L’Espresso
L'Espresso, 22/03/2007
Il comandante Pippo Baudo
Chissà che cosa succede nella personalità di un protagonista televisivo, quando il successo (ma anche l'insuccesso) lo induce al "procomberò sol io". È accaduto a Pippo Baudo, dopo la fortunata edizione 2007 del Festival di Sanremo: prima la lite con Fabrizio Del Noce, e qui aveva ragione Baudo, perché non si mette in discussione l'allenatore mentre sta vincendo il campionato, e non si capisce che cosa darebbe in più Paolo Bonolis a Sanremo; e poi lo scontro totale, la guerra infinita, contro i politici, Prodi, Padoa-Schioppa, l'insensibilità della politica rispetto a ciò che vuole il popolo. Eh già, il popolo: c'è un momento delicatissimo, anzi cruciale, in cui il conduttore o presentatore si convince che dietro di sé non ha soltanto l'audience: ma che anzi l'audience si è trasformata in popolo, in partito, in folla, in "quarto Stato". E quindi Baudo non si rivolge al mondo politico come un prestatore d'opera, ma come un leader più o meno carismatico. Il senso profondo dell'agit prop Baudo, o chi per lui, è il seguente: «Cari i miei signori, voi fate la politichetta, io invece ho con me la gente: la quale è contenta dei miei cachet milionari, gode dei miei compensi stratosferici, perché io assicuro lo spettacolo, i lustrini, le donne, i cantanti, la Hunziker». Discorso chiarissimo. Quando conquista gli indici d'ascolto, sua Pippità non molla lo scettro (e neppure lo share). Prima attacca e poi chiagne, dedica madrigali d'amore alla Rai, si sdegna contro i politici, poi arriva sul proscenio e fa la scena madre: «Sono un democristiano». Chi se ne frega, naturalmente, se gli manca tanto la Dc. Sarebbe come se Michele Santoro, dopo avere litigato con Clemente Mastella, venisse davanti alla telecamera e, fissando il pubblico a casa, confessasse che gli manca tanto Potere operaio o roba del genere. Di solito, i conducator tv invocano il servizio pubblico come servizio al pubblico televisivo. Grazie, ma non abbiamo bisogno di servizi, né pubblici né privati. Ci arrangiamo da soli, con la tv e il telecomando, senza guide spirituali. Anche perché questi simpaticoni dicono che vogliono servire il popolo, ma in realtà si tratta di audience, non di popolo. Non abbiamo bisogno di capipopolo, di Masanielli e Ciceruacchi. Le battaglie civili, se ne abbiamo voglia, le facciamo per conto nostro: quella che fate voi è solo tv, bellezze, la solita marmellata, credete che non l'abbiamo capito?
L'Espresso, 15/03/2007
Dolce Zucchero
Il "Tg2 Dossier" andato in onda nel pomeriggio di domenica 4 marzo, dedicato ai Beatles e ai Rolling Stones, prometteva di essere un altro esempio delle preziosità archivistiche di Michele Bovi, che questa volta è riuscito a mettere le mani sulle immagini a colori "rubate" al concerto dei Rolling Stones (Milano ottobre del 1970). Poi il discorso si è allargato, perché il programma non si è limitato a mostrare queste rarità di Mick Jagger e compagni, ma le ha accompagnate con altre immagini d'epoca (i Beatles al Vigorelli nel 1965, filmati da Peppino Di Capri e dal batterista dei Ribelli Gianni Dall'Aglio). Già visto, diranno i soliti scettici. Be' qualcosa sì. I Rolling Stones dell'epoca a colori per la verità non li aveva visti nessuno, e per i cacciatori di rarità è stato emozionante poter cogliere qualche sequenza di una delle ultime esibizioni in pubblico di Brian Jones. Ma il centro di questo programma offriva anche una delle cose più belle viste di recente in tv: e cioè la partecipazione di Zucchero, che faceva da conduttore. Naturalmente Zucchero oltre a raccontare e commentare, suonava e cantava. Ha cantato, rigorosamente dal vivo, canzoni passate alla storia come "Homburg" dei Procol Harum e "Angie" dei Rolling Stones. A casa sua dalle parti di Pontremoli, rilassato, accompagnato alla chitarra dal suo amico Massimo Marcolini, mentre fuori da quella specie di domestico e incasinato studio di registrazione si vedeva passare la silhouette di un bellissimo pastore tedesco. E c'era da restare ammirati non soltanto per la qualità tecnica delle interpretazioni di Zucchero: lo si sa che dal vivo è impagabile; bensì per avere accettato di esibirsi dentro un programma a basso costo e a basso budget, che vive principalmente sulla passione di Bovi. Evidentemente, il bluesman (ma in fondo musicista versatile e totale) Fornaciari ama la musica, gli piace mettersi in gioco. Lo si vede mentre suona il piano, o imbraccia la chitarra e intona il prossimo pezzo. Dovesse semplicemente parlare, Zucchero non sarebbe proprio impeccabile: una volta, con Vincenzo Mollica, disse: «Io non sono un eclettico di nessuno strumento» (voleva dire un virtuoso). Ma quando canta e suona, lasciamolo stare, non c'è nessuno come lui in queste lande sanremesi. E la sua presenza illuminava la scena, facendo di un programma di repertorio uno spettacolo perfetto. Facciamone ancora, di roba così.
L'Espresso, 08/03/2007
Ci vediamo in Afghanistan
Si trattava di una crisi "cluster", cioè una crisi a grappolo: una crisi a cui è legata un'altra crisi, e poi un'altra ancora, con un possibile effetto finale di implosione potenzialmente fatale. La crisi di governo comportava una crisi di sistema politico, nel senso che la caduta del governo avrebbe portato con ogni probabilità alla fine del modulo bipolare. Sullo sfondo c'era la crisi dell'alleanza politica di centrosinistra, con l'emergere di una implicita crisi di leadership. L'insieme di questi fattori distruttivi metteva a rischio il processo che conduce al Partito democratico, e la collocazione in area governativa di Rifondazione comunista, voluta da Fausto Bertinotti. Un effetto domino più simile a un incubo che a un problema politico. La fiducia equivale al ritorno a una realtà irta di difficoltà ma un passo indietro rispetto all'abisso. Dunque: il governo Prodi rappresenta il sottilissimo diaframma che finora ha impedito che nella politica italiana dilagasse l'ondata di ritorno alla prima Repubblica, mentre incombono altre burrasche. L'Afghanistan, le pensioni, i Dico; e poi la legge elettorale, le liberalizzazioni, la Tav. Un intero programma, selezionato in base alle tavole del dodecalogo di Romano Prodi, da affrontare con la maggioranza "risicata", come si diceva nei primi 281 giorni di governo, e poi con la maggioranza "ipotetica", raccolta dopo il tonfo sulla politica estera. Fossimo all'inizio della legislatura, ancora sotto la spinta, e il sospiro di sollievo, della pur ristrettissima affermazione elettorale, verrebbe buono quanto si diceva dentro lo staff prodiano, tra i fedelissimi del presidente del consiglio, i Santagata, i De Giovanni, i Levi: «Dobbiamo governare così bene da essere sostenuti dal consenso popolare, in modo che il sostegno dell'opinione pubblica supplisca ai numeri deficitari del Senato». Oggi sembrano le ultime parole famose: il governo ha cominciato a giocarsi il favore dell'elettorato con l'inciampo sui tassisti dopo il favore raccolto dalle prime liberalizzazioni di Pier Luigi Bersani; è precipitato sulla farragine della legge finanziaria; ha subito il colpo di grazia quando si è visto che le buste paga di gennaio non portavano grandi tracce della redistribuzione a favore dei ceti più deboli, e mentre raffiche di aumenti di tariffe nei servizi, con annunci quotidiani di addizionali locali sull'Irpef, facevano di tutto per smentire il programma dell'Unione. «Proveremo a rimettere il dentifricio nel tubetto», aveva detto e ripetuto Prodi in campagna elettorale, alludendo al tentativo di restituire potere d'acquisto alle fasce sociali penalizzate dai cinque anni di governo del centrodestra. Nella realtà, il vertiginoso volume della Finanziaria si era risolto in una robusta operazione di risanamento dei conti pubblici, senza però che i cittadini ne traessero un beneficio diretto. «L'idea era di fare subito il lavoraccio sui conti», commenta Enrico Letta, «nella speranza di passare poi alla rimessa in efficienza del paese e a una crescita sostenuta». Un'illusione? Di sicuro, prima dello schianto in Senato, si era avuta la revoca della fiducia da parte dell'opinione pubblica. Sondaggi a precipizio. Rivalutazione postuma del governo Berlusconi, a dispetto di cinque anni di crescita vicina allo zero, e di una quantità di buchi lasciati nell'amministrazione pubblica. Con il paradosso generato da misure "per lo sviluppo" (come il taglio del cuneo fiscale alle imprese) intascate dalla Confindustria come un atto dovuto, senza acquisire il minimo consenso. Quindi dopo nove mesi di governo dell'Unione, il punto centrale della crisi rabberciata sul filo dello psicodramma diventa tutto politico. Il programma, le priorità, le lenzuolate liberalizzatrici sono finite sullo sfondo. Ciò che conta è che il governo e la maggioranza devono tenere. Quindi le prossime settimane saranno allo spasimo. Perché il governo Prodi non ha alternative. O meglio. Tutte le alternative possono rappresentare lo sfaldamento del sistema. Cominciamo dall'alternativa numero uno: il governo tecnico con la missione di realizzare la nuova legge elettorale. È l'ipotesi che piace a tutti coloro, a cominciare da Pier Ferdinando Casini, che non nascondono la volontà di scomporre e ricomporre gli schieramenti, per ristrutturare, come dice l'altro centrista Bruno Tabacci, «un bipolarismo fallimentare». Il governo tecnico o istituzionale ha già da tempo una figura di riferimento, l'attuale presidente del Senato Franco Marini. Ma contiene in sé anche una colonia di germi patogeni. Infatti il ricorso a un governo di emergenza rappresenterebbe il fallimento dell'Unione, e la sua probabile disarticolazione. È improbabile che infatti la sinistra radicale accetti di partecipare a un esecutivo trasversale. Inoltre il governo tecnico contiene altre incognite, perché consegnerebbe a Silvio Berlusconi una specie di diritto di sfascio, con la possibilità di fare saltare il tavolo nel momento per lui più opportuno, trascinando con sé, volenti o nolenti, gli alleati. Ed è chiaro che un governo tecnico rappresenta la premessa per ridisegnare il formato stesso della politica italiana. Già si parla, sulla scia di una formula di proporzionale con sbarramento alla tedesca, della formazione di alcune grandi aree "omogenee": la destra nazionale, il centro, la sinistra riformista, la sinistra radicale. Con il risultato prevedibile di governi negoziati dopo le elezioni, di alleanze e manovre tattiche fra aggregazioni parlamentari fisiologicamente fluide. Oppure con l'occupazione permanente dell'area della governabilità da parte di una coalizione stabile di centro-centrosinistra (con il taglio delle ali). Benché il presidente Napolitano, rinviando Prodi alle Camere, abbia già prospettato il ricorso al governo tecnico-istituzionale nel caso di un collasso parlamentare dell'Unione, è più probabile che in questa fase si assista a lente manovre sotto l'ombrello del governo Prodi. È lo schema su cui si è mosso Marco Follini spostando il suo voto al Senato a favore del governo. Vale a dire: l'allargamento della maggioranza a forze centriste si è dimostrato impossibile. Ma nei prossimi mesi si tratterà di decidere se è necessaria una ristrutturazione profonda dell'alleanza di governo. «Occorre un altro centrosinistra», ha detto Follini durante la crisi di governo. Ciò significa che l'allargamento della maggioranza di centrosinistra è comunque necessario, e non soltanto per una questione numerica. Ma un'ipotesi del genere può essere visto da Rifondazione comunista e dagli altri partiti della sinistra oltranzista come una minaccia. Potrebbe implicare uno spacchettamento di un ampio arco parlamentare, interessando un'area che va da una parte di Forza Italia a una parte dei Ds. Inoltre, chi sarebbero i possibili gestori di questa sostituzione del motore della politica italiana? C'è un indiziato, Massimo D'Alema, dimostratosi aperturista sul modello elettorale tedesco. C'è Francesco Rutelli, che presidia il centro dell'Unione. Ci sono pontieri possibili con l'Udc come Clemente Mastella. C'è uno spirito democristiano sparso qua e là ancora alla ricerca di un'incarnazione. E infine c'è Prodi. È vero che nella sua storia politica è sempre stato fedele alla formula bipolare (come dimostra la sua caduta nel 1998). Ma è altrettanto vero che non può consegnare se stesso a un fallimento totale e irrimediabile. Per questo, nel suo sintetico discorso di martedì pomeriggio al Senato ha equilibrato i toni, rivolgendosi a ogni partito della maggioranza per ricordare i provvedimenti in sintonia con le componenti politiche dell'Unione, ed evitando le polemiche con l'opposizione. Anzi, ha sottolineato la necessità della convergenza sulla legge elettorale e le riforme istituzionali. Prodi sa che ogni allargamento della maggioranza può determinare contraccolpi dentro l'Unione. Ma sa anche che deve cercare di salvare il salvabile. Mentre ricomincia una complicata navigazione a vista, Prodi deve ricordare che non è soltanto il capo del governo, ma anche il coordinatore di uno schieramento politico. Perché per evitare gli scogli non basta il tecnocrate: d'ora in avanti ci vuole il manovratore politico. n
L'Espresso, 08/03/2007
Qui ci fa tutti Neri
Questa rubrica televisiva è debitrice a un noto politologo vicentino di una intuizione. L'intuizione dice: non c'è soltanto Fiorello, capace di fare intrattenimento di alta qualità. Ah no? E chi ci sarebbe allora? Risposta: Neri Marcorè. Un istante di silenzio. E poi sorge immediatamente il dubbio, o chissà, la certezza, che l'intuizione possa essere vera. Perché come talento Neri Marcorè è piuttosto universale. Bravo imitatore, o meglio parodizzatore (il suo Maurizio Gasparri sputazzante e roco, preoccupato solo del proprio minutaggio tv, è definitivo, e anche il suo Pier Ferdinando Casini non scherza, tutto casa, chiesa e gnocca com'è). Ottimo attore, come si è visto nel ruolo difficile di papa Luciani, nella fiction tv per la Rai. Eccellente conduttore, come si può vedere tutte le domeniche su Raitre, nella benemerita trasmissione "Per un pugno di libri", il book game in cui si affrontano classi di ragazzi piuttosto preparati e diligenti (chissà dove li trovano, ci dev'essere una riserva indiana da qualche parte, con bravi insegnanti, tutti pronti per il reality "Il secchione e la secchiona"). Ma dove Marcorè, diplomato interprete parlamentare nelle lingue inglese e tedesco alla Scuola superiore per interpreti e traduttori di Bologna, classe 1966, supera un'asticella altissima, è nell'imitazione di Luciano Ligabue messa a punto ed eseguita nel programma di Serena Dandini "Parla con me" (giunto alla terza edizione, è ripreso da domenica 25 febbraio su Raitre, in seconda serata). Il Ligabue di Marcorè è perfetto dal punto di vista della voce. È oltre la perfezione nella gestualità padana, con ripetute e strategiche manipolazioni del pacco. Si colloca vicino al sublime nel delineare l'universo simbolico del rocker di Correggio, in una costellazione di culatelli, gnocco fritto e gnocche à la carte. Insomma, una parodia che per qualità sfiora quella, indimenticabile, con cui Corrado Guzzanti sfigurò Antonello Venditti con "Tutto Roma", la celebrazione canora del raccordo anulare con tutte le uscite («E se avremo una bambina poi la chiameremo ROOOMA!»). Anzi, fossimo in Ligabue, chiederemmo di poter duettare con il suo doppio. L'autoironia è l'unico modo per esorcizzare il dileggio. E nel frattempo, bisognerebbe trovare produttori, autori e idee per fare un programma alla Fiorello. Sono così rari i talenti, che quando se ne trova uno conviene coltivarlo al meglio.
L'Espresso, 01/03/2007
Se Fassino perde pezzi va a pezzi anche il Pd
A mano a mano che ci si avvicina al congresso di aprile, il disagio nei Ds si fa più forte. Perché è vero che il processo che deve portare alla fusione diessina nel partito democratico ha tutto l'aspetto di un treno in corsa, che non si può arrestare e da cui è praticamente impossibile scendere. Ma il catalogo dei segnali di disagio e di sofferenza politica si arricchisce ogni giorno. Vecchi miglioristi come Emanuele Macaluso conducono una battaglia quotidiana nel tentativo di preservare un corredo genetico socialista. Giuseppe Caldarola (che si è autodefinito ironicamente «un vecchio arnese di destra») aderisce alla battaglia per preservare l'ancoraggio alla famiglia del socialismo. A Bologna, un dirigente solido e popolare come Mauro Zani ha cominciato una sua battaglia, accostandosi alle posizioni di Gavino Angius, perché l'approdo al partito democratico non sia un semplice fenomeno inerziale; e un'esponente della sinistra del partito, Katia Zanotti, ha parlato di un clima di intimidazione, se non proprio di "mobbing", da parte dei fassiniani verso chi coltiva dubbi sull'operazione "democratica" ed esita a firmare la mozione del segretario. Tutto questo mentre il leader della minoranza diessina, Fabio Mussi, ha cominciato la sua guerra congressuale, entrando nel vivo e presentando la seconda mozione, con un attacco durissimo al vertice del partito: «Noi oggi siamo qui a celebrare i successi di un segretario che ci ha portato al 17,5 per cento», ricordando che Occhetto «dovette fare le valigie, e anche in fretta, per avere ottenuto il 16,5». L'analisi di Mussi è radicale: i Ds sono diventati un partito marginale, senza più partecipazione autentica, un «partito degli eletti» che ha l'ossessione di restare figlio di un dio minore e perciò va in cerca di un destino imprecisato. Conclusione, secondo Mussi: non c'è spazio politico per il nuovo partito; l'alleanza con il centro dell'Unione, cioè con la Margherita, è importante, ma di fusioni e di abbandono della propria ragione sociale e politica non se ne deve parlare. La posizione degli aderenti alla seconda mozione è chiara, mentre non è affatto chiaro che cosa succederà al congresso. Perché se non ci saranno imprevisti la linea è tracciata, e dal binario non si esce. Toccherà quindi ai dissidenti, a Mussi e Salvi, insieme con tutto il partito degli scontenti, decidere che strada imboccare. Chinare il capo ed entrare nel partito democratico, cercando di mantenere in vita una corrente neosocialista? Oppure scegliere l'alternativa della scissione, con la prospettiva di costruire una complicata unità della sinistra con i Comunisti italiani e Rifondazione? Ma c'è anche un'altra possibilità, piuttosto inquietante in primo luogo per Fassino e D'Alema. Vale a dire che nei due mesi di qui al congresso tutte le insoddisfazioni, le diffidenze, le ostilità allo scioglimento dei Ds e alla confluenza del partito democratico si coagulino, raggiungendo un risultato numerico tale da mettere in crisi il progetto della segreteria. Improbabile? Certo, improbabile. Ma il partito democratico avrebbe avuto strada facile se l'azione di governo si fosse rivelata convincente, sorretta dal favore popolare. Mentre in questi ultimi mesi governo e maggioranza sono divenuti un contenitore di tensioni. Vicenza, l'Afghanistan, il disegno di legge sulle unioni di fatto. In queste condizioni, nessuno può escludere che il cammino possa diventare più accidentato del previsto. Anzi, con l'avvicinarsi alla scadenza congressuale, le posizioni diventeranno più nette. La sensazione che l'ultima transizione postcomunista possa essere l'abbandono di un'identità storica, un taglio delle radici, potrebbe dare al congresso quella carica emotiva che spesso si è manifestata negli appuntamenti più drammatici del partito (o ci siamo dimenticati le lacrime di Pietro Ingrao a Bologna, lo choc per la mancata elezione di Occhetto a Rimini, e la drammatica scissione di Rifondazione comunista?) Non si tratterà soltanto di registrare le dimensioni della vittoria di Fassino, dal momento che, come dice Caldarola, «con una forte vittoria della maggioranza Ds, le strade si divaricheranno inevitabilmente». Occorrerà osservare anche il risultato della mozione Mussi e l'andamento del dibattito congressuale. Perché è vero che, secondo lo slogan del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, i Ds «devono essere disposti a perdere pezzi». Ma un partito che di pezzi ne perdesse troppi, e la nascita di un nuovo partito monco, sarebbero la negazione dell'obiettivo per cui il partito democratico era stato progettato.
L'Espresso, 01/03/2007
Centrosinistra crack
Qualcuno a Palazzo Madama ci scherza sopra, cercando corsi e ricorsi storici: ci sono ancora da qualche parte gli straccioni di Valmy? I «quattro gatti» di Francesco Cossiga? Tira davvero aria di ribaltino come nell'ottobre nero di Romano Prodi nel 1998, di allargamento della maggioranza, di governo istituzionale, di qualsiasi ipotesi che possa tenere in vita questa legislatura ormai a brandelli? Il grande pasticcio dell'Unione era nell'aria. Bastava frequentare anche solo di sfuggita il Senato per sapere che tutti aspettavano soltanto il momento in cui qualcuno avrebbe staccato la spina. Eppure, sul Falcon che mercoledì a mezzogiorno riportava a Roma i ministri Arturo Parisi e Giulio Santagata dopo l'incontro a Bologna con il presidente Napolitano, niente lasciava prevedere il dramma del governo. Attesa del risultato del voto al Senato, ma sostanziale serenità. Adesso che invece il momento infernale è arrivato, facce impietrite, sguardi attoniti, occhiate sperdute. E una singolare atmosfera da prima Repubblica, ipotizzando che il Quirinale potesse rimandare il governo davanti alle Camere, per accertare se ha una maggioranza. Il ragionamento, nel pomeriggio dopo la caduta diceva: calma e gesso. Un passo alla volta. Raffreddare la situazione. Ma la strada sembrava troppo tortuosa. Inutile tentare di ricompattare l'Unione con un voto di fiducia, come volevano nella sinistra radicale Diliberto, Pecoraro Scanio e Giordano, per poi dover affrontare una nuova lotteria su uno dei temi caldi, a cominciare dal rifinanziamento della missione in Afghanistan. Vero che, secondo i dettami del passato, è meglio tirare a campare che tirare le cuoia, secondo la classica espressione di Giulio Andreotti: proprio lui, la vecchia volpe democristiana e cattolica che insieme al senatore a vita Pininfarina ha sotterrato il governo di centrosinistra, con una vendetta freddamente cerebrale (che alcuni senatori di vecchia scuola fanno risalire alla mortificante trombatura subita nell'elezione alla presidenza del Senato). Mettiamola così: in astratto, secondo i manuali di diritto costituzionale, da un punto di vista strettamente tecnico, la caduta del governo sulla politica estera sarebbe stata forse recuperabile. Non si capisce infatti chi nell'Unione abbia davvero un interesse razionale a fare cadere la legislatura, o peggio ad aprire una fase di larghe intese, che implicherebbe il taglio chirurgico della sinistra oltranzista. Anche perché oggi a sinistra il radicalismo non è consegnato esclusivamente a un solo partito, e quindi è impossibile pensare a una legislatura-trapianto, con l'Udc a sostituire dal centro il taglio dell'estrema. Il fatto è che l'Unione era nata con un accordo complesso, formalizzato dettagliatamente dal programma, e quindi senza prevedere eccezioni possibili alle decisioni del governo. Si potevano ipotizzare contrasti da superare attraverso mediazioni defatiganti, ma non lo choc della dissidenza assoluta, tale da fare mancare i numeri al Senato. Adesso, dopo il patatrac del fatale 21 febbraio, tutto entra nuovamente in discussione. Vale a dire: ammesso che sia possibile ricucire per via parlamentare lo strappo, esiste una possibilità, che sia una, di assicurare la continuità dell'esperienza di governo del centrosinistra? Sotto questo profilo, le valutazioni tendono al pessimismo. È venuta alla luce tutta la fragilità di una coalizione debole e di una maggioranza strettissima, che nei mesi di durata del governo Prodi non è riuscita a guadagnare un solo voto di consenso dalle frange non berlusconiane del centrodestra. La maggioranza sarà anche stata «sexy», secondo l'ottimismo di Prodi, ma non ha retto alla prova dei fatti. Il centrosinistra paga così, e a prezzo carissimo, l'illusione dell'autosufficienza. Quel senso di sicurezza che aveva indotto l'Unione a non cercare accordi durante l'elezione delle principali cariche istituzionali. La convinzione che oltre il governo dell'Unione c'era soltanto il salto nel buio, cioè il Paese consegnato di nuovo a Silvio Berlusconi. Quella sensazione riassumibile nell'alternativa "dopo di noi il diluvio" che aveva indotto anche Massimo D'Alema alla forzatura: «Se sulla politica estera non c'è la maggioranza si va a casa». Accontentato, la maggioranza non c'è. E in aggiunta si tratta di vedere se c'è ancora la coalizione di centrosinistra. Perché non è affatto detto che la nuvola nera addensatasi sull'Unione si esaurisca in un acquazzone: il rischio è che l'incidente frontale sulla politica estera abbia recitato il de profundis sull'alleanza di centrosinistra, sul suo formato, sulle premesse politiche su cui si era formata. Ammettiamo pure che il contraccolpo della caduta al Senato possa essere ammorbidito da un processo di ricomposizione e dal tentativo di un modesto allargamento della maggioranza. Si possono immaginare consultazioni del Quirinale, contatti con cani sciolti del centrodestra, trattative, forse un Prodi bis che tenti di governare la crisi mantenendo intatta il più possibile la maggioranza uscita dal confronto elettorale del 2006. Ma se questo non fosse possibile, prima di arrivare alle elezioni sarebbe ipotizzabile soltanto un governo tecnico-istituzionale. E in questo caso per la politica italiana si aprirebbero scenari potenzialmente sconvolgenti. Il fallimento strutturale dell'esperienza di centrosinistra, perché di questo si tratta, la fine eventuale dell'"alleanza larga" voluta da Prodi, estesa dal centro all'estrema sinistra come strumento per il confronto bipolare con la Casa delle libertà, innescherebbe infatti una specie di Big bang, tale da modificare in profondità tutto il sistema politico. Il partito democratico, su cui in aprile si aprirà un confronto fra i Ds dagli esiti non del tutto scontati, potrebbe apparire fra poche settimane un'ipotesi irrealistica rispetto alla fase politica in atto. La dimostrazione sul campo che non c'è una possibilità di convivenza con la sinistra radicale può indurre i centristi dell'Unione, dall'Udeur di Clemente Mastella alla Margherita, ad allargare la partita delle alleanze. Mani libere, quindi. Per tutti. Con effetti virtualmente distruttivi sul sistema bipolare. Massimo D'Alema lo aveva detto: è in atto una manovra neocentrista. Con ciò che si può immaginare alle spalle delle larghe intese: i poteri forti, settori confindustriali, il mondo dell'economia ostile alla sinistra, ambienti cattolici. Ma nella realtà non c'era nessuna manovra effettiva. C'era semmai la volatilità della maggioranza al Senato e il masochismo, o più precisamente l'impossibilità ad assumersi l'onere del governo, di elementi sparsi nella sinistra. Per il centrosinistra, creato sull'opposizione alla destra, c'è anche la frustrazione aggiuntiva di osservare che Berlusconi ha vinto una battaglia campale senza averla nemmeno combattuta. Sono mesi che i leader dell'Unione, in caduta libera nei sondaggi dopo il varo della legge finanziaria, sostengono che alla lunga la qualità del governo avrebbe consentito un recupero significativo di consenso. Ma nel frattempo il centrosinistra era un rodeo, con liti, conflitti, strappi, risse. La guerra interna sulle unioni di fatto, Vicenza, l'Afghanistan. E, accanto al buon andamento dell'economia reale, il pasticcio della redistribuzione mancata (con le addizionali delle regioni e dei comuni che hanno spesso annullato il ridisegno delle aliquote a favore dei ceti meno abbienti). Il crollo al Senato non ha fatto che mettere allo scoperto la fragilità di un'alleanza che invece avrebbe avuto bisogno di linearità, compattezza e consenso su cui galleggiare. Tutto questo porta verosimilmente in una sola direzione: verso un periodo di grande confusione. Quel tanto di razionalità anche forzosa introdotta dalle regole ferree del confronto bipolare, pur con tutti i suoi difetti e le sue approssimazioni, può lasciare spazio a una terra di nessuno in cui gli approdi sono indefiniti. E in cui l'unica certezza è che tutte le manovre sono praticabili. n
L'Espresso, 01/03/2007
Un calcio alla riforma
Fa una strana impressione in questi giorni leggere le pagine sportive: ci si trova davanti a uno sforzo epico per riportare tutto a una specie di normalità. Già, ma di calcio giocato è difficile parlare, di questi tempi. Dopo la guerriglia di Catania, in cui è morto l'ispettore di polizia Filippo Raciti, gli stadi sono vuoti. Qualcuno perché non è in regola con il decreto governativo, privo dei "tornelli" e di adeguate misure di sicurezza; gli altri perché evidentemente non deve circolare una gran voglia di correre in tribuna. Mettiamoci anche la semplice ragione che il campionato di serie A è stato sepolto dalla supremazia dell'Inter di Massimo Moratti, tornata a vincere proprio nel momento in cui tutti gli altri perdono, assegnando così al torneo l'interesse zero. Quindi l'ambiente del calcio, dopo la sospensione dei campionati disposta dal commissario straordinario della Figc, Luca Pancalli, prova a trovare argomenti laterali per far finta di essere sano. Ecco le polemiche a distanza fra Capello e Ronaldo, la crisi balorda dell'allenatore del Real Madrid sotto il tiro dei tifosi, i programmi sempre stratosferici del Chelsea di Abramovich, l'autobiografia di Alessandro Del Piero, il quarantesimo compleanno di Roberto Baggio, il possibile arrivo in Italia di Ronaldinho e dell'altro Ronaldo, il ventiduenne divo portoghese Cristiano. Si capisce, il sistema calcio attraversa una tempesta cosmica; se il giocattolo dovesse rompersi sarebbero problemi per molti. Già uscire da Calciopoli era stata una missione impossibile. Era stato necessario ammorbidire, troncare, sopire, aggiustare, trovare compromessi, amministrare arbitrati, ridurre penalizzazioni. Alla fine tra i club più grandi se l'erano cavata tutti tranne la Juventus; in compenso il recupero di credibilità era diventato dubbio. Da quello choc era uscito il paradosso di un sistema malato ma capace di esprimere la Nazionale vincitrice del Mondiale in Germania. Tuttavia in seguito si era fatta strada anche la convinzione che né il commissario straordinario Guido Rossi né il supermagistrato Francesco Saverio Borrelli erano riusciti a rimettere nella legalità il mondo del pallone. Un muro di gomma, avevano detto Rossi e Borrelli. Resistenze, attriti, pressioni, giustificazionismi. Ciò che contava era tenere in piedi il carrozzone. Quindi, repulisti sommario, grandi condanne in prima istanza via via ridotte nei gradi successivi, e tentativo di seppellire il passato sotto una lapide di belle intenzioni risanatrici. Tutto questo senza che nessuno dicesse una parola sulle aggravanti accessorie e sugli sviluppi possibili. Ad esempio una conduzione amministrativa che non mancherà di provocare altri disastri, a cominciare dalle invenzioni contabili delle società, come le famigerate plusvalenze che hanno permesso di presentare bilanci altamente retorici (perché nel calcio la partita doppia è effettivamente doppia). Oppure un ulteriore scandalino-scandaletto di scommesse già emerso e che riaffiorerà da un momento all'altro, gettando altro discredito sui calciatori e sui campionati. Le varie storielle di doping, qualcuna gustosa come quella giustificata dalla fidanzata volonterosa con l'uso di una crema vaginale. Giri di cocaina e di sesso a casaccio qua e là. Anche il pettegolezzo ambientale su episodi da tre tavolette, come il dirigente che vende alla propria società per 80 mila euro le quattro cartelline del suo fantomatico "piano industriale" che aveva suscitato l'entusiasmo anche dell'ingenua Confindustria locale. E naturalmente esercitando ogni sforzo per eliminare ogni sospetto di collusione delle società con il tifo violento organizzato, accreditando per l'ennesima volta la favola secondo cui sono solo pochi teppisti a rovinare il campionato che fu il più bello del mondo: mentre in realtà tutti sanno, vedi il caso Lazio, che il tifo ricatta i presidenti e organizza cordate proprietarie alternative, oltre a defenestrare come al solito gli allenatori e intimidire i giocatori. Intanto, il 27 gennaio in provincia di Cosenza era stato ucciso Ermanno Licursi, dirigente della società dilettantistica Sammartinese; nei disordini di Catania c'era stata la tragedia di Raciti, colpito a morte durante gli scontri. Il presidente della Lega, Antonio Matarrese, si era distinto per una frase come minimo molto sfortunata, ma che esprimeva l'inconscio collettivo dell'ambiente, secondo cui i morti fanno parte del gioco e comunque lo show deve andare avanti, come in ogni Barnum. Detto fatto: lo spettacolo è ripreso, nella precarietà e in un clima raggelante, dopo che le autorità calcistiche europee avevano ampiamente stigmatizzato le condizioni degli stadi italiani. Ma il calcio naturalmente non può fermarsi: la rivoluzione è rinviata per impraticabilità del campo. Alla vedova del povero Licursi il bel gesto di un assegno di 480 mila euro, raccolti con una sottoscrizione fra i professionisti e i dilettanti (provvedimento analogo della Lega anche per la vedova del povero Raciti). Non basta? Non è la dimostrazione che il pallone in fondo è pulito? Lo spettacolo prosegue, dunque, con i giornalisti che riprendono a chiedere «potete davvero puntare al quarto posto?» e gli allenatori che rispondono secondo il Bignami: «Noi andiamo in campo ogni volta per fare la nostra partita, senza fare programmi». Quando la tensione si sarà attenuata, si comincerà a pensare al calcio mercato, alla stagione ventura, alle qualificazioni per i campionati europei. Si intensificheranno le diplomazie per avere in Italia gli Europei del 2012. Si celebrerà la resurrezione. A chi dirà che il gattopardo ha avuto ragione ancora una volta, e che si tratta solo di aspettare la prossima tragedia o il prossimo scandalo, si risponderà di non fare l'avvoltoio. n
L'Espresso, 01/03/2007
decamerone in corsia
Ci sono gli idolatri del dottor House, che però vedendo la campagna di lancio di "Grey's Anatomy" hanno pensato: saremo mica arretrati, noi housiani, o housisti, rispetto alla nuova serie del nuovo serial medico? E quindi si sono messi a guardare le prime puntate di "Grey's Anatomy", cercando di districare nella trama i punti nodali. Ma non è facile. "Doctor House" appartiene infatti alla categoria dei serial medici in cui si parla di medicina: ogni puntata è incentrata su un caso clinico (tutti pensano che il candidato alla presidenza abbia l'Aids, ma House dopo avere insultato i collaboratori e il paziente scopre che si tratta di una malattia che conosce solo lui e risolve tutto con una sua ricetta: «Magnesia bisurata!», con il paziente che rinasce e tutto che ritorna all'ordine, compreso il candidato che se ne va saltellando). Invece "Grey's Anatomy" è un serial basato sulla formula "Sex and the Medicine", dove la parte predominante è il Sex. Quanto alla medicina, infatti, e alla chirurgia, ogni tanto si vede qualche caso clamoroso, tipo un ragazzo con un tronco d'albero piantato nella pancia; ma si ha sempre la sensazione che le équipe mediche trattino i casi anche più interessanti e gravi come una tremenda rottura di scatole tra un flirt, una scopatina, un tradimento, un minuetto erotico. Anche i pazienti, in genere, considerano un cancro come una fregatura che impedisce di andare al pub a rimorchiare. Se "Doctor House" è la Divina commedia dei serial americani, "Grey's Anatomy" dovrebbe essere il Decamerone. Ma se si interviene a puntata già cominciata è critica: è scoppiato un casino, tutti sono affannati, c'è gente in crisi di nervi; e qui tutti si aspettano un "cross over" assurdo ma risolutivo, adesso arriva il dottor House e li sistema tutti. E invece niente. "Grey's Anatomy" resta un disordine voluto e totale; "Doctor House" il regno della perfezione. "Grey's" è corale, nevrotizzato dalla regia, continuamente in fibrillazione; House è un uomo solo in cima alla diagnosi, un Omero dell'eziologia, un Dante della terapia. Insomma, non c'è paragone. Ma può anche darsi che "Grey's Anatomy" soffra della legge sul degrado progressivo dei serial (che recita: a ogni nuova serie il serial peggiora, e il pubblico si stufa; vedi il disastro di "Lost"). Degrado che per ora ha lasciato intatto House (anche se, per i pessimisti, non si tratta che di dare tempo al tempo).
L'Espresso, 22/02/2007
Non sparate sul Pirata
Secondo Aldo Grasso, il film di Claudio Bonivento dedicato a Marco Pantani ("Il Pirata", da un'idea di Nicola Carraro e Claudio Bonivento, scritto da Nicola Lusardi e Roberto Jannone con lo stesso regista Bonivento, produzione Ballandi per Raiuno) è risultato semplicemente «trasandato», e «l'operazione stilistica è stata una sola: la verosimiglianza». Vale a dire la trovata di un attore, Rolando Ravello, particolarmente simile al modello piratesco originale. Per "il Riformista", nel commento di Remo De Vincenzo, «questo Pirata versione B&B (Ballandi e Bonivento) è un ulteriore esempio della cronica incapacità di narrare le gesta sportive da parte della nostra fiction». Subito dopo il massacro continua con Bonivento indicato come «già regista della grigia fiction Rai sul Grande Torino», colpevole di «avere imbastito un prodotto povero di idee e di pathos, recitato male e scritto peggio». Mah. A dargli un'occhiata con un tocco in più di indulgenza, "Il Pirata" non era peggio della fiction che circola normalmente. Quindi Bonivento non dev'essere proprio peggio degli altri registi. La fiction su Pantani aveva tutti i difetti delle storie troppo contemporanee, in cui non c'è filtro della memoria, alone del mito e suggestione del racconto. Assomigliava più alla cronaca che non a una narrazione. Per girare un film sullo sport può essere utile una certa distanza di tempo dagli avvenimenti. Per esempio è bellissima la vicenda di Matthias Sindelar, "il campione che non si piegò a Hitler" raccontata da Nello Governato (noto ex calciatore e manager calcistico) nel romanzo "La partita dell'addio" (Mondadori). Per chi non lo sapesse, il divino Sindelar era uno dei più forti calciatori del mondo, e morì con la sua donna, l'ebrea Camilla Castagnola, nel 1939, dopo l'Anschluss: furono trovati morti dalla Gestapo nel loro appartamento di Vienna, e il decesso fu attribuito ufficialmente al malfunzionamento di una stufa a gas. Oppure si potrebbe leggere utilmente la strepitosa storia scritta da Matteo Marani ("Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo", pubblicata da Aliberti), che ricostruisce la parabola tragica di un trainer del Bologna che finisce nel nulla dello sterminio nazista. Insomma, le fiction "simultanee" possono essere traditrici (ma anche la storia di Pantani era di clamorosa intensità, e quindi irresistibile la tentazione di raccontarla).
L'Espresso, 15/02/2007
Telegaffe ai Telegatti
Non ci sono molte ragioni valide per guardare in tv alla serata dei Telegatti. Ragioni serie, ancora meno. Vaghe reminiscenze di anni passati potrebbero indurre qualche telespettatore volonteroso e amante dei felini a cullare l'aspettativa che Rosario Fiorello faccia uno dei suoi show improvvisati e epocali. Ma poi arriva Fiorello davvero e non fa praticamente niente, salvo entrare nel clima dei Telegatti, e uno è costretto ad ammettere: ben mi sta. Così impariamo a dedicare una serata ai Telegatti. Ma, dico: con tanti argomenti interessanti che ci sono in circolazione, e con tanti bei libri da leggere, come il fantastico, esatto e micidiale insieme, "L'Italia spensierata" di Francesco Piccolo (ha firmato come sceneggiatore il "Caimano" di Nanni Moretti, mentre l'editore è Laterza), che oltretutto contiene anche la descrizione di una puntata di "Domenica In" vista dalla parte del pubblico nello studio televisivo della Dear; insomma, con tante belle cose da vedere o da fare, quale sarà il motivo per sprofondare su un divano e sintonizzarsi colpevolmente sui Telegatti? Boh. Sarà il nostro masochismo. Sarà che i giornali ne hanno parlato per giorni, sfracellando l'apparato. Sarà che i Telegatti sono televisione al cubo, televisione di televisione fatta da televisionari, e quindi tutti i "tv addict" si sentono costretti moralmente ad assolvere l'obbligo. Oppure sarà l'oscura sensazione che ai Telegatti succede sempre qualcosa, una lite, una rissa, magari con il coinvolgimento di Cecchi Paone, o magari la rivelazione medianica che questa volta l'evento sarà enorme, magari un fuori onda di Veronica rivolto sadicamente a Silvio. Poi naturalmente l'evento immane è accaduto davvero, e Veronica ha scritto la sua letterona, scatenando gatti e cani, "cats and dogs", provocando un acquazzone, un temporale, pioggia a catinelle. Sicché non ci si è pentiti di avere assistito per qualche decina di minuti alla parata di astri nascenti e di stelle cadenti dei Telegatti. Era la solita solfa, la televisione che premia se stessa. Ma a posteriori noi sapevamo che alla cena di gala Supersilvio aveva pronunciato le parole incriminate, era "inyespicato", si era "incarfagnito", e quindi la sora Berluscona si era incacchiata e aveva dato sfogo alla sua grafomania, citando anche una scrittrice irlandese. E insomma, una volta tanto, Telegatti o Telecani, noi avevamo potuto dire: c'ero anch'io.
L'Espresso, 08/02/2007
Perché il dopo Silvio si chiama Gianfranco
Sono passati più di 13 anni da quando Silvio Berlusconi sdoganò Gianfranco Fini, in lizza contro Francesco Rutelli per il Campidoglio. Era la fine di novembre 1993, la "location" un ipermercato a Casalecchio di Reno, appena fuori Bologna, e il Cavaliere dichiarò fra lo sconcerto di molti che se avesse dovuto votare per le comunali di Roma avrebbe scelto il capo missino, perché «le sue idee sono le mie». Non c'era ancora stato il lavacro di Fiuggi, e agli occhi di molti il giovane Fini rappresentava una destra non potabile. Ma il progetto di Berlusconi era già chiarissimo. Non c'erano più confini o esclusioni, nel centrodestra prossimo venturo. Dentro tutti. I fascisti erano già postfascisti, almeno nella sua visione politica e nella sua concezione del sistema maggioritario. Con gli anni, Fini si è guadagnato i galloni dell'alleato più fedele. Tanto da meritarsi la designazione a successore di Berlusconi in un altro luogo eccentrico, la premiazione dei Telegatti. A cui sono seguite precisazioni, smentite, proteste, in particolare della Lega e dell'Udc; mentre sono risultati piuttosto smorzati i commenti dentro Forza Italia, in cui c'è almeno una figura politica, Giulio Tremonti, che per cultura e come uomo di cerniera tra forzisti e Lega potrebbe ragionevolmente ambire alla successione. In ogni caso l'indicazione c'è stata, un autentico "dedazo" alla messicana (quando il presidente uscente, capo del Partito rivoluzionario istituzionale, indicava teatralmente con il dito il suo erede alla presidenza). Ed è possibile che le discussioni in proposito siano più figurative che reali. Perché Berlusconi ha bisogno di Fini, se vuole effettivamente realizzare il "partito unico dei moderati", il rassemblement che dovrebbe riunire il centrodestra futuro, deideologizzato e privo di quelle articolazioni partitiche così fastidiose per la compattezza di uno schieramento. Berlusconi ha bisogno di Fini perché il partito unico dei moderati richiede un leader riconoscibile sul piano mediatico e nello stesso tempo così duttile culturalmente da risultare attraente per l'intero elettorato di centrodestra. Sotto questo profilo, Fini è perfetto: tradizionalista e innovatore, cattolico ma favorevole alla fecondazione assistita, legato a una concezione classica della famiglia ma senza fissazioni contro le unioni di fatto, il capo di An rappresenta una carta ottima sul mercato politico dei prossimi anni. Ha perso praticamente tutte le connotazioni fasciste e di destra sbrigativa, ha denunciato le leggi razziali mussoliniane come «male assoluto», è stato ricevuto in Israele, ha collaborato con Giuliano Amato nella convenzione europea, si è spinto fin quasi al confine con i popolari europei; a cui si aggiunge come dote personale insostituibile una particolare predisposizione a risultare convincente in televisione. Non ci sono altri candidati alla successione del capo carismatico. O perlomeno non ce ne sono altri in grado di tenere unito il centrodestra fin tanto che le condizioni e le modalità dello scontro bipolare rimangono quelle attuali. In uno scenario proporzionale, che consentisse la formazione di estese aree centriste, Pier Ferdinando Casini avrebbe ancora delle possibilità. Ma è difficile prevedere in questo momento quelle scomposizioni e ricomposizioni del sistema politico che potrebbero rimettere in gioco il leader dell'Udc. Salvo incidenti, dunque, la prospettiva di evoluzione della ex Casa delle libertà è stata delineata. Dovrà nascere un aggregato largo, non stressato sul piano culturale, capace di raccogliere partite Iva e ceti medi, pubblico impiego e imprenditori, cattolici e laici, moderati e radicali. Se il progetto funziona, nessuno meglio di Fini può assumerne la guida. Resta da vedere come si muoveranno allora i non moderati, in primis la Lega di Bossi. È presumibile che il gruppo dirigente del Carroccio apra un conflitto interno, una fase manovriera, la più spregiudicata possibile. Per il futuro del Pum, sono allora più importanti, e anzi decisive, le prossime guerre interne al centrodestra che non il confronto elettorale e parlamentare con l'Unione. Indicato dal dito di Berlusconi, per qualche tempo Gianfranco Fini può stare a guardare: ma ha già capito che il "dedazo" del Cavaliere riguarda lui e lui solo, non il suo partito. Per la successione a Berlusconi serve Fini, non An. E quindi aspettiamoci rapide mosse per anestetizzare il partito, per convincerlo a un'eutanasia utile, alla confluenza nel grande partito del centrodestra. Fini è già pronto, bisogna vedere se sono pronti anche i suoi ufficiali e le sue truppe.
L'Espresso, 08/02/2007
Salvate il soldato Garibaldi
Garibaldi è stato ferito? Ricorda Antonio Scurati in un articolo sulla "Stampa" che oggi le fiction televisive fungono da «pratiche interpretative» in senso antropologico, «sono cioè forme di creazione simbolica e narrativa mediante le quali in ogni epoca gli esseri umani hanno espresso la propria visione del mondo e dato un senso alla vita quotidiana». Scurati si riferisce alla «grande serialità americana degli ultimi decenni», che ha prodotto "Twin Peaks", "Band of Brothers", "C.S.I.". L'intervento nasceva dalle polemiche suscitate dalla fiction risorgimentale "Eravamo solo Mille", ma può essere accostato agli ulteriori dibattiti che hanno accolto "Exodus", che narra la vicenda di Ada e Enzo Sereni, ebrei italiani che emigrarono in Palestina nel 1927. Nel primo caso, Scurati sosteneva che la fiction garibaldina, nel nome di un intrattenimento «sciatto, dozzinale, impreciso e infedele», non era riuscita a evocare nessun elemento mitico, o epico, facendo così del Risorgimento un fumettino senza pretese; mentre verso "Exodus" vale la critica tutta politica di avere oscurato, o «appena sfiorato» (come accusa su "l'Unità" Alon Confino, nipote in linea diretta di Enzo e Ada) il fatto che «uno dei moventi fondamentali delle azioni dei Sereni era l'antifascismo». Gli autori si difendono, la discussione si approfondisce. Il regista di "Eravamo solo Mille", Stefano Reali, contesta con puntiglio le critiche di Stefano Malatesta su "la Repubblica": «Quello che si chiede a una fiction è intrattenere, grazie ai suoi strumenti narrativi, e magari dare delle informazioni che altrimenti molto difficilmente arriverebbero al cosiddetto "pubblico di prima serata"». Malatesta replica che non tutto può essere telenovela. Premesso che una persona di normale qualità intellettuale e civile guarda una fiction soltanto se non ha niente, ma proprio niente di meglio da fare, noi siamo piuttosto perplessi. Perché condividiamo l'idea di fondo di Scurati, ma non dimentichiamo che "Twin Peaks" era una creatura di David Lynch, e la straordinaria "Band of Brothers", che a suo modo serializzava "Salvate il soldato Ryan", reca il marchio di fabbrica di Steven Spielberg. Con il che, il discorso è chiuso. La buona fiction è fatta dai buoni fiction maker. Quanto alla fiction normale, o a quella delle fasi di stanca, c'è sempre la soluzione di usare il telecomando e cambiare canale. Viva Garibaldi.
pagina
di 66