L’Espresso
L'Espresso, 02.08.2007
Più candidati più Prodi
Romano Prodi lo aveva detto tre settimane fa che i giochi per la leadership del Partito democratico non erano già fatti: «C'è spazio per candidati, programmi, liste e progetti». E dire che in quel momento Walter Veltroni sembrava già insediato, o già plebiscitato, anche se non era ben chiaro da chi. Da D'Alema e Marini con la tutela di Fassino. Dalla volontà collettiva. Dalla paura di vedere la sinistra dissolversi, com'era accaduto al Nord con le amministrative. In ogni caso il sentimento generale appariva chiarissimo: era meglio non disturbare la corsa del sindaco di Roma, agevolarne la campagna in modo da renderla praticamente un passeggiata, darsi un appuntamento senza fisime "democraticistiche" alla data del 14 ottobre, il gran giorno dell'assemblea costituente del nuovo partito e procedere alla beatificazione di san Walter. C'era qualche ragione plausibile per trasformare una scelta politica in una designazione dall'alto? In effetti l'invito a Veltroni a rimettersi in gioco nella politica nazionale era avvenuto in uno dei momenti di massima crisi di consenso del governo, con i sondaggi a picco e la popolarità di Prodi al minimo, e Veltroni veniva individuato come l'ultima carta possibile per rifare il maquillage al centrosinistra e ridargli un appeal pubblico. Per questa ragione Piero Fassino invitava tutti i possibili contendenti a non rompere «l'unità riformista», senza preoccuparsi della infelice sonorità dell'espressione. Certo, in questo modo si ammainava la bandiera di almeno un possibile altro candidato forte, quella di Pier Luigi Bersani, l'uomo del riformismo liberalizzatore e della crescita, vicino alle imprese e all'economia, capace di parlare agli establishment confindustriali e alle categorie. Si è trattato di una perdita secca: può darsi che con la sua rinuncia, concessa per evitare «il disorientamento del nostro popolo», Bersani abbia anche abdicato a funzioni di leadership in futuro. Inoltre non risultava particolarmente elegante o attraente che si desse per già definito il ticket veltroniano, con l'autodesignazione di Dario Franceschini nel ruolo di numero due. E nemmeno che la "fusione fredda" di Ds e Margherita avvenisse come una manovra decisa al vertice, con il rischio incombente di una serie di liste collegate al leader predesignato (una specie di riedizione postmoderna del centralismo democratico incrociato con il correntismo democristiano). Tanto più che l'incoronazione di re Walter avrebbe presumibilmente marginalizzato il governo, e ridotto Prodi al rango di amministratore delegato, se non di curatore fallimentare, della coalizione, in attesa di essere sostituito al primo rilancio politico del centrosinistra. Va da sé infatti che nel momento dell'insediamento di Veltroni come leader del Pd, sarebbe cominciata anche la sua campagna politica per recuperare il favore dell'elettorato. Con un "fresh start" come i democratici americani dopo l'era Clinton, e magari una "rupture" alla Sarkozy, per riprendere credibilità, consenso e potenzialità elettorali. Il governo sarebbe diventato un esecutivo a termine, in attesa di un nuovo confronto politico ed elettorale con il centrodestra da giocare con modalità nuove e non del tutto prevedibili, ma puntando sulla freschezza politica del veltronismo. È cambiato qualcosa? Almeno a sentire l'ambiente di Palazzo Chigi il cambiamento è netto: con l'ingresso in campo di due figure come Rosy Bindi e Enrico Letta i giochi si fanno meno scontati. Non tanto perché viene messo in discussione il risultato finale (naturalmente Veltroni è sempre il favorito), ma perché dovrebbe aprirsi una competizione, muoversi il dibattito, cominciare un confronto: ed è verosimile che in questo scenario più mosso il governo guadagni tempo. Il mese di campagna per le primarie potrebbe occupare una buona parte dello spazio mediatico; un risultato non "bulgaro" del voto dei simpatizzanti del Pd metterebbe Veltroni e Prodi in un rapporto più equilibrato. Ma l'effetto di primarie autentiche sarà ancora più evidente nell'opinione pubblica perché metterà a confronto ispirazioni culturali diverse: è vero che nel discorso torinese del Lingotto Veltroni è stato onnicomprensivo per saturare l'orizzonte politico della nuova ideologia "democratica". Tuttavia l'apparizione della combattiva Bindi (donna, non romana, non socialista, non ex comunista) arricchisce il dibattito portando nell'arena del Pd temi che appartengono tradizionalmente alla storia del cattolicesimo democratico; e l'ingresso in campo del quarantenne «post-ideologico» Letta propone un'ipotesi tipicamente liberal-riformista, agganciata alla realtà dei settori produttivi, in grado di dialogare con i ceti delle aree più sviluppate del paese. E in aggiunta Letta è dotato di una rete di rapporti coltivata fin dai tempi in cui era il ragazzo di bottega di Nino Andreatta nel centro studi dell'Arel, ed è portatore di una visione riformista di matrice europea, maturata nella sua formazione e a contatto con gli ambienti istituzionali della Ue. In sostanza, il Partito democratico "a corsa multipla" ha l'aspetto di un partito visibilmente meno finto di quanto non apparisse dopo i due congressi finali dei Ds e della Margherita. C'è un leader in pectore, Veltroni, che al di là dell'impianto della sua proposta si candida come un possibile miglior regista della coalizione, dall'Udeur a Rifondazione comunista. Enrico Letta è l'esponente di un riequilibrio riformista dell'alleanza, e l'interprete di un mondo che Veltroni conosce meno (anche se non è da sottovalutare il quasi endorsement di Luca Cordero di Montezemolo, a testimonianza che la concezione veltroniana della politica può attrarre le élite più attente al glamour "postmaterialista" e alla comunicazione). Rosy Bindi introduce una forte componente "di genere" e un'istanza di laicità sperimentata con determinazione e duttilità all'epoca della proposta di legge sui Dico. Insomma non è a priori una competizione artificiosa, e il partito può non essere un prodotto artificiale. Degli altri cinque candidati, Furio Colombo rappresenta una testimonianza antiberlusconiana, un pezzetto dell'eredità girotondina. Quanto a Marco Pannella, la sua autocandidatura, rigettata dall'ufficio di presidenza, rappresentava una provocazione al Pd, non del tutto superflua ma funzionale più al leader radicale che alle sorti del Partito democratico. I candidati eccentrici (il rappresentante delle comunità montane Lucio Cangini, il blogger ex capo dei giovani del Ppi Mario Adinolfi, l'esperto di finanza etica Jacopo Gavazzoli Schettini) rappresentano quel tanto di personalismo volontaristico che si manifesta nelle gare aperte. Un po' di folklore, un po' di civismo, un'opportunità di guadagnare la scena per qualche settimana. Ma è chiaro che in questo momento la posta in gioco riguarda la configurazione del Pd e il suo ruolo all'interno dell'Unione. Va considerato che il partito nascituro è una formazione largamente eclettica, pochissimo ideologica, scarsamente omogenea sul piano culturale. Il suo format politico deriverà in buona misura dai rapporti di forza tra le personalità al suo interno. E il punto forse decisivo della sua azione dipenderà dal ruolo che il Pd assumerà in relazione al discrimine più critico interno al centrosinistra, e cioè alla linea di attrito fra sinistra liberale e sinistra radicale. Per ora, sotto l'ombrello veltroniano si sono manifestate linee divergenti: da un lato un progetto di continuità, ossia il tentativo di tenere sotto lo stesso tetto governativo l'intera Unione attuale; dall'altro, l'ipotesi enunciata nel "manifesto dei coraggiosi" promosso da Francesco Rutelli, vale a dire la suggestione di alleanze «di nuovo conio» se il rapporto con la sinistra comunista dovesse portare definitivamente all'impasse l'iniziativa del governo. È questo il terreno su cui si misureranno concretamente tutti i protagonisti dell'avventura "democrat", dai candidati principali alle figure di confine come Lamberto Dini, a partire dalla legge finanziaria ma più in generale sulle scelte di sistema: il che, in pratica, vuol dire la posizione che i protagonisti assumeranno sul referendum elettorale di Segni e Guzzetta o su una legge elettorale alternativa. Infatti mentre c'è una componente del Pd che ha appoggiato esplicitamente il referendum, da Letta alla Bindi ad Arturo Parisi (con la posizione laterale di Veltroni, appoggio senza firma), sono già in corso le manovre per un sistema elettorale molto più morbido: Fassino ha aperto la strada al modello tedesco, che trova consensi anche nel centrodestra (Berlusconi e Casini). Agli occhi dei più critici, in primis Parisi, si tratterebbe di un grave passo indietro, che favorirebbe il ritorno ad alleanze a geometria variabile, con la fine dello schema bipolare e la costituzione di rendite di posizione al centro. Forse il chiarimento preventivo andrebbe praticato su questo tema: perché sarebbe piuttosto singolare assistere all'impegno dei tre principali candidati del Pd a favore di un referendum che tende al bipartitismo mentre sullo sfondo i partiti contrattano la proporzionale.
L'Espresso, 29/12/2006
60 mila volte Treccani
C'è sempre un fascino particolare nelle opere che raccolgono storie di vita: ma nel caso dell'"Enciclopedia biografica universale" che "L'espresso" e "la Repubblica" mandano in edicola a partire dal 27 dicembre la suggestione aumenta se si pensa alle caratteristiche dell'iniziativa. Perché si tratta di un'opera inedita, realizzata in esclusiva per il Gruppo editoriale L'Espresso dalla Biblioteca Treccani, il più prestigioso istituto enciclopedico italiano: 20 volumi di 720 pagine l'uno, che saranno distribuiti con i due giornali (il primo volume è in regalo, il prezzo dei successivi è di 14,90 euro), e che comprendono 60 mila voci biografiche, storie di figure illustri che si sono distinte nella storia, le scienze, l'arte, la politica, il costume, l'economia; a cui si aggiungono 300 grandi biografie redatte da firme illustri, a partire dai primi del Novecento, tratte dalla Grande Enciclopedia Treccani, e 3 mila immagini. Un insieme di vite, dunque. Una folla impressionante. Una rassegna, ma anche un panorama straordinario, prima ancora che uno strumento di studio, di verifica e di approfondimento. Come scrive nella presentazione dell'opera il presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana, Francesco Paolo Casavola, l'Enciclopedia biografica universale «ci aiuta a vedere nel passato non informi rovine, ma costruzioni umane, e sui loro modelli migliori può essere concepito il nostro futuro». D'altra parte, per comprendere il significato di un repertorio vasto come questo, dobbiamo anche pensare che molto è cambiato negli ultimi due decenni sul modo in cui si guarda alla storia e all'agire umano. Fino all'altro ieri infatti si tendeva a interpretare il mondo sulla scorta dei pensieri forti, le grandi narrazioni politiche, le cosiddette ideologie, ossia complessi di idee, criteri, valori che travalicavano l'individuo e la sua vicenda materiale. Esistevano, certo, le persone, uomini e donne, ma andavano iscritte dentro una visione complessiva. C'era l'abitudine a considerare il singolo come una manifestazione di un sistema. E vigeva anche il dogma secondo cui la vita andava separata nettamente dalle opere. Oggi invece possiamo di nuovo farci affascinare dalle esistenze singole. Cercare di spiegarci una scoperta scientifica o un'opera letteraria anche, se non soprattutto, a partire dalla storia umana di un protagonista. Per dire, se prendiamo la parabola di Albert Einstein, possiamo limitarci alle scarne formulazioni con cui di solito si accenna alla teoria della relatività "ristretta" e alla relatività "generale"? Agli occhi di un lettore contemporaneo, Einstein non è soltanto lo scienziato che ha rivoluzionato il modo di concepire lo spazio e il tempo: è stato anche l'intellettuale provocatore, il pacifista, il cosmopolita; è stato un'icona beffarda, che rappresenta un "esserci", non un ritrarsi dal mondo e dalla società. Niente torri eburnee. Dietro una figura come quella di Einstein, e al suo fianco, in un reticolo di rimandi virtualmente infinito, non ci sono esclusivamente le equazioni e le teorie che disegnano un universo differente da come era sempre stato pensato. Non c'è soltanto l'universo quantico e il principio di indeterminazione, quanto piuttosto il «Dio non gioca a dadi» con cui Einstein tentò di obiettare all'intuizione di Heisenberg. Ma soprattutto, nella traiettoria intellettuale di un genio, è compreso il riflesso della sua concezione sui contemporanei, in settori e sfere intellettuali diverse. Così come la sintesi di Freud condusse l'arte a cercare profondità sconosciute, anche l'universo di Einstein fece esplodere, per "simpatia", come una deflagrazione implicita, le arti e le tecniche narrative del secolo scorso. Proust, Musil, Kafka, Joyce, le grandi avanguardie degli anni Venti e Trenta del Novecento, appaiono allora il frutto implicito di uno sguardo inedito sul mondo delle cose. E non c'è soltanto questo aspetto: chi oggi volesse ripercorrere la vicenda letteraria di James Joyce, per citare uno dei grandi innovatori della narrazione, o dell'antinarrazione, potrebbe ricorrere a studi sofisticati, in chiave linguistica, stilistica e psicologica; ma oggi che cosa ci importa di più, la tecnica dell'"Ulisse", il "flusso di coscienza", le sue invenzioni distruttive rispetto alla classicità del romanzo, o la vita di Joyce, la sua storia di irlandese, di triestino, di scrittore europeo? O la vicenda del suo matrimonio appassionato e complice? In modo analogo si comincia a guardare diversamente anche alla politica. Anziché alle tendenze fondamentali e alle "famiglie politiche", dal socialismo al liberalismo, risulta sempre più rivelatore osservare la biografia di Karl Marx, o l'avventura rivoluzionaria totale di Lenin. Per venire ai giorni nostri, ci sono alcune vite che illuminano un'epoca, o la fase di un cambio di scenario. Parlare in astratto del peronismo significa descrivere una esperienza politica di populismo sudamericano in una singolare miscela di autoritarismo e gestione pansindacale; ma leggere la vita di Evita Perón equivale a osservare un'esperienza in cui una figura di donna si trasforma in simulacro della politica, in immagine quasi sacra (e infatti trasferita nel culto con il musical e il film di un'altra immagine pagana e sacra, la santa e perversa Madonna). A ripercorrere il XX secolo, chi meglio di John Fitzgerald Kennedy impersona le aspettative di cambiamento dei primi anni Sessanta, nell'età di Krusciov e di papa Giovanni? Ciò che rimane oggi, a parte il tema dell'integrazione razziale, è la scena di un'America impaziente che trova il suo presidente giovane, irlandese, cattolico, bello, con la moglie affascinante e stilizzatissima, e sullo sfondo il legame leggendario con donne bellissime come Angie Dickinson, Marlene Dietrich, e naturalmente Marilyn Monroe, la bionda mozzafiato di "A qualcuno piace caldo", la commedia inimitabile del "viennese" Billy Wilder. Difatti, anche della Monroe, che cosa rimane? I film, certamente, perché gli uomini preferiscono le bionde. Ma sono film che adesso guardiamo alla luce della fine tragica dell'attrice; una persona di cui, a saper guardare e leggere le testimonianze in proposito, non resta semplicemente la bellezza d'epoca, bensì l'intelligenza e la dedizione politica («Io sono un soldato del presidente, perché quest'uomo sta cambiando il mondo»). Per certi aspetti, giudicare la storia attraverso le idee, o le ideologie, equivale a interpretare una partita di calcio recensendo i moduli tattici e gli schemi di gioco. Mentre risulta sicuramente più suggestivo ripercorrere i momenti magici dei grandi campioni. Gianni Brera, che fu un grandissimo scrittore, oltre che un critico sopraffino non solo calcistico, dedicò un libretto (pubblicato da Longanesi) alla figura di Helenio Herrera: in cui il "Mago" diventava protagonista sul campo e fuori dal campo. E in cui la sua personalità spiegava quel calcio di più e meglio che non l'illustrazione degli accorgimenti tecnici in campo. Lo schema della prevalenza della vita sulle opere sembrava una forzatura o un equivoco, all'epoca della correttezza politica. Ma in quest'ultima fase è diventato addirittura lampante: basta pensare alla figura e all'effetto mondiale di una personalità come quella di Karol Wojtyla. Allo spettacolo della sua vita e alla spettacolarizzazione della sua morte. Una parabola in cui la presenza viva del papa, la sua stessa forza e fragilità fisica è diventata uno strumento di affermazione della chiesa cattolica, un segno della sua potenza simbolica e reale. Dopo essere usciti dal solco dell'ideologia, naturalmente si viaggia a tentoni. Non ci sono bussole, non ci sono sestanti politici. Ciascuno di noi deve andare alla ricerca di un tragitto possibile, di pensiero e di vita, affidandosi alla propria capacità e alla propria sensibilità: sessantamila vite sono un patrimonio impressionante, per provare a capire, quando occorre, ciò che è vivo nella nostra cultura, nel mondo di oggi, e ciò che invece si è inabissato. D'altronde, ogni esistenza è un mistero: ritrovare le tracce di questo mistero è un modo possibile per non perdersi nella folla del mondo contemporaneo. n
L'Espresso, 29/12/2006
Pallone da cult
Non è che tutti noi siamo passatisti. Tuttavia abbiamo una sana nostalgia verso il tempo in cui le cose erano chiare. Quando "Novantesimo minuto" era "Novantesimo minuto", nella sigla c'era quello che si mangiava le unghie, in un quarto d'ora uno vedeva i gol e si toglieva il pensiero. E dunque c'è da essere grati a Marco Giusti, il quale ha raccolto per Mondadori "Il meglio di 90° minuto", libro e dvd. Il libro è una fonte preziosa, dove si possono ritrovare le battute di Ferruccio Gard, l'uomo che Paolo Ziliani paragonava a Nosferatu: «La squadra capitolina ha evitato di capitolare»; oppure i refusi di Giorgio Bubba: «Questa rovesciata di Vialli è potentissima, sembra un bomba al Nepal». Come ricorda Giusti, "Novantesimo minuto" comincia il 27 settembre 1970 alle 18, su Raiuno. Ideato e curato da Maurizio Barendson, Paolo Valenti e Remo Pascucci. Destinato a diventare un frammento del costume nazionale. Perché nel contenitore di quel programmino si rivelò l'essenza della tv, il suo essere teatro dei folli, vascello dei matti, enclave della demenza formalizzata in personaggi, maschere e freaks. Basta vedere scorrere le figure di Giorgio Bubba e di Tonino Carino, del riportato Franco Strippoli e di Luigi Necco, di "Gianduiotto" Cesare Castellotti, del belloccio Giampero Galeazzi e di Gianni Vasino, per capire che la televisione del futuro è nata in quel passato calcistico, dove i sunnominati hanno inventato un genere, ma soprattutto hanno spiegato che in tv, per apparire, ci vuole la dismisura, per "bucare" occorre un quid di mostruosità. L'unico apparentemente normale, in quella domenicale commedia dell'arte, era proprio il conduttore principale, Paolo Valenti, stile e dignità stranianti: «Una vera e propria papera non direi che mi sia capitata in tanti anni di carriera. Tuttavia debbo ricordare la mia prima radiocronaca, mentre ancora frequentavo il corso. Era una corsa di bighe allo stadio dei Marmi. Feci una radiocronaca drammatica che venne giudicata bellissima. Senonché commisi questa piccola omissione: dimenticai completamente di dire chi avesse vinto. Vittorio Veltroni mi accolse così: «Stupendo, la cronaca mi ha trascinato. Ma scusami, mi puoi dire adesso chi ha vinto?». A vedere quanto erano giovani e bravi Necco e Carino, Marcello Giannini da Firenze e Piero Pasini da Bologna, non si capisce perché alla fine la Rai capitolina ha dovuto capitolare.
L'Espresso, 21/12/2006
SE FISCHIA LA SINISTRA
Ci sono davvero due Italie, un'Italia politica che guarda a se stessa e una società che preme per innovazioni sostanziali? Forse è questo il dilemma del centrosinistra e del governo che esso esprime. A guardare gli atteggiamenti che emergono dalle indagini demoscopiche si ha la sensazione di attese frustrate. Anzi, sul piano dei criteri di fondo, dei principi, dei "valori" emerge un'opinione pubblica "postmaterialista", disponibile ad accelerare sensibilmente il cambiamento: sui temi dei comportamenti diffusi, come la regolazione delle unioni civili, l'eutanasia, il testamento biologico, la società italiana appare davvero pronta a scegliere un cambiamento profondo. A cui tuttavia si affiancano anche spinte sostanzialmente regressive, legate soprattutto al tema della sicurezza. Non è un caso, a questo proposito, che il primo incidente di percorso sia avvenuto con l'indulto. I sondaggisti avevano registrato un calo immediato del consenso verso il governo, fra i tre e i quattro punti di caduta, e non era servito a niente puntualizzare che il dispositivo di clemenza nasceva da una iniziativa parlamentare, approvata con un voto trasversale agli schieramenti. Pollice verso. Quindi non solo due Italie: più probabilmente c'è una miriade di Italie che l'Unione tenta ancora di raccogliere con gli strumenti tradizionali della politica: con compromessi fra Margherita e Ds, cercando di incanalare nel mainstream governativo le pulsioni libertarie, laiche, egualitarie, specialmente quelle della sinistra radicale. Ma la sfasatura ovviamente si manifesta anche sul terreno classico della politica economica, e in particolare sulla legge finanziaria: perché le prime mosse governative, dalla ripresa di iniziativa in politica estera sul Medio Oriente con l'operazione Libano, così come le misure di liberalizzazione del decreto Bersani, erano state accolte con favore (come si vede nel sondaggio pubblicato in queste pagine, il consenso sulle procedure di liberalizzazione è ancora ampio, anche se ha dovuto fronteggiare a fatica la reazione a catena delle categorie); ma la Finanziaria era attesa come il vero banco di prova del governo Prodi e della sua capacità riformatrice. E qui, alla fine di settembre, è successo il mezzo disastro. O il disastro intero. Il sintomo di una specie di incomunicabilità fra il governo di centrosinistra e l'elettorato. Una decina abbondante di punti di caduta nell'indice di gradimento. Mai vista, dicono gli esperti, una discesa così precipitosa. In pochi giorni, Romano Prodi e il suo governo infilavano una china ripidissima, e si ritrovavano in condizioni di impopolarità quasi analoghe a quelle di Silvio Berlusconi nella seconda parte della legislatura di centrodestra, allorché nel giugno 2005 toccò il suo minimo di consenso, con solo il 29 per cento di valutazioni favorevoli. A meno di tre mesi di distanza, la situazione non è migliorata. Sembra anzi che si sia sollevata un'ondata di risentimento verso il governo, che si manifesta ogni volta che se ne presenta l'occasione. I fischi a Guglielmo Epifani a Mirafiori. Le contestazioni al Motorshow contro lo stesso Prodi. La protesta dei ricercatori, ancora a Bologna, all'indirizzo di Pier Luigi Bersani. «I fischi all'indirizzo del segretario della Cgil sono stati largamente amplificati dal circuito dei media», sostiene uno dei migliori conoscitori della Torino industriale, lo storico Giuseppe Berta: «Tuttavia sembra che il sindacato e il governo di centrosinistra non siano in grado di capire che la base operaia, e non solo operaia, vuole certezze, non ipotesi che considera inquietanti. Tanto per dire, gli operai vogliono sapere quando potranno andare in pensione, e che fine farà il loro tfr». In altri termini, annunciare di continuo riforme su argomenti sensibili, lasciando nell'aria un clima di insicurezza, provoca disagio e ansia. Ma basta questo a spiegare il calo del consenso? La contestazione torinese di Epifani rappresenta davvero il segnale che è saltato il legame storico fra ceti popolari, rappresentanza degli interessi "di classe" e governo della sinistra? E più in generale, si può dire che il governo Prodi si trova di fronte a uno smottamento difficilmente colmabile in termini di gradimento pubblico, e cioè al segnale conclamato di una impossibilità di raccogliere consenso sul programma politico che ha varato? A prima vista i dubbi sembrano pochi. Secondo le indagini di Renato Mannheimer, il giudizio favorevole sull'operato dell'esecutivo non supera il 31 per cento del campione intervistato, «uno dei valori più bassi di consenso mai toccati dopo meno di un anno di governo». Come se ciò non bastasse, la diminuzione del gradimento «riguarda in particolare chi possiede titoli di studio più elevati, chi è impegnato in un'attività lavorativa, chi ha dai 35 ai 55 anni, vale a dire i segmenti centrali nella vita socioeconomica del Paese». Si potrebbe aggiungere probabilmente che l'identikit dell'italiano insoddisfatto ha una riscontrabile tendenza a sovrapporsi con una buona approssimazione al profilo dell'elettore di centrosinistra, e specialmente a quei settori di società che si aspettavano freschezza e originalità nelle soluzioni, e creatività nelle riforme. Sono quei ceti che si sono trovati di fronte una legge finanziaria assai voluminosa quanto di ardua decifrazione. Il premier Prodi e il suo ministro dell'economia, Tommaso Padoa-Schioppa, hanno sempre sostenuto che la severità e l'ampiezza della manovra sono funzionali al progetto di unire in una sola fase politica il risanamento dei conti pubblici e il rilancio dell'economia. Progetto condivisibile, se non fosse che i calcoli preventivi del governo non hanno evidentemente intercettato la crescita impetuosa delle entrate tributarie. Sono state quindi vistose le critiche all'impianto stesso della politica fiscale sottesa alla finanziaria. Il sindaco di Bologna Sergio Cofferati ha criticato aspramente e ripetutamente la fisionomia della manovra, soprattutto per la sua incapacità di identificare con ragionevolezza "sociologica" il profilo della ricchezza. Di qui a dire che l'azione del binomio di governo composto da Prodi e Padoa-Schioppa si rivolge a un paese inesistente non c'è che un passo. Certo hanno giocato sfavorevolmente alcuni fattori rilevanti: un risanamento del bilancio statale largamente giostrato sulle entrate, come ha rilevato il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi; una conferma della tendenza alla crescita della spesa pubblica (Tito Boeri); l'incessante mutazione in Parlamento dei provvedimenti parziali, che ha fatto perdere di vista gli obiettivi centrali della manovra; mentre non ha giovato alla popolarità del governo la sensazione che la finanziaria configuri un complesso di misure dal contenuto intrinsecamente "inflazionario", cioè tendente ad aumentare a cascata il peso fiscale sui cittadini (con effetti che saranno da valutare sul piano delle imposte comunali e regionali). Ma il dissenso montante contro il governo sembra condensarsi in gran parte in un clima generale di delusione: sensazione insidiosa, perché agli stati d'animo non si comanda. Alla fine, dal punto di vista essenzialmente politico, Prodi e il centrosinistra si presentano ai cittadini come un'esperienza che abbina in modo politicamente confuso aumento delle tasse e aumento controllato dei diritti. Cioè sacrifici di una qualche entità sul piano del reddito, uniti ad aperture fin troppo moderate sul terreno delle garanzie civili. Sarebbe questa una tipica mediazione di centrosinistra, se non fosse che questi due livelli non sono negoziabili o scambiabili. Sulle coppie di fatto o sulla bioetica la società italiana appare laica, secolarizzata, disponibile a misure in linea con la tendenza civile europea, tanto da apparire sensibilmente più avanzata rispetto ai partiti e indifferente ai compromessi architettati per non scontentare la Cei: in sostanza si aspetta riforme in questo senso, e comunque le considera un elemento fisiologico se non automatico nel cambiamento di mentalità e di comportamenti. Quindi il prezzo pagato in termini fiscali non viene percepito come congruo: non si coglie come modernizzante uno "scambio" alla pari fra diritti civili e redistribuzione forzosa. Ciò significa che il centrosinistra dà l'impressione di non avere molto da dare. L'offerta prudentissima di modernità nei diritti non giustifica nei cittadini l'esigenza di un volume fiscale che permane elevato e in certi casi si innalza. Anzi, di fronte al riaggiustamento dei conti, ogni categoria vede soltanto ciò che sembra danneggiarla e dunque reagisce di conseguenza, contribuendo alla sensazione di disorientamento e confusione. È il «paese impazzito» evocato da Prodi. Oppure, più probabilmente, l'effetto di un'azione farraginosa, che offre a ogni corporazione lo spunto per una protesta. Mentre i principali leader del centrosinistra, a cominciare da Piero Fassino e Massimo D'Alema auspicano o invocano la "fase due", cioè il rilancio dell'azione riformista, la domanda che aleggia sul governo di centrosinistra è una domanda pesante: riuscirà la compagine di Prodi a tornare in sintonia prima di tutto con i suoi sostenitori? Oppure il patrimonio di credibilità si è troppo assottigliato per recuperare credito nell'opinione pubblica? E occorrerà valutare se l'incertezza della maggioranza, visibile con un certo imbarazzo negli "stop and go" sui diritti civili, non costituisca un fardello troppo pesante. Perché questo vorrebbe dire che il governo e l'Unione perdono consenso in quanto hanno scelto la cautela e la mediazione dove l'opinione pubblica si aspettava chiarezza e incisività. Dopo cinque anni di berlusconismo, c'era l'occasione per cambiare rotta. Perdere una simile opportunità può implicare la durata; ma può anche significare smarrire un'anima.
L'Espresso, 21/12/2006
Criminali di qualità
Non male l'idea della serie tv "Crimini": otto soggetti di altrettanti autori di fama come Giancarlo De Cataldo, Sandrone Dazieri, Massimo Carlotto, Giorgio Faletti, Carlo Lucarelli, Diego De Silva, Marcello Fois, Andrea Camilleri. La serie si è aperta mercoledì 6 dicembre su Raidue in prima serata con "Troppi equivoci", una storia del venerabile Camilleri sceneggiata da Rocco Mortelliti e Carla Vangelista, regia di Andrea Manni. Aldo Grasso ha sostenuto con insigne perfidia accademica che la fiction è risultata migliore del racconto originario di Camilleri. Applausi a Grasso, anzi, «orejas, ovaciones y música» come ai toreri. A sua volta, il vostro critico (scusino i gentili lettori la terza persona, gli succede di rado) nutre una seria e insuperabile diffidenza verso i film televisivi (ma anche non televisivi) in cui i personaggi parlano con l'accento regionale del luogo di ambientazione. Che volete, siamo fatti così, cittadini del mondo: non appena c'è uno che dice «hai scassato la minchia» o «è megghiu pe ttia» ci viene una crisi d'identità mancante e imploriamo la globalizzazione, l'omologazione totale, un'edizione americana senza sottotitoli di "Csi Miami", oppure una fiction ambientata a Torino dove qualcuno dica "neh" o a Milano con un postino che dica a un caramba «mi hanno ciulato il motorino». Comunque la fiction di Raidue era buona, con personaggi ben disegnati: c'erano i consueti difetti della fiction italiana, in cui gli attori in genere recitano come in una fiction italiana; ma c'era anche Beppe Fiorello, che ormai ha raggiunto una statura di attore di livello superiore. Eh, che tempi: ci fosse un'industria cinematografica come negli anni Cinquanta e Sessanta, l'ex Fiorellino verrebbe fuori come un mattatore; adesso deve accontentarsi di questi ruoli, in cui l'attore Fiorello, alla fine, risulta anche un po' troppo superiore al film, per cui in certi momenti viene voglia di dirgli che si dia una calmata, non c'è bisogno di puntare al capolavoro, non deve stracciare tutti: evitare i peccati di zelo. Comunque vale la pena di aspettare gli altri episodi della serie (che sono stati pubblicati in volume da Einaudi), perché non capita spesso una simile contaminazione di letteratura e intrattenimento, autori e televisione, scrittori e popolo. Se il seguito rispetta le premesse, potrebbe essere la smentita ufficiale che cultura e audience non vanno d'accordo.
L'Espresso, 14/12/2006
Mezzanotte l’ora dei rocker
Qualche volta è necessaria una grande dedizione: ad esempio, l'imperdibile "Tg2 Dossier Storie" dedicato agli albori del rock italiano è andato in onda sabato 2 dicembre a mezzanotte, solita ora dei vampiri. Si sa come sono i programmi di Michele Bovi: documentazioni formidabili, basati su una ricerca d'archivio impressionante, che conduce a trasmissioni a costo basso, ma ricchissime di testimonianze e reperti. Il programma di sabato scorso era dedicato al mezzo secolo del rock italiano, cominciato a Milano con uno storico Festival nel 1957 ed è stato l'occasione per una parata di protagonisti di allora. E non soltanto i soliti Celentano, Jannacci e Gaber, ma soprattutto quei pionieri come Guidone e Ghigo che hanno aperto la strada all'epoca dei "giovani". In studio, insieme a Maria Concetta Mattei c'erano Renzo Arbore e Clem Sacco: impagabile, quest'ultimo, in smoking bianco dotato di magnifico papillon, con fantastica testa di riccioli neri. Ora, non sono in molti a ricordare Clem Sacco, cantante e fantasista nato al Cairo da genitori italiani. Ma bisogna sapere, perché in futuro la sua riscoperta è sicura, che Sacco è stato il vero inventore di un genere, la canzone demenziale, anzi, il rock demenziale. Le sue canzoni erano dedicate alla vena varicosa o all'uovo alla coque, e si capisce perché oggi può essere considerato il precursore degli Skiantos e di Elio e le Storie tese. Se ne riparlerà, perché l'energia di Clem Sacco è un miracolo della natura, e ci sarà quindi sperabilmente occasione di rivederlo sulla scena. Ma il programma di Bovi era divertente perché faceva vedere anche l'aspetto vitaminico e ribelle del rock di fine anni Cinquanta. E bisogna dire che a distanza di tempo i più interessanti sono i rocker dalle carriere fallimentari per ragioni di censura, quelli come il Ghigo di "Coccinella", capace di prestazioni fisiche e vocali strepitose: quelli condannati più o meno al silenzio dal conformismo del tempo, che oggi conducono vite appartate, un po' fuori dalla scena. Gli altri, a cominciare da Celentano, sono usciti dal rock per rifugiarsi nel tepore della melodia all'italiana, segnalando così la verità tendenziale del proverbio misoneista secondo cui si nasce incendiari e si finisce pompieri. Ma si sa che ci vogliono le avanguardie per fare le rivoluzioni, anche se alla fine sono le nomenklature a occupare le posizioni di potere: aridatece Clem Sacco, allora.
L'Espresso, 30/11/2006
Un minestrone ma ci farà bene
La Finanziaria dei mille dolori sta arrivando in porto. Ha resistito alle spallate di Silvio Berlusconi, agli interessi confliggenti dei partiti dell'Unione, al forcing dei ministri per evitare limitazioni di budget, alla battaglia di interdizione del partito dei sindaci, al «fuoco amico» degli osservatori vicini culturalmente al centrosinistra come Giacomo Vaciago e Gianfranco Pasquino, alle bordate della Confindustria e delle categorie del lavoro autonomo, alle critiche degli economisti liberali che propugnavano più tagli alla spesa e meno tasse. Nel lessico di Romano Prodi, questa è più o meno l'istantanea del «paese impazzito», in cui gli interessi si coalizzano per resistere alle misure risanatrici del governo. «Lo avevamo detto che avremmo fatto una finanziaria di centrosinistra», conferma il ministro per l'attuazione del programma, Giulio Santagata. Ossia una manovra fondata su una riscontrabile redistribuzione del reddito. Con un contenuto politicamente impegnativo, anche se controverso sul piano tecnico. Nel momento in cui il provvedimento giunge al rush finale, si avvicina quindi il tempo di un bilancio politico. Va da sé infatti che la Finanziaria è lo specchio di un equilibrio nella coalizione; e la prima considerazione, in proposito, è che finora l'Unione ha tenuto. Risultato tutt'altro che ovvio, vista l'esigua maggioranza al Senato e le differenze interne alla coalizione. Piuttosto, c'è da considerare il prezzo politico pagato da Prodi e da tutto il centrosinistra, reso misurabile dalla perdita di consenso nei sondaggi. Un effetto inevitabile, frutto di un provvedimento che scontenta tutti? Questo starebbe a significare l'efficacia della legge, secondo lo schema enunciato dal premier. In effetti diversi analisti, fra i primi Mario Deaglio, hanno messo in luce come la metamorfosi continua dei provvedimenti parziali, annunciati, cambiati, ritirati, ripresentati (Suv, successioni, aliquote), abbia fatto perdere di vista i due obiettivi di fondo della manovra: risanamento e rilancio. Eppure, sul complesso della legge, critiche severe sono venute, numerose, anche da sinistra: il riformista ds Nicola Rossi ha segnalato una sfasatura "culturale" della Finanziaria rispetto a una lettura moderna della società italiana; il sindaco di Bologna Sergio Cofferati ha criticato con asprezza un impianto basato su una identificazione sfuocata del reddito e della ricchezza. In realtà, la prima Finanziaria del governo Prodi è il frutto ampiamente inevitabile di una coalizione composita, che si regge sulla capacità di Prodi di tenere insieme tutte le componenti. Sotto questa luce, le critiche sono probabilmente giustificate dal punto di vista economico. Un economista di sinistra come Paolo Leon ha scritto fin dalla presentazione della manovra che essa potrebbe avere un effetto "depressivo". Il che deriva, se non si capisce male, dal fatto che toglierà un certo volume di risorse dal circuito economico. Il giudizio di Paolo Onofri, l'economista bolognese che ha collaborato con i governi della legislatura di centrosinistra (1996- 2001), è più sfaccettato: la Finanziaria sarebbe «un primo timido passo» verso una razionalizzazione della spesa e delle entrate. Ma il significato più profondo di una manovra voluminosa, e che incide nel vivo della redistribuzione (sempre secondo Onofri, «prende complessivamente un po' dalle famiglie e dà, nel complesso di misure dal lato delle entrate e dal lato delle spese, alle imprese»), è ovviamente politico. Alla fine dell'iter parlamentare, se non avverranno incidenti, Prodi sarà riuscito a mantenere compatta una compagine politicamente farraginosa. Stando così le cose, si avvera nella sostanza il disegno progettato a suo tempo da Arturo Parisi, l'«alleanza a perimetro largo», tenuta insieme dalla figura del leader della coalizione. Si capisce in questo senso, o almeno si ricostruisce più precisamente a posteriori, il ruolo giocato da Prodi: ha chiesto al ministro dell'economia Tommaso Padoa-Schioppa di fungere da garante della manovra rispetto alle istituzioni europee, e nel contempo di presidiare senza cedimenti i saldi di bilancio, accettando di caricarsi di una funzione ragionieristica. Assicuratosi il risultato complessivo, il presidente del Consiglio ha guardato con un certo distacco il proliferare delle proposte, degli emendamenti, delle contrattazioni, delle azioni di lobbying e di scambio. Evidentemente ciò che serviva a Prodi era chiudere il cerchio della coalizione, portare a casa il risultato politico. Il bistrattato programma dell'Unione, nella sua ampiezza, ha funzionato da testo guida per sterilizzare i conflitti interni. Nel momento in cui il percorso parlamentare si concluderà positivamente, il premier potrà sostenere di avere conseguito un successo politico indubitabile. Certo, si tratta di un successo interno: che ci siano stati errori di comunicazione, o che l'impatto prevedibile della manovra abbia determinato contraccolpi in termini di gradimento, resta il fatto che secondo diversi sondaggisti «non si è mai assistito a un precipitare del consenso così rapido di un governo in carica». Ma evidentemente Prodi sente di poter mettere nel conto una fase di piano inclinato nella popolarità del governo. Ciò che gli serviva era il controllo completo sull'asse che va da Clemente Mastella all'ala bertinottiana della coalizione. Come gli ha detto Francesco Guccini quando lo ha incontrato nell'aula magna di Santa Lucia a Bologna, «resisti, resisti, resisti». È vero che la Finanziaria ha scontentato tutti, anche coloro che ne trarranno benefici (difatti, la Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo esprime un giudizio negativo sulla "filosofia" della manovra, criticata per il prevalere delle entrate, ma incassa silenziosamente il taglio del cuneo fiscale). Ma è anche vero che figura stampato in maiuscolo in tutti i manuali di scienza politica il principio per cui i governi devono sfidare l'impopolarità nella prima fase della legislatura. Dopo verrà il tempo delle riforme, delle modernizzazioni, della rimessa in efficienza. Dopo. Quando si profilerà il partito democratico, quando l'ala riformista dell'Unione potrà impegnarsi per realizzare i propri obiettivi. Quando la nevrosi della legge finanziaria lascerà il campo alla qualità potenziale del governo. Basterà aspettare poco per capire se il caro prezzo pagato dall'Unione le sarà servito ad acquistarsi un futuro. n
L'Espresso, 30/11/2006
Dr House ancora un miracolo
Ormai gli esperti sanno tutto del dottor Gregory House, ovvero "Dr House", infettivologo dell'ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital (traggo questo informazioni da Wikipedia, perché quando mi capita di guardare questo telefilm entro in una specie di trance, con tutti i muscoli tesi, i glutei stretti, mesmerizzato dalla tensione della trama e dal ritmo del racconto, e non faccio caso ai dettagli). Quindi, se tutti sanno tutto, tanto vale saltare i preamboli: non credo che il successo di "Dr House, Medical Division" dipenda dalle battute del tremendo medico col bastone, dalla sua misantropia, «sono diventato medico per curare le malattie, non i malati», o dal suo apparente cinismo, tipo «preferisce un medico che le tiene la mano mentre muore o uno che la ignori mentre migliora?». Questo è il sale e il pepe della pietanza. Sapete come fanno gli americani: la bella faccia di un attore, Hugh Laurie, che potrebbe assomigliare a Tom Waits, una sceneggiatura come si deve, caratterizzazione, battute, drammi, problemi, dilemmi e soluzioni. Ma il segreto di "Dr House" dev'essere che è rassicurante. Magari la mamma muore di cancro al polmone, ma il prematuro è salvo e il papà piange intravedendo nel futuro l'ombra di un sorriso. C'è una logica, una catarsi. E c'è anche qualcos'altro: di solito la trama della puntata è che tutti pensano che il tale o la tale paziente abbiano una malattia spaventosa, che curano con quantità abominevoli di farmaci, di solito peggiorando la situazione, mentre House si apparta a fare dei suoi vudù, trangugiando pillole perché la gamba gli fa male, e appena può tratta i collaboratori come poveri imbecilli. E dato che il paziente continua ostinatamente a voler crepare, House ha la sua bella intuizione, che annulla tutte le diagnosi precedenti e, nell'incredulità generale, salva il malato. Il quale, cambiata la terapia, recupera immediatamente le forze, si alza dal letto e ringrazia il cinico House. Il quale sogghigna e ne dice una delle sue. Alla fine insomma la quadratura si trova, anche se designata da cause improbabili (come una zecca nella vagina, o un'intossicazione da termiti); ha successo una razionalità indiscutibile, anche se impersonata dal cinicone. Sicché ogni volta la conclusione della storia strappa gli applausi, e si va a letto sperando che anche nella sanità italiana ci sia qualche House, all'occorrenza.
L'Espresso, 23/11/2006
Delle hit noi siamo i re
Queste classifiche non erano mai state pubblicate. Volete sapere come va la musica italiana? Qual è lo stato dell'arte, chi sono i compositori più accreditati, gli autori più pregiati, le canzoni più eseguite? Ecco fatto. "L'espresso" pubblica in esclusiva uno studio della Siae sulle classifiche del diritto d'autore fra il 2001 e il 2005. Una graduatoria basata sugli incassi, con le statistiche che per la prima volta tengono conto non soltanto delle vendite discografiche, ma di tutto l'indotto musicale, da Internet ai film, dalle suonerie telefoniche agli spot pubblicitari. È il ritratto della musica italiana, come appare secondo il responso del mercato. Non mancano diverse sorprese. Ma soprattutto ci sono molte conferme. Prima di tutto: a vedere i dati si può tirare un lieve, ma avvertibile sospiro di sollievo. Fra gli autori musicali italiani che incassano all'estero il primo è Ennio Morricone. Cioè un musicista fatto e finito, controfiocchi compresi, che tutti conoscono per le colonne sonore dei film western di Sergio Leone, con le loro invenzioni musicali, i leitmotiv che sottolineano il presagio, il dramma, il duello, la morte. Talento artigiano applicato all'arte cinematografica. Semmai il grande pubblico non sa che Morricone non è un compositore che rifiuta sdegnosamente i meccanismi dell'arte commercial-popolare, anche in campo canzonettistico. A suo tempo ha arrangiato i grandi successi anni Sessanta di Gianni Morandi, quelli che finivano in ginocchio da te per dire non son degno di te, e se qualcuno ha un po' d'orecchio riconosce la mano del maestro anche in un successo che risale ai tempi del lancio della teleselezione, "Se telefonando" di Mina (l'orchestrazione e i cori sono inequivocabilmente del maestro; tanto che è riconoscibile, la scrittura, anche nella bella e sussurrata versione francese di Françoise Hardy). E Nino Rota è quarto, grazie alle colonne sonore con Fellini, Coppola, Visconti, Monicelli e mezzo cinema italiano). Dopo di che, ci si può sbizzarrire nella ricerca degli eroi del pop, per la verità senza troppe sorprese: perché dietro Morricone c'è l'infallibile Eros Ramazzotti, con il suo melodico moderno che, dicono, piace molto nel mondo latino; e il chirurgico, micidiale Toto Cutugno, uno che ha sempre sostenuto che le grandi canzoni sono fatte con gli "accordi del barbiere", quelli che conoscono tutti e tutti o quasi sono in grado di fare sulla tastiera di una chitarra. Italianità deteriore, quella di Cutugno? "Sono un italiano vero" come inno nazionale del kitsch deprivilegiato? Questo per gli schizzinosi, quelli che detestano il pasoliniano potere "abietto" delle canzoni. Ma allora bisognerebbe spiegare i successi sanremesi, i brani per Celentano, un pezzo per Ray Charles, una carriera di "hit song", e concludere che, se Toto è una malattia, deve trattarsi della stessa malattia profonda della società italiana, che dev'essere contagiosa anche all'estero. Può anche incuriosire che il giovane ed energetico Tiziano Ferro, intelligente e modaiolo interprete di diversi trend americani, superi di un paio di lunghezze Zucchero Fornaciari, musicista assai più completo, che dei suoi duetti con maggiori e minori star internazionali ha fatto un programma artistico e commerciale. Ma non sorprende affatto ritrovare nella classifica, oltre al sempreverde Domenico Modugno, alcuni "autori solo autori", non conosciutissimi dal grande pubblico, come Mauro Malavasi (collaborazioni intense con Dalla e Carboni fra gli altri), il paroliere Adelio Cogliati e con lui Piero Cassano (uno dei migliori e forse non del tutto riconosciuti canzonettisti italiani, a cui si deve gran parte della produzione di Ramazzotti e dei Matia Bazar). In sostanza dai borderò internazionali viene fuori un'immagine nel complesso classica se non ipertradizionalista della musica italiana. Può sorprendere, infatti, accanto alla presenza dei soliti mostri sacri, come Riccardo Cocciante, il cui successo è stato ravvivato dalle sue opere pop come "Notre Dame de Paris", e l'infallibile Tony Renis, con il totem di "Quando quando quando", ancora utilizzatissimo anche nella pubblicità (nonché le versioni "titaniche" per Celine Dion), la completa invisibilità mondiale di Vasco Rossi. In parte dovuta al fatto che alcune delle più famose canzoni del Blasco sono frutto dello stile compositivo di un bravissimo e semi-ignoto autore, l'ex chitarrista dei Luti Chroma Tullio Ferro, e in parte per la caratterizzazione esplicitamente nazionalpopolare di Vasco, che ne fa un fenomeno straordinario di massa in Italia e uno sconosciuto appena fuori confine. Immagine classica che viene confermata all'estero dalla classifica delle canzoni, in cui nel quinquennio campeggia al primo posto il bolero di Andrea Bocelli "Con te partirò" (autori Francesco Sartori e Lucio Quarantotto), formidabile operazione M&M, "musica e marketing", della producer Caterina Caselli, che con il tenore non vedente ha creato un caso planetario, sintesi di melodramma e musica moderna, un "emotional pop" capace di colpire il pubblico mondiale con la forza dello stereotipo e di professionalissimi colpi bassi. Non sembra un caso allora che nelle prime posizioni, ancora più in alto di "Nel blu dipinto di blu", cioè quella "Volare" che cominciò a spopolare al Festival di Sanremo del 1958, ci sia la favola pseudonapoletana di Lucio Dalla, "Caruso", che non si sa se è una canzone tremenda o suprema, ma è comunque capace di suggerire alle platee di mezzo mondo l'incanto ora vero e ora da cartolina di Surriento, «la dove il mare luccica», fra lacrime, commozioni, singulti partenopei e mille versioni tutte ugualmente "artistiche". Insomma, a guardare l'elenco della Siae, l'immagine esterna dell'Italia musicale è davvero una miscela di pop e di Otto-Novecento, di canzoni contemporanee e di opera lirica, dove la "Turandot" di Piccini e "Azzurro" di Paolo Conte convivono con "Un'emozione per sempre" e "Più bella cosa" dell'infaticabile Eros Ramazzotti, o con l'ineluttabile "Arrivederci Roma" di Renato Rascel, hit da crociera, turismo e souvenir d'Italie. Ma dove i giochi diventano durissimi, e la competizione estrema, è nella "chart" degli autori più ricchi per gli incassi in Italia. La top ten infatti è uno specchio del gusto dominante: tolti il dominatore Morricone e Pino Donaggio, specialisti di musica da film, la graduatoria risulta priva di incertezze, come gerarchia dei valori popolari. In testa il fortissimo Vasco, poi Mogol: il quale dopo l'avventura battistiana si è reinventato alla grande con i tre dischi realizzati con Celentano e Gianni Bella (ora però giunti a un "calando"); segue il solito Ramazzotti, e al quinto posto si impone Lucio Battisti, scomparso prematuramente nel 1998, che continua a precedere Zucchero, Claudio Baglioni, Luciano Ligabue, Lucio Dalla, e tutti i cantautori da Francesco De Gregori a Fabrizio De André, da Antonello Venditti a Gino Paoli. Il recente successo del "Cofanetto", pubblicato dalla Bmg, che comprende la produzione esoterica di Battisti, le 40 "non canzoni" scritte con Pasquale Panella, è la dimostrazione di come il "maestro solitario" permanga non soltanto nei cuori ma anche nei negozi e sul mercato. Colpisce anche qui la posizione non altissima di Roby Facchinetti, autore principe dei Pooh, e quella di Franco Battiato, il quale evidentemente non riesce a replicare le vendite folli dei tempi di "Centro di gravità permanente". Ma va anche detto che le distanze sono molto ravvicinate, se è vero che fra la trentesima e la quarantesima posizione ci sono alcuni bestseller come il paroliere Franco Migliacci, coautore con Modugno di "Volare" (che secondo una certa corrente di specialisti della musica italiana è il più bravo in chiave tecnica, per la sua capacità di scandire e far risuonare le sillabe nei versi delle canzoni); e anche protagonisti della scena musicale come il giovanilista Max Pezzali (autentico sociologo della provincia profonda) e il più argomentato musicista della scena nazionale, Ivano Fossati. Va anche aggiunto che le classifiche delle royalties vengono molto influenzate dalla pubblicazione di album nuovi, collezioni, raccolte, "greatest hits", partecipazioni a compilation, trasmissioni televisive. Non cambiano molto le cose a guardare la classifica delle canzoni, dove comanda l'eterna "Volare" di Modugno e Migliacci, ma dove si affaccia un altro hit da falò e da spiaggia, da comitiva e da gita scolastica, "Io vagabondo" dei Nomadi, che non sarà una grandissima canzone dal punto di vista della scrittura musicale ma evidentemente ha lasciato inciso nella psicologia collettiva la voce di Augusto Daolio, sfortunato "Eric Burdon della Bassa", come fu chiamato a suo tempo. I cultori di una visione tradizionale della musica domestica resteranno stupiti per la presenza, sia in campo nazionale sia all'estero, di una specie strana di star internazionale, Benny Benassi, trentanovenne disc jockey specializzato in musica "house" e "electroclash", che nel 2003 ha sbancato con "Satisfaction"; e anche per la posizione altissima di "Blue" (Eiffel 65), uno hit da dieci milioni di copie sul mercato mondiale. Ma in sostanza, la musica è sempre la musica. E la musica italiana è sempre la musica italiana. Un po' provinciale, un po' "glocal". Con un grande passato alle spalle, e per il futuro si vedrà. n
L'Espresso, 23/11/2006
Il bello del fuori onda
E poi dicono che i reality vanno male. Semmai fanno ascolti bassi gli show fiacchi, le ripetizioni stanche, i programmi senza l'idea e senza protagonisti credibili. Ma quando l'idea traspare, affiora, si manifesta, aleggia in uno studio televisivo, il reality show trionfa. Di recente, a parte le pupe e i secchioni, il migliore è stato "Gnocca senza testa", andato in onda durante il programma di Michele Santoro "Annozero". I protagonisti erano figure insigni come i professori Giulio Sapelli e Renato Brunetta, con figure televisivamente eccellenti come Filippo Facci e Marco Travaglio. La struttura del reality è la seguente: si fa risuonare fuori onda o fuori show un insulto molto mondano e chic rivolto a una giornalista presente, nel caso Rula Jebreal, o a una testimonial come la gentile signorina Borromeo. Poi si informano le agenzie di stampa e si assiste allo spettacolo postmediatico, che nei giorni successivi diventa frenetico. Chi è stato? Chi viene "nominato"? Chi è il colpevole? Uno grande e grosso o uno piccolino ed energetico? Il biondino o il moretto? Altro che "La tv del sommerso", documentatissimo saggio di Aldo Grasso sulle reti locali, appena uscito per Mondadori: questa è la tv dell'emerso; e la discussione è subito nazionale o addirittura "glocal" Si apre infatti subito il dibattito, che si concentra sugli accusati, indagandone psicologia e stile, vezzi lessicali e abitudini salottiere. Boutade accademica o boutade giornalistica? Senso di superiorità di sinistra o sana volgarità di destra? I professori declinano le responsabilità, i giornalisti non sono in grado di affibbiarle. Ricognizioni più accurate mettono in campo ipotesi sofisticate: forse l'espressione scandalosa era «gnocca senza testo», nel senso che mancava lo script? C'è un problema di infratesto, di paratesto, di fuori di testo? Sui quotidiani le polemiche infuriano. A questo punto varrà la pena di depositare il format, magari intitolandolo "La Pupa e il Cazzone": e aprire forum, blog, gruppi di discussione, focus group. Fare intervenire il mondo laico, gli ambienti cattolici, sentire il parere di Crozza e Fiorello. Naturalmente le pupe insultate devono stare al gioco, mai intervenire, mai rispondere. La gnocca deve fare lo gnorri. Il vincitore verrà deciso dal pubblico a casa, con opportuni sms. Serata finale in cui un gruppo di pupe e uno di fresconi si insultano a vicenda. E lo share si impenna.
L'Espresso, 16/11/2006
Il marziano Adriano
L'avvio è epico, nel ricordo di un giorno del 2004 in cui la Rai si rivolse a Celentano perché facesse un altro programma: «Non sapeva, il direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, che aveva acceso la miccia di una bomba a orologeria. Si era rivolto a un "revenant", al giustiziere che non avrebbe utilizzato la sua libertà per regalare audience agli epuratori». A distanza di poco più di un anno dal 20 ottobre 2005, quando fu programmata la prima delle quattro puntate di "Rockpolitik", esce da Bompiani il libro che monumentalizza quella trasmissione, «un asteroide caduto sulla tv italiana». Si intitola "Rockpolitik. Adriano Celentano" ed è curato da Mariuccia Ciotta, giornalista che fa parte della direzione del "manifesto"; e contiene la storia del programma, alcuni testi editi e inediti di Celentano, ma soprattutto la ricostruzione del clima in cui la trasmissione andò in onda. Vera specialista del celentanismo, Mariuccia Ciotta, dal momento che già nel 2001 aveva pubblicato un libro ("Un marziano in tv"), dedicato a "Francamente me ne infischio", e i suoi giudizi su Adriano non appaiono proprio in chiaroscuro: «Già con "Fantastico 8" aveva fatto esplodere la democrazia in tv e in qualche modo anticipato Mani pulite». In quale modo, boh (Eugenio Scalfari scrisse allora che «Celentano evoca l'istinto e l'indistinto» ed era l'archetipo di una nuova politica: semmai aveva anticipato Silvio Berlusconi, non il pool di Milano). Ora, questo nuovo libro pone altri problemi: nel senso che si poteva pensare che "Rockpolitik" appartenesse al passato, agli archivi, alle teche della Rai, essendo una sostanza di immagini volatili, essenze senza corpo, suoni svaniti. E invece il libro presenta "Rockpolitik" come un capitolo irrinunciabile nella nostra vicenda, una specie di epos politico che ambisce a diventare ethos pubblico. Asserragliati nel bunker di Brugherio, i "resistenti" proiettano nel cielo dell'Italia contemporaneo i loro "son et lumière" contro l'omologazione: «Immagini dark, un po' Miyazaki, un po' Batman, un po' Matrix». Agitano l'arena pubblica con l'estetica dello skyline di New York, con gli assoli di chitarra, con il disegno apocalittico della scena. Forse un prodotto televisivo non ha mai trovato il proprio cantore come è accaduto questa volta a Celentano: «Lo scenario che si apre è vertigine spazio-temporale che non appartiene al presente televisivo... Shock dello sguardo, traiettorie a spirale in piano sequenza alla Brian De Palma». Al punto da suggerire l'idea che tanto la curatrice Ciotta quanto il clan raccolto in quella loro Camelot ci credano veramente, credano cioè che "Rockpolitik" sia stato un evento "epocale", in cui il brain storming degli autori immaginava che Adriano "Che" Lentano invitasse il subcomandante Marcos, o che potesse trovarsi a fronteggiare l'irruzione di Berlusconi dentro la realtà immaginaria del programma scandalo. Naturalmente dietro questo lirismo ci dev'essere per forza la nozione che l'ex Molleggiato sia un genio. Curiosa è anche l'adorazione da sinistra per un reazionario come lui: ma forse dipende dal fatto che Adriano è un outsider, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra» (parole e musica di Ivano Fossati), è l'Indiano enigmatico di Paolo Conte, e d'altronde lui ricambia facendo il testimonial per la sottoscrizione del quotidiano comunista: «Il "manifesto" è rock». Ma occorre anche essere convinti che Adriano sia talentuoso, anticipatore e "oltre" in ogni tappa della sua carriera. Se è così, ha inventato il rap con "Prisencolinensinainciusol", è stato ambientalista ante litteram con la via Gluck, e ora sconvolge il costume e la politica con le antinomie "rock/lento", in cui «Rockpolitik è il contrario di Realpolitik». «Il doppiopetto è lento, il blue jeans è rock». Apparente ovvietà, schema creato da Diego Cugia per allineare prevedibili alternative fra Paperino e Topolino. Eppure sfonda. In poche ore diventa lo schema di riferimento per tutti, con i giornali che ci fanno i titoli. E allora basta un altro passo per intuire che nel pensiero dei sequestrati di Adriano, Carlo Freccero, Maurizio Crozza e tutti gli altri, mentre Vincenzo Cerami si dedica a «distillare l'arte per il grande pubblico, disseminare segnaletiche emozionali su vie sconosciute», si dev'essere formato il pensiero per cui "Rockpolitik" è la riscossa dell'umanità, della libertà, dei diritti, della democrazia "vera": e così la voce di Celentano è il risarcimento per il silenzio imposto dall'editto di Sofia a Enzo Biagi, a Michele Santoro, a Daniele Luttazzi, e ai silenziati di lungo periodo come Gianni Minà. Lo slogan, dopo che la destra è insorta rabbiosamente, appare inevitabile: «Politica e rock sociale», sintesi di musica e impegno. Ascolti sensazionali, duetti con share cosmico, 15 milioni e mezzo di italiani che assistono allo show a due con Roberto Benigni. Resta soltanto da verificare l'ultima alternativa: se lo spettacolo è, in tutti i sensi, un programma politico, ci sarebbe un erede, qui in giro?
L'Espresso, 16/11/2006
Meglio un’ora da dilettanti
Molto, molto istruttiva e culturalmente benefica la messa in onda di "American Idol" su Fox Life, 43 episodi da un'ora l'uno. Ma è istruttiva per ragioni alquanto diverse da quelle sociologiche prevedibili. Prima di tutto, occorre sapere che "American Idol" è ciò che si definisce nel gergo tv un reality game show, o ancor meglio un "talent show". Si percorre il continente americano alla ricerca di bravi cantanti dilettanti, poi si fanno provini, eliminatorie, semifinali, finali. È un format che viene dall'Inghilterra, qualcosa che assomiglia ad "Amici" di Maria De Filippi, è risbarcato sul continente europeo in Spagna e in Germania, e insomma chissenefrega, la solita solfa dei reality che si reincarnano con maggiore o minore successo a seconda del karma, del pubblico di riferimento, dei protagonisti che emergono. Se va bene è la scoperta di talenti nuovi, se va male è peggio del karaoke. Fox Life trasmette la quinta edizione, che in America ha avuto punte di 30 milioni di audience, pubblicità venduta a 1,3 milioni di dollari per spot di 30 secondi. Per la cronaca, l'ultima serie è stata vinta da un contadino dell'Alabama, tale Taylor Hicks, ma naturalmente non è questo il punto. Vabbé che la vincitrice della prima edizione, Kelly Clarkson, ha spopolato vendendo milioni di dischi e ha partecipato a "American Dreamz" con Hugh Grant, ma neanche questo aggiunge molto alla solfa. Secondo un'idea fortunata e fiacchissima, guardare i provini e le selezioni aiuterebbe a capire nel profondo la società americana, e forse a spiegarci la "new right", i cristiani rinati, la politica dei valori, il ruolo della religione nella democrazia e altre amenità bushiste. Stories: "American Idol" funziona perché è una bella macchina spettacolare. I concorrenti si esibiscono per un minuto eseguendo canzoni famose e difficili, aspettando con ansia ma fair play il giudizio della giuria in cui troneggiano il Tecnico, la Buona e il Cattivo (nell'ordine, l'ex zuccheroso Randy Jackson, la sefardita Paula Abdul e Simon Cowell, molto british e bastardo dentro). Segue poi il giudizio finale fornito da telefonate e sms del pubblico. Ovazioni, divertimento, e doppiaggio non invasivo. Resta da capire qual è il segreto del programma. Ma è semplice: un dilettante americano canta meglio, più preciso e convincente, di un professionista italiano medio. Una questione di qualità, dunque. Provare per credere.
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