L’Espresso
L'Espresso, 01/02/2007
Bene bravi sette più
A meno che non sia Totò, il comico che diventa vecchio genera immediata tristezza. Ma Totò non era un comico, era un disegno astratto, un profilo cubista, un'invenzione dell'avanguardia novecentesca. E quindi c'erano motivi ragionevoli per temere che il ritorno di Cochi e Renato in un programma televisivo si risolvesse in una cosa straziante. E invece "Stiamo lavorando per noi" (quattro puntate il mercoledì su Raidue, prima serata) regge la botta, con buoni ospiti come Enzo Jannacci e Massimo Boldi: anche se è difficile per comici dell'assurdo trasformarsi in critici del costume e dell'attualità. Tutti noi infatti ricordiamo Cochi e Renato, «il poeta e il contadino», gli eroi di «siamo su a milletré» e di «bravo, sette più». Niente era più esilarante di Pozzetto che interrompeva Cochi Ponzoni intimandogli «dammi indietro gli orecchini di mia suocera». Intere scolaresche hanno cantato «La gallina non è un animale intelligente, lo si capisce da come guarda la gente» o «E la vita, la vita, e la vita l'è bela, l'è bela, basta avere un'ombrela che ripara la testa». Ma trasformare questi due comici in critici e satiristi dell'attualità, era un'impresa rognosa: oggi infatti occorre applicare la satira a protagonisti come l'agente Scaramella, roba dura. Oppure sui membri di centrodestra del cda della Rai, quelli che hanno nominato Meocci direttore generale quando anche un bambino, o una gallina, avrebbe capito che era incompatibile, rischiando così di pagare di tasca propria la multa di 14 milioni di euro. Va da sé che nemmeno un genio della comicità, neanche un fratello Marx, ci riuscirebbe. Così come sarebbe stato difficile, perché la realtà supera la satira, immaginare che l'intero cda avrebbe trovato l'ingegnosa soluzione di liberarsi del problema Meocci nominandolo al vertice di Rai Corporation, con uno stipendiuccio di 800 mila euro, per cui adesso rischiano altri 14 milioni di multa. Noi eravamo dell'idea che i primi 14 milioni dovevano pagarli di tasca loro i consiglieri di centrodestra; ora pensiamo che gli altri 14 devono pagarli i consiglieri tutti, destra o sinistra chi se ne frega, presidente compreso. Abbiamo chiesto un parere ai rinati Cochi e Renato; ci hanno risposto: «La gallina non è un animale intelligente», e a quel punto non siamo stati capaci di evitare di pensare: la vita l'è bela, basta avere un'ombrela.
L'Espresso, 25/01/2007
Cuore di Petra di Rita Cirio
Il sentimento - e persino la sua deriva più ovvia e spudorata, il sentimentalismo - può essere arma politica e destabilizzante di un ordine sociale che non lo contempla. Per risolvere il suo complesso edipico nei confronti di papà Bertolt Brecht, Rainer Werner Fassbinder scelse di rifondare il teatro e il cinema politico con una dose consistente di sentimenti esibiti "hard core" e scelse come punto di riferimento alternativo al teatro epico il mélo dei film hollywoodiani anni Cinquanta di Douglas Sirk, l'autore di "Magnifica ossessione", "Lo specchio della vita", "Il trapezio della vita", "Come le foglie al vento". "Le lacrime amare di Petra von Kant", nato per il teatro e poi diventato un film, è forse l'esempio più rilevante di questa poetica: la vicenda di una stilista di successo che s'innamora perdutamente e fino all'autodistruzione di una ragazza, Karin, ennesima variante della Albertine proustiana, oggetto indegno, ma tant'è, di un grande sentimento amoroso. «Nella tragedia», teorizzava Douglas Sirk, «la vita finisce sempre e, morendo, l'eroe è sollevato dai problemi dell'esistenza. Nel melodramma l'eroe invece sopravvive in un triste lieto fine». Come parecchi registi Antonio Latella sembra non amare fino in fondo alcuni testi che mette in scena e la sua versione di "Petra von Kant", pur nella elegante confezione, sceglie di essere algida - e perfino brechtiana - invece di abbracciare e abbandonarsi al mélo, come voleva Fassbinder. Domina questa versione una sesquipedale statua iperrealista con le sembianze nude di Silvia Ajelli che interpreta Karin, un feticcio destinato a essere smontato nel finale dalle altre attrici, tra cui Laura Marinoni (Petra) che s'impegna nel mélo credendoci più del regista.
L'Espresso, 18/01/2007
Ma quanto è di sinistra l’aumento dei prezzi?
Gli intellettuali più prestigiosi e gli economisti più accreditati sono convinti che la legge finanziaria sia criticabile perché non ha affrontato con fermezza e fantasia l'entità della spesa pubblica. E che dunque l'azione di governo nasca da un vizio culturale, o perlomeno da un'impostazione fin troppo tradizionale e prevedibile. Ma come si può intuire il consenso dell'opinione pubblica non dipende dal consenso degli intellettuali. Se si vuole davvero capire il perché della caduta di popolarità del governo, sarà il caso di guardare anche a qual è stata la percezione generale dell'azione dell'esecutivo. E su questo punto ci sono pochi dubbi: basta scorrere a ritroso i giornali durante le ultime settimane per trovare una raffica clamorosa e fastidiosa di aumenti di prezzi, tariffe, bolli, ticket. Non male per un governo che era nato con l'intenzione, più volte espressa da Romano Prodi, di «rimettere il dentifricio nel tubetto», cioè di restituire il potere d'acquisto perso negli ultimi anni. Gli effetti redistributivi della manovra, prevedibilmente modesti, dovranno fronteggiare anche sul piano delle attese una quantità di annunci di adeguamenti di prezzi; le associazioni dei consumatori (nel caso, l'Adusbef) hanno individuato 56 nuove tasse, con un aggravio per ogni famiglia stimato in 440 euro l'anno, mentre ogni giorno si sono susseguite notizie o proclami di variazione al rialzo delle tariffe. Ancor più che la pioggia di tributi più o meno pesanti (sulla casa, sull'auto, sui rifiuti), e il prevedibile ricorso degli enti locali alle maggiorazioni dell'Irpef per compensare i tagli nei trasferimenti, ciò che risulta incomprensibile è l'aumento delle tariffe su servizi pubblici come le ferrovie, dove l'aumento medio è del 9 per cento, con punte del 15 per gli Eurostar, come ha già riscontrato chi ha acquistato un biglietto nei primi giorni del nuovo anno. Ogni volta gli enti che alzano le tariffe, che siano autostrade o ferrovie, i loro uffici stampa raccontano che i prezzi erano bloccati da anni (per Trenitalia, in realtà, c'era stato uno stillicidio di micro o macro aumenti, con l'invenzione lunare degli Intercity "Plus", più o meno uguali agli altri ma con prezzo maggiorato, e incrementi al limite dell'incomprensibilità delle esazioni a bordo). Il che rende logico il ragionamento immediato, e "populista", poco raffinato o semplicemente inquieto, dei clienti: nei servizi pubblici hanno assunto alcuni manager col buco, che hanno lasciato situazioni catastrofiche sia dal lato dei bilanci sia dal lato della funzionalità, i quali se ne vanno con liquidazioni milionarie lasciandosi alle spalle le macerie e un conto che paga Pantalone. Si sa che il popolo, la gente, i cittadini, l'elettorato, non sono troppo sofisticati, e quindi passano rapidamente a conclusioni impolitiche. Sicché non risulta molto facile a Tommaso Padoa-Schioppa o a Pier Luigi Bersani spiegare che occorrerà produrre riforme per eliminare le rendite ovvero liberalizzare i settori protetti, "nell'interesse del consumatore" e per rimettere in efficienza le amministrazioni. Sembra di assistere a una vistosa insensibilità dei ministri e del governo nel suo insieme rispetto alla pioggia di gabelle e di aumenti tariffari, come se si trattasse di un evento atmosferico, inevitabile come la pioggia o la nebbia. Per la verità, dopo avere strillato per cinque anni contro il populismo berlusconiano, occorreva un ragionevole populismo di centrosinistra. Non è una contraddizione. Di fronte a ogni incremento praticamente automatico dei prezzi pubblici, ci voleva una reazione di questo genere: prima di qualsiasi aumento delle tariffe, dateci un programma di risanamento, un piano di bonifica, di ristrutturazione, e solo in seguito parleremo delle tariffe. Altrimenti non si comprende quale sia il vantaggio di avere al governo tanti bravi tecnici della macroeconomia e tanti conoscitori delle tabelle e delle curve delle entrate e delle uscite. Romano Prodi ha parlato del ritorno alla crescita come della nuova "missione euro". Ma prima ancora della crescita, concetto inafferrabile dalle famiglie, occorreva evitare la sensazione del salasso ineluttabile, e di conseguenza le aspettative di una serie incontrollabile, nonché depressiva, di aumenti che toccano la vita di tutti. Controllare con rigore le grandezze macroeconomiche non implica ignorare le condizioni effettive di vita dei cittadini. Il consenso si costruisce dal basso, e il rigore sulle grandezze finanziarie non esclude il controllo sulla microeconomia. L'avere perso di vista questo aspetto non è un errore di comunicazione, bensì un deficit di consapevolezza politica. E agli occhi dei cittadini, suggerisce domande, giuste o sbagliate che siano, su che cosa ci sia di progressista e di solidale, insomma di sinistra, nell'aumento dei prezzi.
L'Espresso, 18/01/2007
A Sanremo canta il Viagra
Diabolico, Pippo Baudo, nella sua immensità. O apostolico, se si preferisce. Ecumenico, se vi va. Si sa che Sanremo è in crisi, ogni anno dopo Fabio Fazio e Piero Chiambretti gli indici di share sono un attentato alle coronarie dei dirigenti Rai a cominciare dal capo di RaiUno Fabrizio Del Noce, e alla tranquillità psicopolitica del conduttore, si chiami Simona Ventura o Giorgio Panariello. Perché il presentatore del Festival non è professionista dell'intrattenimento come tutti gli altri, un Celentano o un Morandi, un Fiorello o un Teocoli: è l'eletto, quindi il depositario, il grande, anzi l'immenso sacerdote, a cui il Comune di Sanremo, la Rai e una quantità di altri istituti e organismi affidano volta per volta quel patrimonio preziosissimo e delicato che è il Festival, deposito di storia e di audience, specchio dell'italianità, risorsa televisiva e pubblicitaria, gran baraccone di svippati (secondo i malevoli), vetrina di quella reliquia suprema che è la canzone italiana. Chiamato a compiere il miracolo dopo anni declinanti, ovviamente Superpippo non si è chiesto se la canzone italiana esiste, se esiste ancora, e quale sia eventualmente il suo stato di salute. Sarebbe come chiedersi se esiste la Prima repubblica. Oppure se esiste la famiglia, la mamma, la sposa, la cognata. Sono dubbi metafisici immensi che Baudo non si pone. Certo che la Prima repubblica esiste: forse non nelle procedure, nelle maggioranze e nelle minoranze, ma è viva e presente nella memoria, nella nostalgia, nel rimpianto: non dice sempre Sua Baudità che gli manca tanto la Dc? E qual era, lo schema risolutivo della Prima repubblica? Ma la lottizzazione, ça va sans dire. E allora un professionista sommo della spartizione si applica al problema del target di pubblico, delle fasce di audience, delle nicchie generazionali e scodella la sua ricetta. Forma una bella commissione, composta da Paolo Buonvino, Patrizia Ricci e Dario Salvadori, e via con il musica maestro. Non diciamo però che lo spirito del Festival nell'interpretazione baudista è nazionalpopolare. Parola detestata da Baudo al punto, lo si ricorderà, da farlo erompere a suo tempo in un drammatico j'accuse contro l'allora presidente della Rai Enrico Manca. Postuliamo però, senza accanimento, che Pippo ricorda bene il compromesso storico: e allora, volete la solidarietà nazionale? La solidarietà generazionale? Eccovi Francesco con Roby Facchinetti, padre Pooh e figlio Dj («Dio delle cittààà, e delle immensitàààà...»). Uomini soli, come diceva la vecchia canzone con cui proprio i Pooh vinsero a Sanremo. Oppure, se volete un pronunciamento esplicito a destra, ecco i fratelli uniti, cioè Gianni e Marcella Bella: una coppia di cui almeno lei, nel ricordo del coniglio dal muso infallibilmente nero, sottolineato nero, di "Montagne verdi", è di destra destra (si era anche candidata alle europee con An, la destra che canta con la destra che conta). Come dice il primo comandamento, anzi il decalogo intero di Pippo, Sanremo non è solo Sanremo, è l'arco più che costituzionale, senza nessuna conventio ad excludendum che non sia stabilita dal volere del pubblico. Quindi, dentro tutti: profumi di destra per Al Bano, forse non politici ma canori; sentori di centro e di centrismo per Johnny Dorelli, di cui si ricorda un verso piuttosto democristiano che diceva: «Per me che son nullità... nell'immeeeensità!»: l'immensità va sempre forte, Pooh o non Pooh, Dorelli o non Dorelli. Ma va da sé, come riconosce il manuale Cencelli di Pippo, che il pubblico voglia anche una spruzzata di sinistra. Non c'è che da chiederla ed è qui, à la carte: per esempio con il ritorno della rossa, strehleriana e brechtiana, ma all'occorrenza anche battiatiana, Milva (che ha presentato una canzone dal titolo provvisorio "The show must go on", come in un celebre pezzo dei Queen: ma noi suggeriamo "Alexanderplatz", segnale topografico della riunificazione postcomunista, un messaggio geopolitico e strategico prevedibilmente gradito ai dalemiani). Oppure Paolo Rossi, che tuttavia presenterà una canzone di Rino Gaetano con la mediazione politica di Claudia Mori in Celentano: e qui potrebbero nascere problemi bicamerali, perché ci si ricorda che il povero Rino Gaetano è stato il geniale ma trasversale autore di "Nun te reggae più", in cui sillabava versi oltraggiosi come "Pci Psi Pri Pli Dc Dc Dc... Nun te reggae più". Un cantautore radicaloide, forse pannelliano, che oltretutto in quella canzone d'annata, dannata e condannabile citava tutti, da Agnelli, Pirelli, Cazzaniga a Bearzot, Raffa, Villaggio, da Causio a Thoeni, ma non Pippo Baudo, ohibò. Praticamente tutti di sinistra erano i parolieri rifiutati, gli esclusi di lusso, Edoardo Sanguineti, Alda Merini, Margherita Hack, Rita Levi Montalcini: sarà che la commissione ha un pregiudizio verso i senatori a vita? Verso i poeti? Verso la Hack? Sono bei dilemmi politici, che potrebbero essere mitigati solo dal pensiero che tuttavia è passata Nada, con un brano intitolato "Luna in piena": Nada è diventata una cantautrice sperimentale, oltre la canzone e presumibilmente oltre la politica, ma il suo vecchio amore per l'anarchico Piero Ciampi la colloca a sinistra della sinistra. E Fabio Concato, non è uno che ha una faccia da centri sociali? Oltretutto, si presenta con una canzone che si chiama "Oltre il giardino", con sentori di mirto ma soprattutto di Peter Sellers, quindi politicamente eretica. A questo punto Baudo si dev'essere preoccupato, troppi sinistri, troppa Unione, ancorché di fatto: e ha chiamato Antonella Ruggiero. Ci siamo capiti: voce angelica. Intonazione celestiale, e acuti sublimi. Con un pezzo pacifista, "Canzone fra le guerre". Ma anche, la signora, una devota abitudine a interpretare con grande o immensa intensità, o con intensa immensità, chiedete a Don Backy, la grande musica del repertorio religioso, preferibilmente nelle cattedrali: è o non è una brillante strizzata d'occhio al cardinale presidente della Cei, in chiave teodem? Non è un bell'esempio di equilibrio, di equilibrismo, un gesto di riguardo quasi margheritico? Il resto è intrattenimento spartitorio. Un po' di giovani, un po' di sconosciuti come il grande Piero Mazzocchetti, che ha spopolato in Germania, come Paolo Meneguzzi che ha spopolato in America Latina, e altri che hanno spopolato in posti spopolati; un po' di spirito jazz con Amalia Grè, un po' di Battisti con Leda, un po' di tutto, compresi Daniele Silvestri, Simone Cristicchi, Stadio, Velvet, Zero Assoluto, Tosca. Tosca? Problema politico aggiuntivo, perché porta una canzone dal titolo "Il terzo fuochista": non sarà una rivendicazione sindacale, contro l'abolizione efficientista e neoliberista dei fuochisti, come è già accaduto in ferrovia con il secondo macchinista? Vabbé, è andata. La Prima repubblica della canzone sopporterà anche i sindacati, già adeguatamente fronteggiati da Sua Immensità Baudo qualche decennio fa. Al massimo, se il conflitto diventa troppo caldo, si manderà in scena Mango, con la sua canzone intitolata interrogativamente "Chissà se nevica": evocazione di Bernacca, di previsioni del tempo ineluttabilmente fallaci. Ma come si fa, a chiedere se nevica: ma è chiaro che non nevica, non è nevicato, non nevicherà. Sta cambiando il clima, chiedere a Pecoraro Scanio. Potrebbe arrivare la Seconda repubblica. Abbiamo male alle ossa, c'è un'umidità insolita anche per la Riviera dei fiori, in quel mare d'inverno che è come un film in bianco e nero visto alla tivù. Già, ha da passà l'inverno. Ha da passà Sanremo. Tutto passerà, ma non l'immensità. n
L'Espresso, 18/01/2007
Con lo Zen ho fatto gol
C'è calciatore e calciatore, per quanto ex. L'immagine di Gianluca Vialli non è quella del centravanti sbollito. Gli attaccanti in disarmo non pubblicano libri come "The Italian Job", scritto con il giornalista Gabriele Marcotti (già coautore nel 1999 dell'autobiografia di Paolo Di Canio). Il volume, che non è un'autobiografia di un calciatore bensì una filosofia empirica del calcio, è stato pubblicato in Inghilterra nella primavera scorsa, e proprio in questi giorni, tradotto da Mondadori, è in uscita anche in Italia, con una postfazione che aggiorna la riflessione agli ultimi sei mesi, compresa la vittoria italiana al Mondiale tedesco. D'altronde Vialli è un'eccezione perfino antropologica nel calcio italiano ed europeo. Trovatelo voi un calciatore, allenatore, commentatore che come lui, con il collega Massimo Mauro, abbia messo su una fondazione per la ricerca sul cancro e la sclerosi amiotrofica laterale (il morbo di Lou Gehrig, che sembra infierire con la sua crudele e implacabile lentezza proprio sui calciatori), a cui è devoluta la sua parte di proventi di questo libro; che per sovrammercato cita il maestro cinese Sun Tzu e Niccolò Machiavelli, e che ha il coraggio o l'improntitudine di pubblicare un saggio sul calcio con un indecifrabile titolo inglese. Come si traduce? L'affare italiano? Meglio, e più semplice, all'italiana. Potrebbe tuttavia essere roba di contropiede, di pasta, "macaroni" o di mafia, tutte specialità peninsulari. Fortuna che soccorre il sottotitolo: "Tra Italia e Inghilterra, viaggio al cuore di due grandi culture calcistiche". Libro altamente filosofico, si diceva: perché è chiaro che nessuno legge il testo di un bravo attaccante, e allenatore ancora molto atteso anche se a lungo in stand by, comunque star mediatica e personaggio della "glam community" europea, di casa sulla scena londinese fin da quando, dopo i fasti sampdoriani, juventini e azzurri, era diventato l'allenatore- giocatore del Chelsea, per saper qualcosa di generale sul sistema Moggi o sul circuito milionario intorno al pallone. Chissenefrega, del business calcistico e delle spese pazze del boiardo Abramovic. Si legge eventualmente il "borghese" Vialli, figlio di una buona famiglia cremonese e allenatore in camicia bianca, alla Klinsmann, per avere semmai un'idea del calcio ipermoderno, modellato su prestazioni "playstational", in cui l'abilità nella coordinazione si sposa a una violenza fisica impressionante, e l'individualità va messa al servizio del gruppo. Il titolo allude alla differenza di stile e contenuto fra il calcio inglese e quello latino. Fra «Mary e Veronica», dice Vialli con la personalizzazione femminile di due tradizioni tecnico-tattiche: Mary sarebbe il football all'inglese, quella disciplina per le classi inferiori che a suo tempo veniva giudicata con evidente snobismo dall'aristocrazia britannica dedita al rugby o al cricket. Quindi, la suddetta Mary, un'amante prevedibile, un po' rigida, senza troppe fantasie; mentre Veronica, una latina tutta intuizioni, elusioni, finte e scene madri. Sulla scorta del realismo politico di Machiavelli e degli insegnamenti millenari di Sun Tzu, si va al cuore del problema: campioni si nasce o si diventa? Conta più la tecnica individuale o l'intelligenza tattica? La forza atletica o «le palle», cioè la personalità in campo, nello spogliatoio e nella vita? Di primo acchito Vialli, esponente macho dell'Europa metrosexual, la prende sul sociologico: non sarà che il calcio riesce bene soprattutto alle "underclass", cioè al proletariato o sottoproletariato urbano, e meno alla borghesia? Secondo altri ideologi del "soccer", il successo nella tecnica e nella tattica o nell'interpretazione atletica del calcio dipende invece dal clima: eccellono nell'individualità i paesi con un clima mite o caldo, in cui si sta molto tempo all'aria aperta, con i ragazzini che imparano a fare tutto con il pallone. Sono schemi troppo deterministici? In effetti i brasiliani diventano funamboli sulle spiagge di Rio, i bimbi italiani diventavano imbattibili nei cortili accidentati delle case di ringhiera. Ma alla fine Vialli propende per una spiegazione inedita: a Milano, Roma e Torino piove più che a Londra, quindi non dovrebbero esserci eccessive e decisive diversità climatiche fra un aspirante calciatore italiano e il suo omologo britannico; ciò che fa la differenza è il dio Eolo, figlio di Poseidone: ma sì, il fattore vento. Nei ventosissimi campi inglesi non si riesce a fare nulla di sistematico se non corsette di riscaldamento e partitelle a cinque; gli allenamenti devono essere semplici, bisogna correre sempre altrimenti i muscoli si raffreddano. E così non c'è tempo di «pensare il calcio», secondo il principio metafisico del teoreta calcistico del Chelsea, José Mourinho. In Scozia, nel Galles, in Irlanda non fioriscono geni tattici come Alfredo Di Stéfano o Paulo Roberto Falcão, e forse nemmeno i centromediani neometodisti alla Pirlo; alla lunga il calcio inglese viene messo facilmente in scacco dalle veroniche di "Veronica" e c'è una ragione se il Brasile assolato di Ipanema e Copacabana ha vinto cinque titoli mondiali, e in rappresentanza della zona temperata l'Italietta nevrotica ne ha portati a casa quattro, mentre la fredda, bianca e potente Inghilterra soltanto uno, nel 1966, giocato in casa con il favore degli dei e degli arbitri. E allora qual è il mistero, l'enigma, l'alchimia che fa il grande giocatore? Su se stesso, attaccante universale, Vialli non ha dubbi: la sua forza era il "Delta" bassissimo, un differenziale quasi zero nel rendimento su sforzi ripetuti, vale a dire la potenza costante sull'arco di 15-20 scatti, finché il difensore avversario, magari più veloce, non crollava nel confronto fisico. Mentre per gli altri giocatori occorre una valutazione più complessa, che si raffigura nel "quadrilatero di Vialli", quattro dimensioni che tracciano gli assi della forza atletica, dell'intelligenza tattica, della tecnica di gioco, e dei già citati "attributi". In base a queste nozioni, si capiscono meglio le personalità dei giocatori e lo spirito delle diverse scuole calcistiche. Ma il colpo di genio? Il "numero" che annichilisce gli avversari e un intero stadio, il colpo alla Ronaldinho, le invenzioni stratosferiche di Diego Armando Maradona? C'è posto per il talento assoluto nel calcio spot di Vialli? Ma certo: talvolta anzi il colpo di tacco o il tiro a parabola da 50 metri sono un'esigenza assoluta e superiore, che soltanto il fuoriclasse avverte come necessaria: qualcosa che equivale «alla Gioconda di Leonardo, o all'inno americano di Jimi Hendrix a Woodstock»: opere che si potevano fare diversamente, ma che per passare nel mito dovevano essere portate al rango di eccezioni pure. Come il calcio tutto mentale e tutto fisico di Vialli, modernità assoluta, autorappresentazione Zen, esercizio psicologico totale, che ancora attende di trovare un'applicazione in campo, da parte del suo ideologo. n
L'Espresso, 18/01/2007
Piccola katy batte Figaro
Gli austriacanti non sono ancora riusciti a convincersi che il concerto di Capodanno da Vienna con tutti i valzer canonici e la direzione di Zubin Mehta, mica un pinco qualsiasi, venga mandato in differita nel primo pomeriggio, e piuttosto che seguire la rassegna canora e musicale dalla Fenice, dove immancabilmente professionisti volonterosi eseguono "Figaro qua e Figaro là" e "Va' pensiero", ossia i brani più ovvi della tradizione lirica italiana, emigrano nel satellite, come poveri esuli, per assistere al concertone in diretta e respirare aria di Mitteleuropa. Naturalmente agli austriacanti viene voglia di ricorrere spiritualmente all'immortale paradigma della roveretana Isabella Bossi Fedrigotti, cioè «amore mio, uccidi Garibaldi»; ma prima di attuare propositi terroristici sarà il caso di ricordare che quest'anno il vero concerto di Capodanno è andato in onda su Italia 1, ed era uno stratosferico concertone dei Pooh davanti a un pubblico adorante. Vabbè: sappiamo tutti che a voi intellettuali i Pooh non piacciono. Siete snob, siete aristocratici. Ma se invece siete molto più chic, avrete già ammesso che comunque sono professionisti di livello assoluto (non vale dire che in quarant'anni di carriera avreste imparato a suonare anche voi). E ciò che allora non stupisce è che il larghissimo pubblico che si ritrova a ogni esibizione di Roby, Dodi, Red e Stef è davvero entusiasta, e conosce le parole delle canzoni più sconosciute. Ovvero: voi siete di quei ciniconi che hanno apprezzato la battuta concessa da Giorgio Faletti al grande critico Antonio D'Orrico: «I Pooh hanno fatto tanti di quei lifting che con la pelle rimasta hanno fabbricato un bambino di sei anni»; ma qui il cinismo non serve a niente, perché se i Pooh sono ancora lì che si sbattono vuol dire che riescono ancora a farcela. Insomma, voi sarete di quelli che ricordano tutt'al più "Piccola Katy" e "Pensiero", ma non crediate per questo di essere à la page. Mentre voi seguite musica fastidiosissima, massimalista o minimalista, i Pooh fanno il loro duro lavoro e portano a casa la serata. Tanto varrebbe ufficializzare la loro presenza il primo dell'anno, fargli eseguire l'inno nazionale, e subito dopo "Tanta voglia di lei", per finire con la "Marcia" di Radetzky. Se dev'essere una cosa italiana, il concerto di Capodanno sia un trionfo dell'italianità: e in questo senso, chi è più fratello d'Italia dei Pooh?
L'Espresso, 11/01/2007
Se Fabio diventa Bruno
Chissà dov'è il segreto di Fabio Fazio, si chiedono i più sospettosi. Forse nel binomio di nome e cognome, direbbero gli enigmisti alla Bartezzaghi: cambio di consonante, cinque lettere, un presagio di abilità combinatoria fin dal battesimo. Ma prima di consultare gli oroscopi, vale la pena di identificare il clamoroso e ormai inarrestabile successo di "Che tempo che fa", titolo opportunamente a metà strada fra un interrogativo e una constatazione. Programma cominciato in sordina qualche stagione fa, programma programmatico, prima minimalista e via via cresciuto ad autentico cult, anzi must, isola felice fuori dalla televisione trash, perla assoluta di Raitre. Un delirio. Tanto che non conviene tornare di nuovo sul cosiddetto e da lui detestato "fazismo", cioè la tipica capacità di Fabio di situarsi ogni volta al confine massimo della trasgressione consentita senza superare il limite dello sgarro quasi vietato (per quello c'è la Littizzetto, quella che sta facendo impazzire la top ten con il suo nuovo e un po' vecchio libro, "Rivergination", che viene dopo i successi della gamba di sedano e altre questioni ortofrutticole). Quello lo si sapeva: Fazio è l'equivalente televisivo di Walter Veltroni. L'attuale sindaco d'Italia con "l'Unità" aveva riciclato gli album delle figurine Panini e i Vangeli; Fazio con "Anima mia" aveva dettato il codice del gusto nazionale e della generazione dei baby boomer, ossia un tanto di nostalgia, un po' di atteggioneria, una parte di commozion picciola, mimetismi, giochi mnemonici, un nonsoché di ironia, uno spruzzo di Claudio Baglioni e una scorza di Cugini di campagna: tanto che Baglioni c'è rimasto intrappolato e dopo Heidi e le caprette che fanno ciao si è autoimposto di clonare anche i "Cinque minuti e poi" di Maurizio ex New Dada (ma non gli viene troppo bene il «Bugie!... Bugie!...» finale in cui il biondo Maurizio eccelleva e faceva singhiozzare le girls). Quindi per provare a capire Fazio e la sua fenomenologia, sarà il caso di liquidare senza rimpianti tutto il lessico che designa la sinistra à la page, a cominciare dai termini "piacioneria", "buonismo", forse anche "concertazione" e "partito democratico". Non conviene neppure mettersi ad analizzare le convenzioni postideologiche e postmaterialiste, proprio nel senso dei politologi Crouch e Inglehart, che fanno da pilastro culturale al mondo della "Fazio's Version". Diamolo per scontato: quella di "Che tempo che fa" è la sinistra che piace (e piacere non è mica un peccato), aperta al nuovo, ai Pacs, opportunamente riflessiva sull'eutanasia, esplicitamente pacifista, terzomondista ma anche consumista, ecologista ma non indifferente alle comodità del Suv, proiettata nella modernità e anche oltre, ma affettivamente legata ai ricordi evocati da Enzo Biagi. Sicché conviene piuttosto prendere alla lettera il paradigma che ormai dilaga, secondo cui "Che tempo che fa" è il vero "Porta a Porta" dei tempi nuovi unionisti, e Fazio ha sostituito Vespa nella centralità repubblicana, come terza camera o salotto tv decisivo per l'evoluzione non solo politica del paese. Con una differenza, tuttavia: in quanto "Porta a Porta" è ufficiale, "politicienne", convenzionale, rivolta a un pubblico di settore oppure destinato alla fisiologia del dormiveglia da terza serata, quando la politica non riesce a guardare oltre la fase due ma si sporge coraggiosamente al di là della mezzanotte. Invece "Che tempo che fa" è un programma da scegliere, mimetizzato com'è nel palinsesto, con un pubblico fidelizzato, che nel tempo ha imparato a conoscere Ilary Blasi, "Silvio" Cornacchione, e poi via via tutti i protagonisti e gli ospiti di Fazio, dal "shakespeariano" Paolo Rossi al talento lunatico di Maurizio Milani, tutti scelti comunque con spirito abbastanza bipartisan per non essere attribuito alla "faziosità", e soprattutto con quella commistione di sacro e profano, «Eminenz! Pandoro o panettone, ci dia una linea», e poi con il sincretismo onnivoro di pubblico e privato, alto e basso, kitsch e cultura, che è la cifra definitiva della sigla "Fabiofazio". C'entrerà il tocco di Michele Serra, il glam intellettuale di Giovanna Zucconi, la presenza di star letterarie internazionali come David Grossman e di autori di bestseller come Corrado Augias con l'"Inchiesta su Gesù", ma il successo di Fazio dipende soprattutto dall'integrazione esatta, senza residui, fra il programma e il suo pubblico. Ecco che questo pubblico medio e riflessivo applaude l'ex ministro Beppe Pisanu, che parla dei possibili o impossibili brogli, e lo applaude con chirurgica precisione in quanto ex dc di sinistra, ancorché forzitaliota, membro a suo tempo della zaccagniniana Banda dei quattro, e quindi politico "serio", erede di una tradizione non più deprecabile (dal canto suo, Fazio non cade, come i suoi nemici gli rimproverano per sentito dire, nell'elusività più ovvia, e difatti alla fine porta la domanda fatale: ministro, perché la sera dello scrutinio è andato a casa di Berlusconi? E si ritira soltanto davanti alla comica spiegazione di Pisanu, sono andato a illustrargli la regolarità della giornata elettorale, senza incalzarlo: caro ex ministro, non bastava una telefonatina?). Oppure, altro momento clou e rivelatore, quando Pietro Ingrao viene a presentare la sua autobiografia "Volevo la luna", e con un lapsus formidabile dichiara che il Pci aveva preso aspre distanze dall'invasione dell'Ungheria (si trattava in realtà della Cecoslovacchia, più di vent'anni dopo): tutto il pubblico e lo stesso Fazio non obiettano nulla, neanche con un mormorio, un colpo di tosse, un'occhiata di sbieco, perché in quel momento si sta celebrando l'apoteosi senescente ma non senile di un comunismo impossibile, l'utopia, il grande sogno, l'assalto al cielo, e quindi tanto peggio per i fatti, se i fatti interrompono un'emozione. Ed è anche per questa identificazione totale fra programma, conduttore e pubblico che la factory di Fazio è diventata un'autentica galleria dei maestri più venerati e venerabili della scena italiana postrema: Eco, Magris, e poi Fruttero e Rigoni Stern: questi ultimi spediti immediatamente ai vertici delle classifiche dei libri, dopo anni commercialmente non significativi: perché evidentemente la sinistra consapevole ama i maestri, e più sono vecchi più li ama, e vuol far vedere in ogni modo che li ama; e Fazio, il capo dei ceti medi riflessivi, lo ha capito, lo ha sempre capito, forse in realtà lo ha sempre saputo. n
L'Espresso, 11/01/2007
Lo choc è nostro gli affari loro
Lo spettatore non abituale può anche restare scioccato se gli capita di rimanere sintonizzato su Raiuno dopo il Riotta-tg delle 20 e si imbatte nella nuova edizione di "Affari tuoi". Per capirci, l'aggettivo "nuova" si riferisce al fatto che il conduttore è un attore, Flavio Insinna, sicché tutti gli inesperti di tv, ritrovatisi insieme nelle riunioni famigliari postnatalizie, si chiedono: ma dov'è finito coso, Pupo?, e sospettano immediatamente oscure trame e macchinazioni contro l'omino che aveva sostituito Bonolis. Già, Pupo. Conclusione generale, mentre Insinna comincia il suo personalissimo show: Pupo? Boh. Lo choc dipende dal fatto che nei primi minuti di "Affari tuoi" non si capisce assolutamente niente. È la più convenzionale televisione caciarona, indifferente se il cda è della Casa o dell'Unione, se direttore è Tizio o Caio, Meocci o Cappon (a proposito: sarebbe di qualche moralità pubblica se i 14 milioni e rotti di multa alla Rai per l'assurda nomina a direttore generale dell'incompatibile Meocci fossero accollati ai brillanti consiglieri d'amministrazione che diedero il via libera, così almeno c'è qualcuno che paga e la prossima volta i responsabili ci pensano, prima di fare monate). Comunque, per tornare a "Affari tuoi", si tratta di un programma connettivo, quel genere di tv che può funzionare soltanto per telespettatori intossicati, che se ne stanno ipnotizzati davanti al teleschermo a bocca semiaperta: non appena parte il giochetto dei pacchi, non si capisce praticamente niente, fra urla belluine, applausi, trilli del telefono, ancora grida e nessun sussurro. Quando si riesce a ricostruire la trama del gioco, che è sempre il solito, viene in mente all'improvviso che la televisione è davvero razzista: per il pubblico brutto sporco e cattivo, quello che si limita talvolta a pagare il canone, ci sono quintalate di marmellata cattiva; gli altri, che hanno due soldi in più da spendere, possono andare alla ricerca della qualità, sul satellite o nel digitale. Disarmante, "Affari tuoi", e sia detto senza altezzosità: per dire, un popolare come Gerry Scotti non è mai precipitato così. E poi dicono che Raiuno sarebbe l'ammiraglia. Se fosse davvero così, ci sarebbe almeno il gusto di affondarla. Mentre allo stato attuale, forse l'unica possibilità è di mandare in miseria quei suddetti membri del cda. Così, senza cattiveria, soltanto uno sfizio: "affari nostri".
L'Espresso, 04/01/2007
Chissene frega di Lele Mora
Si è già registrato il crollo piuttosto improvviso dei reality show; se tanto ci dà tanto adesso dovremmo essere giunti alla crisi del mondo velinaro, cioè pupe e calciatori, madame e salotti televisivi. Si dà il caso che le inchieste del pubblico ministero Woodcock fossero succulente, ma che non abbiano bucato definitivamente la cronaca. Per cui è opportuno chiedersi: e se dopo avere liquidato grandi fratelli e isole dei famosi lasciandoli alla fascia premoderna del pubblico, o ai nostri vizi sporadici, quelli a cui ci si concede nei momenti di noia, fosse venuta la voglia di abbandonare anche il mondo briatoreo di Porto Cervo e Poltu Quatu, dei tatuaggi e dei party, degli happy hour e degli incontri al sushi bar che preludono a una follia in discoteca? Sia detto tutto questo senza moralismi, naturalmente: ma soltanto perché un certo effetto di saturazione è ormai incombente da tempo, percepibile nello spirito del tempo. Succede allorché sulle pagine dei rotocalchi specializzati campeggiano facce e nomi sempre più difficili da ricordare, perché ascrivibili a programmi televisivi mai visti o a reality non decollati. Sicché alla lunga risulta insignificante leggere l'ultima intervista dell'"esterno" Coco, che sarebbe poi un terzino che ha cambiato diverse squadre senza imprimere svolte tattiche epocali, o l'ultima dichiarazione della Gregoraci, pupa che non sembra avere lasciato troppe tracce artistiche nella contemporaneità. Bisognerebbe per di più mettere agli atti che se anche il maestro e capostipite del gossip come genere mediatico e letterario, Roberto D'Agostino, si dedica sempre più volentieri alla ricostruzione di trame economiche, editoriali, bancarie e politiche, anziché concedere spazio su Dagospia ai mignottoni e alle mignottine, per questo vistoso spostamento d'interesse una ragione ci sarà. Non è la dimostrazione effettuale di un salto di qualità del paese, il passaggio dal trash a un nuovo impegno: si tratta più verosimilmente di una saturazione. Rotocalchi specializzati, palinsesti delle tv, programmi contenitore, ma anche la stampa d'informazione, hanno contribuito all'inflazione debordante del genere "spettegulèss". Alla fine, viene naturale il più immediato dei chissenefrega. Chissenefrega di Lele Mora in versione antico romano che si fa massaggiare i piedi dai giovanottoni, chissenefrega del calciatore beccato all'uscita della discoteca con l'altra, chissenefrega dell'orgia gay di una riserva della nazionale sullo yacht in Costa Smeralda. Anche perché non sarà questa la decadenza del paese, non sarà paragonabile al declino e alla caduta dell'impero romano: ma sembra piuttosto vero che l'opinione pubblica si è data al veliname e al mondo gossiparo come per prendersi una vacanza. Boys, è una dozzina d'anni che siamo schiacciati dal confronto su Silvio Berlusconi, oberati dal problema del risanamento, incalzati dai parametri, premuti dalla questione dell'avanzo primario e dalla riconversione dell'apparato industriale, per tacere dello sradicamento culturale e ideale indotto dal crollo delle ideologie e dei partiti. E quindi s'era detto, con un novecentismo adeguato ai tempi nuovi: lasciateci divertire. Va da sé che quel divertimento era un peccatuccio, e conteneva il proprio rimorso, la coscienza che si doleva: mentre si seguivano le vicende matrimoniali di Ventura e Bettarini o i fidanzamenti marinari e navali di Briatore, così come il contrastato amore fra Bobo ed Elisabetta, e le feste monstre del Cavaliere a Villa Certosa, comprese le eruzioni vulcaniche in offerta speciale, una vocina sussurrava infatti che sarebbe stato il caso di approfondire, che so, la faccenda della costituzione europea e la strategia per il Medio Oriente, e magari la ricostruzione del partito socialista in Francia e la rinascita dei democratici negli Stati Uniti. Adesso sembra venuto il tempo di tornare a sprovincializzarsi. Perché la ricreazione gossipara e velinara è stata divertente, ma ha significato anche un cercare riparo nelle pieghe tiepide della società nazionale, in una comunità che aveva deciso di preferire l'intrattenimento all'approfondimento. Non poteva durare. Il gossip può essere una parentesi, ma non contribuisce alla cultura diffusa, non aumenta il Pil, non incrementa la produttività e quindi la capacità competitiva sui mercati. Nel momento in cui le veline hanno stufato, si può soltanto pensare che hanno avuto un ruolo in una fase di passaggio, nella solita transizione, e che probabilmente in futuro ne avranno uno molto minore. Ce ne faremo ben presto una ragione. E forse, fra qualche stagione, qualcuno rimpiangerà, con la solita nostalgia, il tempo magico delle veline, cioè del nostro divertente disimpegno.
L'Espresso, 04/01/2007
La politica sarà un reality
Televisione al bivio, dicono. Da una parte più trash e intrattenimento al ribasso, dall'altra più cultura, impegno, attualità, cronaca, approfondimento, come chiedono gli spettatori più pensosi. Ma è un'alternativa reale? Perché è vero che a guardare i dati di ascolto del 2006 la "forma trash" per eccellenza, cioè i reality show, sembra soffrire di una crisi potenzialmente terminale. Crisi di assuefazione, crisi di saturazione. Si direbbe in sostanza che il reality abbia dato quasi tutto ciò che poteva dare: ha fatto il suo lavoro, dato che doveva rendere permeabile il diaframma tra pubblico e protagonisti televisivi. "Grande Fratello" o "L'isola dei famosi", insieme con tutti i loro epigoni, avevano un compito sociologicamente importante. Si trattava di portare lo spettacolo televisivo a contatto diretto con gli spettatori, riducendo al minimo la distanza fra lo show e le platee tv. Nel reality classico lo spettatore partecipa, almeno in quanto voyeur. Per questo, anche la scelta dei protagonisti risponde a criteri di efficacia nell'identificazione: soprattutto nei reality basati su storie concentrazionarie, in un contesto totalizzante ed esclusivo, isola o appartamento Ikea, ciò che conta è mettere a disposizione dell'audience figure semiriconoscibili, quasi star di cui il pubblico può individuare facilmente la caratura, giungendo a considerarle dopo qualche tempo come figure non lontane dal proprio vissuto. Con l'andar del tempo, questa essenza dei reality è divenuta fin troppo rintracciabile. Anche gli spettatori meno disincantati se ne sono accorti. Se all'inizio è divertente identificare la normalità di Carmen Russo o Al Bano rispetto all'"Isola" o l'eccezionalità di Loredana Berté in "Music Farm", e se per qualche tempo ci si poteva vagamente interessare a una love story fra due cantanti segregati, alla lunga la ripetitività e la prevedibilità portano a decodificare il reality show nel segno della totale normalità. È per questo che ha avuto successo improvviso e clamoroso l'iper-reality "La pupa e il secchione", portato dalla coppia diabolica Fabrizio Rondolino e Simona Ercolani a effetti volutamente parodistici, con l'aggiunta di risate registrate a sottolineare le performance culturali "incredibili" delle pupe. Come si intuisce, se il reality diventa un reality al cubo, si esaurisce l'illusione del realismo. Lo show diventa a tutti gli effetti televisione pura, intrattenimento autoreferenziale, senza nessun intento mimetico o di rivelazione sociologica. Nel carnevale delle pupe e dei secchioni, ogni eccesso di ignoranza civile o di deficit culturale diventa plausibile in quanto funzionale al divertimento collettivo. Il pubblico finge di credere al vuoto mentale delle ragazze e in qualche misura lo trova ben presto rassicurante: siamo tornati nella sfera dello spettacolo, in una dimensione decifrabile, "scritta", pensata in funzione della risata liberatrice. La tv torna a essere se stessa, ripristinando una distanza effettiva fra realtà e fiction, tra la vita e la soap opera. Da questa parte, ovvero dalla parte dello spettatore, c'è la densità dell'esistenza; di là, oltre lo schermo, c'è una finzione scritta e di nuovo identificabile. Eppure, consegnato il reality alla sua sorte, è piuttosto dubbio il ritorno alla tv pensante e pesante. Anzi, la tendenza ipotizzabile potrebbe essere piuttosto quella di proiettare all'estremo la tv attuale. Sappiamo già da tempo che l'identità televisiva tende ineluttabilmente a privilegiare la maschera sul volto. E certo non da oggi: la maschera di Aldo Biscardi con il "Progiesso" ha segnato quasi un trentennio di Bar Sport televisivo. Mentre Marco Giusti ha raccolto di recente in un libro e dvd "Il meglio di 90° minuto", in cui il teatrino condotto da Paolo Valenti, Tonino Carino, Giampiero Galeazzi, Luigi Necco e Giorgio Bubba assurge al rango di commedia dell'arte. Adesso i protagonisti della tv generalista sono quasi sempre estremizzazioni di una identità. Vittorio Sgarbi, prima degli impegni governativi o assessorili, era l'incarnazione freak dell'insofferenza litigiosa; Aldo Busi non era il bravo scrittore ma l'interprete di un'omosessualità spettacolarizzata; e d'altronde soltanto gli ingenui pensano che ci sia da una parte la televisione "di qualità", quella di Piero Angela e dei documentari, e dall'altra l'intrattenimento basso-popolare, quello di "Buona domenica" e di "Domenica In". Una volta che si è capito che la tv è la tv, un flusso continuo di immagini e suoni, resta soltanto il problema di come intensificare l'irrealtà televisiva portandola a una specie di irresistibile superfetazione, a una metastasi incontrollabile dei significati. Dev'essere per questo che anche lo spettacolo tradizionale è andato in crisi. Perché la tv normale ed estrema del nostro tempo fa diventare noioso lo show classico, quello con Gianni Morandi che canta l'ultima canzone e duetta poi con Catherine Deneuve. In modo analogo, quasi tutti i programmi "di genere", da "Zelig" a "Crozza Italia", hanno mostrato i loro limiti. Perché sono prevedibili, accertabili, poco sorprendenti. Se la tv ha bisogno di mostri, allora un possibile programma-paradigma, o programma-manifesto, è il "Rockpolitik" di Adriano Celentano, in quanto promette sempre uno choc percettivo, la promessa dell'inafferrabilità ideologica e narrativa. Ecco allora che il binomio programmatico della scelta fra "rock" e "lento" si rivela un criterio personale proposto agli spettatori con un tono di piccola quanto evidente provocazione: soggettività assoluta che si offre al pubblico come se avesse fondamenti oggettivi (mentre il "ce l'ho" e "mi manca" inventato da Diego Cugia per Morandi contiene ancora una parte consistente di realtà, non di reality, dato che richiama elementi storici, morali o nostalgici, scelte di campo affettive o culturali anziché più esplicitamente di gusto e di arbitrio). In sostanza, lo schema che si sta affermando è quello della forzatura dei format. Come l'irruzione campale di Fiorello, annunciata da grandi titoli sui quotidiani, che scompagina anche i palinsesti e talora addirittura l'agenda politica della giornata e della settimana. Ma anche "Che tempo che fa" di Fabio Fazio è cresciuto in modo forse imprevedibile dalla struttura del talk show a quella della trasmissione evento, in cui gli elementi spettacolari si mescolano con quelli di attualità, con la Littizzetto anti-Ruini che vale, sul piano del messaggio politico, la testimonianza di Enzo Biagi post-Berlusconi. Stando così le cose, sarebbe curioso immaginare come possono trasformarsi i programmi di approfondimento quotidiano o settimanale come "Porta a Porta", "Ballarò", "Matrix", "Annozero". Anzi, è probabile che il grado successivo di evoluzione delle trasmissioni fondate sul talk show politico sia la possibile esplosione della loro struttura. Altro che approfondimento: si tratta di trovare un Freccero, un Ghezzi, un Ricci che trovino il modo di introdurre una carica di esplosivo nel format, facendolo deflagrare verso un genere inedito. D'altronde, era stato proprio Bruno Vespa a innescare la trasformazione del dibattito politico immettendo nell'ufficialità schegge devianti (il risotto di Massimo D'Alema con Vissani, il diritto e rovescio di Giuliano Amato in un improvvisato scambio a tennis con Panatta). Occorre un talento televisivo che si applichi alle trasmissioni "politiche", curvandole verso esiti esclusivamente spettacolari. A quel punto, il dibattito potrebbe essere confinato in un set a parte, con un collegamento di tanto in tanto ed eventualmente una cronaca riassuntiva, mentre in primo piano andrebbe una discussione sul campionato o un approfondimento su Lele Mora. Oppure ancora: trasformare la discussione ideologica in una sceneggiatura, in cui Giulio Tremonti e Pier Luigi Bersani recitano la loro parte, come in una commedia. Ma si potrebbe anche applicare la tecnica del reality all'approfondimento politico: niente tema del giorno, niente intervista, zero domande. Una telecamera che segue gli ospiti, un prosecchino e due olive, e poi chiacchiera libera, per vedere se e come i protagonisti del conflitto politico trovano un terreno di dialogo. E a sua volta la fiction potrebbe essere trasferita al livello di massima contemporaneità: si è già visto che fra i tv movie di maggiore successo figurano quelli che riportano in scena papa Wojtyla e Padre Pio, cioè figure prossime all'attualità; e allora non ci vorrebbe molto a sceneggiare la notte delle elezioni del 10 aprile 2006, con belle interpretazioni di Fassino, Pisanu, Berlusconi, come pure l'elezione di Giorgio Napolitano o la formazione del governo Prodi. Altro che approfondimento: si tratta di sovrapporre in modo simultaneo gli eventi alla narrazione facendoli diventare capitoli di una story televisiva che non si interrompe mai, e che si affianca al presente senza soluzione di continuità. Perché il destino della televisione non consiste nel tornare alla realtà, o nell'approfondirla, ma nel prendere la cronaca e la politica facendole diventare coerente racconto televisivo, pura realtà elettronica. Se nulla esiste, infatti, fuori dalla televisione, allora tanto vale assumere la realtà esclusivamente come un materiale trattabile, sostanza grezza che l'occhio della tv provvederà a rendere vero. O più vero del vero, magari. n
L'Espresso, 04/01/2007
Perduti nella fiction
Se si vuole capire che cos'è un'occasione perduta va vista la fiction "Raccontami" che intende raccontare la nascita di una modernizzazione (in onda su Raduno la domenica e il lunedì, prima serata, per 13 puntate; story editor Stefano Rulli, sceneggiatura di Gloria Malatesta e Claudia Sbarigia, regia di Riccardo Donna e Tiziana Aristarco; la serie è l'adattamento di un format spagnolo, perché adesso esistono i format anche per la fiction). Anno 1960, Olimpiadi di Roma, famiglia romana di un ceto popolare. Voce fuori campo (che in una fiction andrebbe proibita per legge), una citazione d'epoca dietro l'altra, Vespe, Lambrette, elettrodomestici. Tutto questo per provocare l'effetto nostalgia, che in effetti si verifica, dato che la fiction raggiunge il 25 per cento di share. Piace riassaporare gli anni di Abebe Bikila, il maratoneta scalzo, rivedere i 200 metri dorati di Livio Berruti, provare la piccola emozione di quando si può verificare l'esattezza di una ricostruzione in cui siamo passati tutti. E da questo punto di vista il gioco funziona, a parte alcune sviste sociologiche; le trame sono abbastanza ben intrecciate, con gli opportuni colpi bassi come quando il bambino incontra l'uomo senza scarpe, Bikila, e poi lo vede vincere in tv (ma i poveri, bisognerebbe saperlo, non avevano ancora la tv). Il modello centrale, quello nobile, è "Heimat"; il corrispondente politico-ideologico è "La meglio gioventù". La recitazione ha qualcosa da invidiare al "Medico in famiglia". Dov'è dunque l'occasione perduta? Ma nel solito flop dell'interpretazione, tipico di larghissima parte della fiction italiana. Massimo Ghini, il capofamiglia, incombe in ogni scena facendo le battute e il commento, il davanti e il didietro, la botta e la risposta. Ci sono figurine talmente stereotipate da apparire insopportabili, o irrealistiche. Sicché si è costretti ad apprezzare Lunetta Savino, che è una caratterista ma sa il suo mestiere. Non si può pretendere che un format racconti la storia di una nazione. Ma un minimo di precisione e anche di crudezza in più, di convenzionalità in meno, avrebbe dato al film l'aspetto della realtà: così invece sembra un sogno della realtà. Fino ad apparire poco credibile, troppo programmatico, borghese quando dovrebbe essere operaio. Si fa guardare, per carità: ma alla fine lascia il senso di un travisamento, non di una ricostruzione e di una memoria.
L'Espresso, 12.04.2007
Striscia il dilemma
Il fatto che un paio di settimane fa sia stato assegnato a "Striscia la notizia" uno dei più importanti premi tv, una cosa laica tipo Telerazzi & Teleantenne oppure cattolica come l'Academic Tv Award del Bambin Supremo, potrebbe fregare giustamente un tubo a nessuno. Ma l'occasione è ghiotta, e fa l'uomo ladro, per una disamina (come scrivono i giornali, quando sono buoni e non corrompono in "disanima") approfondita del programma di Antonio Ricci. E qui ci vuole una scappellata, di quelle con il sombrero, perché Antonio Ricci, insieme a Enrico Ghezzi, Carlo Freccero, Marco Giusti e pochi altri, è uno dei cattivi ragazzi (vabbé) che hanno cambiato la televisione. E quindi per tracciare un bilancio di "Striscia" non vale porsi la domanda se il programma sia o non sia il telegiornale alternativo, quello che fa le inchieste che nessuno fa più, e robette del genere. Conviene invece mettere sotto osservazione, o sotto processo, la personalità di Ricci. Situazionista, si dice sempre in questo caso, "debordiano" e anche un po' debordato, comunque anarchico e forse anche insurrezionalista, in termini televisivi s'intende. Ci vorrebbe l'autorità magistrale di Umberto Eco, in uno dei suoi diari minimi, per inquadrare semiologicamente l'animo regicida di Ricci, uno degli ultimi eredi di Franti e dell'anarchico Bresci (intanto grazie a tutti per il povero Passannante, che pare restituito a sorte umana, e non condannato per l'eternità ad avere il cervello in un museo). Salvo poi porsi la domanda che ha angustiato le migliori menti della nostra generazione. No, non se "Striscia" è di destra o di sinistra, e nemmeno se, fatti tutti i conti, è contro il regime o invece ne sia sottilmente. E neppure se i programmi di Ricci sono "moderni" o "arcaici", chiedendo al campione statistico rappresentativo di mettere la crocetta. La domanda che incombe è se "Striscia" ha modificato il gusto e il costume degli italiani. Ebbene sì. Perché se non ha modificato il gusto, con Greggio e Iachetti e con tutta la sfilata di conduttori che ha avuto, ci dispiace per Ricci: il suo programma è una menata. Ma se invece ha modificato il costume, niente ci impedirà di affermare che "Striscia" è la modernità, anzi, che insegna la modernità alle babbione e ai babbioni, dà lezione di postmoderno, condiziona alla tv che verrà. Presi da questo cruciale dilemma, intanto aspettiamo il prossimo premio, e si vedrà.
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