L’Espresso
L'Espresso, 09/11/2006
Il braccio di ferro delle due destre
La Vicenza bis organizzata da Silvio Berlusconi in piazza dei Signori non è andata benissimo, nonostante il grande spettacolo inscenato dal Cavaliere. Se n'è avuta la riprova con il cambio di tattica del centrodestra, dalla "spallata" alle "larghe intese". L'obiettivo è sempre la caduta del governo Prodi e la sostituzione in corsa di una maggioranza con un'altra, con le elezioni anticipate che restano sullo sfondo, in attesa di chiarimenti. Tuttavia la Casa delle libertà continua a mostrare le sue divisioni interne, mascherate a malapena dall'obiettivo comune di togliere di mezzo l'intruso Prodi. Il tema non è marginale perché investe il futuro del confronto politico. Vale a dire con chi si misura l'Unione. Con quale avversario. Nei mesi successivi alla esigua vittoria elettorale del centrosinistra, si era assistito a una visibile manovra di smarcamento di alcuni settori della Cdl dall'egemonia berlusconiana. Pier Ferdinando Casini aveva mosso l'Udc mettendo esplicitamente in discussione la leadership futura ma anche presente del Cavaliere. Nello stesso tempo, era apparsa spettacolare la convergenza al centro di Gianfranco Fini, che ha dato un impulso ulteriore alla marcia di avvicinamento di An al Partito popolare europeo: non era sfuggito che si trattava di una mossa destinata a mutare ancora, in prospettiva, il formato della coalizione di centrodestra. Nonostante le resistenze interne impersonate dalla destra di Francesco Storace, infatti, lo spostamento al centro del partito ex missino costituisce un processo di notevole rilievo per lo schieramento di centrodestra. Non soltanto perché rafforza quell'asse con l'Udc (il cosiddetto "subgoverno", come lo battezzò "Il Riformista") che si era manifestato durante la legislatura precedente, e aveva determinato attriti considerevoli, resi emblematici dall'aver provocato la caduta del ministro dell'economia, Giulio Tremonti; ma anche perché rende ancora più evidente la presenza di "due destre" all'interno dell'alleanza, due aggregazioni politiche, due culture, due ispirazioni di fondo. Se il cammino di Fini avrà successo, la Casa delle libertà risulterà una coalizione in cui le componenti centriste e quelle "forzaleghiste" si misureranno per l'egemonia e per la scelta del leader politico. Da una parte avremo una concentrazione post-democristiana, quindi tendenzialmente moderata, in cui la leadership si giocherà tra Fini e Casini; dall'altra un aggregato composto da Forza Italia e Lega Nord, a vocazione liberista e nordista. Nel breve periodo non sono prevedibili conflitti vistosi all'interno della Cdl, dal momento che proprio la debolezza numerica dell'Unione è il mastice più efficace per il centrodestra. Ma in un tempo più lungo, se Berlusconi dovesse accettare di divenire più l'azionista di riferimento che l'amministratore delegato della coalizione, la partita si giocherà proprio fra queste due componenti della destra. Sotto questo aspetto, le larghe intese rappresentano più che altro un espediente tecnico, che ha come unica finalità la scomposizione del sistema politico. Ma se la struttura bipolare regge, sarà di estremo interesse verificare l'evoluzione del centrodestra. Proprio perché la concorrenza fra Casini e Fini potrebbe accentuare la vocazione centrista e moderata dei loro partiti, e chiarire qual è l'anima della futura Cdl. E di riflesso potrebbe essere interessante anche per l'Unione misurarsi con l'anima moderata del centrodestra: perché di fronte a un blocco mediatore come quello composto dall'Udc e da An il centrosinistra troverebbe utile qualificarsi in senso riformista e liberalizzatore. Finora la prevalenza del forzaleghismo ha consegnato il nostro sistema politico a una caricatura di se stesso: a destra i fautori del berlusconismo-tremontismo-leghismo, a sinistra una coalizione che molti hanno interesse a qualificare come conservatrice. Per questo forse conviene a Fini e Casini lavorare su tempi non frenetici: i mesi giocano a loro favore, e in questo senso possono preparare la strategia più adeguata per giocarsi la leadership senza l'assillo ingombrante di Berlusconi. Ma intanto occorrerebbe che i due cinquantenni del Polo si chiarissero vicendevolmente le idee, mettendo anche nel conto la sostanziale inutilità di spallate e scrolloni per far cadere Prodi. La posta, infatti, per loro è più alta: e si trovano davanti alla prima vera occasione di far vedere se sono in grado di giocare fino in fondo il match per la leadership.
L'Espresso, 09/11/2006
Viva Loredana barbarica
Molti commenti sono stati espressi e molte opinioni sono state formulate sulla bestemmia del sor Ceccherini a "L'isola dei famosi", e si è avuta la sensazione che il livello di soglia si sia abbassato. Sostanzialmente, fra poco, si potrebbe dire che non proprio un bestemmione, ma un bestemmioncino, una bestemmiuccia, non fa poi così male, che non bisogna esser moralisti, che magari un porco qui o porco là, con la desinenza un po' sfumata, può essere quasi tollerabile, se è frutto di una cultura, toscana o popolare o sottoproletaria che sia. Danni del relativismo e del multiculturalismo. E anche di una certa maleducazione crescente, come direbbero le zie babbione. Così, fra una teoria della bestemmia e l'altra, è passato in secondo piano uno dei vertici assoluti della televisione recente, vale a dire l'intervista di Loredana Bertè a "Le invasioni barbariche". Per chi se lo fosse dimenticato, bisognerebbe ricordare che la Bertè è stata una delle poche cantanti italiane a produrre musica di livello europeo, grazie agli autori che l'hanno assistita ai tempi di "Traslocando" e di "Jazz" (Ivano Fossati, Enrico Ruggeri, Mario Lavezzi, Maurizio Piccoli). Anche nei momenti per lei peggiori, quando andava in tv profondamente segnata, mutriosa, intrisa di rancori, talvolta gonfia e abbigliata come una gattara, rivelava comunque un suo stile, ora parossistico e ora quasi rassegnato; e anche se la sua voce non era al meglio, riusciva sempre a far risentire un'eco della verve passata. Rivederla dalla Bignardi, ricercata nel vestire tanto che sembrava la poetessa Patrizia Valduga, con i guantini di pizzo e una suggestiva ciocca bianca al centro della capigliatura, asciugata nella figura, di nuovo sexy, faceva finalmente un'ottima impressione. Quanto all'intervista, il solito divertimento. Perché Loredana, che parli di Borg o di Bush (padre e figlio, come dice lei), è sempre uno spettacolo: questa volta ha raccontato fra l'altro una cena alla Casa Bianca con Bin Laden, «padre e figlio». Vedete che conferme alla teoria del complotto. Tutto questo anche per esporre una teoria generale delle interviste televisive, che sono uno dei rari momenti, a parte la messa della domenica, in cui il tempo televisivo si allunga, si dilata, non c'è la frenesia solita della televisione. C'è bisogno di una televisione più lenta, che faccia da sottofondo. E quindi viva la Bertè. Orco can.
L'Espresso, 02/11/2006
Questa è tutta un’altra Storia
Questione politica, problema accademico, dilemma culturale, rivendicazione corporativa: se la storia irrompe nella cronaca vuol dire che i confini della disciplina sono saltati, o perlomeno che la dimensione storica non è più un'area delimitata da professionalità specifiche. Non ci sono più vestali che vigilano sul fuoco sacro. Le bordate scagliate dalla tribuna della "Stampa" dallo storico Angelo d'Orsi contro Giampaolo Pansa a proposito del suo ultimo libro, "La grande bugia", potrebbero apparire anche come l'indizio di una gelosia professionale, uno scontro fra competenze incompatibili. Lo storico di mestiere, detentore di una tecnica, scomunica il cronista, il giornalista, lo storico anomalo, colui che scopre il non detto con il suo fiuto di giornalista. Mettiamoci anche l'insofferenza degli storici di sinistra, quelli che Pansa ha chiamato «i guardiani del faro resistenziale» (riprendendo la definizione di un altro storico di sinistra, Sergio Luzzatto), per gli attacchi che Pansa medesimo ha rivolto alla "mitologia" della Resistenza, e il gioco sembrerebbe fatto: la storia scandalosa dell'Italia partigiana raccontata da un outsider, la sua demolizione della leggenda "etica" della lotta di liberazione, così come anche l'attacco durissimo portato alla vicenda del Pci come forza politica nazionale, rappresentano uno sgarro intollerabile per gli storici professionali di sinistra, e specialmente per coloro che si ritengono depositari di una verità politica canonica. Ma d'Orsi non si è limitato a contestare il «rovescismo» di Pansa, infezione finale e letale del revisionismo: lo storico torinese ne ha attaccato formalmente il metodo. Per il professionista degli archivi e delle fonti esiste una professionalità storiografica che fa i conti con le note a piè di pagina, con le bibliografie, con l'esposizione argomentata dei corredi documentari: insomma per raccontare, revisionare o rifare la storia occorre la capacità esclusiva del professionista, la sapienza analitica dell'accademico. Ora, si potrebbe anche liquidare l'argomento citando uno dei più brillanti storici del Novecento, Philippe Ariès, che si autodefinì con civetteria «historien du dimanche»; oppure ricordando la costante irritazione di Indro Montanelli per non essere stato riconosciuto come storico a tutti gli effetti, nonostante le decine di libri di storia pubblicati; ma risulta più interessante l'idea che lo spazio della storia, in particolare per la storia contemporanea, si sia dilatato come un universo in espansione. Non conviene neppure parlare di divulgazione; l'immagine semmai è quella di un flusso ininterrotto di materiali storici, o di un ingente supermercato dei fatti e delle idee, in cui l'opinione pubblica può trovare il prodotto che vuole. È una storia senza limiti disciplinari, in cui gli skinhead di sinistra che contestano Pansa a Reggio Emilia inneggiano polemicamente a Giorgio Bocca (non a un'autorità di sinistra come Claudio Pavone, per dire), intendendolo come depositario della Resistenza buona. Ed è un racconto senza professionalità esclusive, senza un pubblico specifico di professionisti e di dilettanti. Siamo tutti immersi nella storia, in modo attivo o passivo. Canali tematici sulla tv satellitare, un ambito televisivo come quello di Giovanni Minoli ("La storia siamo noi"), impeccabile nel ricostruire eventi politicamente rilevanti ma anche nel ripercorrere il costume italiano, nei santuari dell'intrattenimento, dove il cambiamento è diventato spettacolo e vissuto quotidiano. Oppure film politicamente urtanti, come quello di Michael Moore sull'11 settembre. E qui da noi Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani, autori del fortunato "Quando c'era Silvio" uscito all'inizio del 2006, che a quanto si sa hanno completato il montaggio di un "docu-thriller", un film di storia "simultanea" girato da Ruben H. Oliva, che racconta la terribile notte elettorale del 10 aprile, illustrando il possibile grande broglio elettorale della destra: la tesi di Silvio Berlusconi rovesciata contro di lui. O invece ancora, su un piano popolare, la fiction televisiva che propone biografie una dietro l'altra: da Maria José a Edda Ciano, talora con effetti di buon successo popolare, e talvolta con buone prove storiografiche come per l'Alcide De Gasperi di Liliana Cavani, passando per le vite dei dei santi (Padre Pio da Pietrelcina) e dei papi (Roncalli, Wojtyla) fino all'ultimo episodio tv (Albino Luciani). Ma è chiaro che la storia diventa una miccia nel momento in cui viene assunta come manifesto politico. E sotto questa luce gli steccati fra la storiografia formalizzata e la storia informale diventano permeabili: tanto per dire, esistono almeno due versioni di Renzo De Felice, il biografo di Mussolini: la prima è quella convenzionale di uno storico controverso anche se tecnicamente ineccepibile, l'autore del rovesciamento di prospettiva storiografica sul fascismo, in quanto esploratore degli anni del consenso mussoliniano; l'altra è quella della "vulgata" defeliciana, la sua assunzione a icona della destra sdoganata, che lo trasforma in un totem e lo esibisce a riprova della plausibilità di un'operazione politica, quella dell'inserimento dell'ex Msi diventato Alleanza nazionale, nell'area della legittimazione democratica e poi del governo. A sua volta, aggiunge qualche tassello alla storia italiana la sempre più ricca produzione autobiografica dei grandi vecchi del Pci: vedi la "ragazza del secolo scorso" Rossana Rossanda, la testimonianza di Pietro Ingrao ("Volevo la luna"), l'autobiografia tutta o quasi politica di Giorgio Napolitano ("Dal Pci al socialismo europeo"). Negli ultimi anni si è sviluppato nei convegni un dibattito sul cosiddetto "uso pubblico della storia". È vero che in Italia non si è mai assistito a una polemica come quella dell'"Historikerstreit", la battaglia fra storici che nel 1986 vide gli studiosi tedeschi, da Joachim Fest a Andreas Hillgruber, da Klaus Hildebrand a Wolfgang Mommsen, dividersi aspramente sulle tesi di Ernst Nolte, il creatore del provocatorio paradigma secondo cui «Auschwitz era stato preceduto dall'Arcipelago Gulag», con «lo "sterminio di classe" dei bolscevichi» interpretato come premessa «logica e fattuale dello "sterminio di razza" dei nazionalsocialisti». Ma, come rilevò a suo tempo Paolo Pombeni, gli storici tedeschi sono considerati i costruttori della coscienza, della memoria e dell'identità nazionale, e la tesi dell'azione «asiatica» dei nazisti come risposta all'azione «asiatica» di Stalin, la presenza di un «nesso causale» fra crimini bolscevichi e crimini nazisti, sembrava fatta apposta per risvegliare l'emozione del pubblico. Eppure si può mettere a fuoco un particolare in apparenza minore, ma che oggi assume un rilievo particolare: Nolte pubblicò il suo provocatorio articolo, "Il passato che non vuole passare", sulla "Frankfurter Allgemeine", un quotidiano di qualità, non una rivista accademica; Jürgen Habermas rispose un mese dopo sulla "Zeit", anch'egli dunque fuori dal solco della discussione universitaria, accendendo i fuochi di una polemica mondiale. Sicché oggi non stupisce poi tanto che la nostra "guerra sulla storia" avvenga fuori dal cerchio della ricerca ufficiale. Gli storici come d'Orsi si irritano se circola una specie di storia-spettacolo che sembra cercare volutamente scandali e rovesciare verità, per distruggere miti, leggende, e anche luoghi apparentemente indiscussi, depositi di conoscenza convenzionale e mai contestata. Come il recente pamphlet di Piero Melograni "Le bugie della storia", che smonta alcuni capisaldi della tradizione storica (Marx non sapeva nulla del mondo del lavoro, la Belle Époque non era poi così bella, Hitler non voleva la guerra mondiale, Rosa Luxemburg non era comunista), con il naturale seguito di polemiche sulla verità o non verità della storia. Eppure il saggio di maggiore successo di d'Orsi, "La cultura a Torino tra le due guerre" (uscito con Einaudi nel 2000) fu il tipico caso di un libro accademico proiettato nel dibattito politico da un quotidiano, "Il Foglio" di Giuliano Ferrara, proprio perché demoliva l'idea della Torino antifascista tramandata da Bobbio e dalla Casa Einaudi; e si concludeva con una pagina di impressionante durezza a proposito del ventennio fascista, «età in cui lo "scrittore" - l'uomo di cultura, per dirla in altro modo - credette di poter rinunciare tranquillamente alla propria "dignità", non solo contribuendo per tal via al consolidamento del regime mussoliniano, ma anche gettando le basi per una collocazione servile (...) del proprio ruolo; abdicando così all'elemento essenziale che identifica l'intellettuale, ossia la capacità critica, e il dovere di testimoniarla». E allora, dove finisce il lavoro dello storico e dove comincia l'uso politico della storia? Nella sostanza sembrerebbe che anche la questione storiografica possa essere fatta risalire alla polverizzazione delle competenze determinata dal dilatarsi dell'industria culturale di massa. Oggi la storia potrebbe essere composta dal lavorìo degli studiosi che verificano documenti e tracce scritte, ma anche dalla mappatura di aree non formalizzate: blog, "urban legend" che circolano nel web, voci incontrollate di Wikipedia, mitologie fabbricate per ragioni tattiche o geopolitiche come la varietà di invenzioni sull'attacco alle Torri gemelle nel 2001. Vero e falso, verosimile e fantapolitico si intrecciano così come sono via via diventati più labili i confini tra approfondimento e divulgazione. È una "soap history"? Una variante della fiction televisiva? Che si tratti di una catastrofe scientifica o di un allargamento delle possibilità di conoscenza è un argomento aperto. Per certi aspetti, la storia diffusa, questa specie di Blob che dilaga in ogni settore della comunicazione, è un fenomeno speculare ai processi di mercato, all'esplodere della galassia comunicativa, al proliferare anche commerciale delle "fonti". Nel mondo delle identità frammentate, l'identità storica è il riflesso di un puzzle. Ma allora, come per la democrazia, peggiore dei sistemi possibili tranne tutti gli altri, anche questa storia anonima, diffusa, centrifugata nell'immaginario di massa come bene di consumo, potrebbe essere la peggiore storia possibile, ma anche l'unica a disposizione: quella con cui fare i conti, approfittando dell'infinita varietà di accessi a cui si presta. Qualcosa di non molto dissimile a una selvaggia democrazia della cultura. n
L'Espresso, 02/11/2006
Macchietta papale
La ripresa di "Crozza Italia" su La 7 ha dato adito a giudizi diversi. Critico e con argomenti puntuti Aldo Grasso, più indulgenti o sfumati altri critici. In realtà è difficile giudicare un programma come questo, perché è un programma collage, una collezione di stili, di forme e di format. Ti arriva la spagnola sessuologa che parla della spagnola in spagnolo, e chi vuol capire capisca, ma prima c'era Cofferati. Per cui è il caso di concentrarsi su aspetti specifici: prendiamo ad esempio l'imitazione del papa Benedetto XVI. Si sa che l'imitazione del sacro romano pontefice è stata a lungo uno dei tabù televisivi meglio custoditi. Poi sono saltate le convenzioni, e ciò che una volta veniva soltanto accennato, facendo smorfie contrite, è diventato pura normalità. Si parodizza anche il papa. Ma l'imitazione che Crozza ha realizzato prendendo di mira Joseph Ratzinger non è propriamente un'imitazione: è una caricatura. Ed è una caricatura pesante, che fa poco ridere, che vorrebbe essere cattiva e alla fine risulta più che altro scentrata. Perché Crozza ha creato una macchietta in cui l'imitazione dell'aspetto fisico è riuscita, ma non è riuscita affatto l'imitazione del carattere. Far vedere un Ratzinger stridulo, che fa urletti in una lingua italotedesca da Sturmtruppen, tradisce l'oggetto dell'ironia. "Kvesto papa" non è il manichino frenetico di Crozza: per fare emergere l'essenza ratzingeriana occorre metterne a fuoco la combustione fredda, il rigore corretto da un'ironia leggera, senza trasformarlo in un burattino elettrizzato. Si poteva anche temere che la disinvoltura dello sketch risvegliasse sentimenti di offesa, ma non sembra che si siano alzati lamenti molto alti, dal Vaticano o dagli ambienti cattolici suscettibili. Ma se fossimo in Crozza e nei suoi autori, ci penseremmo due volte prima di ripresentare la macchietta papale: perché per illustrare Ratzinger ci vorrebbero ironia e cultura chestertoniane, oppure il tocco al borotalco di Evelyn Waugh. In un programma della tv italiana, la figura del papa con il camauro e gli scarpini, circondata dalla volgarità tipica della tv, è esclusivamente una caduta di gusto, come ogni performance malriuscita. Quindi voto insufficiente a Crozza e al programma: ma un buffetto, non un ceffone, in modo che l'allievo possa riprendersi, applicandosi, fino a raggiungere, a dispetto di critici, criticoni e critichini, la sufficienza.
L'Espresso, 26/10/2006
Come siamo Gentiloni
Morbida, mite, equilibrata. Gli aggettivi dedicati dal centrosinistra alla riforma del sistema televisivo firmata dal ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni sono tutti omogenei. Si mette un accento gentile sulla parola chiave, "mercato". Ed è logico: in un sistema moderno dei media, la libertà di informazione è proporzionale alla pluralità dei soggetti televisivi. La democrazia economica equivale alla democrazia politica. Ma si può davvero trattare la televisione in Italia come una questione industriale e commerciale? Evidentemente no. Abbiamo una storia perversa alle spalle, che rende superfluo segnalare ancora una volta come intorno al duopolio si sia incentrato il nucleo più bruciante del conflitto (o della convergenza) di interessi riguardante Silvio Berlusconi. Dopo le elezioni del 1994 fu un sociologo allora conosciuto soltanto nella comunità scientifica, Luca Ricolfi, a indicare che la tv aveva spostato a favore del centrodestra un decimo dell'elettorato, quattro milioni di voti (per questa valutazione Ricolfi fu subissato da critiche severissime). E uno degli sforzi principali dei berluscones, in tutti questi anni, è consistito nell'opera di convincimento tesa ad affermare l'idea che la tv non ha un'influenza reale sulle preferenze elettorali dell'opinione pubblica. Era pura propaganda, naturalmente, seppure condotta al livello di un capolavoro: e per i cinque anni di governo della Casa delle libertà il sistema politico-mediatico italiano, con la proprietà di Mediaset e il controllo della Rai, ha rappresentato un caso inedito nella vicenda delle democrazie moderne. In realtà, la televisione è la politica. Lo sa Berlusconi come lo sanno i suoi avversari. È uno strumento che condiziona e manipola. Gestisce il flusso di informazioni così come convoglia il consenso. Ci si poteva aspettare per questo che negli scorsi anni il centrosinistra, dall'opposizione, lanciasse una spregiudicata campagna per smantellare l'anomalia, anche con soluzioni di ristrutturazione spettacolare, che servissero perlomeno a mantenere alto il livello polemico e a rendere consapevole l'opinione pubblica, mitridatizzata dalla Cdl. Mercato contro monopolio. Privatizzazioni contro il controllo politico. Ciò non è avvenuto: per cinque anni il centrosinistra ha combattuto a palmo a palmo sul terreno della Rai, senza sfuggire al sospetto di una lottizzazione contrattata; e probabilmente la riforma Gentiloni è la figlia, non indecente ma chissà quanto adeguata, di una timidezza durata troppo a lungo. Vero è che dopo le elezioni ogni riforma incisiva sarebbe stata impugnata dalla Cdl come un esproprio e un attentato alla libertà d'impresa. Occorreva quindi una soluzione politica, che avviasse una trasformazione graduale senza prestare il fianco all'accusa di pratiche illiberali. Sotto questo profilo, la reazione di Berlusconi all'annuncio della legge è stata di una chiarezza accecante: un atto di «banditismo». Praticamente un appello alla resistenza contro un disegno "comunista". In realtà, la proposta del ministro corre su un binario strettissimo: deve puntare sulla creazione di un mercato non monopolistico senza scatenare una guerra civile sugli interessi di Berlusconi. Ovvero, deve provare a limitare gli effetti distorsivi del duopolio senza che ciò appaia come una vendetta post elettorale. Che il progetto sia adeguato a questa finalità è tutto da verificare. Berlusconi farà carte false per non perdere la sua rete analogica. Il passaggio sul digitale di una rete Rai sarà un campo di battaglia fra interessi politici confliggenti anche a sinistra. Per ora il disegno del ministro assomiglia quindi a un'apertura di tavolo, in cui si dichiarano intenzioni e si indicano obiettivi. Poi la partita si sposterà sul campo parlamentare e si vedrà il risultato. Sulle prospettive di lungo periodo è difficile esprimere giudizi: il sistema televisivo del futuro, fra digitale, satellitare e banda larga, è terra incognita. Secondo le previsioni più ottimistiche, la televisione a venire conterrà una tale varietà di offerta da rendere anacronistica ogni idea di controllo politico. Ma il problema riguarda il futuro più o meno immediato. E su questo piano la riforma Gentiloni rappresenta più che altro un approccio al problema, non certo la soluzione. La parte politica più rilevante della sua iniziativa è l'abrogazione di fatto della legge Gasparri, che era stata l'espediente "di sistema" inventato dalla Cdl per mantenere intatto il potere mediatico berlusconiano. Tuttavia il taglio del duopolio, con la spedizione sul digitale di una rete Rai e una rete Mediaset, non è certamente un provvedimento risolutivo. Per ciò che riguarda il complesso televisivo di Berlusconi, il mantenimento di due reti attenua quantitativamente l'anomalia (sebbene il tetto pubblicitario del 45 per cento sul totale sia ancora molto elevato). Mentre per quanto concerne la Rai, per ora non viene toccato il problema del controllo politico del cosiddetto servizio pubblico. È realistico pensare che il progetto Gentiloni sia l'unico compromesso ragionevolmente possibile in questo momento fra le ragioni del pluralismo democratico e l'entità del problema patrimoniale e politico costituito dalla televisione. Intanto perché apre la via all'ingresso di soggetti ulteriori, nuove reti e dunque nuovi editori che occuperebbero le frequenze liberate; e di conseguenza perché in questo modo le posizioni dominanti (dominanti anche in chiave politica) verrebbero stemperate in un'articolazione più ampia. Ciò nonostante, almeno nel medio termine il sistema televisivo rimarrà fortemente condizionato dalla politica, e non soltanto sul versante Mediaset. Per la Rai, infatti, si parla di un ridisegno della governance, sul modello della Bbc, che affianchi al controllo del Parlamento altri attori (sindacati, rettori universitari, associazioni degli utenti e dei consumatori, autonomie locali) tale da sottrarre il consiglio d'amministrazione all'imperio delle maggioranze politiche. Le linee generali di questa ipotesi dovranno comunque essere vagliate dal Parlamento, ed è difficile sfuggire al timore che la portata del problema implichi l'apertura di un negoziato, di portata talmente vasta da implicare potenzialmente un estenuante gioco degli scambi e dei veti. Probabilmente quella di Gentiloni è la meno peggiore riforma possibile nel peggiore dei mondi (televisivi) reali. Di certo anche il programma dell'Unione si era tenuto alla larga da modelli rivoluzionari, concependo pur sempre la Rai come una realtà «che dovrà essere preservata, come forza industriale, editoriale e produttiva». Alla larga quindi da privatizzazioni integrali, e dalla costruzione dall'alto di un mercato vero: c'è nel centrosinistra, o almeno nella sua componente maggioritaria, un rifiuto di ogni idea di dismissione del servizio pubblico, anche bilanciata dallo smantellamento e dalla collocazione sul mercato del monopolio Mediaset. Per questo la proposta di Pier Ferdinando Casini, privatizzare RaiUno, è stata accolta come una provocazione. Non è tempo di rotture spettacolari, si tratta di ridimensionare, limare, armonizzare. Nella convinzione che poi la rivoluzione avverrà da sola in seguito al cambiamento tecnologico. Resta solo da capire che cosa succederà nell'età di mezzo, fra l'epoca analogica e l'epoca digitale, fra la tv generalista e quella tematica, nel lungo guado fra l'anomalia e il mercato. In cui la politica farà il possibile per tenersi stretto ogni monopolio residuo, grande o piccolo che sia. n
L'Espresso, 26/10/2006
Fazio e Fiorello amore al coltello
Ma il centrosinistra fa poi bene o fa male alla televisione pubblica? O per la precisione: fa bene o fa male ai televisivi? Recenti litigi, risse verbali e scritte, ordalie clandestine, vendette promesse, interviste minacciose, rappresaglie minacciate e altre quisquilie sembrerebbero attestare che l'Unione fa male, anzi, provoca sindromi da "homo homini lupus", induce la perfetta disunione. Altro che lo storico duello solitario fra Paolo Bonolis e Antonio Ricci: qui si è vista una bella successione di "scazzi & sgarri", con la Rai ridotta a quello che talvolta i migliori editorialisti definiscono "un campo di Agramante" (ma non chiedete all'editorialista chi sia o che cosa sia Agramante, non lo sa nessuno). Agramante o no, ecco Fabio Fazio contro Fiorello in seguito a invasione di campo; voilà Daniele Luttazzi, ancora fuori dall'etere, schierato contro il presunto qualunquismo casalingo di Luciana Littizzetto; e infine, infine per ora, la faida settimanale tra il Michele Santoro di "Annozero" e il "Ballarò" di Giovanni Floris, a colpi di share. Insomma, ce n'è per tutti i gusti. Ah, che bei tempi quando tutti erano passibili di possibili editti bulgari, e dunque la solidarietà regnava nell'etere. Gli ostracizzati di tutto il mondo si univano, dato che non avevano da perdere niente se non le loro antenne incatenate. Ma adesso, eh, adesso la situazione è cambiata. Adesso vige l'Auditel, contano soltanto gli ascolti. Per un Biagi che come al solito sbanca, qualcun altro arranca. Prendere partito per questo o per quello non serve a niente: l'homo televisivus, sottospecie dell'homo mediaticus, sotto il regno del centrosinistra si rivela per quello che è. Un cacciatore di ascolti, un predatore di telespettatori. Senza pietà per nessuno. Sicché Fiorello è buono e bravo, anzi ottimo e bravissimo, ma se invade lo spazio-tempo di Fazio la convivenza diventa sanguinosa. E intanto sono nati o stanno per nascere diversi partiti: c'è la tv di sinistra radicale, capeggiata da Santoro, e la tv di sinistra riformista, guidata da Floris. C'è il movimento fazista e il blocco fiorellista, su cui non sono prevedibili larghe intese. Conclusione: l'unità nazionale si è spezzata. Ci sarebbe una sola persona capace di rappattumare i cocci, e naturalmente è Walter Veltroni: il quale però si è dato alla festa del cinema. Mentre al momento si tratta di fare la festa alla televisione.
L'Espresso, 19/10/2006
Operazione Finanziaria
Ha da passà 'a Finanziaria, proprio come la "nuttata" di Eduardo. A mano a mano che trascorrono i giorni e si deposita il polverone, la manovra del governo Prodi comincia a essere identificabile anche come atto di indirizzo politico, e cioè nei suoi profili e contenuti generali. Intanto: che la compagine di centrosinistra abbia sbagliato il messaggio è un dato di fatto. Con una mediocre gestione della comunicazione, e con alcuni provvedimenti "esemplari" quanto mediaticamente catastrofici come l'innalzamento delle aliquote oltre i 75 mila euro di reddito, è caduta nell'unica vera trappola che doveva evitare: presentarsi all'opinione pubblica come il governo delle tasse. Esattamente l'accusa preventiva che il fronte della Casa delle libertà e in primis Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti avevano rivolto all'Unione. Tasse. Un vorticare di calcoli sulle aliquote. Il sospetto di un intento punitivo sui ceti medi, nel solco della tipica vendetta di classe. Un provvedimento di finanza staliniana, secondo il lessico non proprio aggiornato del Cavaliere. Misure dall'impronta sovietica, destinate all'appiattimento dei redditi. Il ceto medio-alto come i kulaki dopo la Rivoluzione, allora? «Certo, abbiamo costruito un provvedimento di centrosinistra», dice con un sussulto d'orgoglio uno degli uomini più vicini a Prodi, il ministro per l'attuazione del programma Giulio Santagata. Come per dire: che cosa si aspettava da noi il paese, la "spaghetti supply side economics" della Cdl? La finanza creativa del predecessore di Padoa-Schioppa all'Economia? Oppure una secca inversione rispetto al governo Berlusconi? Blindato nel fortino di Palazzo Chigi, Enrico Letta riflette a mezza voce: «Alla prova dei fatti una politica di rigore non piace mai a nessuno. Ma dobbiamo pensare che questa è la prima di cinque leggi finanziarie, non un episodio contingente: adesso ci siamo tolti il dente del risanamento dei conti pubblici, e nei prossimi anni abbiamo la possibilità di puntare tutto sullo sviluppo». Le conseguenze sono chiare: di qui a Natale si apre un campo di battaglia che ha per posta la sopravvivenza del governo, della legislatura, dell'intera esperienza di centrosinistra. Comincia un tiro alla fune in cui le mediazioni e le correzioni sono in una certa misura compatibili con l'impianto generale, data l'ampiezza della manovra; ma senza perdere di vista il senso complessivo del provvedimento, pena il precipitare nella farragine amministrativa, in un flagello di balzelli e gabelle temperato solo da negoziati e compromessi da prima Repubblica. In ogni caso, dopo il primo pesantissimo fuoco di sbarramento, in campo governativo si intravede un barlume: dal muro contro muro di tutti con tutti, si è passati alla tipica fase in cui ci si guarda, preparandosi al negoziato. Vero è che sulla qualità della Finanziaria il giudizio è generalmente di segno negativo. Un commentatore come Ilvo Diamanti ha segnalato l'assenza di una «missione» nell'attività del governo, vale a dire di un traguardo come l'euro o la prestazione eccezionale resa necessaria da un'emergenza assoluta. Nell'ala riformista dell'Unione, Nicola Rossi ha sintetizzato il giudizio scrivendo sul "Corriere della Sera" che si chiude tristemente una stagione, si interrompe e cambia di segno la prospettiva di «innestare nella cultura della sinistra italiana i temi tipici di un'analisi liberale della società». Equità e lotta alla precarietà sostituite alla crescita. Si torna al «tassare per spendere». Una soluzione legittima sul piano politico ma che culturalmente significa un grippaggio ideologico e programmatico. Il sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, si è messo a capo del fronte dei sindaci, segnalando non soltanto la botta inflitta agli enti locali, probabile generatrice di nuova fiscalità, ma la «discussione surreale» sulla ricchezza, che testimonia un'intenzione redistributiva inefficace, con una conseguenza «particolarmente negativa per il centrosinistra». Il che significa che l'Unione non ha le idee chiare neppure sulla sua base più chiara di consenso politico, il lavoro dipendente di livello medio-alto. Mentre, per il lavoro autonomo, il presidente della Confcommercio, Giancarlo Sangalli, enumera i punti brucianti: «Stretta sugli studi di settore, aumento dei contributi per i lavoratori autonomi e gli apprendisti, tassa di soggiorno ai danni del turismo, la nostra categoria si sente perseguitata». Mettiamoci anche la questione del passaggio di una quota del flusso di Tfr all'Inps, i due punti di cuneo rifluiti con un gioco di prestigio nel ridisegno dell'Irpef, e dunque praticamente volatilizzati per i lavoratori dipendenti, il peso delle misure per le piccole imprese (che secondo un'analisi dell'ufficio studi della Confartigianato graverà sul settore per due miliardi di euro), i ticket sanitari, il paventato incremento dell'Ici, l'aggravio tributario sulle donazioni e successioni, il superbollo sui Suv, insomma il «pulviscolo fiscale», come l'ha definito Giuseppe Berta, che si è alzato sul reddito degli italiani, e il giudizio sembrerebbe scontato e senz'appello. La legge finanziaria per il 2007 sarebbe un infarto politico-culturale del centrosinistra. Oltretutto, con riflessi evidenti sul grado di consenso del centrosinistra, come risulta dalle indagini demoscopiche e come traspare dal sondaggio dell'Swg pubblicato in queste pagine. Pollice verso, quindi. Eppure il quadro non è immobile. I segnali di una jacquerie del mondo imprenditoriale verso il governo di centrosinistra si sono rapidamente smorzati. L'incontro annuale dei giovani imprenditori a Capri, che poteva trasformarsi in una "Vicenza 2", con una rumorosa revanche dell'ala filoberlusconiana della Confindustria, si è concluso con il congelamento delle ostilità: in parte per l'abilità dimostrata in questa occasione da Luca Cordero di Montezemolo («Non facciamoci dividere dalla politica»), ma in parte per la sensazione che ha preso a circolare nell'ambiente confindustriale, secondo cui, come ha riassunto in un'intervista il nordestino Andrea Riello, gli industriali ricevono da questa Finanziaria, a partire dai tre punti di cuneo contributivo, più di quanto abbia mai portato a casa il collateralismo polista di Antonio D'Amato. Tanto che a fine settembre, durante un incontro pubblico a Reggio Emilia per i cent'anni della Cgil, il segretario Guglielmo Epifani si era lasciato andare: «I tre punti di cuneo alle imprese? La verità è che il taglio si fa per una promessa elettorale, ma molti nella maggioranza sarebbero contenti di non farne più niente, visto che da mesi le aziende hanno ricominciato a fare profitti...». A Bologna, assemblea annuale della Confindustria petroniana, la "pace fredda" con Prodi è stata siglata dal presidente Gaetano Maccaferri con il dono di una bicicletta Colnago da corsa marchiata Ferrari, ma soprattutto con la dichiarazione di non belligeranza garantita dal finanziamento della metropolitana. Circola la sensazione che gli squilli di guerra delle imprese contro il governo provengano dalla base più vocalmente schierata a destra, i berluscones che affliggono le sedi territoriali con proteste, lettere e fax reclamando "facite 'a faccia feroce", più che al mainstream confindustriale, propenso a incamerare i vantaggi del cuneo e a capitalizzare quindi la ripresa. E allora dov'è il vero ostacolo del governo, il suo punto critico? Fermo restando che i numeri al Senato sono quelli che sono, non appare una minaccia troppo grave il "tavolo dei volonterosi" promosso dal leader radicale Daniele Capezzone e dall'udc Paolo Messa per introdurre modifiche liberali nel testo della Finanziaria: la possibilità di slittamenti politici verso prove di larghe intese è talmente evidente da essere già stata sterilizzata con gli ukase del segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano e simmetricamente dell'ex ministro leghista Roberto Maroni. Sul versante europeo, Prodi e Padoa-Schioppa hanno incassato il via libera del commissario Joaquin Almunia e del presidente dell'eurogruppo Jean-Claude Juncker, che ha definito «impressionanti» gli sforzi del governo. Forse comincia ad assomigliare alla realtà ciò che si aspettavano i più scafati nel circuito prodiano di Palazzo Chigi: dopo una veemente fase di wrestling, si passerà pragmaticamente alla verifica empirica, al calcolo di chi guadagna e chi perde, alla trattativa in aula e con le lobby. Su questo terreno, il governo può farcela. Può sopravvivere politicamente, anche se sul piano della cultura politica, del messaggio al paese, come indicazione di un profilo di società desiderabile, il quadro è quello di un'operazione di ordinaria (o straordinaria, pensando alle dimensioni della manovra) democristianeria. L'imperativo cruciale è condurre in porto la seconda Finanziaria per entità, dopo quella di Giuliano Amato dell'autunno 1992, costi quel che costi: anche se il riformismo deve attendere, e per «l'Italia che vogliamo», vecchio slogan ulivista di dieci anni fa, occorrerà aspettare tempi meno perigliosi. n
L'Espresso, 19/10/2006
Se Morandi fa Celentano
Alla fine, "Non facciamoci prendere dal panico" una mezza sufficienza la prende. Per l'insieme dello spettacolo itinerante condotto da Gianni Morandi, non per i suoi elementi. Smontata in tanti pezzi, la produzione Morandi-Ballandi è piena di pecche. Il monologo iniziale, basato sul dualismo "ce l'ho/mi manca", fiacca ripetizione di "rock/lento", è un trionfo dell'ovvietà, e viene salvato dall'espressività del Gianni nazionale (che qui hanno cercato di incattivire un po', complice Diego Cugia, di farlo celentaneggiare, esibendone l'età e «le rughe un po' feroci sugli zigomi»). L'attrice spagnola Esther Ortega non ha i tempi, né comici né brillanti, del varietà, e di solito trasmette gelo: tremenda poi, da Forlì, la gag presunta in cui si apre la giacca e mostra una cintura esplosiva da martire islamista solo per dire basta all'esibizione di un gruppo di spettacolari oche giulive guidate da Paul Sorvino. Eccetera eccetera. Il momento migliore della seconda puntata dello show è stato quando è apparso un faccione che sembrava quello di un imitatore dilettante di Silvio Berlusconi, e invece era nientemeno che Paul Anka (di cui non si riesce più a parlare senza ridere dopo l'aneddoto raccontato da Iva Zanicchi: in un teatro emiliano, il presentatore sta cercando di intrattenere la platea nell'attesa di Paul Anka, che è in tremendo ritardo; ma dopo due ore, stremato dall'ennesimo spergiurante «stiamo aspettando Polànka, sta arrivando Polànka», uno spettatore inferocito sbotta: «Polànk'ander a caghèr!»). Lo spettacolo regge quando c'è lui, Morandi, con le sue canzoni vecchie e nuove. Quelle nuove, mica un granché: ma come si fa, dopo oltre quarant'anni di carriera, gli studi di contrabbasso, l'abitudine quotidiana alla musica, a non capire se un pezzo è buono o no? Ma insomma, averne, di protagonisti così professionali, anche quando si infilano in discorsi da supercazzola sul Viagra o sui matrimoni gay. Pollice verso, invece, sui duetti virtuali in bianco e nero con i cantanti che furono, per i quali va riesumata (in senso letterale) la storica definizione di Aldo Grasso relativa ai programmi di Paolo Limiti («Un karaoke dall'oltretomba»). Effetti mortali con Giorgio Gaber, Lucio Battisti, Anna Magnani. Ottimo invece un duetto reale con Francesco De Gregori. Comunque, il pubblico applaude appassionatamente i vivi e i morti, e forse il messaggio del programma è proprio lì.
L'Espresso, 05/10/2006
La morale dei nostri capitalisti
È possibile che all'opinione pubblica sfuggano i contorni effettivi del caso Telecom, anche perché a un problema di strategia industriale si aggiunge un colossale affare di spionaggio, le cui finalità sono ancora tutte da accertare («Un attentato alla democrazia», lo ha definito Guliano Amato). Sicché non è chiaro a che cosa si debba il colpo di scena che ha movimentato lo scontro con il capo del governo, e cioè le dimissioni di Marco Tronchetti Provera dalla presidenza del gruppo telefonico. Una via di uscita e una soluzione di garanzia, con la nomina di Guido Rossi come forza di interposizione fra la Telecom e Romano Prodi? Oppure una misura prudenziale di fronte allo scatenarsi del caso spionistico, cioè dell'affaire che investe l'azienda, i suoi possibili concorrenti o alleati, i servizi segreti, gli ambienti del calcio? Ogni risposta è arbitraria, ma intanto sarebbe il caso di soffermarsi sulla questione industriale, a cominciare dallo scontro con il governo. Di cui si sono esaminati molti aspetti, ma non si è discusso affatto su come mai un uomo misurato come Tronchetti Provera, un caposcuola nell'arte di non sbilanciarsi, ha deciso di scatenare una guerra totale contro Palazzo Chigi. Ancora non si è capito infatti per quale ragione il "documento Rovati" è stato fatto arrivare alla stampa: quella mossa non è nel galateo imprenditoriale, non appartiene alle consuetudini; è piuttosto una iniziativa ascrivibile a un capitalismo avventuriero, che si sente nella condizione di rompere ogni vincolo di riservatezza e qualsiasi rapporto fiduciario. Non si era mai visto un gruppo economico decidere di innescare uno scontro così violento con l'istituzione governo. A quale scopo, poi, è difficile dire. Anche l'osservatore profano può intuitivamente ritenere insensata la decisione di cominciare una guerra sganciando una bomba potentissima non convenzionale, cioè divulgando il piano «artigianale» proposto da Angelo Rovati, senza avere un'idea sulla strategia successiva. A meno che, naturalmente, le idee non fossero chiare o chiarissime nella mente degli autori, e implicassero ipotesi piuttosto dettagliate su cessioni o accordi potenzialmente sgraditi al governo. Tutto questo sembra ridimensionarsi, dopo l'esplodere del caso spionistico; ma sarà bene non dimenticare che la Telecom è anche un problema economico: peggio, una matrioska di problemi, economici, industriali, giuridici, e alla fine anche etici. Perché non c'è soltanto quella specialità tutta italiana costituita da una catena di controllo a base di scatole cinesi, che attestano la debolezza del regolatore pubblico di fronte alla capacità dei soliti noti di trasformare una public company in un affare privato. E non si tratta soltanto di quella incertezza nella strategia industriale che fa passare un colosso come Telecom dai progetti di integrazione fra telefonia fissa e mobile allo scorporo della Tim e quindi alla sua possibile alienazione. Questa o quella pari sono? In attesa della risposta, e in attesa anche degli sviluppi dell'affare spionistico, ci sarebbe anche da mettere a fuoco uno degli aspetti più sgradevoli emersi dall'inchiesta giudiziaria: vale a dire il gioco delle tre tavolette, o dei tre conti bancari, che secondo i magistrati milanesi consentiva di piazzare i profitti sulle operazioni di Borsa sui conti personali dei vertici Telecom, e le perdite sul conto dell'azienda. Se questa ricostruzione fosse confermata, saremmo davanti a una interpretazione originale del giudizio di Ernesto Rossi sul capitalismo italiano, capace tutt'al più di «privatizzare i profitti e socializzare le perdite». Naturalmente occorrerà aspettare che la ricostruzione sia confermata, prima di emettere valutazioni sulle persone. Ma intanto, si fosse sentita una frase, un giudizio, anche un sospiro da parte del mondo economico e imprenditoriale italiano: così pronto a sanzionare duramente il dirigismo e lo statalismo, vero o presunto, del governo, ma non particolarmente efficiente nell'indicare che comportamenti simili non appartengono alla moralità del capitalismo moderno. Fatte salve le figure di Tronchetti, Buora e compagni, illibate fino a prova definitiva e contraria, sarebbe o non sarebbe benvenuta qualche parola autorevole sul fatto che certe pratiche, sia detto sommessamente e senza demagogia, non sono un esempio di come dovrebbe funzionare l'economia di un paese civile, moderno, liberale, trasparente, competitivo (e via capitalisticamente moraleggiando)?
L'Espresso, 05/10/2006
La versione di Pansa
C'è un modo divertente, gossiparo, dagospione di leggere il nuovo libro di Giampaolo Pansa, che si intitola "La grande bugia", sottotitolo "Le sinistre italiane e il sangue dei vinti", e che Sperling & Kupfer manda in libreria il 3 ottobre. È sufficiente infatti scorrere le quasi 500 pagine del volume per trovare una messe di litigi, polemiche, duelli giornalistici, storiografici e politici nati in seguito alla pubblicazione delle ultime opere di Pansa (per l'appunto "Il sangue dei vinti" e "Sconosciuto 1945", con cui il maestro cronista Pansa aveva riaperto le pagine della storia sui giorni della "vendetta" antifascista dopo il 25 aprile 1945). In questa lettura voyeuristica, ci sarebbe soltanto l'imbarazzo della scelta. Sciabolate con Giorgio Bocca, «l'Uomo di Cuneo», «campionissimo delle contraddizioni», antiberlusconiano e filoberlusconiano, antileghista e pro-leghista, che «oggi è un antifascista d'acciaio ma prima di fare il partigiano è stato un fascista scaldato e un razzista antisemita». E se pur nella polemica virulenta con Bocca permane un certo stile tracotante da fratelli coltelli, da duellanti dello stesso mestiere, in cui il disprezzo odierno è la faccia cattiva di una vecchia ammirazione, le convenzioni invece crollano quando il confronto avviene con figure meno rilevanti del grande cronista Bocca, «maestro professionale» ai tempi del "Giorno". Che si tratti del socialista Aldo Aniasi, o del rifondatore comunista Sandro Curzi, ma anche di storici come Sergio Luzzatto, Angelo d'Orsi, Giovanni De Luna, i colpi di Pansa potrebbero fare la felicità di ogni cultore del pettegolezzo. Ma ridurre "La grande bugia" a una tessitura di maldicenze, piccolezze, ripicche, compresi gli insulti di cui, scrive Pansa, «mi hanno ricoperto: bugiardo, falsario, cinico opportunista, voltagabbana, servo di Berlusconi, traditore, amico dei fascisti», significherebbe tradire il significato di un libro ben più che scomodo o irritante, che potrebbe avere nel dibattito storico- politico italiano un effetto perfino superiore allo choc provocato tre anni fa da "Il sangue dei vinti" (attestato anche dalle 400 mila copie vendute e dalle oltre 2 mila lettere «di persone che volevano raccontarmi la loro storia»). Perché la qualità del nucleo storico, politico e polemico del nuovo libro di Pansa si può ridurre a un solo aggettivo: micidiale. E non soltanto nel ridefinire la guerra di liberazione; ma soprattutto, ed è il tratto politicamente bruciante del libro, nel mettere a fuoco l'identità e il ruolo del Partito comunista nella storia italiana. Facendola a pezzi. Proviamo a riassumere: secondo Pansa, la storia della Resistenza è stata stravolta «da un diluvio di faziosità, di ipocrisie, di opportunismi partitici e ideologici, di retorica, di falsità». È un «lavoro truccato». È la grande sofisticazione della «vulgata» antifascista, come la chiamava Renzo De Felice, che intacca anche la verità vera, l'autenticità fenogliana della lotta di liberazione con i suoi chiaroscuri e i suoi contrasti interni. Una leggenda storica che ha sostituito alla realtà fattuale una leggenda politica. Ancora più esplicitamente: una sola grande bugia composta da una costellazione di sette bugie. Vediamolo, allora, il catalogo delle sette bugie, o leggende. In primo luogo, secondo Pansa non è vero che per i comunisti la Resistenza sia stata una lotta di liberazione dal fascismo e dal nazismo, «senza altri propositi nascosti». Per molti dirigenti e militanti, la guerra in montagna e la vittoria contro i nazifascisti era il passaggio naturale e obbligato per giungere alla conquista del potere, ossia alla formazione di «una democrazia popolare comunista, dominata da un partito unico e subalterna al totalitarismo sovietico». Un destino praghese, o ungherese, dominato dalle figure tragiche di Slánsky e Masaryk era dunque nei piani di un partito internazionalista, legato alla potenza dell'Urss, che «si reggeva su un regime totalitario, non diverso da quello nazista e fascista». La seconda "leggenda" che regge il castello della mitologia resistenziale è che gli italiani fossero contrari al regime di Mussolini: il consenso alla dittatura, descritto da De Felice, si protrasse anche all'epoca della Rsi, con un'Italia profonda che non era e non si sentiva estranea alla storia del fascismo. La terza leggenda racconta che la Resistenza è stata una guerra di popolo, una gloriosa esperienza di massa: cioè la visione ideologica lanciata da Luigi Longo nel 1947 con "Un popolo alla macchia": «un libro bugiardo», che argomentava come «tutti gli italiani delle regioni occupate dai tedeschi si fossero epicamente sollevati contro i nazisti e i loro alleati fascisti. Ma non è andata così. La nostra guerra interna è stata combattuta soltanto da due minoranze: quella antifascista e quella legata alla Repubblica sociale. E quest'ultima, soprattutto nelle grandi città dell'Italia settentrionale, era più robusta della prima». Quarta leggenda: la cosiddetta "zona grigia" (il copyright è ancora una volta di De Felice, per definire gli italiani che si mantennero estranei alla guerra civile) era molto più estesa di quanto non voglia l'agiografia. E ancora: è un mito, il quinto della lista, l'idea che la grande maggioranza della popolazione, soprattutto quella contadina, fosse schierata tutta con i partigiani. Nella realtà, i piccoli proprietari erano diffidenti, e non di rado la diffidenza diventava rancore: «Quelli fanno i loro comodi, ammazzano un fascista o un tedesco, e poi scappano, lasciandoci nella bagna». E poi, perché aiutare i partigiani? «La guerra finirà non per merito loro, ma quando arriveranno gli americani e gli inglesi». La sesta leggenda, una delle più scottanti, concerne «i numeri dell'esercito partigiano». Esistono soltanto i dati della «burocrazia partigiana e della vulgata, la versione più diffusa della storia resistenziale», sostiene Pansa, raccolti «con lo scopo di accreditare l'esistenza di una forza davvero imponente», mentre le cifre andrebbero sostanzialmente ridimensionate. L'ultima finzione, la settima, investe un altro tema cruciale, l'unità politica della Resistenza: «Al contrario di quel che sostiene l'agiografia resistenziale, è sempre stata più formale che sostanziale». Non c'è solo la tragedia di Porzûs, massacro comunista di partigiani non comunisti. Sono infatti innumerevoli i casi di scontri intestini, delazioni, «giochi sporchi e rese dei conti brutali». E secondo Pansa «fa parte di questa storia negata un'altra pagina quasi sconosciuta: il lavorio continuo dei comunisti per garantirsi il massimo controllo possibile del movimento partigiano». Ci avviciniamo al clou: perché la tesi dell'autore è che questo controllo totale i comunisti «lo volevano in vista del secondo tempo del film: la conquista del potere in Italia con le armi e non con le elezioni». Ecco il punto. Perché è vero che i dirigenti politici e militari del Pci rappresentavano «il nerbo della Resistenza» e «senza di loro non ci sarebbe stata nessuna guerra di liberazione». Ma «i dirigenti comunisti guardavano al di là del 25 aprile. Pensavano al dopo. E si preparavano». Il fatto è che se si accetta il punto di vista secondo cui «per molti quadri del Pci la guerra di liberazione era soltanto un capitolo di una grande guerra europea prossima ventura», e che essi si consideravano «comunisti staliniani prima che comunisti italiani», c'è una conseguenza politicamente ingombrante. Vale a dire che sul terreno minato della Resistenza, e dietro gli eccidi post liberazione, rimane sul terreno anche l'immagine mitologica del Pci, l'autorappresentazione "gramsciana" di un processo continuo nella sua specificità di esperienza nazionale irriducibile all'internazionalismo e alla subalternità staliniana. Gli storici bollati come «guardiani del faro resistenziale» (riutilizzando la definizione di un antirevisionista come Sergio Luzzatto) obietteranno che le valutazioni di Pansa sono il frutto di una visione da cronista, che legge episodi frammentari e li irradia come prove coerenti verso una tesi in realtà non dimostrabile. Vale a dire che anche la sua è una tesi soggettiva. Pansa risponderà rivendicando la verità empirica delle storie da lui ricostruite, e la loro forza sovrana rispetto alle mitologie politiche. Di sicuro sarà difficile eludere l'"hic Rhodus, hic salta" dell'autore, il suo imporre nel dibattito un argomento da cui non sarebbe serio svicolare ricorrendo ai manierismi di una storia addomesticata dalla politica. Libro dalle molte sfaccettature, ora sgradevoli, ora scettiche, ora sconsolate, ma sempre con l'intenzione esplicita di connettere il passato storico a un presente politico, di riscontrare le implicazioni di allora sulla sinistra di oggi, alla fine "La grande bugia" può essere letto come un esorcismo per riportare la nostra storia nel solco della verificabilità storica, ossia, come dice Pansa, «per ridare alla Resistenza vera e agli uomini che la fecero ciò che è stato loro sottratto dalla inautenticità del costrutto ideologico». In questo senso occorre davvero fare i conti con il puntiglio da cronista dell'autore, con il suo scetticismo pragmatico, anche quando sembra infierire provocatoriamente: «La vulgata resistenziale ha sempre sostenuto che le città dell'Italia del nord insorsero contro i tedeschi e i fascisti. E si liberarono da sole, combattendo, prima dell'arrivo degli Alleati. Anche se qualcuno cercherà di smentirmi, sono convinto che non ci sia stata nessuna vera insurrezione». Oppure si può leggere questo libro come un complemento ai volumi precedenti di Pansa, un'altra raccolta di storie tremende dopo il 25 aprile: la più esemplare e simbolicamente efficace potrebbe essere la "guerra dei morti", lo scontro fisico fra madri di partigiani e madri di repubblichini nel cimitero di Casale Monferrato, un 2 novembre del 1945 che nella memoria appare quasi più luttuoso della guerra stessa: «Un parapiglia orribile, generato da dolori troppo recenti per essere sopiti. Lumini distrutti. Crisantemi spezzati. Tombe calpestate. Mia madre tornò a casa sconvolta». Ma se si prende sul serio la stringente logica interna della ricostruzione di Pansa, altro che libro "scomodo" o "revisionista": «È stata la sinistra a capire subito l'importanza della storia come arma politica per l'egemonia». E dentro l'egemonia culturale c'era il racconto della vicenda comunista come una storia di italianità antifascista, codificata da Gramsci e realizzata da Togliatti, mai messa in discussione dalla leadership comunista e postcomunista. La "versione di Pansa" incenerisce quest'ultima leggenda. Almeno fino al 1948 il Pci è stato un partito orientato al sovvertimento della democrazia. Il suo cambiamento avviene con la catastrofica sconfitta alle elezioni del 18 aprile, davanti a quella Dc in cui si era rimescolata la storia dell'Italia, con tutte le sue pieghe: «Fascismo, antifascismo, qualunquismo, voglia di democrazia, assenteismo politico, moderatismo, pulsioni egualitarie. E, durante la guerra civile, anche partigiani e fascisti della Repubblica sociale». Niente manicheismi, nella Dc, niente divisione netta fra «angeli di qua e diavoli di là». De Gasperi vince nel 1948 perché il suo partito ha capito che le democrazie moderne non si prestano alla divisione moralistica o ideologica fra il Bene e il Male. Adesso l'hanno capito anche comunisti ed ex comunisti. Si tratta di vedere se saranno anche capaci di rinunciare alla mitologia e fissare con occhi spregiudicati la realtà della loro storia. n
L'Espresso, 05/10/2006
C’è Floris aprite gli ombrelli
Che sia cominciato l'autunno lo si capisce da segnali laterali, da non sottovalutare proprio perché sfuggono alla meteorologia: un documentino di Rovati, un conticino di Tronchetti Provera; oppure il ritorno di "Ballarò", con effetti esplicitamente stagionali: la faccia virgolettata di Giulio Tremonti, che è una citazione del Tremonti primaverile da campagna elettorale, la faccia post-abbronzatura, tuttavia nervosa, di Pier Luigi Bersani, evidentemente preoccupato. Di che cosa? Di tutto. L'effetto shocking provocato da "Ballarò" e da Giovanni Floris è stato di riportare gli spettatori dentro il clima nebbioso e piovoso della politica, del dibattito, della polemica, delle interruzioni, dell'«io non ti ho interrotto». Faticosa, la politica in televisione: neanche per colpa di Floris, che non ha responsabilità se il governo sbanda, ma per colpa della politica, sempre uguale a se stessa (come nella vecchia barzelletta «oh che sete che avevo», dopo che qualcuno misericordioso ha offerto l'aranciata, impietosito o infastidito dai troppi «oh che sete che ho»). Forse ci vorrebbero studi e corsi di formazione per riqualificare i protagonisti dei salotti televisivi, altrimenti il pianto è sicuro e antico; con il timore che aggiungeremo lacrime non appena Bruno Vespa riunirà i suoi primattori e caratteristi. Diverso è il caso di "Annozero", il nuovo programma di Michele Santoro, fuoriclasse tv così sfacciato che prima si tinge di biondo e poi finge di infastidirsi se glielo fanno notare una volta di più. Il talento di Santoro è tale per cui c'è da aspettarsi che con il procedere delle puntate prenderà in mano il programma e ne farà cosa sua, da apprezzare o detestare ma con una fisionomia chiara. Per ora "Annozero" è un programma a personalità doppia, con la parte di inchiesta che ha la forza del documento, mentre la parte in studio è modesta: Beatrice Borromeo un automa, Rula Jebreal appesantita da un italiano troppo legnoso. Ma la sensazione è per l'appunto che Santoro si evolverà, mentre Floris chissà: il dibattito interessa quando ci sono in vista le elezioni; mentre adesso è fiacco, tanto da far venire voglia di un film (io, è la quinta volta che vedo la parte finale di "Kill Bill vol. 2", quella del «come far espodere il cuore con cinque colpi delle dita: fai cinque passi e sei morto»: mentre i politici medi si sa che cosa riescono a scassare, con cinque parole).
L'Espresso, 28/09/2006
Le guerre private del soldato Oriana
Quelli che non amano Oriana dicono di apprezzarne la grande personalità, la vena provocatoria, l'intelligenza, le provocazioni che «ci hanno obbligato a pensare». Lo ha detto anche Romano Prodi, che non dev'esser stato un grande lettore della Fallaci, e comunque non deve avere messo a fuoco con precisione le quattro pagine di insulti stampate nel pamphlet dell'aprile 2004 "La forza della ragione" in una «letterina» che comincia così: «Signor Presidente della Commissione Europea, so che in Italia la chiamano Mortadella. E di ciò mi dolgo per la mortadella che è uno squisito e nobile insaccato di cui andar fieri, non certo per Lei che in me suscita disistima fin dal 1978». Vale a dire, spiega Oriana, dalla celebre seduta spiritica a casa che diede l'equivoco responso "Gradoli" sul luogo di prigionia brigatista di Aldo Moro. Gli avversari di Prodi non hanno molti motivi di andare fieri del loro amore per la Fallaci. A Gianfranco Fini, Oriana si rivolge dicendogli: «Lei mi ricorda Palmiro Togliatti, il comunista più odioso che abbia mai conosciuto»; e il suo verdetto verso il postfascista-comunista Fini è senza pietà: «Signor Vicepresidente del Consiglio, nonostante la Sua aria quieta ed equilibrata Lei è un uomo molto pericoloso», perché vuole dare il diritto di voto amministrativo agli immigrati islamici. A Silvio Berlusconi, altre mazzate fallaciane: «Signor Cavaliere, noi due non ci amiamo. Si sa». Sempre per via del voto ai musulmani e della corrività di Berlusconi verso i musulmani. Traspare anche da queste parole una delle caratteristiche della Fallaci, un tono fra il popolaresco e il dialettale, con l'adozione di luoghi comuni sedimentati, che dev'essere una qualità della sua toscanaggine: un certo becerume dell'intelligenza e dello stile proiettato nel cosmo della globalizzazione, con collisioni ed effetti strepitosi, ora diva al fronte, e stivali ed elmetto, ora «sora Cecioni va alla guerra» (copyright Giulio Anselmi, almeno secondo Dagospia). Quel linguaggio in volgare fiorentino, con le apocopi e i toscanismi di chi non vuole normalizzare il proprio idioma nella lingua standard, e che talora ricorda improvvisamente l'Arno e i manzoniani minori, Pinocchio, Renato Fucini. Un pensiero irresistibile perché prende il sentire comune e lo trasforma in paradigma o ultraparadigma contemporaneo, aggiungendovi punti esclamativi a iosa. L'evento grandioso e terribile dell'attentato alle Twin Towers e il suo grido, la rabbia, il furore che reclama la partecipazione, di più, la passione dei suoi lettori, facendola immaginare mentre si dispera nel suo appartamento di Manhattan. In realtà aveva cominciato da bravissima giornalista, senza negarsi le minuzie della contemporaneità. C'è ancora chi ricorda un suo reportage dal Festival di Sanremo del 1961, in cui componeva un ritratto perfetto di Mina, che non sfigurava affatto di fronte alla divina leggerezza con cui Camilla Cederna aveva descritto Adriano Celentano nella sua casa milanese con la famiglia immigrata. (Dev'esserci qualche parentela essenziale, con Mina: entrambe non bellissime ma capaci di apparire talvolta stupende, entrambe afflitte da un'inclinazione irrimediabile allo stentoreo, all'urlo, allo sgolarsi, entrambe più o meno ritirate o esuli: «Perché in America, è giunta l'ora di gridarlo chiaro e tondo, io ci sto come un fuoruscito»). Ma poi Oriana aveva capito che si poteva fare anche un altro giornalismo: una forma letteraria hardcore in cui l'autore, anzi l'autrice, la donna, l'Oriana diventa protagonista, invade la scena, recita praticamente tutte le parti. Ben più che "me journalism": la Fallaci decide che si può modificare il quadro, intervenendo nel contesto, alterando quindi la rappresentazione, la narrazione, lo schema, l'immagine finale. Esserci: in Vietnam sugli elicotteri di una normale, quotidiana "Apocalypse Now", nella piazza delle Tre culture, prendendosi le pallottole della repressione antistudentesca messicana. Porsi al centro della scena, provocando un colossale slittamento ermeneutico: frega niente di Kissinger o Khomeini, leggiamo la lotta a corpo a corpo della Fallaci con il suo nemico. Storie di guerra, di astronauti, di leader mondiali, in cui mette a confronto la propria semplicità di pensiero, e la propria durezza di combattente di un'idea, con gli altri, i suoi intervistati, le vittime. Attentissima a costruire la leggenda di se stessa perché in realtà ogni suo libro, come ogni intervista, e anche ogni inchiesta o reportage parla della sua vita, della giovanissima partigiana, della cacciatrice di scoop, della miliziana, dell'inchiestista suprema che piomba a Roma e con un raid mozzafiato scopre il complotto dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini; e ci mette dentro le sue amicizie, gli amori, l'eroe Alekos Panagulis, la vita famigliare con il babbo e la mamma, sempre con accenti da star greca, tragica, mitologica, una Furia come dice Giuliano Ferrara, o per i più scettici una Maria Callas o una Irene Papas sul fronte della tragedia, comunque di un "oltre", di un orizzonte allucinato, illividito da incendi e da nubi nere di petrolio a cui attribuirà la propria malattia. I lettori stravedono da decenni per lei, per quello che scrive, perché parla semplice, ha un'idea su tutto e la esprime con parole chiare. Può insegnare strategia ai generali e geopolitica agli statisti, ma anche addentrarsi nella psiche femminile e nei lutti quotidiani delle donne. E soprattutto far sentire in ogni pagina la propria voce, l'eco del suo Io, la sua visione del mondo ora vecchio stampo, socialista umanitaria come il babbo, ora irradiata nell'universo delle guerre, intersecando giudizi clamorosi, condanne capitali, verdetti ogni volta senza scampo. Sicché quando parla la Fallaci c'è la sensazione di una che perlomeno non si nasconde dietro le parole, e che supplisce alle incertezze della gente comune con sentenze che fanno corpo, alimentano un codice fallaciano, uniscono e dividono (ma hanno ragione Mortadella e tutti gli altri, mediocrità ovviamente comprese: la personalità è fortissima, le valutazioni schiette, il grido si alza spaventoso, e riesce difficile non farsi affascinare da questa dea popolare che ormai veleggia sopra la destra e la sinistra, al di là delle categorie politiche della normalità). Quelli che invece la detestano semmai sono i critici perlopiù letterari, che di solito non amano il suo stile tonante. Quando pubblicò "Insciallah", nel 1990, Enzo Golino commentò: «Grand Guignol... Kitsch cruento... Quel che non funziona nel romanzo è la costruzione narrativa». Lei naturalmente ne era orgogliosissima, convinta che quel libro fosse un capitolo essenziale del Novecento letterario e storico. Tanto da lasciare passare 11 anni prima di pubblicare un altro libro, quel "La rabbia e l'orgoglio" che nel 2001 si è collocato al centro del "clash of civilization", il "libro abietto" secondo i titoli dell'ultrasinistra francese, processato qua e là per razzismo, che poi avrebbe generato l'immagine dell'Islam come il mostro a sette teste e dieci corna dell'Apocalisse. «Penso a quel libro», ha scritto lo storico "di destra" Franco Cardini, rivolgendosi al ricordo di «una vecchia amica lontana», «di cui non condivido nemmeno il colore della copertina...», per poi aggiungere di restare ammirato per la forza evocativa, «quasi faustiana». Di sicuro ha combattuto la sua ultima guerra, gridando come al solito, alla sua maniera. Anche se, forse, ciò che avrebbe dovuto e voluto raccontare, nella sua vecchiaia, sarebbe stata la sua storia di ragazza toscana, la vita vera prima dell'esistenza al centro del mondo. n
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