L’Espresso
L'Espresso, 28/09/2006
Omero ha fatto gol
Non è nemmeno il caso di ricorrere a precedenti come le "Cinque poesie per il gioco del calcio" di Umberto Saba: «Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela la faccia». Oppure al soprannome che classificava il torinista Claudio Sala come il "poeta" del gol. Forse ci vuole davvero la poesia per descrivere con sintesi immediate il calcio: perché nel suo momento migliore, allorché si condensa in mosse fulminee, in scarti imprevedibili, nella violenza del tiro o nella infernale qualità del dribbling, non c'è prosa che possa rappresentarlo (Gianni Brera descriveva l'azione in profondità attraverso una serie concatenata di frasi connesse dall'uso ripetuto dei due punti, come se ogni momento di gioco contenesse di necessità la sua evoluzione). Quindi che il "Poesia Festival", promosso nell'area modenese dall'Unione Terre di Castelli e dalle istituzioni locali, abbia dedicato una sessione proprio a quell'incrocio non frequentissimo fra il calcio e la poesia è una novità felicemente creativa. Perché quel vecchio gioco diventa effettivamente racconto, mito, immagine soltanto quando è narrato, anzi, isolato in frammenti mitici, come nelle icone metanarrative di Quentin Tarantino. Nessuna biografia, come nessuna cronaca sportiva, saprà rappresentare la classe di Roberto Baggio come l'ha identificata Fernando Acitelli in pochi versi ispirati: «Talento di raso vestito, palleggio erudito, tocco infinito, fanciullo ferito...». Queste parole appartengono alla raccolta intitolata "La solitudine dell'ala destra", una «storia poetica del calcio mondiale» che apparve per la prima volta da Einaudi nel 1998, e che rimane un magnifico esempio di "cronaca" in versi, sempre che per cronaca si intenda il modo in cui il canto omerico fissa per sempre i giochi e i duelli dei guerrieri, o la maniera in cui la leggerezza ariostesca sembra descrivere gli eventi nel loro avvenire. Illustrare il calcio significa in realtà interpretarlo, cioè inventare le parole per definire un gesto: allorché Mariolino Corso riprese uno dei più poetici gesti del calcio, il tiro di punizione a pallonetto, che si era già manifestato negli anni Trenta, fatto dagli uruguagi, si poteva chiamarlo in molti modi. Nella sua interpretazione, quel gesto tecnico divenne un canto triste, come eseguito dalle cadenze di Juliette Gréco, in un sentore prevertiano, come un gesto e una parabola autunnali, e quindi decadenti, inesorabili, soffusi di malinconia: «Geometrie e calligrammi / a centrocampo, con fraseggi / curvilinei, esecuzioni shock, dette, / su punizione, a foglia morta». Già, «les feuilles mortes». Perché anche il calcio ha bisogno di un suo autunno, per essere mitizzato: di un bianco e nero da anni Sessanta, in cui si attenuano i colori della tv al plasma, e l'affetto per il passato supplisce poeticamente all'imprecisione del ricordo. O meglio, la poesia fissa per sempre un gesto, la "rabona" di Diego Armando Maradona, la "ruleta" di Zinedine Zidane, il "sombrero" dei giocolieri brasiliani, sottraendoli alla storia e inserendoli in una memoria riconoscibile collettivamente. Per un paradosso, proprio la materialità estrema del calcio, con i suoi tackle e la durezza del contatto fisico, trova un'illustrazione nel linguaggio poetico. Perché una partita dura novanta minuti, ma il gioco del calcio dura per intere esistenze. E solo qualche verso, nel fluire anonimo e grigio delle vite e delle partite, riesce a estrarre la pepita luccicante che illumina la vicenda di un campione, la carriera di un gregario, traiettorie e parabole di un pallone che altrimenti non si fermerebbe mai. n
L'Espresso, 28/09/2006
Call center Calcutta
Si fa presto a dire che l'India è un universo: poi bisogna vederla. E le cinque puntate di "Taccuino indiano", la serie di documentari realizzata da Francesco Conversano e Nene Grignaffini (Raitre, dal 21 settembre ogni giovedì alle 23.30) sembrano fatte apposta per illustrare la frase di Arundhati Roy che appare come exergo della prima puntata: «L'India vive simultaneamente in secoli differenti». Non ci potrebbe essere sintesi migliore. C'è un contrasto fortissimo, da un lato, fra le donne che lavorano nelle saline, rischiando la cecità, gli "shipbreaker" che si ammazzano di fatica facendo letteralmente a pezzi navi in disarmo che arrivano da tutto il mondo, i contadini poverissimi del subcontinente rurale, e dall'altro la vita nelle città, in cui sull'ondata tecnologica si è sviluppata una borghesia che sembra in grado di cambiare in profondità la vita dell'India. Quasi in ogni fotogramma si avverte la profonda commistione di antico e di moderno. Le donne che lavorano per mezzo dollaro al giorno, i 20 mila conducenti di risciò messi fuori legge dal governo comunista e modernizzatore di Calcutta, le cattedrali modernissime di Bangalore, dove si è sviluppato un settore tecnologico che attrae gli studenti migliori e produce un benessere inedito. Ma forse l'aspetto più curioso della prima puntata è la parte dedicata ai call center, in cui le multinazionali americane, canadesi e inglesi hanno delocalizzato il servizio ai clienti. Perché con il lavoro nei servizi comincia a prendere forma un'economia di consumi che si innesta sulla tradizione indiana, creando un ibrido straordinario. La bellezza delle immagini di "Taccuino indiano" non consiste soltanto nella crudezza della vita antica, ancora intessuta di miseria, pregiudizi, esclusioni, fatalismo, unita all'effetto straniante di una natura che spesso sembra rimasta a qualche millennio fa; ciò che colpisce e continua a sorprendere, inquadratura dopo inquadratura, è il modo in cui l'India antica e l'India moderna si contaminano. Sarebbe consolatoria la tesi per cui la globalizzazione non distrugge le culture bensì le arricchisce. Ma "Taccuino indiano" è esemplare perché registra le immagini e le parole dell'India nuova e antichissima senza tesi precostituite, offrendo la forza di uno sguardo che si sofferma sulle cose e sulle persone senza giudicare: con una intenzione di conoscenza oggettiva che non di rado lascia stupefatti.
L'Espresso, 21/09/2006
Marley bestseller bestiale
A segnalarlo come un libro imperdibile era stata per prima "Alta società", la rubrica di mondanità, spifferi e metafisici gossip del "Foglio": il titolo era generico, "Marley and Me", l'autore un perfettamente sconosciuto John Grogan. Solo con qualche ricerca ulteriore si sarebbe appreso che Grogan è un columnist del "Philadelphia Inquirer", vanta una lunga esperienza giornalistica che gli ha procurato numerosi premi, e vive in Pennsylvania con la moglie e i tre figli. Si capiva facilmente che era la storia di un labrador, e quindi l'indagine ulteriore conduceva immediatamente agli amori del titolare non proprio occulto della rubrica, Carlo Rossella, uno dei testimonial di questa razza canina, proprietario e amico di un esemplare biondo di regale bellezza, Oliver "Waterfriend" Charlie. Ma con queste sintetiche informazioni non si poteva sospettare la fortuna del libro, che ha raggiunto i cinque milioni di copie vendute negli Stati Uniti, 750 mila in Gran Bretagna, 700 mila in Germania, 300 mila in Spagna. E adesso si aspetta il botto in Italia, dove è stato tradotto da Sperling & Kupfer con il titolo "Io & Marley" (sarà in libreria il 19 settembre). È facile predire infatti un exploit analogo anche da noi. Più difficile è spiegare il perché di un successo così deflagrante. Certo, questo romanzo-verità, o quasi verità, lascia emotivamente disarmati: racconta la storia di una coppia di giovani giornalisti, l'autore e la sua sposa Jenny, che a un certo punto della loro felice vita decidono di adottare un cucciolo. E quale cucciolo: un labrador retriever biondo, figlio di un bestione grosso come un toro, destinato a diventare un colosso muscoloso di 40 chili, inadatto a ogni disciplina, destinato a farsi cacciare dal corso di obbedienza a cui era stato iscritto e a mettere a soqquadro e a repentaglio la casa in cui entra e la vita intera della coppia. E ad accompagnare la storia personale di John e Jenny, condividendo le loro speranze e gioie, la nascita dei loro bambini, tutta la loro vita a Palm Beach in Florida, e poi in Pennsylvania. Ma tutto questo è pura normalità, fisiologia canina o cagnesca senza troppe invenzioni. Il Marley del libro è un cane "reggae", che si guadagna il nome dall'idolo scomparso dei rasta giamaicani, il mitico cantante Bob, la colonna sonora di una Florida in cui echeggia continuamente "Is this love that I'm feeling?". Un cane dotato di un'energia sovrannaturale, capace di accogliere con entusiasmo sfrenato ogni essere umano, esibendosi in una specie di violenta breakdance con la coda che sembra animarsi per agitare tutto il suo corpo, di mangiare qualsiasi cosa, da quantità formidabili di mango maturo alla cacca di gallina, dai pettini ai pannolini dei bambini, e poi di vomitare eventualmente tutto quanto sul migliore tappeto persiano: e soprattutto di guadagnarsi per motivi misteriosi, o forse fin troppo evidenti, l'amore incondizionato di tutta la famiglia. Chiunque abbia messo a fuoco l'identità dei labrador retriever, razza descritta intorno al 1600 a Terranova, dove i pescatori li usavano per tirare a riva funi e reti e per raccogliere il pesce che si staccava dagli ami, ha un'idea immediata di questo cane, animale d'acqua di pelo corto, dita palmate, grande nuotatore, riportista fenomenale, incapace di trattenere la felicità davanti a qualsiasi visitatore, pessimo (anzi inesistente) elemento da guardia. Meno facile è spiegare la "labrador-mania", di cui anche il libro di John Grogan è un riflesso. Certo, ci sono stati esempi particolarmente prestigiosi che hanno lanciato la tendenza labrador, in primo luogo Bill Clinton, ripreso a suo tempo in ogni weekend presidenziale mentre si faceva strattonare davanti all'elicottero della Casa Bianca dal suo diseducatissimo "chocolate". Ma più in generale c'è il fatto che nell'immaginario non soltanto americano il labrador si è fissato come "il" cane, la razza per eccellenza, la fisionomia che riassume l'essenza canina. Per le sue forme accattivanti, una specie di barile con le zampe; per l'affettuosità strampalata, per le buffonerie atletiche che riserva a padroni, amici ed estranei; per le sue doti di mangiatore inesauribile, con il suo stomaco da quattro chili di contenuto potenziale, e quindi la sua fame permanente, che lo espone a ricatti di ogni tipo. E ultimo ma non ultimo per la sua intelligenza da fascia alta della classifica canina; a cui si aggiunge una disposizione innata alla furbizia, che costituisce un ricatto permanente contro il rigore educativo e la severità dei proprietari. Perché il labrador è effettivamente un post-lupo, che mantiene tutte le caratteristiche di dominanza o di subalternità degli esemplari alpha o viceversa dei gregari, salvo il fatto che è un animale innocuo. Mentre le cronache sono spesso punteggiate dai misfatti talvolta feroci di razze come i pitbull, i rotweiler, i doberman, si può giurare che i labrador, insieme alla razza esteticamente cugina dei golden retriever, sono animali senza peccato originale. La ferocia degli antenati lupi è un ricordo; la loro "presa morbida", che deriva dalla selezione come animali da riporto, obbligati a rispettare la selvaggina destinata al padrone cacciatore, garantisce sulla loro non pericolosità. Il vivacissimo Marley potrà apparire «instabile come la nitroglicerina», carico come una molla, ma verso adulti e bambini risulterà più che altro un mostro di simpatia, al primo incontro; e poi un complice, uno zerbino su cui mettere i piedi, una coperta di Linus, un compagno di passeggiate. Occorrerà "emascularlo", per tentare di ridurre la sua carica ormonale, e quindi la sua vitalità inestinguibile; sarà necessario riempirlo di Valium o di altri tranquillanti per reprimere il suo terrore per i temporali. Ma nell'insieme resterà sempre un cane giocherellone, un pazzo buono, un compagno prevedibile anche negli accessi più tremendi di dinamismo. Per i proprietari dei cinquanta milioni di cani censiti negli Stati Uniti, la storia di Marley è risultata quindi una specie di epopea della caninità, apoteosi di un cane al quadrato. Facendo della sociologia a buon mercato, la "folla solitaria" di una società che vede svanire il dato comunitario proietta nel rapporto domestico con il cane tutte le aspettative di spontaneità, di immediatezza e di lealtà relazionale che non trova nei rapporti quotidiani. Oppure la psicologia di massa può soffermarsi su quel particolare tipo di relazioni non culturalizzate, quindi fisiche, materiali, "naturali", che l'animale cane innesca in coloro che sono modellati da rapporti molto formalizzati sui luoghi di lavoro e nell'anomia del condominio. Anche in Italia, i padroni dei sette milioni di cani "regolari" troveranno nella parabola di Marley, con la sua conclusione inevitabilmente tragica e commovente, tutta la sfera dei comportamenti e delle emozioni che la vita insieme al cane implica (d'altronde, che una nuova "sensibilità animale" sia lavoro è dimostrato anche da fenomeni editoriali inattesi, come il successo quasi da bestseller della raccolta di poesie "Animali in versi" di Franco Marcoaldi). Converrà aggiungere che la schiera dei proprietari di labrador, e quindi di apostoli di questa specie particolare di religione canina, è particolarmente qualificata. C'è la Lulù di Massimo D'Alema, ci sono gli esemplari biondi di Dolce e Gabbana, c'è il labrador di Antonella Clerici, quello amatissimo di Vittorio Emanuele (che il Savoia rimpiangeva durante i giorni della detenzione), i due cuccioli fatti crescere nel casale sulle Langhe da Domenico Siniscalco, il branco di Luca Cordero di Montezemolo cresciuto sulla collina bolognese di Pian di Macina. Per tutti loro, "Io & Marley" sarà la sintesi dello "spirito labrador". Come dice l'autore Grogan: «Scegliemmo la razza in base a un unico criterio: fascino». È l'attrazione generata da quel cane a renderlo affascinante e quindi sopportabile: «Marley era un divoratore di divani, un demolitore di porte a zanzariera, un dispensatore di saliva, un ribaltatore di coperchi di pattumiera. Quanto al cervello, lasciatemi dire che ha dato la caccia alla sua coda fino al giorno in cui è morto». Il risultato è che il libro finisce con la morte di Marley, dopo alcune mezze tragedie come la temutissima torsione dello stomaco: John Grogan scrive un articolo sulla morte del suo cane e viene sommerso di e-mail. «Mi scusi», gli scrivono, «ma il suo non può essere stato l'animale peggiore del mondo, perché lo era il mio». Gli scrive gente che conosce le doti di quegli esseri così singolari: «Lealtà, coraggio, devozione, semplicità, gioia». Va da sé che le pagine finali di "Io & Marley" sono una lettura che può dare fondo a intere dotazioni di lacrime. Anche perché un bel giorno, su un giornale locale, compare la fotografia di un cane proposto per l'adozione. Un labrador, biondo. «Mio Dio», esclama John Grogan. «È lui. È tornato dal regno dei morti». «Reincarnazione», dice Jenny. È il segno che l'avventura può ricominciare. Che in ogni labrador c'è Marley. E che come canterebbe il vecchio idolo del reggae, è davvero amore ciò che sento, anche se si agita pazzamente, anche se abbaia come uno sciagurato, anche se è, in tutti sensi, una bestia. n
L'Espresso, 21/09/2006
Naufraghi nel serial
I serial si dividono in due categorie: quelli in cui non avviene niente e quegli altri in cui avviene di tutto. "Lost", la serie che riprende dal 18 settembre, ogni lunedì alle 21 su Fox, appartiene alla seconda categoria. Come sanno quasi tutti, "Lost" racconta la saga dei sopravvissuti al disastro del volo Oceanic 815 Sidney-Los Angeles. Quarantaquattro giorni dopo lo schianto dell'aereo, i superstiti sono ancora lì, in una specie di isola dei famosi eccitata e funestata da problemi caratteriali, di potere, climatici, ma anche, a quanto si vedrà, soprannaturali. La prima stagione di "Lost" ha sbancato, facendo a botte in tutto il mondo sui dati di ascolto con "Desperate Housewives". Benissimo recitato, ottimamente ambientato, magnificamente diretto, interpretato da attori con la faccia convincente e i tatuaggi giusti, il serial del mistero ha tutte le caratteristiche per apparire allo spettatore scettico, che la sera guarda la televisione con distrazione o per disperazione, la classica boiata pazzesca. Una sorta di "Twin Peaks" ambientato in luoghi esotici, dove la trama si complica e si complicherà tremendamente, senza mai arrivare a una soluzione perché la prossima serie incombe e i superstiti sono isolani a vita. Gli italiani in genere preferiscono i serial in cui non succede niente e l'unico interesse consiste nel vedere chi si innamora di chi, coso che tradisce cosa, cosa che si vendica uscendo con quell'altro, eccetera. In questo senso, il possibile prototipo è "Sex and the City", in quanto è tutto fatto di chiacchiere, c'è poco Sex e molta City, e si possono saltare cinque puntate senza perdere il filo logico essenziale. Mentre "Desperate Housewife" prometteva di essere un magnifico serial con assenza di fatti, ma dopo la prima tornata gli sceneggiatori si sono stufati e hanno cominciato a complicare la trama. Si sa come va a finire: si prende una fiction fatta di balletti amorosi e psicologici e si comincia a inserire problematiche ed eventi. La droga, la mafia, i ricatti, la violenza, la malattia, la morte. Alla fine manca poco che arrivino gli extraterrestri (e difatti le casalinghe si disperano soprattutto perché la qualità del serial è precipitata). Quanto a "Lost", ci vuole molta dedizione per guardarlo, con i suoi troppi misteri: ma naturalmente si sa che se si cade nel gorgo della fiction, alla fine ci si appassiona anche se la storia è tremenda.
L'Espresso, 14/09/2006
Walter fictional
Il primo romanzo di Walter Veltroni, "La scoperta dell'alba" (Rizzoli) ha un titolo letterario, ma si sarebbe intitolato più precisamente "Il collezionista di vite": perché l'io narrante, Giovanni Astengo, è istituzionalmente un raccoglitore di biografie: «Da anni, all'Archivio di Stato, mi occupo di raccogliere, catalogare e riassumere i diari che i miei contemporanei non smettono di scrivere. Piccole opere, stampate spesso a spese degli autori, nelle quali ciascuno, arrivato a una stazione della sua vita, sente il bisogno di raccontare al mondo la sua esistenza». Sicché il protagonista del romanzo sembra la negazione esatta del proprio nome, con quel richiamo evidentemente voluto all'astensione. Anzi, è dominato dalla voglia di immergersi nelle vite, la propria, le altrui. Più che astenersi, Giovanni Astengo, archivista di Stato e quindi ricercatore storico (con un richiamo civettuolo, una "mossa" magistrale, alla moglie di un compagno e rivale politico), pratica la sospensione: ferma il tempo per andare alla ricerca e sciogliere il mistero della propria esistenza, la scomparsa del padre.Un autobiografismo, quindi. Ma più che inseguire le vicende della trama del romanzo, in cui il senso di quella perdita viene proiettato sullo sfondo luttuoso degli anni di piombo, conviene chiedersi per quale motivo un uomo politico di spettacolare successo abbia scelto proprio la forma romanzo. Per rivelarsi e anche per nascondersi, è la prima risposta. Dev'esserci una simmetria fra il Veltroni leader politico e il Veltroni autore: e questa simmetria dipende probabilmente dalla volontà di esporsi, dalla disponibilità a manifestarsi e nello stesso tempo a rappresentarsi. E infatti, sia i romanzi sia gli esponenti politici condividono qualcosa, o molto, della finzione: e l'aspetto "fictional" del libro veltroniano serve più che altro a confondere le acque, a ingrigire i colori. L'omicidio politico sfuma nella rivalità, nella gelosia e nel tradimento umano. I colori dell'alba servono per ripristinare un contatto con il se stesso di trent'anni prima. L'espediente narrativo per fare parlare il Giovanni Astengo di oggi con il tredicenne di allora, quando il padre fuoriesce dalla sua vita, è materializzato da una trouvaille d'epoca, un telefono di bachelite nera. A mano a mano che il passato prende forma, si disegna un film in bianco e nero, in cui la violenza inconsulta della politica e il cedimento morale sfumano nella stessa gamma cromaticamente neutra. Il libro di Veltroni è piuttosto la descrizione di un romanzo che non un romanzo in sé compiuto. Tuttavia è esente da goffaggini, ed è talmente veloce e ben concatenato da portare l'interesse del lettore fino alla conclusione. Veltroni non veltroneggia: lascia cadere nelle pagine qualche predilezione cinematografica, da quella commedia "slapstick" che è "Ma papà ti manda sola" ai cangaçeiro di Glauber Rocha, aggiunge qualche tocco letterario, con ripetute dediche a Italo Calvino, infioretta con qualche citazione latina anche insolita («Numerantur, sed ponderantur»): ma senza mai esagerare. Il piccolo romanzo quindi non dispiace, anche se resta il dubbio, alla fine, che l'autore si sia nascosto molto di più di quanto non abbia voluto svelarsi. Ma forse è proprio questo il senso del ricorso alla forma narrativa: "fare i conti" anche letterariamente con la propria generazione e con la propria esistenza, per un politico di successo, è ancora un'operazione prematura. In fondo non è consentito a un cinquantenne ricorrere all'autobiografia. Solo che la scelta tecnica del romanzo conduce allora a un deficit di radicalità. La "fictionality" mette in movimento passioni, pentimenti, agnizioni, rivelazioni, ma conservando tutto dentro una convenzione che fa da filtro, che modella la voglia di confessare la propria storia con il desiderio di comporre un'altra storia. È davvero un romanzo, "La scoperta dell'alba", più che una confessione. Solo che a leggerlo come tale, viene il rimpianto per la storia vera, che ancora Veltroni non ha deciso di poter raccontare. n
L'Espresso, 14/09/2006
A Londra sono più serial
Vedi alla voce del verbo imbattersi. Perché ci si può imbattere anche in prodotti molto, ma molto, brillanti. Per esempio, ci vuole una grande determinazione, ma se uno si butta verso le 23 su Bbc Prime, trova un serial intitolato "Trust", che è uno dei programmi televisivi migliori che si siano visti negli ultimi anni. Certo occorre molta buona volontà anche supplementare, perché questa fiction è solo sottotitolata: ma tanto vale approfittarne per migliorare la pronuncia inglese standard. Sulle prime, "Trust" è il rifacimento di una qualsiasi moderna serie americana dedicata agli avvocati, da "Avvocati a Los Angeles" in poi. Ci vorrà qualcuno che spieghi, una volta o l'altra, per quale ragione l'immaginario anglosassone è occupato così sistematicamente da questa categoria professionale. Ma qui siamo in Inghilterra, a Londra, nel cuore della City: e allora qualche vibrazione diversa si sente. Le storie sembrerebbero sempre quelle: difficoltà di far coesistere la professione, la famiglia, la carriera e l'amore, drammi provocati dalla rivalità con i colleghi nella corsa a diventare associati, trattative e transazioni giuridiche di colossale difficoltà anche morale, oltre che legale. La specificità di "Trust" deriva allora da due caratteristiche: da un lato la sua totale inglesità, con dialoghi perfetti, gestione e tenuta dei conflitti in modo estremamente cool, tocchi di multiculturalismo e di società assai aperta (uno dei personaggi positivi, che non sacrifica la vita alla carriera, è un gay); dall'altro la grandissima qualità tecnica e professionale del prodotto. Diretto da John Strickland, "Trust" ha per protagonisti Robson Green, nella parte del capo del pool di avvocati, e Sarah Parish, attrice non bellissima ma affascinante, magnificamente nel ruolo. Ma tutti gli attori del serial sono di ottima qualità, i dialoghi sono ritmati, e nell'insieme si apprezza la Londra sincopata, la metropoli "yuppified" e "multicultural". A paragonare il serial inglese con certi prodotti italiani, con recitazioni molto provinciali e sociologie improbabili, viene voglia di invitare qualche rete ad acquistarne i diritti e a tradurlo. Ma poi lo manderebbero in onda a orari piuttosto improbabili (come succedeva anni fa con un altro meraviglioso serial, "In tribunale con Lynn", che praticamente nessuno poté vedere, se non in certi lenti pomeriggi d'estate, e poi mai più: ed era un capolavoro).
L'Espresso, 07/09/2006
Il Meetings’è afflosciato
Il Meeting di Rimini non è stato un fallimento in termini di partecipazione, ma, per la prima volta nella storia di Comunione e liberazione, è andato male. Se anche un ciellino illustre come Antonio Socci prende le distanze, e molti osservatori non proprio antipatizzanti mettono in luce che ormai il Meeting sarebbe diventato una specie di festival della Compagnia delle opere, cioè del braccio imprenditoriale e secolare di Cl, qualcosa in effetti potrebbe essersi incrinato. Occorre ricordare innanzitutto che il movimento fondato da don Luigi Giussani non è un esercito bensì un'avanguardia militante. Un organismo che ha sempre esposto la propria radicalità e manifestato il proprio antagonismo verso il cattolicesimo progressista. Uno studioso cattolico di parte avversa come Alberto Melloni ha sintetizzato in questo modo il suo ruolo: «Cl porta a Rimini 30 mila persone per sette giorni, i parroci portano in chiesa per 52 settimane sette milioni di praticanti». Come tutti i movimenti ad alta intensità di identificazione, Cl vive della propria capacità manovriera. Sul terreno politico è sempre riuscita a valorizzare la selettività dei suoi rapporti, con l'uso trasversale delle amicizie a testimoniare il non coinvolgimento negli schieramenti e semmai la simpatia per i singoli leader politici (ma il rapporto è sbilanciato in modo vistoso verso destra: per un solo Bersani, tradizionalmente apprezzato per il suo pragmatismo, ci sono sempre almeno dieci esponenti amici nella Cdl). Di conseguenza, Cl dipende in larghissima misura dalla propria visibilità. Solo che essa è efficace quando testimonia sicurezza di sé. Mentre quest'anno a Rimini il movimento ciellino ha dato l'impressione di essere condizionabile dalla politica. Da questo punto di vista sono stati più rivelatori i fischi a Guglielmo Epifani che quelli diretti a Paola Binetti: perché, depurandoli dalla volgarità delle accuse («giuda, venduta»), i fischi bioetici erano motivati da un giudizio a sfondo religioso; mentre i fischi sindacali erano motivati da pura antipatia politica, e sono dilagati proprio mentre il segretario della Cgil sosteneva che il sindacato avrebbe criticato anche il governo Prodi, nel caso di politiche giudicate inappropriate, così come si era opposto a quelli che in passato aveva giudicato gli errori del governo Berlusconi. I ciellini raccolti a Rimini dunque hanno fischiato per incredulità, per scetticismo, per ostilità a priori. Mentre hanno applaudito con entusiasmo fiammante le argomentazioni da ateo devoto di Marcello Pera, specialmente quando ha sostenuto che in Europa le cose vanno male perché «ci sono troppi cattolici adulti» (con un riferimento volgaruccio alla posizione di Prodi sul referendum in materia di fecondazione assistita). E hanno espresso altrettanto calore verso le ricostruzioni politico-economiche di Giulio Tremonti, cioè l'ideologo della mitologizzazione a posteriori del governo Berlusconi. Ma il momento in cui il Meeting si è afflosciato è stato ovviamente con lo show di Silvio Berlusconi. Pazienza la claque forzista, un classico da Vicenza in poi, ma che l'Entertainer di mezza estate abbia potuto pensare di reclutare i ciellini per i suoi Circoli della libertà è il segno che lo steccato fra politica e impegno religioso è stato sfondato. Prima era figurativo, ossia ampiamente retorico. Adesso si presenta come un reperto storico. Sarà stata la sofferenza di trovarsi in una condizione orfana di don Giussani e del suo carisma. O anche, più prosaicamente, la stanchezza di un movimento privo di ricambio al vertice. Ma per la prima volta si è avuta l'impressione che Cl assomigliasse a un'appendice, a una subordinata della politica. Sono gli scherzi che gioca l'immagine, e che combina la politica quando fa entrare in campo i rapporti di forza veri. Ma se finora si era visto il Meeting dare i voti, esprimere il gradimento, selezionando personalità e posizioni culturali, premiando e bocciando, nell'agosto 2006 si è visto un leader politico e i suoi seguaci andare, se non alla conquista, alla strumentalizzazione di un movimento. Per il cattolicesimo intransigente, integrale, orgoglioso di Comunione e liberazione, è peggio che un cedimento: è un problema.
L'Espresso, 07/09/2006
Zapping con warhol
Come si dice "navigare" fra i palinsesti televisivi? Non è più "fare zapping", perché lo zapping appartiene all'epoca dell'offerta televisiva limitata. Oggi invece, come si è detto ripetutamente, si guarda "la" televisione, senza selezionare a priori fra i singoli programmi. Questa esplorazione continua mette allo scoperto la povertà dell'offerta tv, nonostante il numero di canali disponibili. Succede spesso che in una serata non si trovi praticamente nulla di vedibile. In questi casi viene spesso in soccorso un canale come Cult (142 del bouquet Sky). Di recente, per esempio, è passato più di una volta il film di Chris Rodley "Andy Warhol. La storia completa" (2002), che è una biografia umana e intellettuale dell'artista americano, scomparso nel 1987 a 58 anni. Dite che ci vuole una determinazione molto seria per mettersi a guardare un documentario su Warhol in una sera di estate declinante? Dipende: se la serata abbonda di film scadenti, di reality horror sulla chirurgia estetica, di programmi sulla vita sessuale di coppie suburbane (ciccione costrette dai fidanzati o mariti a indossare roba fetish e a usare vibratori imponenti), be', allora tanto vale dare un'occhiata alla parabola di un genio dell'arte pop. A rivedere l'opera di Warhol ci si rende conto che il guru dalla parrucca platinata, come viene detto nel film di Rodley, «ha manipolato all'infinito la stessa idea»: con effetti tali da portare il Walter Benjamin della "riproducibilità tecnica" all'autismo industriale, alla serialità compulsiva e anonima del mercato totale. Sicché può anche essere che Warhol sia depressivo, dal momento che ci frulla tutti dentro la civiltà di massa. Ma poi succede che Cult mandi in onda anche un film prodotto da Yoko Ono in cui si vede John Lennon che prepara, arrangia e suona le canzoni di "Imagine", con alcuni musicisti fra cui anche un altro beatle, George Harrison.Vedere suonare dal vivo, per prove, errori e cambiamenti, un talento popolare come Lennon è un antidoto alla serializzazione warholiana. L'arte "abietta" delle canzoni funziona soltanto quando è registrata dal vivo, il cantante stona e il chitarrista deve correggersi, e tutto insieme "fa" musica. Il resto della programmazione, naturalmente, è Warhol senza Warhol: ma chi vorrà salvare la televisione, dovrà sottrarla alla rigidità seriale del palinsesto (oppure proporre palinsesti meno raccapriccianti, oh yes).
L'Espresso, 31/08/2006
Le voglie d’autunno
Sarà ripresa vivace o autunno che declina, neanche troppo dolcemente? Crescita del Pil, bonus fiscale, Finanziaria leggera, per gli ottimisti; trappole al Senato, centrosinistra a pezzi, per chi vede nero. Il paese affronta l'ennesimo ritorno a settembre con poche certezze e molti dubbi: come al solito, insomma. Qui di seguito, scaramanzie e cattivi pensieri, buone intenzioni e pessimi auspici: un lessico del dopo estate. Amato Il dottor Sottile lo sa, ma fa finta di non saperlo per innata prudenza. Il suo ruolo non è il titolare degli Interni; o meglio, non solo. Amato è il vero ideologo dell'Unione: solo la sua cultura può fornire un quadro concettuale che tenga insieme liberalizzazioni e cittadinanza agli immigrati, laicità e Vaticano, islamici e Occidente, tasse e aliquote, crescita e redistribuzione. E dire che non hanno voluto mandarlo al Quirinale: ah, che magnifici discorsi, avremmo sentito. Bertinotti I suoi avversari, soprattutto dentro i Ds, dicono che non ha idea di come si gestisce la Camera. Che fare il presidente non vuol dire dare la parola. In più, mettiamoci gli auguri a Fidel Castro, giustificati con la solita eleganza elusiva. L'apprendistato di Fausto come uomo delle istituzioni è faticoso. Ma un risultato l'ha già ottenuto. Senza la sua presenza sul campo, Rifondazione comunista è tornata nella zona d'ombra. Bisogna vedere se il Parolaio è contento per il proprio ruolo presidenziale o scontento per il partito: certo che pensare "dopo di me il diluvio" è pur sempre una bella soddisfazione. Casini L'inossidabile Pier Ferdinando ostenta toni duri quando deve parlare del governo, e toni durissimi allorché parla del centrodestra. Un'analisi vecchia maniera lo consiglia di stare fermo, immobile, aspettare. Ma intanto si profila irresistibile l'idea del Centro che decide: sarebbe sufficiente scomporre il bipolarismo, allearsi con i centristi dell'Unione (intanto con Mastella, domani si vedrà) e costituire un ago della bilancia, un nucleo autonomo, il luogo di tutti i Monti, Montezemolo, Della Valle eccetera: sperando che con tutti questi monti e valli non si venga mandati a scopare il mare. D'ALEMA Era ruzzolato giù dal Colle e sembrava che la Farnesina fosse un premio di consolazione. Si è trovato a raddrizzare la politica estera italiana, e sta oscurando il predecessore. Guadagna il plauso del divo Giulio, risponde per le rime alle accuse per la passeggiata con l'hezbollah. Grandi successi, ma anche una missione in Libano che sarà un azzardo. Anche per lui, che si gioca tutta, ma proprio tutta, la carriera politica. EMMA Nel senso della Bonino. Rimasta fuori dalle beghe dei Rosapugnoni. Quindi estranea alle liti provocate dall'incompatibilità di carattere fra socialisti e radicali. Il progetto di accorpamento nella Rnp è fallito, dopo il cattivo risultato elettorale, perché la bulimia mediatica e politica pannelliana, altro che scioperi della fame, ha messo ai margini Boselli e compagni. Volgare pensare che per Emma la presenza al governo sia l'occasione di spannellarsi, e di trovare finalmente una strada propria: ma si sa che a pensar male, con quel che segue. FASSINO C'è il tarlo segreto del successo internazionale del lider Maximo. L'invidia per Rutelli che si esibisce in spiaggia o volteggia fra i beni culturali. Mentre Veltroni, Bersani, Chiamparino si mettono ai blocchi per la guida del partito democratico. Solita vita da mediano, per l'infaticabile Piero, e anche con qualche punto di penalizzazione che renderà ostica la ripresa del campionato. GIANFRANCO Nel senso di Fini. L'a-a-abbronzatissimo. L'orfano della Farnesina, e si vede. L'uomo che traghetterà An e i suoi postfascistoni residui dentro il Ppe. Era il teorico del fascismo del 2000. Adesso è il programmatore della democristianità del Terzo Millennio. Avviso agli Storace, ai duri e puri (non esageriamo, anche ai sottanieri del partito, ai divanisti, a quelli che sono passati da via della Scrofa a Piazza della Porcella): morirete democristiani, e dovrete anche farvelo piacere. HEZBOLLAH Bisognerà disarmarli, dice il centrodestra. Che sulla forza Unifil fa gli stessi sketch che ha fatto con le liberalizzazioni. Liberisti al governo e corporativi all'opposizione. Protagonisti nell'agone internazionale, quando c'era Silvio, e prudentini quando non c'è più. Finisce che SuperSilvio si traveste da hezbollah, e li disarma lui, con ieratiche movenze e salamelecchi, offrendo collane di rubini. IMMIGRATI Nota del presidente del consiglio Romano Prodi. Sugli immigrati devono tacere tutti. Può parlare solo Amato. LIBERALIZZAZIONI Cavallo di battaglia del prode Bersani. Che dovrebbe capire una sola cosuccia: le liberalizzazioni sono, alla lettera, il programma del partito democratico. Libertà e merito, uguaglianza praticata nei fatti. Chi le porta a casa non fa soltanto il bene del paese, può anche diventare il leader della nuova fase. Tagliando l'erba sotto i piedi a tutti gli altri, a Rutelli, a Veltroni. L'autunno dovrebbe dirci se il commentatore di don Giussani riuscirà a prendere questo taxi. MONTEZEMOLO Questi i fantasmi di Luca: liberalizzazioni, tasse, mercato, ripresa. In casa Fiat, l'ombra di Marchionne, l'uomo duro, l'uomo d'oro. In Confindustria il multipresidente si fa in quattro per controllare la base ancora nostalgica dei condoni e della crescita zero. Deve portare a casa un risultato, qualcosa, convincere il governo a sganciare. Solo allora potrà dire: ne è valsa la pena; alla fine siamo riusciti a farci un cuneo così. NAPOLITANO 'O presidente vigila, vaglia, giudica, e poi sentenzia. Per la verità in agosto è stato parco di parole. Cosa fatta capo ha. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Ma se tanto ci dà tanto, l'Uomo del Colle, alla ripresa settembrina, avrà modo di esternare alla grande. Il suo compito è più delicato che mai: perché il tifo dice Unione, ma la ragione e l'istituzione dicono neutralità. Anzi, per evitare critiche dovrà apparire ancora più imparziale. Invocherà il dialogo, inviterà a rispettare la procedura istituzionale: ma alla fine, farà capire: accà nisciuno è fesso, e quindi tocca a voi, cari signori dell'Unione, trovare il modo di tenere in piedi il governo (non spetta a lui dirlo, ma un napoletano, con la "e", e la "n" minuscola, mi raccomando, li avrebbe già messi in saccoccia, quei sei o sette senatori di sicurezza). OSSERVATORE ROMANO A forza di osservare, anche romanamente, si prevede quanto segue: che nella successione al presidente della Cei Ruini, il cardinale Tettamanzi prende più voti, ma alla fine il papa nomina Angelo Scola, legato a Cl. Si parva licet componere magnis, accadde la stessa cosa quella volta con Veltroni e D'Alema: il popolo dei fax votò il Bruco; i corridoi di partito nominarono Baffino. Conclusione: con i voti bisogna andarci piano, soprattutto se sono voti religiosi. E si sa che chi entra papa, esce cardinale. PRODI A destra dicono che cade, cade, adesso cade; lui si comporta come se fosse eterno. Patate bollenti in politica estera, ma anche grande visibilità europea e mondiale. Perfettamente a suo agio, con D'Alema in avanscoperta, il Caro Leader dovrebbe abbandonare il proscenio planetario per occuparsi di inezie come la Finanziaria. I sondaggi segreti lo danno in grande crescita, grazie ai tortellini della Flavia, l'italianità della Croma, le ferie interrotte per senso del dovere, le telefonate con Chirac e con Olmert: ragàssi, qui si lavora da belve. Quanto alla Finanziaria, ci pensi Padoa-Schioppa, faccia il piacere (appunto per il rigoroso Tsp: evitare le polemiche con Giavazzi, please). QUESTIONE MORALE L'indulto ha fatto perdere al governo tre punti nell'indice di fiducia. In compenso, grande successo di Mastella. Alla ripresa, converrà mettere mano alla legge sul conflitto di interessi. Anche per vedere se la Cdl è davvero tutta schierata come un solo sicofante a favore delle proprietà di Silvio il Berbero. SILVIO Ha detto ciò che non bisogna mai dire. A qualcuno che gli chiedeva news sulla leadership della Cdl e sulla sua insostituibilità come capo della destra, ha rifilato una delle sue citazioni: «I cimiteri sono pieni di persone indispensabili». Frase di quelle da toccarsi. Come al solito, Berlusconi si è dimenticato di ricordare l'autore del bon mot, che per tradizione è il generale de Gaulle. Quello che disse anche: «Il potere non si conquista, si raccatta». Ecco, il futuro politico del vulcanico Cavaliere, il tuareg, il piccolo tamburino sardo, l'uomo-rumba del Pepero Club di Porto Cervo, non dipende molto da lui e dalle sue forze. O Prodi crolla, con tutta l'Unione. Oppure per l'ex Caimano, l'attuale re berbero, la vita si fa amara: come il rabarbaro. TABACCI Nonché Follini, naturalmente. Le speranze bianche dell'evoluzione politica. Ma arriva questa evoluzione, o stiamo sempre aspettando Godot? E senza mai goder? UMBERTO Uscite provinciali del Bossi, come quella che la missione in Libano costa troppo. Ogni giorno che passa lontana dal potere la Lega soffre. Dopo il crollo della devolution ci vorrebbe un'evolùscion. Forse anche dentro la Lega qualcuno si è accorto che l'asse con Berlusconi, il forzaleghismo, ha fatto bene a tutti fuorché al Carroccio. Se avesse ancora voglia di fare politica, in autunno ci si aspetterebbe un'invènscion alla Bossi. VISCO Anche i contribuenti più ligi, di fronte al passaggio concettuale e operativo "dall'imposta al contribuente", avvertono qualche brivido. Non per timore del ministro, ma per sfiducia nella burocrazia. Perché se poi l'anagrafe tributaria produce cartelle pazze? Se le tasse tartassano? Con l'autunno, non si potrebbe fare la lotta all'evasione con calma, parlando lentamente, senza che si sentano nell'aria minacce? O anzi, meglio: non converrebbe farla, la lotta, e non parlarne mai? WALTER Qualcuno lo chiama "dilemma di Veltroni", e suona così: è al massimo della popolarità, sarebbe l'uomo vincente, il leader carismatico del partito democratico. E tuttavia deve restare in standby, in attesa, col rischio di invecchiare prima di scendere davvero in campo. Sì, va be', c'è il festival romano del cinema, il popolo de Roma che lo ama tassisti compresi. Ma intanto, quel Bersani delle liberalizzazioni, quel Chiamparino di Torino, sono brutte bestie, concorrenti temibili. L'autunno di Walter è nel segno di una trionfale malinconia. ZERO A ZERO Questo il probabile risultato di tutte le partite, dal momento che la Juventus ricorre al Tar del Lazio, e se il Tar respinge ricorrerà al Tas di Losanna, e poi alla Corte di giustizia di Lussemburgo, o alla Croce Rossa, a Carla Del Ponte, al tribunale del Land del Palatinato, a un giudice nominato dal borgomastro di Aquisgrana, e allora i campionati non cominceranno mai più: ma insomma, ci sarà un arbitro a Berlino, che fischi l'inizio? n
L'Espresso, 31/08/2006
Elettori che hanno fatto storia
Le tre puntate di "Ciak si vota. Cinema e propaganda politica", curate da Tatti Sanguineti e realizzate dall'Archivio audiovisivo del movimento operaio e dall'Istituto Sturzo promettono di diventare una fonte straordinaria per lo studio della storia contemporanea italiana. La prima puntata è andata in onda il giorno di Ferragosto, quasi a mezzanotte. Per il vizioso di politica, ma anche per chi ama la documentazione filmica della nostra vicenda repubblicana, si è trattato di un appuntamento impagabile. In primo luogo per la ricchezza del repertorio cinematografico selezionato e montato: questa prima puntata era dedicata al cinema propagandistico democristiano, nei dintorni delle elezioni "epocali" del 18 aprile 1948. Il che consentiva di registrare direttamente il clima d'epoca, ma anche il confronto fra i complessi ideologici, le convenzioni propagandistiche, il calore e l'asprezza dello scontro politico, dentro un complesso di regole che consentivano tackle durissimi (alcune produzioni cinematografiche dei Comitati civici di Luigi Gedda sono oggi particolarmente impressionanti quando commentano in modo tassativo la scomunica del Vaticano contro gli iscritti al Pci). Dunque la prima reazione, in attesa dell'ultima puntata (la seconda, il 22 agosto, è stata dedicata ai comunisti) è di gratitudine "professionale", per la ricerca effettuata, che ha riportato alla luce una quantità impressionante di materiale. Ma in secondo luogo programmi come questo mettono in luce quale potrebbe essere il ruolo effettivo della Rai come produttrice di cultura. È fuor di dubbio che gli archivi dell'emittente pubblica sono uno straordinario bacino di lavoro per gli storici attuali e futuri che vorranno avere immagini, e non solo testimonianze scritte, sull'evoluzione del paese, e quindi richiedono cure e soprattutto investimenti, almeno finché la Rai vorrà fregiarsi dell'etichetta di "servizio pubblico". E nello stesso tempo quella che viene definita con un po' di retorica «la massima agenzia culturale del paese» dovrebbe anche esercitare una funzione editoriale, individuando filoni di lavoro (oltre a quelli meritori di Gianni Minoli con "La storia siamo noi") che possano valorizzare i depositi di immagini conservate in archivio, ed eventualmente anche di acquisizione o mappatura di archivi esterni. Per adesso, programmi come "Ciak si vota" sono esemplari, e indicano una direzione possibile.
L'Espresso, 24/08/2006
Formula videogame
L'ultimo gran premio di Fomula uno, disputato a Budapest, è stato un esempio di come le gare automobilistiche potrebbero e dovrebbero essere. Si sa infatti che da tempo la Formula uno offre poche emozioni. Non si vede competizione, non ci sono sorpassi, lo stesso Briatore ha concluso che qualcuno del Barnum dovrebbe cominciare a chiedersi le ragioni del crollo di spettatori. Ma a Budapest, ottima telecronaca della Rai, si è visto di tutto. Alonso e Schumacher penalizzati dopo le prove, in modo da movimentare la corsa. E poi una gara dominata dal caso, che assomigliava a un videogioco da incubo. Un bell'acquazzone, così si vede chi sa guidare. E quando sembrava che lo spagnolo Alonso avesse messo tutti in fila, ecco che uno spettacolare incidente, un tamponamento di Raikkonen, riempie di rottami la pista, costringendo la safety car a mettere tutti in fila (e quindi si torna in condizioni praticamente di parità). Il clou sembrava raggiunto allorché i meccanici di Alonso hanno sbagliato durante il pit stop e non sono riusciti ad avvitargli la ruota posteriore destra, che difatti alla prima curva si è staccata; ma invece c'è stato un ulteriore dramma, quando a tre giri dalla fine Schumacher si è fermato con una sospensione rotta, dopo avere fatto a ruotate con chiunque cercava di sorpassarlo. A quel punto si è capito che cambiando i regolamenti la Formula uno non cambierà mai: ci vogliono rimedi molto più efficaci. Occorrerà passare al gran premio interattivo: pulsante verde, acqua in pista; pulsante rosso, pit stop obbligatorio per chi è in testa. Devono partecipare tutti, spettatori sulle tribune e spettatori sulle poltrone. Basta un telecomando, e via. Certo ci sarebbero le obiezioni dettate dalla presunta natura sportiva delle gare: ma insomma, ci vuole poco a capire che la Formula uno non è sport, è spettacolo. E spettacolo televisivo, per giunta. Quindi, se dev'essere show, non ci si fermi davanti alle perplessità di piloti, case automobilistiche, esperti. Pensate alla soddisfazione di tirare secchiate d'acqua virtuali che diventano reali, di mandare fuori strada chi sta vincendo: lo si è fatto sempre, con la forza del pensiero, nutrendo idee antisportive tipo: speriamo che all'avversaria della Ferrari scoppi il motore all'ultimo giro. Benissimo, basta un poco di fantasia in più, e la Formula uno diventa quel magnifico videogioco che è ormai solo in rarissime occasioni.
L'Espresso, 17/08/2006
Qull’impolitico a destra di Silvio
Sarebbe facile liquidare il confronto fra Berlusconi e Murdoch dicendo semplicemente che il confronto non c'è. Il Cavaliere resta un leader regionale, un imprenditore ricco ma a definizione di confine controllata, mentre il magnate australiano è un tycoon globale. Se ha voluto trovare una collocazione internazionale, Berlusconi ha dovuto capitalizzare il suo ruolo politico: imprenditore nato con i favori della politica, il tycoon di casa nostra ha invaso la scena pubblica mentre il sistema era alla demolizione. Da lì ha costruito la sua figura di mediatore, cultore della photo opportunity con i potenti, autore di storiche pacche sulle spalle all'amico Putin e all'amico Bush, talentuoso istrione ai tempi della bandana con Cherie Blair. Sulla credibilità del suo ruolo di insider fra i grandi, animatore ufficioso dei summit o infiltrato tollerato, nessuno ha mai verificato con giudizi equilibrati. Era comunque il caso esemplare dell'imprenditore che si butta in politica: originale, inventivo, fantasioso, ma autore di uno scarto rispetto alla norma secondo cui i businessmen restano sullo sfondo, assecondando e condizionando gli equilibri politici, ma senza scavalcare i limiti ufficiali del proprio ruolo. Mentre lo squalo australiano è ad un tempo più tradizionale in politica e più estremo nella dimensione imprenditoriale. Nato come editore nel crogiuolo dei "junk papers" inglesi, è riuscito a far diventare la propria editoria il veicolo popolare dell'ideologia thatcheriana, quella rivoluzione conservatrice non riconducibile alla destra classica che ha scosso dalle fondamenta il Regno Unito tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta. Berlusconi ha fruito del sostegno del proprio impero televisivo durante la sua parabola politica, Murdoch invece ha ragionato per tutta la sua carriera in chiave di mercato. Intrinsecamente conservatore, l'iper editore australiano ha creato, con Fox News, una rete mondiale a sostegno del complesso ideologico bushista, cioè della nuova destra americana neocon. E se le reti di Berlusconi sono uno strumento politico diretto, il terreno di coltura del suo elettorato medio, nella provincia italiana la murdochiana Sky è una piattaforma senza aggettivi politici, e Sky Tg24 un organo di informazione che guarda con interesse al modernismo di certi settori di centrosinistra, quelli più orientati verso il Partito democratico. Perché alla fine, nella provincia nostrana, l'intreccio fra politica e mercato è la condizione costitutiva dell'editoria, particolarmente televisiva. Nell'orizzonte globale, vale il detto di Bill Clinton: «It's the economy, stupid». È il mercato, bellezza, e nella postpolitica contemporanea il resto è chiacchiera.
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