L’Espresso
L'Espresso, 10/05/2007
Televisione È tutto poco serial
La fiction sulla fiction. Ovvero la meta-fiction. Un "effetto notte" sui teleromanzi trash. Dopo le prime puntate di "Boris" (diretto da Luca Vendruscolo, che è anche lo sceneggiatore con Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre, da un'idea di Luca Manzi e Carlo Mazzotta; in onda il lunedì alle 23 su Fox) non è facile dire se questo serial colpisce nel segno. Certo, almeno per ciò che riguarda l'ambientazione e i personaggi si avverte un sapore di verità: un misto di cialtroneria e di mediocre ferocia, il cinismo tipico dell'ambiente, l'approssimazione come metro e il pressappoco come metodo dell'agire televisivo, sia nei comportamenti professionali sia nei rapporti personali. Ciò che va chiarito è se la balordaggine della tv abbia una possibilità di attrarre il pubblico e farlo diventare partecipe. Perché "Boris" presenta caratterizzazioni estreme, personaggi ossessivi, "tipi" stressatissimi sul piano stilistico e comportamentale: parodie più che figure reali o realistiche, iperboli anziché ritratti, tic e soprattutto nevrosi al posto dei giochi di personalità. Può essere una scelta plausibile anche questa. Una via italiana alla fiction dove il grottesco e il sarcastico fanno aggio sull'obiettività. E di sicuro è divertente registrare il candore crudele con cui Caterina Guzzanti sevizia una delle figure chiave, lo stagista (vittima televisiva a suo modo socialmente esemplare del mondo della precarietà trasportata nell'universo dell'effimero: una precarietà al quadrato). Ma può anche trattarsi di una soluzione domestica per ovviare alla carenza di mezzi. Mentre gli americani possono permettersi investimenti monstre, gli italiani devono buttarla sull'inventiva, sullo scarto laterale. In passato ci sono esempi gloriosi di successi realizzati per questa via. Alcuni capolavori della commedia di costume, come "Il sorpasso" e "I mostri" (i due film di Dino Risi, appena restaurati, sono stati presentati in questi giorni su Sky Classic), appartengono proprio al genere dell'artigianato che diventa opera assoluta. Tuttavia la fortuna di prodotti come "Boris" dipende dall'immedesimazione del pubblico. Cioè da una conoscenza diffusa, dalla nascita del tormentone, dal passaparola. E quindi dai grandi numeri. Mentre con un prodotto di nicchia si rischia di restare alla fase sperimentale. In attesa che qualcuno capisca l'esperimento e lo traduca in sitcom per il pubblico generalista.
L'Espresso, 03/05/2007
Gentiloni? No, grazie
I liberali veri non guardano in faccia nessuno. E Franco Debenedetti, ex senatore diessino, ma soprattutto spirito libero di quella sinistra che ha fiducia nel mercato, non ha l'abitudine di mandarle a dire. Il suo ultimo libro, "Quarantacinque per cento. Una critica liberale al progetto Gentiloni sulla tv" (editore Rubbettino), è un attacco totale a una delle leggi totem dell'Unione, vale a dire il ddl presentato dal ministro delle Comunicazioni del governo Prodi il 16 ottobre 2006, intitolato: "Disposizioni per la disciplina del settore televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale". Un progetto di riordino del sistema televisivo che viene dopo la legge Gasparri, quella che aveva inventato il Sic, cioè il "Sistema integrato delle comunicazioni", per stemperare in un insieme indefinibile la posizione dominante di Mediaset; e che si propone come un importante strumento di modernizzazione dell'offerta televisiva nel nostro Paese. Fin dalla sua presentazione, il ddl Gentiloni ha raccolto diverse obiezioni, non solo da destra. Alessandro Penati ha scritto che si tratta di una riforma che «guarda nello specchietto retrovisore». Secondo Debenedetti, il cuore malato del progetto legislativo del centrosinistra è proprio nel tetto che si vuole imporre alla raccolta pubblicitaria da parte di ogni soggetto televisivo. Una misura illiberale e contraria alla logica del mercato, per un verso; e per l'altro la dimostrazione fattuale che il centrosinistra non ha capito l'essenza del sistema tv e della sua evoluzione. Secondo l'ex parlamentare ds, tutta la produzione legislativa sul settore televisivo è percorsa da un unico filo conduttore: «Il desiderio di modificare uno stato di cose considerato non accettabile. Anziché indirizzare il futuro, ripristinare il passato per cambiare il presente». Lo schema esposto nel libro (suffragato da contributi specialistici di Paolo Buccirossi, Emilio Pucci e Vincenzo Zeno-Zencovich) è presto detto: il sistema della comunicazione è da tempo in perenne turbolenza, determinata dal crescere delle opportunità offerte dalla tecnologia. Pretendere di ordinarlo predeterminandone le caratteristiche significa rincorrere una realtà che si trasforma in continuazione, e quindi mettere briglie indebite al mercato. Lo stesso duopolio è una «anomalia presunta», dal momento che la concentrazione nel mercato televisivo «è un fenomeno naturale, ovunque nel mondo». In realtà la critica più ovvia all'analisi di Debenedetti riguarda il fatto che l'anomalia di sistema sarà pure presunta, ma quella che coinvolge il politico Berlusconi proprietario di metà del duopolio è evidente. Ma secondo l'autore questo problema non si risolve con una legge ad personam, confondendo il conflitto d'interessi con il funzionamento del mercato. La legge Gentiloni è una legge «ideologica». Per assecondare nel modo più adeguato a una democrazia moderna la trasformazione del sistema televisivo, occorre rinunciare alle ipotesi «costruttiviste», e favorire in ogni modo l'articolazione dell'offerta, in modo che sia la concorrenza a garantire la libertà di espressione.
L'Espresso, 03/05/2007
Simona che sventura
Regola numero uno, se si parla di televisione: non maramaldeggiare. Per cui meglio non prendersela con "Colpo di genio", il programma con Simona Ventura e Teo Teocoli, colpito e affondato da un pollice verso universale. Parce sepulto. Qui si fa un po' di analisi sul perché la Ventura ha fallito. Ma come, la grande materialona della nostra tivù, l'energetica e vitaminica "Mona", la donna che non conosce fallimenti, che ha salvato un Sanremo, che furoreggia con il suo vigore televisivo. E il fuoriclasse Teocoli, che gli è successo? E insomma, che cosa è andato storto? Come si sa, i disastri non hanno una sola causa. Come spiegherebbe in questi casi il maestro dei modelli matematici "catastrofici", René Thom, occorre una serie di coincidenze drammaticamente sfavorevoli perché la continuità si interrompa, il pack cominci a rompersi, e i grandi personaggi della tv generalista rivelino improvvisamente crepe che partono dalla testa e si diramano, come nei migliori cartoni animati, tipo Gatto Silvestro. Quindi l'elenco delle cause avverse sarebbe lungo. Programma spaventosamente brutto, e vabbé. Gli inventori portavano le loro povere cose. Teo Teocoli non sembrava molto ispirato, anzi: quando si va in prima serata a fare l'imitazione di Tony Dallara, anche il pubblico tradizionale di Raiuno, comprese le pensionate e gli anziani sonnecchianti, dice: uffa, la so già. "Bambina Bambiiiina...". E anche "Come prima, più di prima...". Mutatis mutandis, sarebbe come se Neri Marcorè, per imitare un uomo politico, facesse l'imitazione di Amintore Fanfani: le nonne si chiedono, ma è vivo o è morto? Eppure il fallimento investe prima di tutto lei, Simona. Perché come dicono i tecnici, sulla base dei dati di audience, non è riuscito il "trapianto" della Ventura dal pubblico "giovane" di Raidue al pubblico "anziano" di Raiuno. Non è certo che il pubblico di Raiuno sia fatto solo da vecchi e babbione, ma di sicuro la Ventura non dovrebbe ignorare l'effetto disastroso che hanno i tatuaggi sulla fascia anziana. Secondo un'interpretazione molto borghese, vanno sulla principale rete pubblica solo persone borghesemente accettabili, di standard medio, senza bizzarrie. Quindi, se vorrà ritentare l'avventura, Simona sa che ha una sola alternativa. Farli sparire, i tatuaggi. Con il laser, possibilmente; oppure, se è affezionata a quelle schifezze, dicono le nonne, almeno si copra, si copra.
L'Espresso, 26/04/2007
Quel lungo applauso per dire addio a Silvio
Con una delle sue battute a effetto, Silvio Berlusconi ha tentato di riprendersi Pier Ferdinando Casini e soci. Accolto da un'ovazione inattesa dal congresso dell'Udc, ha detto, sprizzando soddisfazione: «Ma non avrò mica sbagliato indirizzo? Qui mi sembra di essere a un congresso di Forza Italia». Tutto sembrava confermare ciò che Berlusconi ha sempre sostenuto: le giravolte di Casini sono puro teatrino politico, gli elettori dell'Udc torneranno nella Casa delle libertà, perché «senza di me non vanno da nessuna parte». In realtà Berlusconi, con il suo eterno ritorno, ha mostrato ancora una volta il suo carisma: eppure si è preso la scena, ma non si è preso il congresso. Ha oscurato per qualche ora Pier Ferdinando, ma non ha scalfito la posizione assunta dall'Udc. Bruno Tabacci ha confermato la sua linea di distacco dalla Cdl, nella convinzione che l'area centrista ha tutto da guadagnare da una scomposizione degli schieramenti attuali. Rocco Buttiglione ha detto che il Cavaliere «è il passato». Casini ha chiuso il congresso sottolineando nuovamente le differenze dalla Cdl («Abbiamo salvato l'onore dell'opposizione votando la missione in Afghanistan»). Lo confortano i sondaggi, che sembrano favorevoli per il suo partito, nonostante la sua posizione, né fuori dal centrodestra né con la Casa delle libertà, costituisca uno schema politico non chiarissimo. In ogni caso la manovra a mani libere di Casini assicura all'Udc una centralità e un potere di interdizione che sulla base dei voti e delle percentuali non avrebbe affatto. Sono le gioie della proporzionale, e di tutti i sistemi che tengono in vita le forze minori. Ma è anche un segno politico consistente, perché alla fin dei conti il congresso dell'Udc ha mandato in giro alcune notizie tutt'altro che insignificanti. Come nelle barzellette, la prima notizia è, per Berlusconi, quella buona: la sua figura è ancora quella di riferimento, è il federatore dei moderati, l'uomo della provvidenza con l'alone della storia. Attraverso l'ovazione congressuale, il corpo dell'Udc gli ha trasmesso il proprio amore viscerale, la gratitudine per il passato, quando Forza Italia ospitò diversi naufraghi della Dc (e non soltanto della parte dorotea), tenendoli in vita alle elezioni del 1994. Ma poi come in tutte le barzellette viene la notizia cattiva. Vale a dire che dopo avere riconosciuto al Cavaliere la dimensione dell'icona politica, la sua appartenenza al Pantheon del partito dei moderati, l'Udc gli ha anche spiegato con aperte parole che il centrodestra può, e anzi dovrebbe e deve, fare a meno di lui. Quindi, al caloroso riconoscimento sentimentale si affianca una profonda distanza politica. Perché naturalmente l'Udc sta guardando avanti. Come sempre sono i democristiani a fiutare meglio, con l'olfatto sopraffino dei segugi, le tracce nell'ambiente politico: si tratta di scovare nel centrodestra una leadership diversa. Di far cominciare, finalmente, l'età postberlusconiana. Per dare un'opportunità alle generazioni politiche successive, prima che la vitalità, senile ma vitaminica ed energizzata, del Cavaliere conduca tutti i suoi possibili successori a un triste viale d'autunno, nel cadere delle "feuilles mortes". È per questo motivo che al congresso dell'Udc è stato accolto con notevoli applausi anche Gianfranco Fini. Perché il popolo dell'Udc sa che l'eredità di Berlusconi si disputerà proprio tra l'ex democristiano Casini e l'ex «fascista del 2000» Fini (e naturalmente gli udicini non nascondono la convinzione che Pier Ferdinando sia favorito nella corsa alla poltrona più alta, proprio perché Fini è gravato da troppe zavorre culturali e ha tentato strappi, modernismi ed eclettismi fin troppo estemporanei). Se viene fuori un messaggio è che l'Udc è intenzionata a tenere aperta la fase di disimpegno per il tempo necessario a dare corso alla fisiologia della politica, e cioè a individuare il successore di re Silvio. E come si può capire, la linea di Casini è complementare agli interessi di diversi settori del centrosinistra. Anche nell'Unione c'è bisogno di tempo per fare emergere una leadership nuova. In particolare nel partito democratico occorre il tempo sufficiente a designare il capo del partito e il futuro candidato alla competizione elettorale (che possono anche coincidere, ma non necessariamente). Quando gli interessi convergono, il terzo può anche godere. Significa che Romano Prodi può guardare con maggiore tranquillità alla durata del suo governo. Mentre per ciò che riguarda il centrodestra, il messaggio di Casini dice che è inutile cercare spallate contro Prodi: è arrivato invece il momento di passare alla politica.
L'Espresso, 26/04/2007
Il profeta dell’Emilia
In questa casa la presenza dei morti è quotidiana e anche estremamente vitale... Era il Venerdì santo, e su "Tv7", il magazine del Tg1, andava in onda un servizio di Giorgio Tonelli dedicato al "reduce", l'ex leader dei Cccp-Fedeli alla linea, e poi dei Csi-Consorzio suonatori indipendenti, e quindi dei Pgr (acronimo che vuol dire "per grazia ricevuta"), il "punk cattolico" Giovanni Lindo Ferretti. Sei minuti essenziali, con la fotografia di Giovanni Veronesi e il montaggio di Roberto Nerozzi. Essenziali perché consentivano di vedere la casa di sasso di Ferretti a Cerreto Alpe, sul crinale dell'Appennino reggiano, cioè il luogo del suo «ritorno». E riuscivano a mostrare il lato ipnotico, infinitamente suggestivo di questo visionario e realistico profeta dell'Emilia più lontana, aspra, povera e sconosciuta. Il ritorno a casa di Ferretti è il culmine simbolico di un viaggio che comincia dal cattolicesimo dell'infanzia, si sviluppa in trent'anni di religione comunista, nell'urlo punk che invoca il Patto di Varsavia, un piano quinquennale e «la stabilità», per poi tornare alla fede tradizionale, con una luce negli occhi che sembra quella dei bambini: «Io non ho paura di nulla», dice Giovanni Lindo, forse riecheggiando il «non abbiate paura» di Karol Wojtyla. E mentre i più volgari fra quelli che gli sono diventati ostili scrivono sui muri «Giovanni Lindo Ferretti, dalle pere a Pera», lui getta il suo sguardo sul mondo, si espone come un monaco predicatore, con la sua faccia bellissima da contadino medievale, un Wiligelmo vivente: e senza fare prediche, semplicemente annunciando una verità. Non ci vuole molto a fare televisione, se c'è un'idea e la voglia di raccontare. Ci fosse stato qualche minuto in più, forse si potevano vedere i cavalli e i cani di Giovanni Lindo, i boschi dell'Appennino, quella natura ancora poco corrotta che lascia uno spiraglio a qualche speranza. Ma in quella casa che forse assomiglia alle case di Silvio D'Arzo, a servizio finito restava sullo schermo l'alone della sincerità assoluta di Giovanni Lindo Ferretti, insieme al suo pudore. Per la prossima Pasqua, qualcuno si inventi un venerdì di Passione in cui Ferretti possa raccontare la sua casa, i suoi animali, i suoi pensieri, i suoi morti così vitali. Niente come il paradosso illumina la verità. E quei sei minuti a Pasqua non erano solo un frammento luminoso di televisione, erano un grano lucente di verità.
L'Espresso, 19/04/2007
Vizi privati e pubblici reality
Primissimi anni Novanta: arrivano i serial che hanno cambiato la televisione e la rappresentazione della realtà americana. Bastava lasciarsi prendere dalla saga familiare e di gruppo di "Beverly Hills 90210" per intuire che quel "teen drama" era più di un buon telefilm, costituiva una rottura di paradigma: già, come nel modello delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, le soap opera avevano saturato il loro ambiente semantico; il paesaggio archetipico, fisico e umano, di "Twin Peaks" di David Lynch stava sconvolgendo i canoni della narrazione televisiva, descrivendo un'America popolata di freak e imperniata su strutture narrative largamente pervase da un elemento mitico-magico. Sfidata sul suo campo, nei suoi stili e nelle sue modalità di racconto, la fiction tentava strade diverse. "Beverly Hills", un rondò di amori fra adolescenti di una ricca zona residenziale di Los Angeles, esponeva una società in bilico fra conservazione, valori tradizionali, lealtà classiche della società statunitense e innovazione estrema nei comportamenti individuali. Era uno choc, perché in quel lontano telefilm, puntata dopo puntata, venivano tematizzati i problemi centrali della gioventù americana. Droga, sesso, rapporti fra le generazioni, il sistema scolastico, la competizione, il rapporto fra individuo e collettività. Nello stesso tempo, una soap come "Melrose Place", rivolta a un target generazionale di venti-trentenni, provvedeva a mostrare tutti i tic e le idiosincrasie dell'America contemporanea. Il protagonista entrava in casa, e con una scansione inesorabile apriva il frigorifero. Per rappresentare il dogma igienista e il rifiuto dell'oralità tabagista, non si faceva che bere, mangiare, vuotare bidoni di caffè e di gelato. Una bottiglia di superalcolico si associava alla devianza. Puritani in cucina e liberal in camera da letto, gli americani. Può essere allora che sia definitiva la tesi di Aldo Grasso nel suo ultimo libro, dichiaratamente antipopperiano ("Buona maestra", sottotitolo "Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri", Mondadori), secondo cui la fiction tv possiede un potere sociologico impressionante, e che l'unica, o almeno la principale, descrizione plausibile degli assetti sociali e degli stili contemporanei vada cercata nelle grandi narrazioni seriali: «Il telefilm si propone come uno specchio ideale nel quale gli autori riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell'immaginario». Qualcosa che sembra un frullato di Proust, Musil e Joyce, proiettati in una "imago" post-storica, per «metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni». Sotto questa luce, diverrebbe ragionevole individuare nella saga concentrazionaria e medicale di "E.R" l'equivalenza del principio narrativo adottato da Philip Roth nel suo bestseller "Everyman", storia di un autunno umano dominato dai crolli corporei, da una fisicità che si infrange nella malattia. Vale a dire: la vita è un fluire accidentato che si snoda fra carotidi squarciate e emogas deficitari. Di fronte al Moloch sanitario l'individuo esibisce tutta la sua solitudine disarmata. La competenza chirurgica permette di trattare gli individui come semplici corpi, come in un transfert erotico da laboratorio, o da camera operatoria, sublimando il sadismo e l'aggressività in tecniche di intervento, salvataggi in extremis, rianimazioni furibonde. Ciò relativizza anche la morte. Il medico che deve parlare con i parenti in ansia segnala infatti che l'operazione è stata complicata, gli sforzi sono stati tecnicamente prodigiosi, mentre le ferite o i danni organici erano indicibili: e soltanto dopo una catena di elencazioni cliniche si giunge all'annuncio che il paziente non ce l'ha fatta, insomma è morto. Come se si trattasse di una subordinata incontrollabile, un inconveniente, il segno della debolezza e della fragilità del corpo nonostante la rassicurante qualità medica delle terapie e la forza della chirurgia. Ragion per cui sarebbe di qualche interesse, prima ancora di osservare come noi guardiamo la società attraverso la televisione, prendere atto di come la televisione ci guarda. Ossia come esercita la sua funzione e la sua influenza sociale, rafforzando le tendenze presenti nel costume, rendendole emblemi, intensificando orientamenti condivisi. Sotto questo profilo, è chiaro che la soap risolutiva nel volgere del secolo è stata "Sex and the City". Molto più di "Desperate Housewifes", che mantiene una traccia di inquietudine proveniente dai sogni cattivi e patinati di Lynch (e per non parlare di "Lost", serializzazione di totem e tormentoni simbolici, virtualmente inspiegabili, macchinazioni del senso, congiure della realtà ai danni dei naufraghi nello spazio del mito). "Sex and the City" era il modulo irresistibile di ciò che le donne non dovrebbero dire, secondo l'educazione classica, e che dovrebbero fare solo di nascosto. Ma lo sfondo della metropoli, della New York dei loft e dei party, dei gay e delle glamour story, dei drink e dei preservativi, proiettava i comportamenti privati su uno schermo metropolitano totale, facendo di ogni innamoramento un potenziale evento d'epoca, e del "making sex" il suo coronamento fattuale, magari faticoso o deludente quanto ineluttabile, una prova o un'ordalia del "clash" di personalità, se non proprio di civiltà: ossia la trasposizione metropolitana dei modelli geopolitici di Huntington, applicati alla relazione fra il genere femminile trionfante e gli uomini-fuchi. In ogni caso, la tv americana, i grandi serial di Fox, le migliori soap formano la propria visione delle cose mentre la espongono. La differenza con il panorama televisivo italiano è abissale, proprio in quanto invece la televisione domestica risponde ancora a modelli di conferma e rassicurazione, che di solito fanno riferimento alla memoria (come nell'esemplare e fortunato "Raccontami"). È quindi per un chiaro riflesso paternalista che la fiction italiana tende a ribadire il passato più che a raffigurare il presente. Non si spiegherebbe altrimenti l'affollamento di pontefici, da papa Giovanni a Luciani a Wojtyla, e l'inflazione di Padre Pio, a suffragio di una religiosità descritta come stereotipo collettivo, non impegnativo moralmente ma coinvolgente in via sentimentale: un cattolicesimo del cuore funzionale sia alla propaganda di Forza Italia sia alla tradizione rappresentata dall'Udc e dalla sensibilità della sinistra "postsecolare". Si tratta di un codice mélo che può investire tanto la vicenda di Edda Ciano o Maria José quanto la tragedia delle foibe, in cui si accenna al revisionismo senza implicazioni politiche stringenti, ma comunque ammiccando a destra. Quindi per cercare tratti di realtà collettiva, "modelli" di valore (o di disvalore) risulta più agevole rivolgersi ai grandi reality: in special modo al "Grande Fratello", dove la trasposizione dalla strada allo show è immediata. Gli italiani dei reality parlano male, con forti accenti regionali, esibiscono tatuaggi, praticano attività erotiche senza lacci né lacciuoli, e soprattutto complottano sottovoce tutti contro tutti, a testimonianza di una società afasica e attenta più che altro ai rapporti di potere e di consorteria, a qualsiasi livello. Mentre "L'isola dei famosi" dovrebbe dire qualcosa dell'inclinazione nazionale al sadismo, cioè al gusto infantile di deridere vip e semi-vip, con una sorta di risarcimento risentito, una cattiveria che provoca continui piaceri succedanei. Oppure, sempre per andare a caccia di realismo, o almeno di "realiticità", è ancora conveniente l'immersione nel format del talk show. Perché nei salotti serali si allestisce il vecchio dibattito, ma praticato tutto in chiave "post", di solito come contrapposizione senza scampo, fra alternative e inimicizie politiche ultimative, incomunicabili, uno scontro di antropologie all'ultimo sangue. Nel flusso ininterrotto della seconda o terza serata, nella "reality fiction" della discussione, Bruno Vespa pratica il suo ruolo semi-istituzionale, Giovanni Floris con "Ballarò" dà un contorno di razionalità politica al centrosinistra, mentre Michele Santoro esplora le alternative radicali e Enrico Mentana alterna con una sua sapienza giocolieristica l'informazione e l'intrattenimento. Ma forse per trovare nella televisione "discutidora" il sentimento dominante o più in voga vale la pena di seguire i programmi "laterali" e di nicchia: la coppia Ferrara e Armeni a "Otto e mezzo", incarnazione di un ossimoro politico, specializzata nel proporre su ogni argomento rotture di fase, scarti dalla convenzione, punti di vista eccentrici. Le interviste di Daria Bignardi, con il loro andamento ipnotico, con il loro ritmo inesorabile. E anche le invenzioni di Antonello Piroso, con il suo sforzo di unire cronaca leggera e approfondimento pesante; o la conduzione calcistica, competente anche se "di gola", di Ilaria D'Amico, un cult della domenica in cui passa la visione del calcio come fenomeno insieme importantissimo e inessenziale. E non è certamente un caso il successo via via più incontrastabile del pool di Fabio Fazio, forse l'incarnazione tv più credibile del partito democratico in veste veltronica, un infotainment che crea consenso, anzi, che somma consenso a consenso, riuscendo perfino a proporre al pubblico in prima serata scrittori come Mario Rigoni Stern e Luigi Menghello. Eppure, per andare alla ricerca di come la televisione ci guarda, è tutto dire che il test più credibile sia ancora "Un medico in famiglia", la storica fiction di RaiUno giunta ormai alla quinta edizione. In cui la casa color salmone si è spalancata ai fenomeni sociali, e dove Lino Banfi padroneggia sempre più a fatica la sfasatura tra la domesticità dialettale, con i suoi proverbi problematici, e l'irruzione multiculturale. Tutt'al più si potrà notare ancora la deprimente sfasatura di qualità, salvo pochissime eccezioni, fra i serial italiani e quelli americani. E consolarsi con la constatazione di Aldo Grasso: «Spesso si fa fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm. C'è in giro, per esempio, un'opera che rappresenti un viaggio metafisico fra i segreti del Male più avvincente di "I segreti di "Twin Peaks"?». Con la conclusione implicita che per cercare l'arte, e l'interpretazione della società, ci vuole la meta-industria del simbolico. Perché sembra proprio che siano le storie, o meglio le "story", a fare la storia. n
L'Espresso, 19/04/2007
Come sparla bene
C 'è una prova infallibile per verificare se un comico è veramente comico: basta leggerlo. Di solito il comico che è comico sulla scena o in televisione non è molto comico sulla pagina scritta. Dario Vergassola forse è un'eccezione. Lo conoscete, no? È quello che fa le domande, anzi, che infierisce con le domande, sugli ospiti di "Parla con me", il programma di Serena Dandini. Vergassola è un comico, o un umorista, che non ha praticamente niente di comico. È brutto, ma non bruttissimo. È una persona qualunque, ma non qualunque qualunque. Parla troppo in fretta, ma non più in fretta di Daniele Luttazzi quando è in scena, o di Fabio Fazio quando viene preso dalla frenesia. Adesso le sue domande impossibili, i suoi cortocircuiti, le sue tragedie individuali e sociali in due secondi sono state raccolte in un libro, "Sparla con me", scritto con Massimo Dimunno e Giovanni Tamborrino, prefazione di Serena Dandini (insomma, si fa per dire, 23 righe), editore Mondadori. Si tratta di un catalogo ossessivo, fatto tutto di domande retoriche, perché come dice la Dandini, «le domande di Dario Vergassola sono come i semafori collegati ai pannelli solari: sono autosufficienti, non hanno bisogno della risposta». Ogni domanda dedicata a un personaggio, secondo il modulo seguente: «Lei si occupa del degrado delle periferie. Precisamente: quante è riuscito a degradarne?». Rivolto a Martina Stella: «Lei ha frequentato un liceo sperimentale. Non trova che l'esperimento sia fallito?». Domanda a Pupo: «Ammesso e non concesso che Pupo sia un nome d'arte... di che cacchio di arte si tratterebbe?». A er Piotta: «Una curiosità: qual è il suo segreto per mantenersi sempre così fuori forma?». A Alena Seredova: «Parliamo del provino con Panariello. È vero che seppe subito che era andata bene, prima ancora di rimettersi il perizoma?» (battutaccia che spiega Vallettopoli più di molte sociologie e moralità). Naturalmente il libro non va letto in sequenza, altrimenti ci si perde in un flusso indistinto. Lo si tiene sul comodino e lo si apre a caso andando a caccia di qualche definizione su vip e svippati, e poi ci si addormenta contenti di avere trovato qualche canagliata nuova. Difetti: qualche volgarità di troppo, che invece andrebbe centellinata. Pregi: vabbé, l'abbiamo già detto che è bravo, si era già capito. In fondo è uno che l'ha rovinato la televisione, perché sarebbe stato un ottimo scrittore.
L'Espresso, 12/04/2007
Com’è bello stare al centro
Non è soltanto una categoria della politica. Richiama geometrie euclidee, un'occulta razionalità scientifica; evoca sentimenti del passato e li sublima in un uno sfumato progetto politico per il futuro. È il centro. L'ectoplasma che turba da sempre Romano Prodi; che Massimo D'Alema ha evocato come una macchinazione contro il governo. Quel centro che solleva nostalgie tali da far vibrare l'animo di chi ha ricominciato a guardare senza complessi alla prima Repubblica. Per Ciriaco De Mita, massimo esegeta della "vieille cuisine" politica, il centro non è un partito, e neppure uno schieramento: «È lo spazio della politica possibile». Lasciando intendere che per un dc di lungo corso la politica praticabile non si incarna necessariamente in soggetti prefissati. Si realizza con una serie di spinte e controspinte, fra alleanze continuamente modificabili, con quella dote manovriera che rese l'Italia un sudoku ante litteram. Era uno dei calembour preferiti dal compianto Nino Andreatta, quando il «dilettante» Silvio Berlusconi esecrava propagandisticamente l'instabilità dei governi: «Ma quale instabilità. Il governo rimaneva sempre lo stesso. Quelli che cambiavano erano soltanto i ministri». Già, ma adesso? Dov'è il centro dopo quasi un quindicennio di bipolarismo, dopo le formule maggioritarie inesorabili, "si vota di qua o di là", dopo il faccia a faccia tra due antropologie incomunicabili? Nelle nostalgie democristiane di Pippo Baudo e di Katia Ricciarelli, di cui non si dimenticano i trascorsi a favore della sfortunata esperienza di Sergio D'Antoni, quel partito denominato Democrazia europea che nasceva proprio per scomporre i poli? Oppure, guardando a ritroso, nell'insofferenza per le formule politiciste che riuniva l'establishment dietro i sublimi cinismi di Gianni Agnelli? Nel pragmatismo così disincantato di Guido Carli, testardo sostenitore di risanamenti da perseguire come ministro di Giulio Andreotti? Il centro viene da lontano. È la formula risolutiva e imprendibile che potrebbe, con il condizionale di rigore, sistemare tutti i tasselli del puzzle italiano. Con il Cavaliere bianco che appare come in un film epico, el Cid Campeador contemplante un panorama di macerie, partiti frammentati, politiche farraginose, conflitti esplosivi e striscianti, e con un colpo di spada taglia le ali, fa fuori i fondamentalisti, i comunisti, i secessionisti, gli irriducibili di qualsiasi parte e chiama i volonterosi a occupare lo spazio, per l'appunto, dell'unica politica possibile. Un'idea sovrana: ci sono riforme irrinunciabili e non rinviabili che accomunano le persone di buon senso e buona volontà, alloggiate a destra come a sinistra, nella Cdl come nell'Unione. Soltanto una fissazione culturale, un ideologismo sviluppatosi in astrazioni, impedisce che questi italiani si raccolgano nel governo delle cose possibili. Un'idea neodemocristiana? Non solo. A esporla in pubblico, per la verità, è stato uno dei grandi tecnici, l'economista Mario Monti, una figura di profilo europeo, proprio mentre destra e sinistra si apprestavano al duello fatale delle elezioni del 2006, quelle dell'Italia "spezzata". Per prenderla sul serio, occorre considerare due premesse. La prima dice: il bipolarismo è fallito. Come aveva detto una volta l'udc più a destra, l'anticasiniano Carlo Giovanardi, conversando con il teorizzatore del Partito democratico, il liberal Michele Salvati: «In questo paese è sempre stato difficile scremare una classe dirigente; e voi vorreste trovarne addirittura due, una di destra e una di sinistra...». Non troppo diverso, si parva licet, dalle boutade ironiche di Alberto Arbasino nelle sue letterine ai giornali, dai suoi esercizi di scetticismo, dai suoi raffinati esorcismi su pensieri nuovi che si rivelano vecchissimi e su idee «epocali» dettate da convenienze del momento. Come seconda premessa va preso il paradosso di Bruno Tabacci: «Non riesco a capire per quale motivo io e Enrico Letta, che la pensiamo allo stesso modo praticamente su tutto, dovremmo scontrarci in Parlamento per astratte questioni di dislocazione politica». Ora, che esista un'area omogenea al centro dell'arco politico è fuori dubbio. Si è formato una specie di pensiero unico secondo cui occorrono quote via via più ampie di mercato, presidiate ovviamente da regole snelle e condivise; ci vuole una iniezione di concorrenza per moderare i prezzi; è necessario ristrutturare selettivamente lo Stato sociale per adeguarlo alle esigenze di una società liberalizzata e a un sistema di imprese che deve misurarsi con la competizione globale, e che quindi ha bisogno di elasticità nelle procedure e di flessibilità nel mercato del lavoro. Poste queste condizioni, mancherebbe soltanto un protagonista in grado di proporsi credibilmente come la figura di riferimento dell'Italia di centro. Non tanto un politico-intellettuale come Marco Follini, e neanche i politici centristi da Pier Ferdinando Casini a Clemente Mastella (anche se gli ultimi sondaggi proiettano l'Udc e Follini verso il 7 per cento, cioè alla dimensione di terza forza, con tutte le chance di manovra che ciò comporta). Per essere decisivo il centro politico passa attraverso una scomposizione secca del sistema politico, il superamento del format bipolare, uno spettacolare "spacchettamento" dei poli. Tutto prematuro, quindi. Eppure le suggestioni sono importanti, e anche di richiamo europeo: la grande coalizione in Germania, e soprattutto l'emergere di una figura come quella di François Bayrou, che ha chiamato a raccolta una Francia profonda, insofferente della radicalizzazione fra i poteri forti di Sarkozy e l'immaginazione postpolitica di Ségolène, proponendosi come elemento condizionante di qualsiasi politica, ce la faccia o no a inserirsi nella partita Sarkozy- Royal e a giungere al ballottaggio nelle presidenziali. La convinzione che esista un'Italia volonterosa, pragmatica e indifferente alle ultime ragioni ideologiche, è forse l'invenzione più antipolitica dell'ultimo quindicennio. Nel senso che contesta la divaricazione determinata dalla formula elettorale, e giudica forzosa la separazione in due campi distinti dei riformisti. Appartiene a una cultura che accomuna personalità diverse, unite dalla nozione che il discrimine novecentesco fra destra e sinistra sia un residuo passatista. E che quindi guarda più alle figure carismatiche che non alle divisioni politiche. Per questo i riflettori si erano puntati sul convegno confindustriale di Genova, durante il fine settimana scorso, nell'attesa che il discorso di Luca Cordero di Montezemolo gettasse luce su un sentiero praticabile. È lui, Luca, il Cavaliere bianco, credibile per quasi sette italiani su dieci a destra come a sinistra? Ma il capo del movimento, non importa se virtuale o inesistente, Italia futura, ha scelto il profilo basso, limitandosi a intervenire sulla politica fiscale, auspicando che il "tesoretto" dei maggiori introiti tributari non venga distribuito con obiettivi elettoralistici. Certo che il "piano Montezemolo" risulta affascinante, glamour puro, e non solo per i sostenitori come Diego Della Valle e il network del presidente della Confindustria. L'unico problema è che l'eventuale centro montezemoliano presuppone uno sfaldamento catastrofico della struttura politica, con la spaccatura del centrodestra, il fallimento sul campo del Partito democratico, e l'implosione generale delle alleanze attuali. Ma il punto focale di qualsiasi ipotesi o progetto neocentrista (che in passato è stato attribuito anche a figure come Francesco Rutelli e all'attuale presidente del Senato Franco Marini), è soprattutto culturale. Al di là delle condizioni di fatto della politica di casa nostra, si diffonde come luogo comune la persuasione che la separazione fra destra e sinistra è un residuo novecentesco. Quasi come echeggiasse una dichiarazione d'intenti alla Celentano, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra...». O in un rifiuto estremo della cultura come nell'ultimo film di Ermanno Olmi, "Centochiodi", con il protagonista Raz Degan che si immerge in una comunità infima alla ricerca di un'autenticità preclusa dal pensiero formalizzato. Ed è anche possibile che la società contemporanea sia esausta per la guerra che da quasi un quindicennio divide gli italiani in due fazioni contrapposte, senza che si possa assistere a sintesi ragionevoli. Ecco perché funzionano le figure mediane, i terapeuti della rassicurazione, i "Doctor House" della ragionevolezza. In questo senso, dopo i Santoro e i Floris, il conduttore televisivo di sinistra veltroniana Fabio Fazio, abile a smussare angoli e contrasti, a dialogare elegantemente ora con il destro Beppe Pisanu e ora con il sinistrissimo Fausto Bertinotti, non sarà un centrista, ma è un possibile interlocutore del centro. Centro. In fondo assomiglia a una categoria dello spirito. Se non un'identità, un sentimento nazionale. Ragionevole. Anzi, ragionevolissimo, se non fosse che i più elevati ragionamenti centristi devono fare i conti con il rischio implicito in tutte le ricomposizioni. E cioè con il possibile commissariamento dall'alto della politica. Centro come consiglio d'amministrazione della borghesia, come direbbe un vecchio marxista. Senza aggiungere, per carità di patria, che a metterla anche peggio potrebbe esserci la riscossa, dolce e implacabile, dell'Italia dorotea. n
L'Espresso, 05/04/2007
Onorevoli e pin up il circo è lo stesso
Alla fine resterà sempre il dubbio che l'inchiesta del pubblico ministero Henry John Woodcock sia solo un frammento di una realtà assai più ampia. Che siano emersi solo episodi parziali. E dunque che Vallettopoli sia la versione "postpolitica" di Tangentopoli. Allora, anno 1992, lo scandalo politico e affaristico scoperchiato da Mani pulite investiva la classe politica della prima Repubblica, facendo emergere una colossale sindrome distorsiva. Oggi, in un paese più ilare e disincantato, la sequenza di pratiche estorsive, mezzi ricatti o ricatti interi, fotografie e filmati che passano di mano, depositi bancari in nero e soldi che passano di mano per ottenere il silenzio sembra illustrare un'Italia profondamente inquinata. Non è il caso di proporre concezioni ispirate al moralismo. I comportamenti descritti dalle intercettazioni, dai giornali di gossip, dalle istantanee rubate dai paparazzi di Fabrizio Corona, appartengono all'universo effettuale e simbolico dell'Italia contemporanea. Non ci voleva una capacità sociologica straordinaria per capire che dietro l'affresco quotidiano, futile e divertente, di Dagospia, poteva esserci una caduta dei codici comportamentali collettivi. E dunque non desta nessuno stupore il fatto che le vicende private dei protagonisti del caravanserraglio di Vallettopoli lambiscano la politica. Basta frequentare un paio di ristoranti romani e due location dell'intrattenimento mondano milanese per riscontrare che il mondo delle show girl e del potere si sfiorano, si toccano, ammiccano l'uno all'altro. Una passeggiata nei corridoi televisivi consente di raccogliere una ricchissima messe di pettegolezzi, tale da far sfigurare le disavventure della Gregoraci di turno: una raccolta di aneddoti e voci che dimostra come piacere e potere si sono intrecciati in una sorta di via sudamericana alla politica. Sicché non ha sorpreso nessuno che l'uomo più potente d'Italia, Silvio Berlusconi, abbia accettato di ritirare dal mercato le foto della figlia Barbara, sorpresa in pose esteticamente ineleganti all'uscita di una discoteca. Qualcuno ha chiesto spiegazioni? Qualcuno ha criticato pubblicamente il fatto che l'ex capo del governo abbia accettato la richiesta di un pagamento per salvaguardare il carisma di famiglia? No, mezze parole, sorrisi e sorrisetti, il solito tritacarne dei rumour e dei commenti, con l'esito scontatissimo della pubblicazione di alcune immagini evidentemente innocue su un settimanale di proprietà. Il messaggio che è stato diffuso in queste ultime settimane alla fine risulta piuttosto semplice. Tutti sono sotto osservazione, per tutti c'è un teleobiettivo e una galleria di foto sgranate. Di conseguenza tutti sono in varia misura ricattabili. Anche se non si sa qual è il prezzo autentico del ricatto. Lo scatto che fissa per sempre la Volkswagen Touran di Silvio Sircana, portavoce del governo secondo il penultimo dei dodici punti «irrinunciabili» di Romano Prodi, provoca un vistoso caso politico: qualcuno immagina dietrologie, congiure, macchinazioni, strumentalizzazioni degli avversari. Anche la costruzione di dossier sul modello dei Tavaroli boys. Ma qual è il risultato concreto dello scoop, ammesso che si possa definire tale? Semplicemente un ulteriore indebolimento della credibilità della politica. Ci vuole poco a intuire che se era stato sufficiente l'avere colto con le mani nel sacco il «mariuolo» Mario Chiesa per fare esplodere la crisi della Repubblica dei partiti, oggi il dilagare del pettegolezzo sessuale provoca comunque, attraverso continui choc mediatici, una crisi di fiducia. Legge elettorale, modificazioni costituzionali, politica economica, partito democratico, tutto passa in secondo piano. Ciò che conta nella sfera pubblica è soltanto la mondanità erotica, in tutta la sua varietà. Tanto più che ormai il gossip non ha nemmeno più bisogno delle prove, o degli indizi, provenienti dai verbali degli interrogatori o dalle testimonianze: è sufficiente, come nel caso di Clemente Mastella, il "flatus vocis" che parla di festini su uno yacht, nel clima del "sex and drugs", con l'allusione a «un politico di primo piano», per liberare la caccia al protagonista. Con il risultato che il panorama politico tende a confondersi con la scena dell'intrattenimento. Presunte show girl, sedicenti soubrette, cioè vallette, veline, letterine, schedine, abituate al modesto cachet dell'ospitata televisiva, diventano la fauna di una mondanità in cui un calciatore vale quanto un esponente politico, almeno al fine di uno scatto galeotto. Con il complemento che non troppo di rado il calciatore, nella sua psicologia vecchio stampo, sposa la velina, la finalista di Miss Italia, la ragazza immagine da salotto televisivo; oppure, come nel caso di un idolo delle serate milanesi come il centravanti Bobo Vieri, succede che l'attaccante rifiuta le pratiche estorsive dicendo: sono single, faccio la vita che mi va, delle fotografie fate quello che vi pare. Mentre per la politica non ci sono troppi rimedi: se si diffonde la convinzione che i rappresentanti del popolo si dedicano soprattutto alle notti brave, la sovrapposizione fra l'universo delle istituzioni e quello dell'intrattenimento sfrontato rischia di essere distruttiva. Vallettopoli insomma sarebbe un caso minimale se non si collocasse in uno sfaldamento dei comportamenti, e in cui ciò che dovrebbe restare privato o almeno ufficioso diventa ufficiale e pubblico. Sotto questa luce, la sensazione che l'ambiente della politica possa godere di una specie di extraterritorialità, se non di impunità, da considerare comunque con indulgenza, sancisce una distanza antropologica fra due società. C'è la comunità del glamour, a cui tutto è consentito, dal livello minimo delle feste sull'isola, soubrette e vulcani compresi, fino alle bravate in un ambiente privato che non è più vigilato da nessuna privacy, e quindi diventa pubblico, in una clamorosa e irridente parodia del principio degli anni Settanta (il personale è politico). E sull'altro versante c'è una audience di spettatori passivi, coinvolti nel piacere vicario del gossip. Insomma, non siamo più nel contesto più o meno blandamente ricattatorio del favore sessuale in cambio della scalata professionale. Non si tratta solo di pratiche che coinvolgono favori, concessioni, prestazioni, molestie respinte o accettate. C'è un'Italia guardona che assiste stranita al crollo degli standard, con un effetto di normale, fisiologica, inevitabile decadenza. Nonostante i tentativi anche goffi di circoscrivere la malattia, come i provvedimenti emanati dal garante della privacy Franco Pizzetti, l'esito sarà un'identificazione perfetta tra la classe politica e la società civile. Tra gli spiati e gli spioni. Tra i fotografi e i fotografati. Sono i nuovi fratelli d'Italia, divisi soltanto fra chi offre lo spettacolo, chi lo mette in scena, e una immensa platea che osserva la commedia. Senza applaudire e senza scandalizzarsi, ma in una condizione di atrofia del giudizio che sembra più grave di un verdetto collettivo di condanna. n
L'Espresso, 05/04/2007
Onore al cronista
Una laurea honoris causa in giornalismo a Sergio Zavoli assomiglia a una tautologia. Laureare in giornalismo il più noto giornalista televisivo italiano: laurea e giornalismo al quadrato. Ma il fatto che lunedì scorso l'Università di Roma Tor Vergata abbia assegnato questa onorificenza a Zavoli consente non soltanto di ripercorrere una carriera ricchissima. Perché è vero che il curriculum di Zavoli, oggi senatore della Repubblica, è impressionante. Si potrebbero citare programmi come "La notte della Repubblica" o "Nascita di una dittatura", ma anche una foltissima serie di pubblicazioni, da cronista, da narratore e anche da poeta. Eppure alla fine, di Sergio Zavoli, nato a Ravenna nel 1923 ma riminese di fatto come il suo amico Federico Fellini, rimane soprattutto il cronista. Cioè il giornalista che ha reinventato il ciclismo con il "Processo alla tappa", e che ha raccontato il Vietnam, l'Algeria, la Somalia; che ha incontrato i grandi della terra, da Schweitzer a Von Braun. Ma soprattutto che ha sempre iscritto la cronaca in un contesto: storico, naturalmente, ma anche politico e in fondo morale. Sicché a ripensare ai suoi grandi reportage viene da chiedersi se esista ancora una traccia di questa forma di giornalismo: vale a dire se il lungo viaggio di Zavoli abbia lasciato il solco di una tradizione, oppure se il suo lavoro appartenga ormai a un'altra epoca, a un'altra televisione. O a un'altra cultura. Se lo è chiesto anche lo stesso Zavoli, nella sua "lectio magistralis": «Come trasmettere anche il senso delle cose comunicate se, per garantirsi il consenso del pubblico, si è fatto largo il costume di privilegiare l'effimero e l'inusuale, il suggestivo e il violento, strumentalizzando e banalizzando persino la sacralità della vita e della morte? Di questo passo, dovremo arrenderci alla spettacolarità del reale con la discolpa del disordine che lo governa?». Si tratta di una domanda a suo modo decisiva. Che presuppone un'etica del giornalismo in un'epoca che sembra rifiutare codici e sistemi di riferimento. La potenza della televisione contemporanea implica proprio la possibilità di esaltare il frammentario, lo scandaloso, il mutevole capriccio della realtà. Ritrovare nella principesca (come diceva Indro Montanelli) lezione di Zavoli i principi di un giornalismo di livello altissimo può essere anche l'occasione per domandarsi se un'altra televisione sia ancora possibile.
L'Espresso, 29/03/2007
Prodi al bivio della legge elettorale
Secondo la logica aristotelica, non ci sono grandi possibilità di approvare una legge elettorale efficace. Quando Romano Prodi sostiene che occorrerà trovare un accordo con l'opposizione, e ribadisce il suo «mai più» alle leggi di sistema unilaterali, come avvenne con il Porcellum, tocca soltanto metà della questione. D'accordo, una riforma strutturale come la legge elettorale deve essere bipartisan. Ma anche l'opposizione, come la maggioranza, è composta da partiti che sul tema elettorale hanno idee, preferenze e soprattutto interessi diversi. E allora? C'è una via d'uscita a quella che fino a questo momento ha tutto l'aspetto di una grande melina, fatta di passaggi laterali, di avanzate e ritirate, mosse e contromosse, soglie che si alzano e si abbassano secondo le convenienze? Se si accetta il punto di vista del massimo scienziato della politica italiano, Giovanni Sartori, non appena si procede alle consultazioni delle sette chiese, come ha provato a fare il ministro Chiti, si cade nella "regola dei nanetti": vale a dire che si subisce il veto dei partiti minori, che vedono in qualsiasi formula elettorale seria una minaccia alla propria esistenza. Dunque, una buona legge risulta impraticabile; e produrre un'altra riforma inefficace sarebbe aggiungere disastro a disastro. Conclusione: tertium non datur. E allora, a che cosa serve l'attivismo di Romano Prodi? La risposta è che il premier si è assunto il compito di esploratore sul terreno elettorale perché dopo la crisi di governo era necessario individuare un ambito negoziale con l'opposizione. Nel momento in cui Prodi ha assunto il compito di trattare la nuova legge elettorale, ha anche accettato di ridimensionare la portata del suo governo. Ha prospettato implicitamente un orizzonte temporale che non va oltre le elezioni europee del 2009. L'esperienza dell'Unione non appare più un progetto di legislatura, bensì un incarico a tempo; ciò che qualifica il governo non è la realizzazione del programma, quanto il conseguimento della correzione della legge elettorale. Naturalmente, nel centrodestra si guarda con diffidenza a quella che Silvio Berlusconi considera una manovra dilatoria. E nel centrosinistra ci sono varie entità politiche, al centro e a sinistra, che osservano con altrettanto sospetto le ipotesi di razionalizzazione politica praticata attraverso una nuova legge elettorale. Applicando lo "schema Sartori", l'unica possibilità di procedere a una riforma funzionale implicherebbe una accordo diretto fra i partiti maggiori, del centrodestra e del centrosinistra. Ma è altrettanto ovvio che Prodi sia diffidente verso tutto ciò che ha il sapore di intese più o meno larghe: nel senso che fin dalla crisi in Senato sulla politica estera lo spauracchio principale per il premier è stata l'eventualità di un governo tecnico o istituzionale, in quanto premessa della scomposizione degli schieramenti attuali (e quindi sconfessione integrale dello schema su cui Prodi ha operato dal 1996 in avanti). La grande melina elettorale rischia quindi di non produrre niente. Tanto più che alcune riforme implicherebbero la necessità di conseguenti modificazioni costituzionali, con il rischio aggiuntivo di riforme a stralcio, estemporanee, non inserite in un disegno istituzionale complessivo. È per questo che una figura vicina a Prodi come Arturo Parisi ha continuato a puntare sul referendum. Sulla base di una riflessione politica stringente e a suo modo anche drammatica: ci siamo avvicinati all'implosione della politica italiana, con il fallimento finale del bipolarismo e il possibile ritorno a un'occupazione permanente dell'area di governo da parte di un blocco centrale di partiti. Il referendum, pur con l'effetto prevedibile di una torsione fortissima della struttura politica, e con effetti vistosi sui partiti e le alleanze, è nello stesso tempo una pistola puntata sul Parlamento e una fortissima garanzia sul mantenimento del formato bipolare e dell'alternanza. Una volta esaurite le liturgie, il dialogo, l'ascolto delle forze politiche maggiori e minori, occorrerà procedere a una sintesi. E Prodi si troverà di fronte alla necessità di scegliere se cercare un compromesso al minimo, oppure se tentare la strada della fantasia politica. Per ora la melina a centrocampo continua. Ma fra qualche settimana si tratterà di vedere se Prodi ha voglia di sacrificarsi come l'ostetrico del nuovo sistema politico, oppure se impegnerà la propria funzione alla ricerca di un compromesso. Nel momento in cui dovrà decidere qual è la sua funzione, sarebbe auspicabile che la sua scelta fosse congruente con la sua storia politica.
L'Espresso, 29/03/2007
Il medico ha la sindrome Banfi
La nuova edizione della soap di Raiuno "Un medico in famiglia" ha sbaragliato la concorrenza, sfiorando il 30 per cento di share. Ma i primi episodi sono risultati piuttosto gnocchi. Giunto alla quinta serie, il telefilm accusa necessariamente una varietà di sindromi: la prima malattia potrebbe essere chiamata "caduta tendenziale del saggio d'interesse", e deriva dal fatto che alla lunga, di Lino Banfi e dei suoi duetti con Milena Vukotic (bravissimi) non frega più niente a nessuno. Oltretutto, il medico è scomparso dalla famiglia alcune stagioni fa, nella preistoria dei medici, insieme a Claudia Pandolfi, che aveva dato un po' di peperoncino erotico alla fiction (come diceva Totò, la cognata, eh, la cognata...). Sicché il serial di Raiuno è acefalo, senza testa. E per reagire alla caduta tendenziale del saggio d'interesse, fenomeno per molti versi fisiologico, gli autori sono sempre tentati di infilarci complicazioni, e soprattutto il "sociale". Omosessualità, coppie di fatto, immigrazione: tutti argomenti insignificanti per un telefilm, che i telespettatori incrociano ogni giorno sui giornali: mentre il telespettatore medio non vuole sapere nulla del "sociale", soprattutto se interpretato da Sandokan, cioè il riapparso Kabir Bedi, e dalla di lui nipote, indiana e specializzata in cure omeopatiche. Si tratta infatti della seconda sindrome dei serial: la "proliferazione indiscriminata dei contenuti", tipica delle soap giunte alla maturità del loro ciclo. Funziona così: siccome si sono esaurite tutte le possibilità di girotondo amoroso fra i protagonisti (anche Banfi e la Vukotic si sono sposati qualche serie fa), si proclama che la fiction cambia faccia. Non deve più semplicemente divertire, deve anche istruire, aggiornare, tenere conto della realtà, e infine pedagogizzare gli italiani. Così si crea un "processo di saturazione sociologica", con effetti di noia. Aldo Grasso sostiene che il "Medico" è girato male. E vabbè. Si può aggiungere che la colonna sonora è rudimentale. I ragazzi sono cresciuti e recitano peggio di quando erano bambini. Nonno Libero si carica la famiglia e la soap sulle spalle, e riuscirà anche questa volta a condurla in porto. Ma la stagione è finita, sono apparsi i "nuovi medici" come il dottor House, e la bonomia sembra a questo punto molto provinciale. Forse è il caso di chiudere con questa edizione: oppure ridateci almeno Claudia Pandolfi.
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