il Pd, secondo la formula più volte espressa da Walter Veltroni, dovrà essere un partito «a vocazione maggioritaria», la linea di confine del conflitto possibile, all'interno del centrosinistra, corre nei pressi dei Comunisti italiani e di Rifondazione comunista. Quindi oltre a marcare una piattaforma esplicitamente riformista, come Veltroni ha fatto nel discorso al Lingotto di Torino, occorrerà anche provare a immaginare come dovrà svilupparsi il rapporto con l'altra sinistra. Finora infatti si è assistito a un incepparsi dell'azione di governo (esemplare, e preoccupante, nel caso delle pensioni), in cui le resistenze dell'ala oltranzista si sono intrecciate con la posizione della Cgil, che non può farsi scavalcare dai partiti, con la conseguenza di una impasse assai negativa per l'immagine dell'esecutivo. La situazione è stata riassunta con lucidità lievemente sadica da Giulio Tremonti, il quale ha dichiarato: Prodi non è uno qualsiasi; ha governato il Paese; è stato, bene o male, alla presidenza della Commissione europea. Se si è piantato in un anno, vuol dire che nessun altro, nel centrosinistra, può illudersi di farcela. In altre parole: il problema del centrosinistra è irrisolvibile. In realtà, Prodi ha tentato di risolvere la questione attraverso il suo voluminoso programma, le famose 281 pagine di super-mediazione. Ma il totem del programma rischia di diventare un vincolo, se non è sottoposto al vaglio della realtà e del contesto economico in evoluzione. Ad esempio: il taglio del cuneo fiscale alle imprese era stato pensato in una fase in cui c'era la sensazione di una perdita di competitività da tamponare a ogni costo. Per rispettare la promessa alle imprese, si sono impegnate risorse mentre l'apparato produttivo italiano stava riprendendo a fare profitti. Ne è venuta fuori una misura "pro-ciclica", di quelle che il centrosinistra aveva spesso rimproverato al centrodestra (come nel caso della detassazione degli utili reinvestiti nel primo governo Berlusconi). In sostanza, il programma è uno strumento che può diventare un vincolo ulteriore, come prova anche la discussione infinita sullo scalone. E allora, se non basta un accordo di programma, qual è la risorsa chiave che può garantire la gestione di un rapporto non paralizzante con la sinistra alternativa? Non c'è una risposta unica. È possibile che a dispetto delle apparenze (e agli appelli di Fassino a Pier Luigi Bersani a non infrangere «l'unità riformista») a Veltroni possa far comodo una candidatura alle primarie che si dislochi alla sua "destra": nel senso che la presenza di una piattaforma industrial-liberalizzatrice (come quella di Enrico Letta, per intenderci), potrebbe assicurargli una posizione di maggiore centralità nel Pd e nell'intera coalizione, e quindi un ruolo più dinamico nella trattativa con la sinistra meno riformisticamente malleabile. Ma a prendere sul serio l'etichetta di «partito a vocazione maggioritaria», viene da dire che non si diventa partiti maggioritari senza sistema maggioritario. Per il centrosinistra, le future elezioni politiche avranno due fronti, non uno solo: il primo sarà quello del confronto, durissimo, con il centrodestra; il secondo sarà quello che designerà i rapporti di forza interni all'Unione. Non è pensabile in questo momento che il Pd possa diventare maggioritario semplicemente in base alla propria condizione di partito dei riformisti più volonterosi. La leadership di coalizione dovrà essere conquistata sul terreno di una competizione interna all'alleanza. E allora è inutile illudersi che riforme elettorali all'acqua di rose possano rendere centrale il futuro partito di Veltroni. Se c'è una strada, per il Pd, è quella segnata dal referendum di Guzzetta e Segni. Che imporrebbe regole severissime e una torsione formidabile del sistema politico: ma poiché l'alternativa è la vittoria semiautomatica della destra, e simmetricamente una grande palude a sinistra, vale la pena di correre l'avventura. Anche perché un partito nuovo non nasce nella bambagia, bensì nell'asprezza del confronto. E allora, se il Pd vuole vincere, innanzitutto non deve avere paura di giocarsi la partita senza riserve mentali.
L'Espresso, 19/07/2007
Largo alle larghe intese
In parte politico, in parte analista. Sono le due facce di Pier Ferdinando Casini, presidente emerito della Camera, anima e corpo dell'Udc, unico e a suo modo coerente vessillifero della necessità di scomporre e ricomporre il sistema politico italiano. «L'avevo detto un anno fa in un'intervista al "Corriere della Sera": Romano Prodi può effettivamente essere protagonista in una fase nuova, ma a un solo patto: che prenda atto della situazione politica reale. Cioè di una maggioranza numericamente insufficiente e politicamente contraddittoria. Se invece deciderà di insistere sul fondamentalismo bipolarista, se farà dell'accanimento terapeutico sulla formula con cui è giunto a Palazzo Chigi, da quella formula verrà sommerso. È passato un anno e non mi sembra di avere avuto torto». Si dà il caso che Prodi avesse puntato tutto sull'alternativa a Berlusconi. Sarebbe stato politicamente impraticabile cambiare in corsa, nonostante il risultato elettorale controverso. «In astratto posso anche apprezzare il rigore con cui si è attenuto al suo schema. Ciò non toglie che la mia analisi sia stata confermata dai fatti. Ora Prodi viene additato come il responsabile dell'impasse del centrosinistra, è diventato il bersaglio non solo dell'opposizione, e in questo c'è anche una visibile ipocrisia. Perché è chiaro che il problema non è Prodi: il problema è la sua coalizione». L'ingresso in campo di Walter Veltroni non ha modificato l'assetto dell'Unione? «È un'immagine più fresca. Ma poiché io non credo nell'antipolitica, e neppure nella concezione che il consenso possa essere modificato semplicemente da trovate di comunicazione, vorrei ricordare che qui il problema è di sostanza. Veltroni, se sarà lui il candidato del Partito democratico e dell'intero centrosinistra, si troverà di fronte la stessa equazione impossibile di Prodi. Può far lievitare i sondaggi, muovere indici di popolarità, smussare le contraddizioni fra sinistra riformista e sinistra radicale: ma una terapia di affabilità non basta a curare la malattia dell'Unione». Ma molti gli attribuiscono la qualità essenziale di poter competere con Berlusconi sul suo stesso terreno. E questo ha perlomeno ridotto il pessimismo del centrosinistra. «Sarà pure competitivo, ma su quali basi? In questo caso sto con Andreotti, a pensare male si fa peccato ma ci si azzecca: e allora vedo la furbizia con cui si tiene fuori dai problemi veri del paese: l'abilità nello scivolare sulle cose è la dimostrazione che Veltroni sa di avere difficoltà serie. Così facendo non ha minimamente contribuito a chiarire l'equivoco di fondo, cioè le divisioni irrecuperabili nel centrosinistra, e si crogiola nell'idea che cambiando il cuoco cambi anche la minestra». Una leadership nuova e circondata dal consenso può proiettarsi positivamente sull'equilibrio della coalizione. «Sono fenomeni illusori. Se la formula rimane quella di Prodi, si continua a chiudere gli occhi sul fatto che quella formula è intrecciata in modo inestricabile con la crisi del sistema politico del nostro paese. E questa crisi, trovo superfluo ripeterlo ma evidentemente ci sono troppi che fanno finta di non vedere, deriva dal fatto che per vincere le elezioni ogni schieramento è obbligato ad allearsi con le componenti estreme. Quando Veltroni fa l'apologia di questo sistema, dovrebbe sapere che si taglia le gambe da solo. E quindi non va da nessuna parte». Ammetterà che sarebbe bizzarro candidarsi alla guida del centrosinistra avendo in mente formule politiche trasversali. «Ma guardi alla sua posizione sul referendum: lo appoggio ma non firmo. Può essere semplice politicismo, un modo per non scontentare nessuno. Ma può essere anche qualcos'altro: un espediente per prendere tempo, in attesa di avviare uno sganciamento lento dal fronte referendario. Perché se il Pd vuole una centralità nel sistema politico, non può che agire per riformarlo in profondità; se invece accetta la logica della continuità significa che dà per scontato il Prodi bis, che magari si chiamerà Veltroni uno, senza toccare nessuno dei problemi reali del funzionamento della politica». Si può anche ragionare diversamente: se il bipolarismo non funziona perché è condizionato dalla presenza di fazioni marginali irriducibili, occorre forzare il sistema per produrre processi di aggregazione. È l'obiettivo del referendum. «Ecco un altro miraggio. I referendari espongono ragionamenti lunari. Prenda i loro slogan. Dicono che vogliono "ridare lo scettro ai cittadini". Ma quale scettro: se il disegno referendario andasse in porto avremmo due comitati elettorali, senza nemmeno la possibilità offerta dal Porcellum di scegliere fra i partiti di una coalizione. Negli schieramenti ci sarebbe un grande abbraccio, del tutto strumentale, con lo scopo di fare scattare il premio di maggioranza, e appena lasciate alle spalle le elezioni i partiti si dividerebbero nuovamente. Questa sarebbe una riforma?». Dentro il centrosinistra si è riaffacciata l'ipotesi dell'uninominale a doppio turno. Si teme che sistemi diversi, basati sulla proporzionale, siano il cavallo di Troia di operazioni neo- trasformiste, per le grandi coalizioni e l'abbattimento del bipolarismo. «Noi siamo contrarissimi al doppio turno. Abbiamo celebrato un congresso in cui una mozione ci vincola esplicitamente al sistema tedesco, basato sulla soglia di sbarramento contro la frammentazione e sulla sfiducia costruttiva come garanzia di stabilità. Perché vorrei che fosse chiaro: il nostro obiettivo primario non è la difesa del bipolarismo ma della democrazia dell'alternanza. Quanto alla grande coalizione, è un'esperienza che si è realizzata in diversi paesi europei: in Germania ma anche in Austria e in Olanda. In Germania perché a suo tempo Gerhard Schröder rifiutò di fare l'accordo con l'estrema sinistra. Prodi ha seguito la strada opposta, e i risultati si vedono». E allora, qual è in prospettiva il ruolo dell'Udc? «Punto primo, io non ho la vocazione della crocerossina, meno che mai rispetto al governo Prodi. Punto secondo, la crisi attuale non si risolve con i ritocchi. Il presidente Napolitano ha detto che con la legge elettorale attuale non si vota? Allora occorre mettersi a un tavolo per fare una legge elettorale. Per questo ho proposto un governo di "responsabilità nazionale", con pochissimi punti all'ordine del giorno: legge elettorale, poche modifiche costituzionali essenziali da realizzare in tempi brevi, non oltre il 2009. Dirò di più, lo stesso Berlusconi, di fronte a un'ipotesi del genere, dovrebbe pensarci seriamente: quale migliore opportunità democratica per giungere a una situazione che legittima tutti i giocatori?». Forse Berlusconi non ha interesse a una partita basata sul fair play. «Già, ma finora l'ideologia della spallata è stata controproducente. Si possono portare anche cinque milioni di persone in piazza contro il governo, ma con quale risultato? Che i riformisti e i moderati del centrosinistra, come Lamberto Dini, e lo stesso Di Pietro, vengono spinti fra le braccia di Prodi». Quindi lei propone non il colpo d'ariete, ma l'abbraccio mortale. Tuttavia Berlusconi proclama di poter vincere le elezioni a mani basse anche senza l'Udc. «È una prospettiva inesistente. Renderebbe la Cdl ancora più estremista e priva di un riferimento moderato che è politicamente essenziale per il centrodestra. Oggi l'Udc vale doppio perché è in grado di attrarre anche aree politiche che hanno votato per l'Ulivo. Quindi non è il caso di scherzare». I politologi dicono che l'elettorato centrista non esiste più. «D'ora in avanti prometto che querelo chi dice che noi siamo di centro. Io voglio essere percepito come un modernizzatore. Destra e sinistra non dicono praticamente più nulla sulle grandi questioni delle democrazie contemporanee. Ci sono due punti su cui il governo Prodi è riuscito a costruire l'immagine del proprio fallimento: in primo luogo la sottovalutazione della questione fiscale; e subito dopo il tema della sicurezza, su cui il governo dà continuamente segnali schizofrenici. Oggi in altri paesi la riduzione del peso fiscale è un argomento trattato anche da sinistra. E la sicurezza è un tema che coinvolge soprattutto le fasce sociali più deboli, quelle più esposte al rischio. Sono argomenti di destra o di sinistra? E mi dica lei se l'università meritocratica non è una proposta che va a garanzia dei ceti popolari, per premiare chi ha qualità a dispetto delle condizioni sociali di partenza». E la laicità è di destra o di sinistra? «Ma anche in questo caso, sul tema dei valori, c'è stata da parte dell'Unione una sottovalutazione impressionante. In Italia la Chiesa esiste e, anzi, copre un vuoto della politica. Il bisogno identitario di fronte alla società multietnica, multiculturale, multitutto, è stato incarnato dalla Chiesa. E quelli partono dai Dico, ma andiamo». Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Nell'ultimo anno il centrodestra non ha brillato per una capacità di proposta politica. Si è limitato a mettere all'incasso la perdita di consenso del governo. «La crisi di Prodi è stata così rapida e violenta che ha impedito un esame autocritico serio nella Cdl. Dovevamo guardare a ritroso e fare un bilancio analitico: bene sul mercato del lavoro con la legge Biagi, bene con la riforma delle pensioni, insufficienti sulle liberalizzazioni. Nemmeno il nostro elettorato ce l'ha chiesto, questo esame. Ci siamo limitati a fregarci le mani perché la campagna elettorale, lo si è visto nel caso delle amministrative, ce la faceva Prodi». La struttura del consenso è volatile. Vincere le amministrative non significa avere in tasca le prossime elezioni politiche. «Proprio per questo rivendico una posizione di coerenza quando chiedo una riflessione approfondita sui problemi di sistema e sulle soluzioni responsabili. Non è colpa mia se tanti in privato mi danno ragione e in pubblico mi danno torto. Da Gianfranco Fini, ad esempio, mi sarei atteso un grado maggiore di solidarietà, ma forse la generosità non è fra le sue caratteristiche. Capisco di più, semmai, gli amici di Forza Italia: hanno un'obbligazione forte verso Berlusconi e sono tutti un po' paralizzati». Onorevole Casini, lei sembra la voce che grida nel deserto. Solo che nessuno vuole ascoltarla. «Oggi in politica il buonsenso è in minoranza. Sicché navighiamo a vista, in attesa di un venticello che faccia cadere il castello di carte della politica italiana. In una condizione ogni giorno più degradata. Con Veltroni che invoca il buon gusto e le buone maniere nel rapporto fra contendenti politici: ma si vede che svolge un compitino. E sono grato agli amici dell'Udeur che mi hanno proposto alla guida della commissione d'inchiesta sui servizi segreti: ma sono palliativi. Anche perché spero che questa commissione non si faccia mai. Ce ne sono state abbastanza. Io su Pollari non ho assolutamente nulla da dire. Se mi chiede un parere sui servizi, rispondo che vorrei in Parlamento un'analisi seria dei meccanismi di reclutamento al loro interno. Come se non si sapesse che è prassi abituale, per gli uomini di governo, piazzare i loro autisti nell'organico dei servizi segreti». In conclusione, il bipolarismo per lei non funziona. Ma l'ipotesi del governo di "responsabilità nazionale" è circonfusa di nebbie. C'è spazio per qualche altro protagonista? Per qualche cavaliere bianco? «E chi sarebbero i cavalieri bianchi?». I soliti. Luca Cordero di Montezemolo, Mario Monti... «Una volta che Montezemolo, all'assemblea generale della Confindustria, ha tenuto una relazione che avremmo potuto sottoscrivere quasi integralmente, dall'ala berlusconiana sono arrivate le critiche, con toni anche risentiti. Invece, se la politica non vuole cedere all'antipolitica, non può chiudersi su se stessa. La forza di una politica ragionevole consiste anche nell'aprirsi a quelle personalità che possono dare un apporto significativo alle soluzioni necessarie per il paese. Altrimenti siamo portatori solo dei nostri egoismi». n
L'Espresso, 12/07/2007
Effetto Walter
L'effetto Veltroni è passato sul centrosinistra e sulla politica italiana come un ciclone. Ma i giochi sono tutti fatti? L'abilità del nuovo entrato ha davvero acceso sul flipper democratico la lucina "game over"? Non c'è dubbio che l'iniziativa del sindaco di Roma ha realizzato un evento politico di quelli che segnano una fase. Il blitz ha avuto successo. Si può dire tuttavia già adesso che il Partito democratico è un soggetto che si crea "senza se e senza ma" a immagine e somiglianza del candidato Veltroni? Dipende dagli angoli di osservazione. Per il momento dentro Palazzo Chigi si guarda all'appuntamento del 14 ottobre marcando silenziosamente le distanze. Romano Prodi ha bisogno di tempo per dimostrare che l'azione di governo ha dato risultati positivi e che dopo le stagioni delle tasse è arrivato il momento della redistribuzione. Nel circuito prodiano si sta cercando di mettere a fuoco il problema principale e per molti versi paradossale dell'esecutivo: come è possibile che una serie notevole di risultati positivi (controllo dei conti pubblici, livello dell'inflazione, dati sull'occupazione, sostegno alle imprese con il taglio del cuneo fiscale, ridefinizione della politica estera) si siano trasformati nella percezione pubblica in una catastrofe. Gradimento al 26-27 per cento, minimo storico, secondo i dati commentati su "la Repubblica" da Ilvo Diamanti. Ma la stessa candidatura di Veltroni, con il suo eccezionale rimbombo sui media e nell'opinione pubblica, ha dimostrato che la struttura del consenso è fluida. L'impopolarità di Prodi è il frutto di aspettative asimmetriche: il Nord si aspettava sviluppo e ha avuto tasse, il Sud voleva trasferimenti pubblico e non ha avuto nulla, i ceti medi qualificati avevano fatto buon viso a una redistribuzione virtuosa, a favore dei ceti non privilegiati, che invece non si è vista. In ogni caso l'ingresso in campo del sindaco di Roma ha spostato in modo sensibile l'asse del confronto politico. Anche l'accanimento di Silvio Berlusconi contro Romano Prodi appare in qualche misura sfasato: serve per mobilitare il becerume contro le «stronzate» di Prodi, ma non va al di là della propaganda, oltre a introdurre un ulteriore quoziente di volgarità nel confronto politico. Il capo dell'opposizione sente il bisogno di scuotere il governo e la maggioranza per cercare di ottenere le elezioni a breve termine, ma per diversi aspetti oggi il baricentro dell'Unione non è più nell'esecutivo. O meglio. Il governo Prodi costituisce la sintesi del centrosinistra, e proprio per questo mostra continuamente la corda, in quanto deve mediare a fatica tra sinistra riformista e sinistra alternativa. Ma in questo momento, se si vuole guardare alla prospettiva, ciò che conta davvero è il riallineamento degli schieramenti in vista del futuro confronto politico. Ora, per ciò che riguarda il centrodestra la situazione è semplice. Berlusconi deve trovare il modo per giungere alle elezioni politiche in modo da riproporsi credibilmente come leader della sua coalizione e candidato insostituibile alla premiership. Ha poco tempo. Il rientro di Veltroni nella politica nazionale, con il discorso al Lingotto, ha rappresentato anche un salto generazionale cospicuo. Ogni giorno che passa, il Cavaliere invecchia. Magari non nella sua tenuta fisiologica e temperamentale, ma nella sua immagine, nel complesso degli interessi che rappresenta, nel contenuto simbolico dei suoi ideologismi e nella visione del paese che proietta nel futuro. In sostanza, Berlusconi incarna quel complesso di pulsioni che fanno riferimento alla piccola e piccolissima impresa, al mondo delle partite Iva, a quell'universo di cittadini che sono disposti a scontare l'inefficienza pubblica come un prezzo da pagare per consentire l'interesse privato. Veltroni invece rappresenta un'Italia proiettata nell'immaginario, capace di accensioni emotive, in cui l'economia sembra la subordinata di un'evoluzione "postpolitica", largamente fondata su fenomeni postmaterialisti. Il salto qualitativo è impressionante, e per certi versi anche affascinante: in fondo, il confronto ideale tra la destra proprietaria di Berlusconi e la sinistra liberale di Veltroni si configura come un faccia a faccia tra il Novecento liberoscambista del Cavaliere e del sarkozismo alla lombarda di Giulio Tremonti, da una parte, e dall'altra il Duemila scintillante e spettacolare dell'autore delle notti bianche, l'impresario politico della movida romana, delle inaugurazioni, dei concerti, dell'economia dei servizi, dei media, del cinema, della reinterpretazione dell'effimero come strumento di consenso. Ma nello stesso tempo la postpolitica di Veltroni pone serissimi problemi anche al centrosinistra e al Partito democratico. In primo luogo perché per ora l'investitura a leader del sindaco di Roma ha tutte le caratteristiche dell'operazione dall'alto, un gioco di strategia gestito da Massimo D'Alema e Franco Marini, con la collaborazione attiva di Dario Franceschini (un cervello politico di prim'ordine, capace di intuizioni notevoli, ma propenso a un realismo che potrebbe penalizzare le aspettative che si sono appuntate sul Pd come partito della fusione "calda", promosso dal basso, frutto di una mobilitazione popolare), e con il sostanziale via libera di Francesco Rutelli, che per il momento sembra avere rinunciato, almeno nel breve periodo, alle ambizioni personali. Resta da vedere quindi se il partito che nascerà il prossimo 14 ottobre può effettivamente organizzarsi intorno a una sola, per quanto amplissima e totalizzante, proposta politica. Se intorno a Veltroni si costituirà uno spettro di correnti secondo uno schema democristiano. A dispetto delle valutazioni più fideistiche sul carisma di Walter, nel Nord è presente una forte aspettativa legata ai temi più tradizionali della sinistra riformista, come il lavoro, l'impresa, la competitività sui mercati, le liberalizzazioni, l'impulso alla concorrenza e alla sburocratizzazione. È davvero possibile ricondurre tutto questo a una candidatura unico? Nella sua intervista a "L'espresso" e nella lettera di martedì scorso a "La Stampa", Arturo Parisi ha confermato la sua concezione di un partito basato su un confronto esplicito, aperto, senza schemi precostituiti. Il principale ideologo del Pd, Michele Salvati, ha proposto sul "Corriere della Sera", con una lieve provocazione, la candidatura di Guglielmo Epifani contro Veltroni: un modo per segnalare la necessità che il "partito nuovo" nasca dalla dialettica e non dall'unanimismo, concludendo che se non c'è competizione, alle primarie del 14 ottobre «starò a casa». Nel frattempo però sono diventate fortissime le pressioni verso una soluzione unitaria. Piero Fassino ha frenato il possibile candidato Bersani chiedendo che non venga scalfita «l'unità riformista». A Milano, il sottosegretario Enrico Letta, compagno di strada se non "gemello" del ministro dello Sviluppo economico, ha sviluppato una piattaforma programmatica senza sciogliere i dubbi sul suo impegno diretto. Rosy Bindi ventila una candidatura di testimonianza, ma nel frattempo è in surplace. «Lanciare un partito nuovo», dice Salvati, «è stato un atto di coraggio. Ma ora questo coraggio non bisogna rimangiarselo». Anche perché, come sanno bene a Palazzo Chigi, il punto centrale e critico della candidatura di Veltroni riguarda il rapporto con il governo Prodi. Nel caso di una intronizzazione mediatico- plebiscitaria, il rapporto fra il leader designato Veltroni e l'esecutivo di centrosinistra diventa critico. Se invece parte il gioco delle candidature, con il Partito democratico che diventa un'arena di confronto, Prodi si può riparare a Palazzo Chigi in attesa del risultato, e proporsi ancora come una sintesi pratica fra le anime della sinistra moderata. In sostanza: con un Veltroni plebiscitato, sarà difficile mantenere una diarchia. Con un Veltroni sottoposto al vaglio democratico del voto delle primarie e a una competizione credibile, Prodi può prolungare se stesso: come un governo di garanzia, come un garante delle intese possibili in una politica che non è definita a priori. n
L'Espresso, 12/07/2007
Vasco il magnifico
Quando il giovane ed efebico Vasco Rossi si presentò a "Discoring", un programma domenicale di novità musicali, per presentare la sua canzone "Albachiara", Gianni Boncompagni non si trattenne dal prenderlo bonariamente per il naso. Vasco era il classico rocker precipitato a Roma dalla provincia. Veniva da Zocca, sull'Appennino modenese, aveva alle spalle studi di ragioneria non proprio convinti e l'università a Bologna presto abbandonata. Rocker, per modo di dire: dentro la sensibilità musicale del Blasco c'erano echi cantautorali, una passione per Lucio Battisti, la sensibilità commerciale del disc jockey, il gusto moderno di Punto Radio, e in fondo a tutto la voglia di fare musica per raccattare pollastrelle. Era il meglio che Boncompagni potesse aspettarsi per divertirsi, con battute finto-comprensive e vero-cattivelle. D'altronde, come si fa a non divertirsi con il terribile e placido Vasco: perfino quando rispondeva con piccoli movimenti delle labbra agli sfottò del cinico presentatore Boncompagni, in cui si intuiva il suo inevitabile e represso "vffncl", c'era nel suo sguardo un aspetto giocoso, quello di uno che si sta giocando la vita e un avvenire, senza troppi scrupoli e senza nessuna illusione, dunque con un divertimento implicito. Partirono le note di pianoforte introduttive della sua canzone, «Respiri piano senza far rumore...», e qualcosa cambiò, nell'atmosfera in studio: come se ci si rendesse conto che quella canzoncina romantica contenesse qualche piccola verità, l'aura che si dispiega misteriosamente intorno ai pezzi destinati a fare epoca. Il tempo tiranno infierì sull'esecuzione (vabbè, era un playback, ma non importa), e mentre partiva la schitarrata cosmica ed elettrica a metà esecuzione, il regista fece sfumare la musica. Vasco addio. O meglio, arrivederci. Più tardi fu Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore reggiano morto così presto, e così malinconicamente, a sdoganarlo, proprio su "L'espresso". Perché descrisse la sua voce «da fumatore», i suoi gesti vagamente schizzati, il suo corpo da proletario, intuendo che dentro e dietro l'aspetto del contadino e del montanaro c'era qualcosa di più di un'apparenza. Vasco era già destinato a diventare il re dei giubbotti neri, antitesi perfetta del divo dei pianoforti bianchi, il crepuscolare stornellatore Claudio Baglioni. Sarebbe andato a Sanremo, avrebbe litigato con Nantas Salvalaggio, avrebbe accentuato il suo atteggiarsi da bevitore, avrebbe ripetuto ad libitum «capìtto», come fa ancora adesso nel suo lessico che è esattamente identico a quello dei suoi fan. Sarebbe anche finito in una di quelle storiacce da ragazzo precipitato troppo rapidamente nel successo, in cui la coca fa da contrappunto nasale alle notti da sballato, e a un ritmo di vita che è quello di "Siamo solo noi", generazione senza santi né eroi, protagonista di peccati prevedibili e di redenzioni sempre precarie. Una vita estrema, ma anche una vita provinciale, e perciò comprensibile. La vita di uno che è sempre consapevole che il successo in fondo è casuale: poteva andare bene, poteva andare male, è andata benissimo, più che benissimo, è andata alla grandissima. Vasco infatti è diventato un idolo. Idolo per la vita spericolata, perché va o è andato al massimo, perché ha sfidato la notte e la discoteca, si è perso nei parcheggi fuori da un locale fumando Lucky Strike e guardano le cartacce per terra: perché si è identificato fino in fondo con i suoi ammiratori, con le generazioni che l'hanno amato e che lo amano, che affollano i suoi concerti, e si commuovono e si divertono perché condividono qualcosa (molto) di lui. Condividono anche la sua parabola. Era magro, capelluto, poetico, trasognato, cattivo. Adesso è grasso, pelato, tollerante. Quello che ha perso in immagine l'ha guadagnato nella passione del pubblico. Perché lo «sbudellato» Vasco, come lo definì Roberto D'Agostino, è riuscito in un'impresa formidabile: cioè a farsi voler bene da tutti, diconsi tutti, gli italiani. Non è un fenomeno facilmente spiegabile. Nessuno infatti è in grado di spiegare la ragione per cui Vasco Rossi riscuote un successo travolgente e generalissimo. In Svizzera o a Innsbruck, appena fuori dal confine, sarebbe uno sconosciuto. La sua non è musica all'avanguardia, è un suono di mainstream, potente e accattivante ma senza vertici di originalità. Eppure, grazie anche ad autori e collaboratori come Tullio Ferro (ex chitarrista di tendenza che ha firmato i suoi hit più clamorosi), le sue composizioni sono diventate l'accompagnamento più naturale per l'intera società italiana, senza distinzioni d'età o di classe sociale. Che cosa c'è allora nelle canzoni di Vasco? C'è la trasgressione controllata, lo scarto consentito, la rivoluzione comportamentale moderata. Non c'è tanta politica, dato che il suo mondo è una realtà sostanzialmente individualistica. In quanto rocker, ha sempre manifestato simpatie per Marco Pannella, anche in seguito alle campagne antiproibizioniste dei radicali. Ma si tratta di un radicalismo non di destra, almeno nei pronunciamenti ufficiali, che fa da compagno di strada al progressismo implicito dei suoi tifosi sugli spalti e sul prato. Poi c'è la formidabile energia che si trasmette dal palco, quel muro di suono che non cessa di affascinare il pubblico, la potenza delle chitarre, dato che il rocker sa che la musica va fatta con le sei corde elettriche, e con il pulsare di una batteria percossa con giusta violenza, altro che storie. Salvo qualche intervallo lirico, in cui come i grandi guitti spreme lacrime con il cinismo dei poetastri. E infine ci sono le sue parole, così semplici e così efficaci: ancora oggi, a metà dei suoi cinquant'anni, Vasco scrive come scrivono gli adolescenti, con le maiuscole e le sottolineature, i punti esclamativi, i puntini di sospensione, come se si trattasse di un diario da mostrare in pubblico. Con tutto questo, chi può negare l'efficacia degli slogan vascorossiani? «Coca Cola sì, coca casa e chiesa... Con tutte quelle bollicine...». Sembra uno spot pubblicitario, lo stacco perentorio di un messaggio che sottolinea vicende scolastiche e avventure da tribù generazionale, ragazzate pericolose e innocue, sentimento collettivo, ingenuo e mica tanto, tradotto in perfetta formula cantata. Lo si vede agitarsi sul palco, come di recente a San Siro e all'Olimpico di Roma. E ci si chiede come sia possibile la passione di massa per un tipo così. Poco attraente, viziato, "brutto": in una parola, irresistibile. Si capisce: Vasco è una polarità semantica che riassume tutto il suo pubblico, le esistenze dei fan, le loro parole, le loro frustrazioni, consentendo a ognuno dei suoi ammiratori e ascoltatori di identificarsi con lui. Anzi, ancora meglio: di pensare che il suo successo clamoroso è tanto incomprensibile da non generare invidie, e quindi capace di generare comunità. Vasco vince, convince, trionfa, urla e magari si commuove, perché anche i rocker hanno un'anima, magari di seconda mano, senza instillare frustrazioni nell'indistinto collettivo che si riunisce festosamente intorno a lui. È ricco ma tratta la ricchezza con la nonchalance dell'ex povero, consapevole che tutto questo, i soldi, il fuoristrada, la vita comoda, può andarsene com'è venuto. Al massimo dovrà pensare a come saranno i suoi sessant'anni, se il miracolo della sua leadership morale sulla musica italiana potrà ancora replicarsi. Ma per adesso, a dispetto di tutti gli altri, c'è un solo leader, non vuole comandare nulla, e si chiama Vasco: per sempre. n
L'Espresso, 12/07/2007
La Rai si è persa Veltroni
Sarebbe stato singolare se le reti Mediaset avessero deciso di mandare in onda la diretta del discorso di Walter Veltroni al Lingotto. Fanno una televisione commerciale, sono orientate politicamente, hanno un padroncino che ha un nome e un cognome, e che si immagina ancora come il futuro avversario elettorale del candidato del centrosinistra (anche se risulta dalle indagini di Ilvo Diamanti che il Cavaliere le prenderebbe dal Sindaco). Ma la Rai? La Rai si ammanta ancora dell'alone del "servizio pubblico". E allora, per quale ragione nessuna delle tre reti generaliste pubbliche ha intercettato l'opportunità di mandare in onda l'evento politico e mediatico di questo avvio d'estate? Salvo errori e omissioni, l'evento del Lingotto è stato seguito da La7 (che sotto l'impulso di Antonello Piroso conferma una sua vocazione all'intervento non ovvio nella cronaca politica: a proposito, arrivederci a "Omnibus"); ha avuto le telecamere di Sky Tg 24 e del canale satellitare Nessuno Tv (e per ciò che riguarda il sistema di informazione internettiano è stato coperto da Repubblica Tv, che sotto la guida di Paolo Garimberti ha registrato un record di contatti e di messaggi, a dimostrazione dell'articolarsi sempre più differenziato e complesso del consumo di informazione, oltre che naturalmente dell'interesse che l'ingresso in campo di Veltroni rivestiva). Bene. Anzi male. Il fatto che la Rai abbia ignorato la possibilità di una diretta da Torino sembra la dimostrazione pulita pulita che l'espressione "servizio pubblico" è un flatus vocis. Tanto per dire, nelle ore e nei giorni successivi, l'evento del Lingotto è stato l'argomento di discussione principale non soltanto sulla carta stampata, ma anche nelle chiacchiere quotidiane della gente. E allora, se la tv pubblica non segue avvenimenti di questo genere, che ci sta a fare? Ai tempi della gestione di Angelo Guglielmi, Raitre era diventata una rete corsara, che irrompeva nella cronaca quotidiana, la valorizzava, la rendeva un fenomeno televisivo. Oggi la Rai brilla per la sua assenza. Ci saranno ragioni altissime per giustificare questo atteggiamento, ma alla fine rimane il senso di un ruolo che non viene esercitato. "Servizio pubblico" vuol dire anche la capacità di incrociare l'offerta, cioè i temi della cronaca, con la domanda degli spettatori. Conclusione: complimenti a La7, e agli altri che hanno colto questa occasione.
L'Espresso, 05/07/2007
Il proprietario Silvio non basta più alla Cdl
È bastato l'annuncio della candidatura di Walter Veltroni per modificare le aspettative: secondo qualche sondaggio il futuro Partito democratico ha guadagnato in pochi istanti quasi dieci punti percentuali, e il centrosinistra ha ripreso la maggioranza delle preferenze. Il che spiega qualcosa di interessante sulla politica italiana: in primo luogo dice che la struttura del consenso è estremamente volatile, tanto che adesso bisognerebbe capire che cosa volessero dire Berlusconi, Bossi e Fini quando sostenevano, dopo le elezioni amministrative, che l'Unione non ha più la maggioranza nel paese. Secondariamente, l'arrivo di Veltroni sulla scena politica nazionale mette allo scoperto i problemi della Casa delle libertà. Perché la crisi del centrosinistra è la prova provata del suo tasso interno di democrazia: l'Unione, compreso il Partito democratico, è un'alleanza caotica, in cui però non ci sono padroni. Di fronte al sommovimento che ha investito il centrosinistra, la Cdl continua a rappresentare una formazione politica di tipo proprietario. Il titolare del patrimonio politico, Silvio Berlusconi, si è intestato 13 anni fa il ruolo di leader, gran dignitario, ideologo e candidato premier, e non lo ha più mollato. Adesso però il gioco potrebbe diventare insostenibile. I colpi di talento del Cavaliere, compreso il fantasmagorico lancio della rossa Michela Vittoria Brambilla come sua possibile erede, non fanno altro che confermare l'identità della coalizione di centrodestra come un feudo. Dentro la Cdl non si può parlare di competizione fra leader alternativi; al massimo si parla e si parlerà di successioni, donazioni ed eredità. La giustificazione dei berluscones è sempre la stessa: Berlusconi non si discute, perché ha preso i voti del popolo. Tutto vero: ma bisognerebbe capire secondo quale formula democratica questo patrimonio di consenso dovrebbe essere trasmesso all'erede. I principali leader dell'alleanza "delle libertà" appaiono tutti, in realtà, leader dimezzati. Umberto Bossi è stato gravemente mortificato dalla malattia, e la Lega ha perso le sue caratteristiche di forza di movimento (per certi aspetti assomiglia, paradossalmente, all'ultimo Psi, quando Bettino Craxi si ingabbiò nel Caf, smarrendo le sue caratteristiche corsare). Gianfranco Fini è il capo di un partito sempre in mezzo al guado, che un giorno completerà il passaggio nei Popolari europei: può contare su un gradimento ampio ma imprecisato, culturalmente poco caratterizzato, a cui il capo di An conferisce un'immagine rassicurante quanto generica, senza che si intraveda una cultura capace di unificare il centrodestra sotto la sua guida. E Pier Ferdinando Casini è un uomo in attesa, probabilmente più adatto a soluzioni di larghe intese, e quindi a un mutamento strutturale del sistema politico italiano, che non a confrontarsi per la conquista della leadership. Finora la Cdl ha lucrato ampiamente sull'ondata mediatica negativa che ha investito il governo Prodi. Ma fra poco le condizioni della contrapposizione politica potrebbero cambiare, e anche radicalmente. Il centrodestra non si troverà soltanto nella comoda situazione di opporsi visceralmente al governo di centrosinistra, magari colludendo in Parlamento con la sinistra radicale per bloccare il processo di liberalizzazione innescato da Pier Luigi Bersani (la destra liberale che protegge le corporazioni e il Pubblico registro automobilistico costituisce un'altra delle meraviglie attuali). Dovrà affrontare la battaglia politica contro il centrosinistra rinnovato, guidato da un leader nuovo. E qui allora occorrerebbe davvero che le contraddizioni a destra emergessero con chiarezza. Per farle venir fuori sarebbe utile che la fase di ristrutturazione del centrosinistra e la scelta della nuova leadership avvenissero con trasparenza, chiarezza, assunzione di responsabilità. Di fronte alla destra "patrimoniale" ed ereditaria, sarebbe di impatto fortissimo un centrosinistra, e un Partito democratico, in cui le culture e i protagonisti si confrontassero senza schemi predefiniti. Finora la leadership veltroniana si è affermata per superiore volontà mediatica. Ma per recuperare il Nord, i ceti produttivi, il lavoro dipendente qualificato, l'imprenditoria moderna, la nuova borghesia, occorre mettere in campo anche quelle figure che si radicano nella cultura di un paese industriale, nella sua storia riformista: quella vicenda avviata con il centrosinistra "storico", con la modernizzazione fondata sull'integrazione della classe operaia nei circuiti della politica e del consumo. Altrimenti la destra si sentirà autorizzata a ereditare se stessa, con un ultimo gioco di prestigio di Berlusconi.
L'Espresso, 05/07/2007
Bene, bravi, basta
Fare un bilancio critico del passaggio in video di "Viva Radio2", il programma radiofonico condotto da Rosario Fiorello con la complicità di Marco Baldini e di Enrico Cremonesi, è un esercizio reso arduo dal coro di entusiasmi che ha accolto la programmazione di Fiorello&C. la settimana scorsa su RaiSat Extra, prima serata. Innanzitutto, i rallegramenti principali andrebbero rivolti al direttore, Marco Giudici, il quale ha capito da tempo quale potrebbe essere la funzione e la vocazione di un canale satellitare come il suo: essere una televisione corsara, produrre eventi inattesi, magari di nicchia ma di grande qualità, anche quando si tratta di intrattenimento puro. Quanto a "Viva Radio2", al di là degli epinici, bisognerebbe dire che c'è una sfasatura netta fra un programma pensato per la radio e il suo trasferimento in televisione. Sono due linguaggi diversi che vengono unificati: funziona, l'operazione? Sì e no. Certo, le macchiette di Fiorello funzionano quasi sempre, anche se nella tessitura degli sketch traspaiono continue concessioni alla volgarità di cui si farebbe volentieri a meno. I numeri in diretta sono ottimi (memorabile Gino Paoli con i Milestones guidati da Enrico Rava). Anche le telefonate, come quella di Vasco Rossi che comunica l'orario del concerto di San Siro, sono divertenti; un po' meno Valentino Rossi, che fatica a dimenticare di non essere più un ragazzetto. Ma forse è la formula di "Viva Radio" che sta mostrando un po' la corda: succede, quando un successo di nicchia diventa un successo di massa. Accadde ad "Alto gradimento" di Arbore e Boncompagni, per dire, programma madre di tutti i tormentoni. C'è un metodo praticamente infallibile per valutare il livello qualitativo di una trasmissione: il programma comincia a calare di efficacia quando i protagonisti danno l'impressione di divertirsi più di quanto non si diverta il pubblico. Perché comincia un gioco di complicità, di aspettative presto realizzate, di battute previste che effettivamente arriveranno, si manifesta qualche ovvietà. In breve. "Viva Radio2" ha dato ciò che poteva dare. Era moltissimo, è vero. Ma adesso è a un bivio. Continuare, raccogliendo un consenso sempre più ampio e generico, e quindi poco innovativo. Oppure fare il gran salto: passare in televisione, cambiando formula e reinventandosi. Se non osa Fiorello, nel conformismo e nell'impero dei format, chi può farlo?
L'Espresso, 05/07/2007
50 anni nel blu
Appuntamento il 10 luglio nell'Anfiteatro romano di Benevento. Si celebra la nascita di "Volare", più propriamente "Nel blu dipinto di blu", la canzone italiana moderna più famosa nel mondo, uno dei più celebri capolavori di Domenico Modugno. Com'è noto, la canzone vinse al Festival di Sanremo del 1958 (Modugno era in coppia con Johnny Dorelli), ma fu concepita proprio mezzo secolo fa, in un caldissimo giorno di luglio del 1957. L'autore delle parole fu Franco Migliacci, il più chirurgico scrittore di canzoni degli ultimi cinquant'anni, un perfetto allestitore di sillabe. Mogol sarà un genio istintivo, ma Migliacci, classe 1930, è il più elegante disegnatore di versi, perfetto nella metrica e nelle invenzioni, creatore di trovate siderali come "Tintarella di luna" per Mina, «Tin tin tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te», come se il chiarore notturno si sciogliesse in una pioggia di monetine. Lui e Modugno si erano conosciuti sul set di un film di Francesco De Robertis, "Carica eroica". Ha raccontato Migliacci: «A me tocca la parte di un attendente, un giovane toscano. Il pugliese Modugno interpreta l'attendente siciliano. Il marketing di allora richiedeva le parti regionali». Comincia così un sodalizio fortunato. Un giorno Modugno lo invita a Fregene con due ragazze, ma poi lo scarica e non passa a prenderlo, perché di ragazze ne è rimasta una sola (che sarebbe poi la futura moglie Franca Gandolfi). Migliacci per la delusione si scola una bottiglia di Chianti, e al risveglio rimane stregato da una riproduzione di Chagall sul muro, un quadro intitolato "Le Coq Rouge". Butta giù un incipit: «Di blu mi son vestito per intonarmi al cielo». L'idea sembra interessante, sicuramente non convenzionale, ma la metrica non sta a puntino nella musica. «Ci ho messo sei mesi per capire come si costruisce una canzone», spiegò in seguito Migliacci: «Ma alla fine è venuta fuori "Nel blu dipinto di blu"». Ammessa al Sanremo del 1958 con 99 voti su 100 della giuria selezionatrice. E dire che l'arrivo di Modugno sulla Riviera dei fiori fu accolto da uno scetticismo generale: «Non ha il vibrato», commentavano con ironia i cantanti confidenziali dell'epoca. Ma quando sul palcoscenico Modugno, nel suo smoking color crema, spalancò le braccia nel suo grido liberatorio, esplose una specie di delirio. Nell'Italia eccitata dal boom economico, il volo di Modugno e Migliacci scatenò un entusiasmo incontenibile. Sembrava che tutto il paese si fosse messo a volare sull'onda di quella canzone. In sala il pubblico, impazzito, agitava i fazzoletti, rideva, piangeva. Ventidue milioni di copie vendute nel mondo dal solo Modugno. Terza all'Eurofestival, prima in classifica per tredici settimane negli Stati Uniti, interpretazioni di tutti, fra gli altri anche di Dean Martin. Ma la prima vera sostenitrice di "Volare" era stata Virna Lisi, che era in compagnia con la coppia Migliacci-Modugno. Mentre la consacrazione alta venne da Massimo Mila, che disse: «Modugno non è una voce che canta: è un uomo che canta». E aggiunse che nello stile del cantante pugliese si avvertivano strati di sonorità mediterranea, materiali sonori antichissimi, echi millenari di cultura popolare. Il concerto-tributo di Benevento (che è previsto in prima serata su Raiuno il 13 luglio), intitolato "Un uomo in frac", è ideato da Piero Ameli, regista Duccio Forzano. Si alterneranno sul palco artisti che hanno lavorato con Modugno, a cominciare da Migliacci, e musicisti contemporanei che riconoscono un tratto comune con l'autore di "Volare", come Simone Cristicchi, Morgan, Sergio Cammariere, Neffa. n
L'Espresso, 28/06/2007
Fortino palazzo Chigi
Un assedio. La coalizione di centrosinistra con i leader ammaccati dalle intercettazioni e dai verbali degli interrogatori di Stefano Ricucci. Il sospetto serpeggiante anche nella famiglia diessina che Piero Fassino e Massimo D'Alema fossero iscritti in un "concerto" che spartiva pezzi di economia fra sinistra e destra, Bnl da una parte e Antonveneta dall'altra, con sullo sfondo la possibile "finlandizzazione", cioè una neutralizzazione spartitoria, del "Corriere della Sera". E il governo Prodi protagonista involontario della più colossale caduta di consenso che si sia mai vista nella storia della Repubblica. Il premier fischiato in ogni occasione, anche dalla platea che si immaginava non ostile della Confesercenti. Le regioni del Nord che alle amministrative consegnano il foglio di via al centrosinistra, indicando percentuali intorno al 30 per cento. È la fine di una stagione? Per capirlo si può tentare di penetrare nel quartier generale del governo, sentire gli umori, raccogliere le valutazioni delle persone più vicine al premier. Ascoltare un grido di dolore silenzioso. Guardiamo alle condizioni di scenario, dicono le voci di Palazzo Chigi. I politologi sostengono che il governo è impopolare perché al Nord si aspettavano libertà e hanno avuto tasse, mentre al Sud si attendevano trasferimenti pubblici che non sono arrivati. Il governo vittima delle aspettative asimmetriche. Ma ci sono anche ragioni più strettamente politiche. I Ds sono in condizioni preoccupanti. La scissione di Fabio Mussi a sinistra. E nel partito il diffondersi di un cattivo pensiero, l'idea o l'esorcismo di un complotto che viene da lontano, ossia che tutto vada fatto risalire alle esternazioni di Arturo Parisi due anni fa, quando l'attuale ministro della Difesa accennò al possibile riemergere di una «questione morale» a sinistra. Non gliel'hanno mai perdonata, a Parisi, come se quella fosse la prova di una grande macchinazione e la dimostrazione implicita che a ordirlo fossero stati loro, gli ulivisti fondamentalisti, i prodiani, l'école parisienne. Ma non ci sono difficoltà soltanto sul fronte diessino: non passa giorno senza che Francesco Rutelli attacchi pesantemente la politica economica e fiscale del governo, e questo alimenta dubbi sul futuro. A quanto si capisce, se cade Prodi potrebbe esserci un governo di transizione più o meno lunga: che cosa succede del Partito democratico in questo caso? Bisogna chiedersi che cosa accadrebbe se crollasse il governo: rischierebbe di cadere anche il bipolarismo? In questo caso i Ds porterebbero a casa solo guai, mentre per le frange centriste della coalizione si creerebbero delle opportunità. A pensar male si fa peccato, ma si va vicini alla verità. Naturalmente, ironizzano i Chigi-ultras, non c'è nessun complotto prodiano o parisiano. C'è un clima di rifiuto della politica, che ha avuto un detonatore nel libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, "La casta", e c'è la crisi di credibilità del governo. Tuttavia bisognerebbe fare un modesto ragionamento ed elencare qualche dato fattuale: allora, abbiamo una crescita del Pil al 2,3 per cento; l'inflazione è la più bassa d'Europa, mezzo punto sotto la zona euro; i conti pubblici sono sotto controllo; la disoccupazione è la più bassa da quindici anni; abbiamo dato alle imprese il taglio del cuneo fiscale; siamo usciti elegantemente dall'Iraq; siamo al comando di una forza di pace in Libano che ha rappresentato anche simbolicamente una discontinuità netta rispetto all'unilateralismo americano e al conformismo americanista della destra italiana. E allora, dice la voce profonda di Palazzo Chigi, qualcuno dovrebbe provare a spiegare come fa una somma di elementi positivi a trasformarsi, nella percezione pubblica, in un disastro. Tanti dati buoni che danno come somma una catastrofe. Se questi risultati li avesse fatti Berlusconi, avrebbe inneggiato a se stesso e ai suoi miracoli. Noi, invece, è chiaro che agli occhi del mondo siamo gente di qualità mediocre: abbiamo risanato sì, ma dal lato delle entrate, come dice il governatore Draghi, cioè con le tasse; e il risanamento c'è, ma è congiunturale, dice la Confindustria: un saldo di bilancio, non una messa in efficienza dei comportamenti statali. Certo, insistono i prodiani, non possiamo rispondere alla crisi di rigetto del paese dicendo che non sappiamo comunicare. Ci sono ragioni più serie. Se guardiamo alle elezioni amministrative di fine maggio, ci accorgiamo che avevamo il territorio e non l'abbiamo più: cominciano a diventare contendibili anche aree di insediamento politico che prima erano indiscusse, in Liguria, Emilia, in Toscana, in Umbria. Il fatto è che noi ulivisti per dieci anni abbiamo coperto la malattia dei Ds, con l'Ulivo: ora che l'Ulivo non funziona più ce la faremo con il Partito democratico? È l'ultima chance. In ogni caso, nessuno grida alla cospirazione delle lobby economiche e dei potentati mediatico- finanziari; ma c'è da considerare quella che Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma, ha definito «la debolezza dei poteri forti»: i quali poteri per ovviare alla loro fragilità hanno interesse a puntare sull'indebolimento della politica. Con effetti anche clamorosi, perché Gianfranco Fini che riceve gli applausi dei giovani industriali quando difende il Pra dalle liberalizzazioni di Bersani dà un segno di che cosa significa il corporativismo. Questo è l'elenco dei mille dolori. Adesso si tratta di vedere quali sono gli strumenti per cercare di uscire dall'impasse. Le "cartucce" da sparare, come dicono nell'entourage prodiano, cioè la dimostrazione che il governo è in grado di decidere e decide. La prima cartuccia è la Tav, che sembra giunta a una soluzione onorevole. Consideriamo anche che il governo è dovuto intervenire su problemi lasciati marcire da Berlusconi, e quindi difficili da trattare: il Mose a Venezia, ripreso dopo che era stato messo in abbandono, i rifiuti a Napoli. Però pensiamoci, abbiamo chiuso la Maddalena in ottimo ordine, siamo alla guida di 13 mila uomini in Libano, siamo venuti via dall'Iraq in modo perfetto, come ha riconosciuto anche Bush: E allora, spiegateci il mistero: Zapatero esce traumaticamente dalla guerra ed è un eroe, noi usciamo con un passo di danza, con tutti i crismi e il rispetto dell'alleanza e siamo delle caccole. Bene così, ma c'è qualcosa che non si spiega. La seconda cartuccia consiste nel chiudere bene i tavoli della concertazione. Che significa due questioni principali: pensioni e ammortizzatori sociali. Sulle pensioni si deve sapere che l'abolizione dello scalone costa circa 9 miliardi, e quindi serve a poco fare la voce grossa, come ha fatto il segretario della Cgil Epifani in apertura di trattativa. Occorre una soluzione. Nel frattempo però si interverrà sulle pensioni minime, per far tirare un respiro ai pensionati da meno di 500 euro al mese: con l'extragettito si aumenteranno le pensioni minime di una trentina di euro, e il primo anno arriveranno tutti in una tranche, 350-400 euro in un colpo solo, sicché anche loro si accorgeranno che non facciamo promesse a vuoto. Quanto agli ammortizzatori sociali, si lavora sulla "totalizzazione", cioè sulla possibilità da parte dei lavoratori precari di ricongiungere periodi di contribuzione anche saltuari. Dopo di che, l'appuntamento principale è il prossimo Dpef, che rappresenta un momento centrale perché mostrerà che l'azione del governo ha dato i suoi frutti. Potrà portare a una finanziaria senza manovre e senza la minaccia di tagli e amputazioni, e potrà anche mostrare l'intenzione di tagliare le tasse a chi le paga. Adesso a Palazzo Chigi aspettano con un certo ottimismo i dati sull'autotassazione, che sembrano promettenti e in grado di sostenere una politica seria di riduzione del peso fiscale. Nel frattempo, anche pochi ringraziano, si taglia l'Irap del 26 per cento: «Questo governo di incapaci opera un intervento fortissimo sulla tassazione alle imprese». Altra cartuccia, l'intervento sui costi della politica: che era uno dei punti di attacco della politica prodiana, e che in questo clima diventa una manovra quasi soltanto difensiva. Comunque, c'è in atto un coordinamento fra cinque ministeri, per riuscire ad armonizzare misure di trasparenza e di sfoltimento degli organismi politici e parapolitici. Ma quanto ai costi della politica, dicono i Chigi-pasdaran, sarebbe il caso di non dimenticare che i liberista Berlusconi ha fatto due contratti del settore pubblico con un aumento di oltre il 5 per cento. Fra le curiosità, all'ultimo G8 si è scoperto che non avevamo saldato tutte le rate del Global Forum sull'Aids, che era stato voluto da Berlusconi in persona. Ma la cartuccia vera, e qui i Prodi boys traggono un sospiro fra la speranza e la rassegnazione, è il Partito democratico. Adesso, dopo che Michele Salvati aveva auspicato un atto di coraggio da parte del premier, Prodi lo ha preso alla lettera e ha dato via libera all'elezione diretta del leader. Se lo ha fatto, vuol dire che si è reso conto che si era sviluppata una battaglia potenzialmente letale fra due partiti, uno ufficiale, i "bipolaristi", e uno clandestino, gli "inciucisti". La decisione di accelerare sul Partito democratico nasce evidentemente dal timore che il partito inciucista potesse approfittare delle more in cui si trovava il Pd per tentare altri giochi, altre manovre. Senza rendersi conto, dicono i bipolaristi purissimi di Palazzo Chigi, che progettare e realizzare governi di larghe intese con Berlusconi significa consegnargli l'atout per scegliere il momento del ritiro della fiducia e andare alle elezioni alle sue condizioni. Quindi? Resistere, resistere, resistere. Sapendo che ogni giorno può portare l'incidente fatale. E che il risentimento diffuso contro il governo è altissimo. Ma con l'idea che si può ancora risalire la china. A testa bassa, con la classica ostinazione di Prodi. Perché molti non capiscono, dice l'ultimo dei resistenti, che se cade il governo Prodi non c'è un'alternativa e non c'è lieto fine. È il fallimento del centrosinistra, dell'Unione, di tutta una classe dirigente: e allora ne riparleremmo fra vent'anni. n
L'Espresso, 28/06/2007
Settanta volte Renzo
Fa l'impossibile per tenere segreta la data. Profilo bassissimo, understatement, per ora niente feste, niente party (o «parties», come direbbe lui ironizzando sul plurale inglese). Eppure i settant'anni di Renzo Arbore, che scoccano il 24 giugno, sono un appuntamento non proprio evitabile. Fastidiosissimo per lui, che si appella agli amici: «Poco chiasso, mi raccomando. Se si sparge la voce che ho settant'anni non raccatto più». È un richiamo alla solidarietà maschile. Già, ma come si fa a tenere riservato l'avvenimento? Più apparentemente pubblico di Arbore non c'è nessuno. Non ci si può dimenticare che ha fatto la storia della televisione, e prima della radio: il vero esordio nel rutilante mondo dell'intrattenimento musicale dell'irripetibile Renzo si deve proprio a una trasmissione radiofonica, l'indimenticabile "Bandiera gialla", i cui titoli di testa recitavano: «Un programma di Gianni Boncompagni con la complicità di Renzo Arbore». Era il 1965, e il maestro programmatore Arbore, studi di giurisprudenza a Napoli ed esordi nella Taverna del Gufo nella natia Foggia, contribuiva ad aprire le patrie sponde all'epoca beat, volteggiando fra i Beatles, i Rolling Stones, l'Equipe 84, i Rokes e tutti gli altri, dai Them e gli Who ai Delfini e ai Dik Dik. Dopo di che, Arbore non è distinguibile dalla sua attività pubblica. Esperto di musica dalla melodia napoletana al rhythm'n'blues e al jazz, creatore di calembour e campione dei tormentoni («A quest'ora in questura il questore non c'è»), navigatore nella goliardia, esploratore dell'antropologia meridionale, cultore dell'"Amèreca", cioè l'America degli emigrati, deposito di culture che in patria magari scompaiono e sull'altra sponda dell'Atlantico vengono meravigliosamente conservate. E poi anche, Renzino vostro, collezionista caotico di oggetti e gadget di plastica che riempiono la sua bella casa, attico al quarto piano saturo di qualsiasi cosa, teatrini meccanici, orologi a cucù, radio americane degli anni Quaranta (molti oggetti, fotografati ed esposti alla Triennale, "The Renzo Arbore Collection"). Ma è chiaro che Arbore è passato alle cronache e passerà alla storia, televisiva e non solo, per alcuni programmi di svolta, a cominciare da "Alto gradimento", con i suoi astronauti spagnoli dispersi nel cosmo, il professor Aristogitone («Studenti, vi rompo le corna»), la poesia dell'"assurdo tautologico" di Mario Marenco, le istanze dello studente Verzo («Stamo a fa' un sittìn paa libberazzione sessuale dei regazzini daa Angola»): insomma una galleria di cialtronate irresistibili. Come naturalmente sono stati irresistibili e irripetibili i suoi programmi "seminali", a partire da "Quelli della notte", anno 1985, memorabile oltre che per la fauna da talk show (Maurizio Ferrini «non capisco ma mi adeguo», Riccardo Pazzaglia e il brodo primordiale, Massimo Catalano con le catalanate, Nino Frassica con gli sfondoni, anche per una partecipazione inattesa di Prodi e Reviglio, cioè Iri e Eni, che si sganasciavano (e pare che Bettino Craxi avesse ringhiato minacciosamente: «Ma che cacchio hanno da ridere quei due»); e l'irruzione di Paolo Guzzanti nell'ultima puntata, imitante la voce di Sandro Pertini. A cui seguì il più imprevedibile e postmoderno "Indietro tutta" (1987), parodia del quiz, esempio di televisione "celibe" fatta di nulla sotto vuoto pneumatico, pubblicità del Cacao meravigliao e lustrini delle Ragazze Coccodè, gare sul filo dell'assurdo fra Nord e Sud, interventi telefonici e «vado al regolamento» del bravo presentatore Nino Frassica. Adesso, dopo la televisione "amarcord" di "Meno siamo meglio stiamo", Arbore è soprattutto uomo di spettacolo dal vivo, con l'Orchestra italiana, una cinquantina di concerti l'anno. E dal vivo è come sempre uno dei più formidabili narratori di aneddoti che si conosca: «Dunque, non ci crederai ma Mogol e Battisti sono venuti a portarmi quella loro canzone, "Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi..." proprio il giorno che mi fidanzavo con Mariangela Melato, e quindi capisci la coincidenza, "come può uno scoglio arginare il mare", c'era davvero da mettersi a piangere». In attesa di una vacanzina, di un altro tour, di qualche altro inimitabile prodotto della premiata erboristeria: e forse di un programmino televisivo «piccolo piccolo», dedicato al Sud. Intanto, con tutta la discrezione possibile, sono auguri. n
L'Espresso, 28/06/2007
Il prete radicale
Certe volte la televisione produce grande cultura. Domenica scorsa è andato in onda uno speciale del Tg1 che assomigliava molto a un evento. Si è trattato di "Lorenzino", ovvero "Don Milani, l'ultimo prete", definito dai titoli di testa «un lavoro videostorico di Alberto Melloni, curato e montato da Fabio Nardelli e Federico Ruozzi». Va a merito di Gianni Riotta e di David Sassoli, che fa anche da voce narrante, l'avere intercettato questo film, realizzato nel clima culturale dossettiano (e alberighiano, sia lieve la terra al maestro di storia e di sapienza) dell'Istituto per le scienze religiose di Bologna. L'evento consiste in questo. Che per una volta non prevale l'aspetto del don Milani insegnante, con tutta l'attenzione concentrata sulla scuola di Barbiana: bensì si interpreta la vicenda del prete toscano, il «povero pazzerello scappato dal manicomio», secondo la sbrigativa definizione di Angelo Roncalli, come il prodotto di un ambiente culturale plurimo e di altissimo livello. Non c'è soltanto la madre, ebrea boema; c'è una famiglia con quarti accademici di primissimo ordine, un ambiente «agnostico e colto» in cui la scelta di conversione di "Lorenzino", il suo «cattolicesimo indossato per sventura», cioè per sfuggire alla violenza del fascismo, si esalta quasi per contrasto, ma forse anche per abitudine al dubbio, in una prospettiva di radicalità religiosa, umana e politica. Perché ciò che il film di Melloni illustra con chiarezza è proprio la figura di democratico radicale di don Milani, il suo porsi non da una parte, ma «sopra le parti, per cercare il nucleo di verità che c'è nelle cose e nei rapporti fra gli uomini, perché la verità sta da una parte sola». Poi, naturalmente, a Barbiana, «c'era un bellissimo spirito», come ricorda Oliviero Toscani parlando della sua lontana partecipazione come giovanissimo maestro di fotografia. Ma il documentario di Raiuno, costato pochi euro, non si sofferma sulla dimensione talvolta commovente della vicenda umana di "Lorenzino": trattiene la commozione per scandire i momenti fondamentali della vita di don Milani, la storia del suo contestato libro "Esperienze pastorali", il rapporto con la gerarchia, quel senso di verità per l'appunto radicale che muoveva la sua riflessione e il suo agire.
pagina
di 66