L’Espresso
L'Espresso, 17/08/2006
Tuffi dal telecomando
Alle prese con la solita programmazione estiva (problematica, diciamo così), ci sono poche alternative: o ci si dedica ai programmi di qualità, e in questo caso è sempre una sorpresa "La storia siamo noi", il contenitore-laboratorio di Gianni Minoli, che di recente ha mandato in onda il programma sulle crociere di Emilia Brandi e una trasmissione sulla Bussola di Chiara Tiezzi; oppure ci si dedica alle trasmissioni di puro intrattenimento. Fra queste ultime, un cenno particolare hanno meritato i campionati europei di nuoto di Budapest. Gli appassionati e i tecnici non se la prendano per la definizione di intrattenimento inflitta a una disciplina sportiva. Ma uno è un tecnico, un conoscitore, un esperto, e allora avrà seguito i campionati integralmente, sarà magari andato nella capitale magiara, avrà fatto il tifo, si sarà mangiato le mani per gli errori della Cagnotto e avrà gioito per i successi di questo e di quello, di Magnini e Rosolino, und so weiter (che vuol dire "e così via" nella lingua dell'impero austroungarico). Oppure è un profano, e per i profani il nuoto è un mistero ma quanto di più estivo si possa immaginare. L'acqua della piscina, gli spruzzi dei tuffi, il carpiato, l'avvitato, gli esercizi sincronizzati. Certe volte, mentre aspettiamo canonicamente la fine della digestione per tuffarci a nostra volta, la piscina budapestina è un ristoro a prescindere, e anche la dimostrazione che Esther Williams, come diceva sempre Paolo Limiti, con i suoi film acquatici aveva intercettato un potente sentimento collettivo. No, non il ritorno al liquido amniotico: piuttosto il senso di Stefano Bizzotto per la frescura (per chi non lo sa, Bizzotto è il telecronista della Rai). E in aggiunta la possibilità di ammirare, nei lenti pomeriggi d'agosto, ragazze con fisici d'eccezione, e ragazzi altrettanto. Sicché poi ci si può gettare in acqua con lo spirito rinfrancato, producendosi in tuffi clamorosi e in bracciate di impressionante potenza (vabbè). Poi si torna dalla spiaggia, si riaccende la televisione e i tuffatori sono ancora lì, che si buttano dalla piattaforma, e le tuffatrici dal trampolino, e i farfallisti e i dorsisti e i ranisti e i liberisti fanno vasche velocissime, e l'ottimo Bizzotto commenta meraviglie. Fra l'altro, adesso hanno inventato sistemi tv che fanno anche capire chi ha vinto la gara in volata. Ci vorrebbero campionati di nuoto per tutto agosto.
L'Espresso, 10/08/2006
A Porto Cervo è tornato il Caimano
Chi voleva una fotografia delle due Italie, il paese di destra e il paese di sinistra, l'ha trovata. La destra è come sempre Silvio Berlusconi: il Cavaliere ridente, trionfante, esplosivo. L'uomo mascherato di Marrakech, il berbero che avanza con passi «ieratici», si inginocchia e concede all'inconsapevole Veronica la collana di rubini. Oppure il supermondano di Porto Cervo, che si infila al Billionaire di Flavio Briatore, e trasforma una serata cafona in un evento imperdibile, tra Lele Mora, Emilio Fede, Matteo Marzotto, Paolo Barilla, nonché gruppetti di supersquinzie «belle & possibili», come ha sottolineato Laura Laurenzi su "la Repubblica". Insomma, destra significa gente che sa divertirsi e ne ha la possibilità. Niente moralismi, naturalmente: al suo meglio, Berlusconi è un grande intrattenitore, uno che si presenta alla festa, e al supercazzeggio, della Sardegna dorata sostenendo con la miglior faccia possibile che è la sua prima serata libera negli ultimi 12 anni, e che comunque anche di recente ha fatto le nottate lavorando con «il dottor Letta». Sottinteso: mi merito il premio. Mentre la sinistra, neanche a dirlo, sembra una quaresima. La legge finanziaria che si profila al di là delle ferie incombe come una nuvola minacciosa, gonfia di responsabilità, tagli, sacrifici, impegni, punizioni. Tutti argomenti su cui è difficile immaginare un processo riformista guidato con decisione e unità d'intenti. Ed è logico allora che Berlusconi sfoderi il suo scetticismo, la sua ironia, il suo ottimismo: «Prodi non dura». È la sua scommessa. Deve tenere insieme il centrodestra, stroncando le eresie di Pier Ferdinando Casini e le manovre a cui teme che potrebbe prestarsi l'Udc. Deve mettere tutta la Cdl a fianco a fianco con l'Unione e correre in parallelo a Romano Prodi: chi si ferma per primo ha perduto. Mors tua vita mea. In caso di caduta del centrosinistra, si avvererebbe la diagnosi di Arturo Parisi: «Se la maggioranza dimostrasse di non saper dare prova di unità e capacità di governo, sarebbe inevitabile ripensare la nostra proposta davanti agli elettori», vale a dire che l'Unione avrebbe chiuso la sua storia. In modo consapevole o no, gli exploit mondani di Berlusconi servono anche a mettere in luce la felicità collettiva, l'allegria euforica della destra contro la mestizia ontologica della sinistra. Mentre Tommaso Padoa-Schioppa dovrà spremere ogni energia per individuare costi da tagliare e spese da risparmiare. Una povertà francescana è il clima che Prodi e il suo governo possono promettere agli italiani, nella speranza che la virtù possa diventare benessere in seguito. Berlusconi invece sta facendo la più efficace campagna preventiva possibile: la ricchezza è qui e ora, basta saperla cogliere. Sta tornando il Berlusconi autentico, la figurina magica, l'icona pop senza inibizioni e senza tabù: l'uomo del jogging alle Bermuda, dei cactus a Villa Certosa, della bandana con Cherie Blaire, dell'amicizia virile con il judoka Vladimir Putin, del lifting, del trapianto, delle nottate con il chitarrista Mariano Apicella. Il Berlusconi al governo era berlusconista, cioè duro e cattivo; quello di Marrakech e del Billionaire è berlusconiano. Lancia il suo unico vero programma, "lasciateci divertire". Dove il divertimento è innescato dal potere, dall'esercizio del comando, dal piacere dell'essere al centro di tutto. Difficile controllare se sia vero che i sondaggi hanno riportato la destra cinque punti sopra l'Unione. Di sicuro c'è soltanto che il collasso del centrosinistra equivarrebbe alla sua autodistruzione: dopo la caduta di Prodi, proprio come disse Giancarlo Pajetta a proposito del dopo Togliatti, si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra. Berlusconi ne è consapevole. Si mette in pista per essere pronto a raccattare il potere. Fra il suo umorismo, il gusto per la comicità, il senso di Silvio per le feste, e la "reconquista" ai danni degli infedeli, c'è solo il diaframma resistenziale di due voti al Senato. Certo, lo sanno anche tutti quelli dell'Unione, che devono durare un passo, un soffio, un istante in più di Berlusconi. A dispetto di tutto, prima di riconsegnare l'Italia ai trentadue denti del Caimano, vale la pena di ricorrere a vecchi proverbi, a saggezze antiche: all'idea insomma che ride bene chi ride ultimo.
L'Espresso, 10/08/2006
L’Estate dei nuovi ricchi
Arriva l'estate del nostro scontento. Ci vorrebbe soltanto il misuratore di invidia sociale, una colonnina di mercurio che si impenna allorché accanto parcheggia la Porsche Cayenne di un centrocampista anche di fascia bassa. Si profilano le ruote del Suv, monumentali, e silenziosamente riesplode la lotta di classe. Da una parte, mezzo metro più in basso, c'è quasi tutto il reddito fisso: lavoro dipendente, impiegati, funzionari, dirigenti, e non parliamo dei pensionati, insomma, coloro che hanno sofferto la mazzata del cambio dalla lira all'euro e alla fine hanno capito che i vincitori stavano di là: nel lavoro autonomo, nelle corporazioni, fra i professionisti e i commercianti, fra chi aveva potuto aggirare il mercato, approfittando della mancanza di concorrenza. Perché i cinque anni del centrodestra, fra sushi bar e boutique, vacanze estreme e lussi da ultima spiaggia, barche e porti, sono stati un'epoca di lotta di classe condotta con altri mezzi. Una "revanche" economica praticata con il metodo Clausewitz. L'impoverimento dei ceti medi era evidente, ma nessuno diceva che simmetricamente altri ceti si arricchivano. Lo dicevano i vecchi marxisti: l'inflazione è un tiro alla fune; c'è chi ci perde e chi ci guadagna: indovinare chi. Sotto la benedizione di Berlusconi e Tremonti l'Italia delle libertà si è sentita davvero liberata. I condoni hanno confermato l'idea che non pagare le tasse era un peccato veniale. Fenomenali accumulazioni di ricchezza si sono verificate sfuggendo al fisco. L'elettorato di Forza Italia ha avuto mano libera nella grande rapina contro l'elettorato dell'Unione. Non ci sono stati soltanto gli immobiliaristi di punta, come Coppola, Statuto o Ricucci, che hanno capitalizzato lo zenith di un mercato in continua ascesa, dopo la dissoluzione della "bolla" in Borsa. Il mattone è diventato l'investimento obbligato, sparando in alto i prezzi e mobilitando l'indotto, dalle ristrutturazioni alle agenzie. La spregiudicatezza dello stile di un Ricucci, con l'ostentazione provinciale di danaro unita all'assalto del salotto buono Rcs, è un esempio della grande mutazione antropologica nel nuovo capitalismo: gli ex palazzinari che diventano ceto d'avanguardia. Le analisi come quelle di Riccardo Faini, secondo cui il modello industriale italiano era «obsoleto» e quindi condannato al declino, non consideravano la creazione di ricchezza selettiva basata sulla rendita (come ha rilevato Geminello Alvi nel saggio "Una repubblica fondata sulle rendite"). L'apparato industriale soffre la concorrenza asiatica, quindi cambia, si ristruttura, innova. Invece, alcuni settori protetti hanno ricostituito margini di profitto impressionanti. La sensazione, come sempre, è che il paese sia povero ma che gli italiani (una parte di loro) siano ricchi o siano diventati ricchissimi. L'esibizione di denaro nei santuari del supercazzeggio italiota è tale da suscitare la meraviglia e l'ammirazione masochista dei poveri. A Poltu Quatu il ceto medio poco riflessivo si assiepa ancora sul molo per ammirare l'arrivo di Flavio Briatore con una svampita. A Cortina sono tornate le stagioni d'oro, fra i ludi dell'intellighenzia e valori catastali schizzati verso l'impossibile, oltre i 20 mila euro al metro quadro. Forte dei Marmi è di nuovo un luogo dell'ostentazione di ricchezza senza se e senza ma. Ma anche località meno note vedono il concentrarsi di un'euforia economica clandestina, quasi mai censita dal fisco. A Jesolo i nuovi appartamenti sul mare sono decollati in qualche caso verso i 16-17 mila euro al metro quadro, attirando investitori sconosciuti alle cronache ma capaci di staccare assegni superiori ai 3 milioni di euro. Sul Garda trentino, dato che il litorale è da tempo proprietà tedesca, ormai si specula sull'entroterra, a prezzi triplicati nel giro di un paio d'anni. È L'Italia del mezzo milione di barche, dei fuoristrada, delle 10 mila auto sopra gli 80 mila euro immatricolate in un anno. Ed è quella nazione atterrita dal governo «delle sinistre», come diceva e dice Berlusconi, dal «vampiro» Vincenzo Visco, che ha già spostato un po' di soldi in Svizzera, ha affollato gli studi dei notai per formalizzare le donazioni ai figli, allo scopo di evitare il ritorno dell' imposta di successione (su cui Prodi e il centrosinistra, con le loro vaghezze, si sono quasi giocati le elezioni). Ma è anche la nazione che osserva con soddisfazione l'andamento della curva del rapporto fra rendita e reddito da lavoro, sempre più simile a quella degli anni Cinquanta. Il popolo dell'Iva, delle professioni, degli albi a tariffa minima, delle categorie a evasione massima, guarda naturalmente con fastidio le liberalizzazioni del ministro Pier Luigi Bersani. La rivolta delle élite, testimoniata dalle serrate dei farmacisti e dagli scioperi degli avvocati, costituisce uno dei fenomeni più "moderni" a cui sia capitato di assistere: superato soltanto dalla velocità con cui gli iperliberisti della Casa delle libertà si sono trasformati in difensori accaniti del corporativismo. La metamorfosi è grottesca quanto rivelatrice. Da un lato dimostra quanto sia ingombrante la presenza nella società italiana di un privilegio di classe, percepito dai privilegiati alla stregua di un diritto castale; e dall'altro quanto sarebbe politicamente incisiva una politica di liberalizzazione, in modo da introdurre merito e concorrenza in una collettività afflitta dall'assenza di mobilità sociale. Il tema della concorrenza era stato lanciato da Luca Cordero di Montezemolo, con un'operazione culturale di ampio respiro, il convegno della Confindustria a Vicenza, che è stata stroncata dall'irruzione del Caimano, venuto a riprendersi la pancia degli imprenditori. Alla fine, potrà apparire bizzarro che siano i vecchi e nuovi ricchi a dover temere le politiche liberali. Ma è anche la prova che ci sono gli spazi politici per fare quello che Berlusconi in campagna elettorale deprecava: redistribuire la ricchezza attraverso il fisco, mettere sullo stesso piano "il figlio del professionista e il figlio dell'operaio". Il panorama dell'estate mostra che una certa dose di giacobinismo nelle regole e nella prassi non farebbe male: muoverebbe interessi, sposterebbe passioni. E probabilmente creerebbe consenso. n
L'Espresso, 10/08/2006
schiavi della mini tv
In poco più di un mese oltre 100 mila italiani hanno acquistato un "tivufonino" di 3 Italia. Evidentemente il Mondiale di calcio in Germania ha esercitato una spinta consistente. Per molti appassionati non serve a niente avere la possibilità continua di repliche fuori orario: conta solo l'avvenimento in sé, in diretta, l'esserci. Quindi la possibilità di non perdere un appuntamento sportivo o televisivo può essere allettante. E i primi esperimenti con la tv digitale mobile devono anche avere convinto i nuovi possessori che non si tratta soltanto di un giocattolo. La qualità delle immagini infatti è assoluta, e consente di seguire i programmi molto più facilmente di quanto non si potrebbe immaginare. Chi scrive, per esempio, ha visto i supplementari e i calci di rigore di Inghilterra-Portogallo: prima diffidente, poi molto meno. Nel piccolo ma non piccolissimo schermo infatti il pallone è una capocchia di spillo bianca: ma definita, nitida. Le traiettorie si vedono bene, le azioni sono riconoscibili senza fatica. Semmai, dal momento che 3 Italia sta rafforzando la copertura, ci si può chiedere a che cosa serva effettivamente un attrezzo che consente soprattutto l'uso "outdoor" anziché "in house". Ma probabilmente è vero che la televisione è diventata un totem: avere nella tasca della giacca la possibilità di vedere news, sport, intrattenimento costituisce una specie di rassicurazione: una garanzia contro l'esclusione sociale. Così come si è continuamente connessi con i cellulari, i palmari, la posta elettronica, anche la tv portatile costituisce un tassello ulteriore della connettività. La caratteristica principale dell'operatore 3 Italia è che non si limita a riprogrammare Rai, Mediaset, Sky Tg24, Sky Sport, All Music ecc.; ha allestito anche un canale autoprodotto, La3 Live, che fa da guida ai canali del bouquet (diretto da Peppe Quintale, regia di Alessandro Baracco, entrambi con un passato di successo alle "Iene" di Italia 1). Ogni volta che si accende il "tivufonino" è una sorpresa vedere una presentatrice che sta illustrando i programmi. Dopo l'apprendistato, si impara a fare i conti con il nuovo gadget: una possibilità in più, una dannazione ancora. Ma si sa come vanno le cose con l'innovazione: ciò che sulle prime appare superfluo, dopo pochi mesi diventa insostituibile. E quindi, è davvero possibile che la tv digitale mobile diventi una nostra compagna di strada.
L'Espresso, 03/08/2006
Romano a orologeria
Sarà pure "sexy" la maggioranza stretta, come dice Romano Prodi, ma la differenza fra eros e thanatos, il piacere e il dolore, fra la tenuta e la caduta del governo è un niente, un diaframma impalpabile, uno spessore di carta velina. Ogni giorno una fibrillazione, un ostacolo da superare: il rifinanziamento della missione in Afghanistan, l'indulto, il decreto Bersani, la manovra correttiva. E sullo sfondo si profilano fin d'ora le strettoie della Finanziaria, con l'attesa di un settembre burrascoso. Le prospettive della legislatura sono incerte, a dimostrazione che il problema del Senato era stato sottovalutato. «C'è stato un deficit di realismo», commenta il politologo Piero Ignazi: «Occorreva mettere a frutto il risultato delle amministrative e il referendum sulla Costituzione, due risultati che avevano dimostrato che la spallata della Casa delle libertà era fallita». Nel centrosinistra non abbondano le soluzioni per uscire dall'impasse. Vecchi navigatori delle aule parlamentari fanno presente che Prodi non è mai stato un uomo del Parlamento. Altri segnalano una certa rigidità da parte del ministro dei Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti. Di fronte all'ipotesi di allargare la maggioranza, ventilata (invocata, ridimensionata) anche da uno dei numeri due di Prodi, Enrico Letta, e sostenute dal capogruppo dell'Ulivo al Senato Anna Finocchiaro, nell'entourage di Palazzo Chigi si mostra scetticismo. Il portavoce di Prodi, Silvio Sircana, ha coniato la formula secondo cui occorre cercare non tanto intese più larghe, quanto «restringere lo spazio dell'opposizione». Ma che cosa significa in concreto? Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma e storico braccio destro di Prodi, è molto prudente sull'evoluzione degli equilibri parlamentari: «Allo stato attuale è poco plausibile un coinvolgimento palese di forze dell'opposizione. Anzi, per niente». D'altronde non ci vuole molto a registrare che il muro contro muro sui provvedimenti blinda gli schieramenti. Non sono preventivabili defezioni dal centrodestra, né singole né collettive. Una campagna acquisti informale nelle file del centrodestra è resa impraticabile dalla condizione di estrema incertezza: nessuno è disposto a cambi di casacca se non sono chiari i vantaggi di una scelta simile e la loro durata. Eppure il presidente della Repubblica non perde occasione per segnalare il rischio che lo scontro continuo inneschi una «spirale distruttiva». Gli schieramenti devono parlarsi civilmente, dice Giorgio Napolitano. Ma dove sono le condizioni per una ripresa del dialogo? Prodi sembra in bilico su un'alternativa impossibile: governare con due o tre voti di maggioranza al Senato lo logora, uscire dall'autosufficienza dell'Unione lo abbatterebbe. Santagata e i prodiani a Palazzo Chigi proiettano il governo nel medio periodo: «Proprio perché siamo realisti dobbiamo puntare alto. Non è un espediente scaramantico. Che cosa aveva detto Romano ai ministri, negli esercizi spirituali di San Martino in Campo? Dovete avere il coraggio di stupire. Il governo ha una possibilità solo se riesce a fissare obiettivi di riforma che creino consenso nell'opinione pubblica, se si fa trasportare da un'onda favorevole nella società che tolga peso e voce all'opposizione». Facile a dirsi. Era l'"effetto Bersani", la ventata di innovazione suscitata dal decreto sulle liberalizzazioni. Seguita dai musi lunghi dopo le manifestazioni di giubilo dei tassisti, e le critiche di Francesco Rutelli all'accordo stipulato da Bersani con la categoria. Ma allora come può, realisticamente, un governo fragile trasformarsi in un governo forte? Negli ambienti politici più tradizionali si analizzano scenari alternativi. Mentre Pier Ferdinando Casini fa il possibile per restare sotto traccia, i due postdemocristiani di punta dell'anti-bipolarismo, Bruno Tabacci e Marco Follini, continuano a evocare cambi di schema. Le larghe intese, la scomposizione e la ricomposizione degli schieramenti. Il format politico trasformato in un laboratorio della Terza Repubblica. Si susseguono, anche con esplicite volontà provocatorie, identikit sulla personalità dell'eventuale successore di Prodi in un governo di "responsabilità nazionale" o in una "coalizione Montezemolo": il tecnocrate Mario Monti, il governatore di Bankitalia Mario Draghi. La tesi è sempre quella esposta prima delle elezioni politiche dall'ex commissario europeo: se i Poli si paralizzano a vicenda e non riescono a fare le riforme necessarie per il paese, un cavaliere bianco al centro del sistema raccolga le forze riformiste e proceda a realizzarle, senza più schematismi e forzature bipolari. Questi scenari fanno rabbrividire gli ulivisti più radicali. Arturo Parisi, teorizzatore e ideologo della scelta bipolare, è convinto da mesi che la politica italiana si trova di nuovo su una linea di crinale. Se si scivola all'indietro, anche a causa dei varchi aperti dalla proporzionale, non ci sarebbero probabilmente più appigli per arrestare la deriva consociativa. Ne consegue che l'imperativo è uno solo: l'Unione deve resistere. Momento per momento, battaglia per battaglia, voto per voto. Ogni risultato positivo conseguito in Parlamento è un pericolo in meno che si prospetti un cedimento compromissorio. Anche perché per il momento si è dimostrata infondata la tesi cullata sommessamente dall'Unione dopo le elezioni di aprile: e cioè che con il procedere della legislatura si sarebbe assistito a un allentamento della tenuta della Cdl. Un'erosione fisiologica, uno sfilacciamento, la "stanchezza dell'opposizione" su cui puntava anche Palazzo Chigi. In realtà il centrodestra è compattissimo, nonostante il cabotaggio neo-popolare impostato da Gianfranco Fini per An, che potrebbe metterlo prima o poi in rotta di collisione con Forza Italia (ma che mantiene An nell'area della governabilità anche in caso di esecutivi di garanzia), e l'insofferenza dell'Udc per ogni discorso a conferma della leadership di Silvio Berlusconi. Il "programma" della Cdl è stato esposto con chiarezza da Giulio Tremonti: Prodi cadrà sulla Finanziaria; di conseguenza il centrodestra non può permettersi il lusso di una stagione costituente, deve essere pronto a ogni evenienza. Alla "grosse Koalition" come alle elezioni. Al rimescolamento politico-parlamentare come a un nuovo scontro elettorale. Ma anche questo compattamento imprevisto, sostiene il club prodiano, è una tenuta "a tempo". Contiene una data di scadenza. È una strategia logica e razionale, ma che può svuotarsi se il governo e l'Unione dimostrassero con i fatti la propria capacità di gestire i mesi di emergenza del prossimo autunno-inverno. Vale a dire la capacità di mobilitare tutti i partiti della coalizione a sostegno di scelte di fondo condivise su base programmatica che dovranno misurarsi, e scontrarsi, con gli interessi reali. Il capo del governo ha in mano una sola carta, quella che ha mostrato nella contestata intervista al direttore della "Zeit" Giovanni Di Lorenzo: «Se cade il governo, ci aspettano sessant'anni di centrodestra», e che ha risottolineato al "Corriere della Sera": in un traumatico dopo Prodi ci sono soltanto le elezioni. Nell'area governativa non si prendono in considerazione soluzioni creative come lo scioglimento del solo Senato, che vengono considerate una specie di «esercizio enigmistico». Una sfumatura di ottimismo, ma niente più che una sfumatura, e anche volontaristica, viene offerta dall'idea che la politica estera è stata il terreno in cui si sono manifestati casi di coscienza anche drammatici e, lo si è visto, non negoziabili (come quello che ha portato alle dimissioni dalla Camera il deputato di Rifondazione comunista Paolo Cacciari); mentre sulla Finanziaria Prodi è convinto di poter armonizzare rigore e sviluppo, tagli e rilancio, severità ed equità. È il "prodismo": cioè la convinzione che la tenuta del governo possa essere la piattaforma per la ristrutturazione del centrosinistra, cioè la base progettuale e operativa del Partito democratico. Anche se per ora il governo Prodi sembra un caso di scuola della divaricazione fra l'esperienza di governo e il livello politico-partitico. Prodi governa, o tenta di governare, segnala la discontinuità in politica estera, riguadagna posizioni e coglie qualche successo nell'arena internazionale, prepara con Tommaso Padoa-Schioppa una Finanziaria straordinariamente difficile, mentre i Ds e la Margherita litigano sulla futura collocazione nel Pse del suo progetto politico, il Partito democratico (che a sua volta apre crepe vistose nella sinistra del partito di Piero Fassino). Effetti prevedibili del sistema proporzionale, dicono gli analisti politici. Ma ora non è più questione di teorie politologiche. È cominciata una corsa parallela, in cui governo e opposizione procedono affiancati, scambiandosi colpi, ciascuno aspettando che l'altro cada per stanchezza. E Prodi, che vede davanti a sé l'incubo della maratona più breve della sua vita, non ha altra strategia se non di fare un passo in più degli avversari, un metro alla volta, uno scatto dopo l'altro. Sempre nella speranza che, alle spalle, non gli facciano lo sgambetto. n
L'Espresso, 03/08/2006
Il Pianeta Rosso
Sbagliato prendere il nuovo libro di Gian Antonio Stella, "Avanti popolo", appena pubblicato da Rizzoli (pp. 304, euro 17,50) come uno dei consueti missili terra-aria dell'inviato del "Corriere della Sera" contro la politica italiana. Chi ricorda l'umore nerissimo delle due edizioni di "Tribù", libro che ha provocato seri danni alla destra e ai berluscones, potrebbe pensare che anche questo repertorio di «figure e figuri del nuovo potere italiano», come suona il sottotitolo, potrebbe configurarsi come un altro capitolo demolitorio, questa volta ai danni del centrosinistra. Certo, Stella si impegna. Porta già dentro di sé l'irritazione verso la carica dei 102, la spartizione governativa, il lotto continuo fra i partiti, insomma la cattiva prova pratica del centrosinistra che ha conquistato «per un pelo» la possibilità di governare. Nel leggere i 35 ritratti che compongono il volume, in ordine alfabetico dall'altermondialista Vittorio Agnoletto al redivivo liberale Valerio Zanone, non si può fare a meno di ammirare l'eccezionale qualità del lavoro di ricostruzione compiuto per ogni protagonista o comprimario della "nuova fase". E l'ammirazione cresce di fronte alle annotazioni dell'autore, per lo stile con cui rileva prove e indizi che inchiodano il centrosinistra. Prendiamo il capitolo su Giuliano Amato, uno dei più complessi: il chiaroscuro di Stella mette in luce tutte le sfaccettature del dottor Sottile, riconoscendogli una qualità tecnico-professionale fuori del comune; ma nello stesso tempo mette a fuoco anche la sua capacità di praticare giochi di prestigio sul proprio ruolo, sulla propria insostituibilità, sulla propria fungibilità. È vero che sparire oggi per riapparire in piena luce domani è una delle doti migliori dei politici veri. Ma è anche la dimostrazione che il centrosinistra è un labirinto di corridoi politici in cui si concentrano le oligarchie. Stella è troppo giornalista per buttarla sul dover essere: questi sono i politici che abbiamo, con loro facciamo i conti. E i conti possono essere anche divertenti, come con Massimo Cacciari, a cui è dedicato uno dei passaggi più clamorosi del libro. Perché il doge filosofo, Cacciari III di Venezia, quando è accusato di seminare lo scompiglio fra gli avversari e i compagni, «sbuffa e tira diritto, spiegando Hegel agli hegeliani, la dodecafonia ai dodecafonici, il papato al papa, l'idraulica agli idraulici, l'ascesi agli ascetici, il calciobalilla ai calciobalillisti». Dopo un exploit come questo, si può scegliere fior da fiore quali figure o figuri eleggere fra i più interessanti nel catalogo di Stella. Il «cattivista nella sinistra buonista» Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino plebiscitato dal 66,5 per cento dei voti al primo turno? In ogni caso la preferenza va ai meno conosciuti. Perché la fisicità emiliana di Romano Prodi è nota, così come la rotondità simbolica del suo gluteo; si sa tutto di D'Alema, Veltroni, Napolitano, Fassino, Bertinotti, Rutelli. Mentre risultano irresistibili i personaggi come Luis Dürnwalder, presidente della provincia di Bolzano e vero capopopolo sudtirolese; ed è indimenticabile il ritratto crepuscolare di Arturo Parisi, l'omino di ferro somigliante al Negus che persegue il partito democratico con un'ostinazione metafisica; così come anche il profilo di Tommaso Padoa- Schioppa, il freddo tecnocrate ritrovatosi nel caldo torrido dell'avventura politica. Insomma, "Avanti popolo" manca il colpo del ko, ma non per colpa dell'autore. La sua onesta malizia è un dono impagabile: Stella è un artista del ritratto imbarazzante. Alla fine viene certamente fuori una sinistra estemporanea, incerta, pasticciona. Ma pur sempre meno peggio della destra. Meno legata ai soldi, meno prigioniera degli affari. L'autore fa di tutto per esprimere il suo disincanto. Tuttavia, mentre si registra da atti, documenti e dichiarazioni che questa è un'armata in cui pullulano i mediocri, gli incapaci, i politicanti, viene fuori a ogni pagina che sono i "nostri" politicanti. Fanno magari rabbia; ma non fanno paura. n
L'Espresso, 03/08/2006
I naufraghi di Raidue
Si trovano talvolta quasi per caso certe chicche, sulla Rai. Nella terza serata di martedì 25, su Raidue, per la serie di Giovanni Minoli "La storia siamo noi", è andato in onda un film di Emilia Brandi e Andrea D'Ascenzi, "Crociera & delizia". Il documentario è il risultato di tre settimane sulle navi da intrattenimento. Si vedeva quindi l'ambiente della crociera, raccontato dai passeggeri, dal personale di bordo, dagli ufficiali e dal comandante. Un mondo a parte. Nelle parole di un crocierista: «La crociera? Significa fare tantissime file, mangiare in modo approssimativo, ma molto, e rilassarsi». Ancora più secca la definizione di un cantante di bordo: «Qui siamo in un reality». In effetti a vedere una delle grandi navi di Costa Crociere, o della flotta Msc, c'è da rimanere impressionati: bestioni di quasi 100 mila tonnellate di stazza (con prezzi che possono superare i 400 milioni di euro), che portano per mare migliaia di persone. Sono macchine da divertimento programmato, con il casinò, il karaoke, il pianobar, gli animatori, le piscine, l'idromassaggio, le piste da ballo e soprattutto i ristoranti, presi d'assalto nei cinque pasti quotidiani (diverso è il caso della SilverSea, con piccole navi che fanno il giro del mondo imbarcando un numero limitato di passeggeri di fascia alta o altissima, in uno stile simile a quello di un esclusivo grand hotel marino). Ma ancora più che il turismo di massa itinerante per mare, il programma è riuscito a descrivere bene l'ingente portata economica di un settore in crescita esponenziale (a partire dalla costruzione delle navi nei bacini della Fincantieri) e a dare un tocco fra l'ironia e la nostalgia quando ha fatto raccontare a chi lavora sulle navi la vita di bordo. Il comandante, che si considera una specie di sindaco di un comune galleggiante, e partecipa a tutte le fasi della giornata, senza negarsi le danze serali; e poi ufficiali, funzionari, cuochi, macchinisti, camerieri, inservienti. Fino al caso piuttosto straordinario dell'addetto alle macchine che ha ottenuto dalla sua compagnia una deroga per farsi accompagnare sulla nave dalla moglie, che confessa: «Il momento migliore della crociera? Quando si scende nei porti e si va in città. Vede, io non ho un ruolo sulla nave. Sono solo una wob, wife on board». L'inutilità assoluta. Ma anche il complemento migliore per la vita sospesa, artificiale, temporanea delle crociere.
L'Espresso, 27/07/2006
L’impero del pallon
Ognuno ha i problemi suoi. I francesi sono riusciti a trasformare il caprone, Zidane, nella vittima, e Canal Plus l'ha santificato con un'intervista da pianto greco. Un signore di 34 anni che si lamenta perché in campo un avversario gli ha detto qualcosa su sua sorella, e la civile, cartesiana, laica, repubblicana, giacobina Francia si è stesa ai piedi di quel furore arcaico, basato sull'offesa alla famiglia, al clan, alla tribù. Non tiriamo fuori relativisticamente le radici e i diritti della cultura maghrebina, perché questo sì sarebbe razzismo. Ognuno ha i problemi suoi. Le lunghissime dirette televisive dal Circo Massimo, con il pullman degli azzurri accompagnato da una folla festante, hanno mostrato un paese senza troppi impegni lavorativi, ma soprattutto hanno fatto capire che quelli che continuano a dire che il calcio è una metafora della vita, come Enzo Bettiza sulla "Stampa", sono un passo indietro: il calcio non è una metafora, è la vita stessa, in un'identificazione senza scarti. Anche i grandi network internazionali, come la Cnn, hanno intuito che al Circo Massimo stava accadendo qualcosa di grosso (o di Grosso, è uguale) e hanno tenuto il collegamento per un'eternità. Evidentemente avevano capito con una certa rapidità che stava accadendo qualcosa. Il milione o due di persone raccolte a festeggiare rappresentava un evento rivelatore di questa nostra tarda modernità: faceva venire in mente le scene raccontate da un grande storico, Paul Veyne, in un libro classico sull'antichità, "Il pane e il circo". Panem et circenses, appunto, espressione che non si usa più perché sa di sufficienza moralistica, di superiorità schizzinosa, così come nessuno più parla di "calcio come ideologia" (altro libro classico di Gerhard Vinnai), insomma oppio dei popoli e dei poveri. Con la diretta totale della grande festa romana, la televisione ha mostrato che il calcio è un elemento iscritto dentro la contemporaneità, non diversamente da come le feste imperiali di 2 mila anni fa erano iscritte nella vita pubblica di allora. Forse la vera differenza è che oggi è impossibile diventare imprenditori politici del calcio: non c'è l'imperatore che "dà" la festa, il pallone si è autonomizzato. E la tv dilata l'euforia facendola diventare avvenimento prodigioso. Conta lo spettacolo delle folle: lo spettacolo sul campo di gioco, mediocrissimo, è solo un pretesto per il teleromanzo di massa.
L'Espresso, 20/07/2006
PARTITA DOPPIA
Cè un momento in tutti i processi in cui il tribunale si forma l'idea della colpevolezza o dell'innocenza degli imputati. È un meccanismo psichico collettivo, ancor prima che un procedimento giuridico: per questo il diritto è anche una scienza sociale, e non solo un astratto complesso di norme da cui si distilla una sentenza. Ed è per questo che lo scandalo di Calciopoli, giunto alla sentenza di primo grado, è influenzato dall'esito di una partita doppia. La prima partita si è giocata in seguito alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, che hanno rivelato «l'illecito strutturale» identificato da Francesco Saverio Borrelli. Un reato sportivo di sistema, simile per certi aspetti alla «dazione ambientale» identificata da Antonio Di Pietro per Tangentopoli, che ha condizionato i campionati, influenzato gli arbitri, messo in campo rapporti di potere, creato una specie di duopolio dominato dalla Juventus e dal Milan, e nella cui orbita si sono accodate altre società, come la Fiorentina dei Della Valle e la Lazio di Lotito. La seconda partita invece si è giocata a Dortmund e a Berlino, nella semifinale con la Nazionale tedesca di Klinsmann e Ballack e infine nella drammatica e liberatoria finale con la Francia di Domenech e Zidane. Ed è stato dopo la vittoria al Mondiale che il clima è cambiato, con una vistosa trasformazione dell'atteggiamento dell'opinione pubblica. Per rendersene conto è bastato assistere al miracoloso materializzarsi di Clemente Mastella in tribuna all'Olympiastadion, a fianco del presidente Napolitano, simbolo di un tempismo eccezionale, con il fiuto del politico di razza, che come diceva di conoscere meglio i mercati rionali dei mercati internazionali, concepisce con maggiore facilità gli impulsi della passione calcistica rispetto ai dettami della ragione giuridica. Il messaggio comunicato dal ministro della Giustizia era facile da decodificare (poi le sue dichiarazioni pubbliche hanno completato l'opera): c'è una giustizia formale, che tutti noi rispettiamo, ma c'è anche un elemento sostanziale, vale a dire che i "nostri ragazzi" hanno conquistato il massimo alloro calcistico. Mettiamoci poi l'imprimatur di Napolitano, il ricevimento degli azzurri da parte di Prodi, la trionfale glorificazione in pullman fino alla folla del Circo Massimo, e il segnale diventa chiarissimo: urge il colpo di spugna. Non è possibile, in tutta ragionevolezza. Le richieste del procuratore federale Stefano Palazzi erano state talmente severe da non rendere plausibile un passo indietro, il "liberi tutti". La giustizia sportiva non poteva dire "avevamo scherzato", pena la perdita di qualsiasi credibilità agli occhi del mondo non solo calcistico. Tuttavia il ragionamento della giustizia "sostanziale" ha fatto rapidamente breccia. Il Mondiale tedesco ha visto come protagonisti tre giocatori juventini, Buffon, Cannavaro e Zambrotta, che sono risultati decisivi nell'esito della competizione (altri, come Camoranesi e Del Piero, hanno dato un loro onesto contributo). E allora, dice il sillogismo "sostanziale", è possibile che alcuni fra i migliori giocatori del mondo, che si sono prodigati per la patria pallonara, debbano scontare le responsabilità dei loro dirigenti? Che un terzetto difensivo dimostratosi di valore planetario debba subire una condanna che deriva dalle mene di Moggi e sodali? Che colpa abbiamo noi, dice la canzone innocentista dei tifosi, e che colpa hanno loro, i giocatori? Ancora: è possibile che due centrocampisti dotati rsipettivamente di abnegazione e di classe come i milanisti Gattuso e Pirlo, e attaccanti come Gilardino e Inzaghi, debbano farsi carico delle male azioni del potere che il Milan di Adriano Galliani ha eretto con e contro la Juventus (facendo affari insieme per i diritti televisivi e scambiandosi colpi sotto la cintura nella competizione in campionato)? Come si vede, si tratta di piani paralleli, largamente incoerenti sotto il profilo logico. Da un lato la soddisfazione e l'emozione del Mondiale conquistato ai rigori, dall'altro il rigore tecnico della procedura penale sportiva. Ma sarebbe altrettanto illogico non valutare il peso del fattore psicologico. Sotto questo aspetto, le iniziative più spettacolari si devono a Clemente Mastella, confermatosi l'esponente più in vista di un populismo politico-sportivo che mette in primo piano i risultati rispetto ai regolamenti. Ma subito dopo non si può trascurare l'atteggiamento del segretario dei Ds, Piero Fassino, iscrittosi al partito della clemenza. Per la verità, il ragionamento di Fassino è più romantico e sottile di quello dei sostanzialisti scatenati, capeggiati da Giuliano Ferrara, che spara a palloni incatenati: «Per i Borrelli e i Rossi non basta punire comportamenti scorretti, eventualmente provati da seri processi, bisogna appunto rovesciare il mondo e dimostrare l'indimostrabile contro il principio di realtà: la palla è quadrata e i campioni del mondo hanno rubato gli scudetti, anche se sono formidabili rigoristi e hanno il carattere che si è visto». No, Fassino rispetta le forme, ma distingue fra imputati e tifosi, fra dirigenti e squadre. L'illecito strutturale descritto da Borrelli giustifica il repulisti dei dirigenti che hanno inoculato il virus nel calcio, ma occorre stare attenti a non umiliare i tifosi e la storia delle squadre implicate. Il fatto è che a prendere sul serio questa riflessione si affloscia il principio supremo su cui si basa, o si è basata finora, la giustizia sportiva, ossia il criterio della responsabilità oggettiva. Il processo svoltosi a Roma è una novità storica in sé, perché può decapitare l'aristocrazia del calcio nazionale, e perché coinvolge dirigenti societari e federali, ma non tocca nessun calciatore. Secondo il massimo innocentista in materia, il giornalista del "Foglio" Christian Rocca, il caso di Calciopoli è «un caso di corruzione sportiva che, unico al mondo, non vede implicato nessun atleta». Ecco quindi che anche la disquisizione di Fassino trova qualche giustificazione in più. Si affaccia l'idea, affidata attraverso le colonne di giornale al giudice Ruperto, che il processo avrebbe dovuto fare leva sulla "slealtà sportiva" (articolo 1) e non sull'"illecito" (articolo 6), di cui è difficile portare prove fattuali, anche perché Calciopoli non ha prodotto fenomeni di pentitismo. Certo, se l'illecito è "strutturale", se al potere di Luciano Moggi si erano affiancati altri poteri e contropoteri, se alla cupola numero uno si era opposta una cupola numero due, il processo non si può concludere, alla fine di tutti i gradi di giudizio, se non con una condanna generale. Ma, per l'appunto, c'è modo e maniera. La giustizia sportiva è abituata per tradizione a graduare le pene nei diversi livelli penali: agli inizi prevale la necessità di condanne esemplari; nei gradi successivi subentrano considerazioni più generali, che in questo caso potrebbero tenere conto inevitabilmente anche di aspetti sostanziali. In primo luogo, il fatto che la condanna a una serie inferiore potrebbe avere ripercussioni distruttive sulle "aziende" calcistiche, anche quotate in Borsa, e quindi su un numero di "stakeholder" che verrebbero danneggiati senza nessuna responsabilità e con pochissime possibilità di rivalsa. Ma poi c'è una serie amplissima di calcoli e sofismi giuridici, prodotti dalla collisione fra giustizia sportiva e logica calcistica. Ad esempio, una società come il Napoli, rilanciata a suon di quattrini buoni dal presidente Aurelio De Laurentiis, appena salita in serie B e carica di ambizioni, che ha fatto investimenti pesanti per tentare l'aggancio immediato della massima categoria, potrebbe sentirsi danneggiata ingiustamente e in modo pesante dal ritrovarsi come concorrenti tre o quattro squadre di caratura superiore, destinate quasi automaticamente alla risalita in serie A. Quindi il clima si confonde. L'effetto Mondiale è soltanto lo sfondo sentimentale e a suo modo politico del cambiamento di atmosfera. Vanno aggiunti i tentativi di patteggiamento informale dei legali della Juventus per evitare guai peggiori («La serie B sarebbe una punizione adeguata»). Ma anche i problemi economici che investono il terreno dei diritti televisivi, con il Milan che ha bloccato una tranche di pagamenti alla Juve; l'ipotesi che un eventuale ricorso al Tar del Lazio possa mandare nel caos il mondo del calcio nella sua interezza; l'apparizione, sempre possibile, di altre intercettazioni, tali da movimentare ulteriormente le responsabilità di società e dirigenti, complicando il quadro attuale. Con il passare dei giorni le certezze tendono a farsi meno solide. E in queste condizioni, sulla scia dell'impressionante entusiasmo popolare suscitato dalla vittoria di Berlino, comincia a fare presa la sensazione che il processo non sia affatto finito e che la partita doppia possa complicarsi ancora prima della sentenza definitiva, prevista entro il 25 luglio. D'altronde, le rivoluzioni cominciano tagliando le teste, ma poi arriva, contro Robespierre, il mese di Termidoro. L'importante sarebbe perlomeno evitare la Restaurazione. n
L'Espresso, 20/07/2006
veline marchio Doc
Dunque, se non si capisce male, tutto lo scandalo politico-televisivo delle veline finirà con una vittima sola, la povera Elisabetta Gregoraci, a cui verrà inibita anche la partecipazione ai reality show. Così impara, a fare le moine. Tanta fatica per nulla, si può commentare. Certo, alla Gregoraci resterà pur sempre la possibilità di un'estate di lusso, a Poltu Quatu, a Porto Cervo, in compagnia di Flavio Briatore, mentre nell'aria arrivano gli echi anni Sessanta di Umberto Smaila. Però, che ingiustizia. Le veline e assimilate esistono solo in quanto appaiono in televisione. Solo apparendo possono ambire a sposare calciatori o ad allacciare relazioni sentimentali con i vip. Se una velina non appare, addio posto al sole. E l'ingiustizia aumenta se si pensa che la piazza pulita riguarderà lei e solo lei, la derelitta Gregoraci. Tutte le altre, sconosciute ai più, continueranno a fare le loro comparsate in quei programmi di pura inutilità quotidiana che infestano la Rai. Gregoraci, martire per la causa. Gregoraci, unica processata e condannata. E allora, la riforma, il cambiamento, come avverrà? Pippo Baudo ha lanciato l'idea della scelta delle veline attraverso un concorso nazionale. Qualcosa che assomiglia a ciò che faceva Gianni Boncompagni con la scelta delle ragazze di "Non è la Rai", e che fu descritto in una storica intervista di Stefania Rossini. Boncompagni filmava tutti i provini, convinto che questi documenti registrati sarebbero diventati un repertorio sociologico essenziale per capire l'Italia contemporanea. Forse anche l'Italia delle veline potrà dare luogo a un magazzino di conoscenze sulla cultura diffusa nel paese. I valori, i compromessi, l'alfabetizzazione. Come disse una candidata alla vittoria finale in un'edizione di Miss Italia: «Votate per me, per come sono e non per come apparo». Apparo. I giurati avevano appena lodato non solo la bellezza ma soprattutto la "preparazione" delle ragazze. Adesso un concorso nazionale delle veline per la Rai sarebbe un fenomeno in pura controtendenza: mentre il governo liberalizza, il servizio pubblico nazionalizza. La nazionalizzazione delle veline. A quando un albo specifico? I corsi di aggiornamento? Le scuole professionali con il contributo Ue? Il sottoscritto si candida nella giuria. Inseritemi per la mia grande cultura, non per i secondi fini che potrei cullare: insomma, prendetemi per come sono, non per come apparo.
L'Espresso, 13/07/2006
Solisti disperati nella Casa delle libertà
Il referendum non ha soltanto bocciato la riforma costituzionale della Casa delle libertà; ha anche portato alla luce gli attriti intrinseci all'alleanza di centrodestra, che soltanto il gusto del potere aveva ammorbidito. Adesso, dopo la conclusione di un lungo ciclo politico-elettorale, gli spiriti più spregiudicati della Cdl possono finalmente riconoscere ciò che prima negavano, e cioè che la coalizione è un coacervo irriducibile a unità. Non ci sono soltanto i Follini e i Tabacci a mettere il dito nella piaga della leadership. Anche Gianfranco Fini sembra uscito dal plotone dei gregari per prospettare un "superamento" della Cdl. Mentre Pier Ferdinando Casini sta cercando di recuperare una libertà di manovra che l'ombra di Forza Italia aveva oscurato. Si vede che il centrodestra è diviso in due tronconi. Da una parte c'è il patto strategico che ha unito Silvio Berlusconi e Umberto Bossi; dall'altra il possibile nucleo moderato che potrebbe vedere affiancate An e l'Udc. Il ruolo della Lega potrebbe risultare decisivo per le sorti del centrodestra. Si sapeva che il movimento di Bossi sarebbe entrato in tensione con la sconfitta della devolution; adesso si tratta di osservare se ciò determinerà ripercussioni significative sul "forzaleghismo". L'arroccamento nel Lombardo-Veneto è un atteggiamento esclusivamente difensivo; la cosiddetta questione settentrionale è stata assai ridimensionata dal voto referendario; nelle grandi città il clima politico è cambiato a sfavore della Cdl, e in particolare delle spallate istituzionali su cui Lega e Forza Italia avevano trovato una sintonia. Quindi il rapporto privilegiato tra berluscones e bossiani è tutto da ridiscutere. Di fronte a una triplice battuta d'arresto (elezioni politiche, amministrative, referendum), l'unica speranza della Cdl consiste in un eventuale collasso della maggioranza di centrosinistra. Ma in assenza del più colossale degli autogol da parte dell'Unione, nel centrodestra le spinte centrifughe si prospettano molto pronunciate. Certo, per il momento non conviene a nessuno prendere di petto la questione più calda, ovvero la posizione di Berlusconi. Anzi, è prevedibile che la questione della leadership venga surgelata per poter attraversare il deserto estivo. Tuttavia nella Cdl ci sono troppi fattori che giocano a favore di un rimescolamento. Colpisce, ad esempio, che la prima vera iniziativa del governo Prodi, il programma delle 12 liberalizzazioni di Pier Luigi Bersani, abbia scosso in modo così forte il centrodestra: e che alcuni fra i più accesi liberali di Forza Italia, a cominciare dall'economista Renato Brunetta, abbiano gridato allo scandalo («Misure sovietiche»), mentre in altri settori dell'alleanza è emerso il riconoscimento a denti stretti che quelle riforme avrebbe dovuto realizzarle la Cdl. Il fatto è che l'iniziativa di Prodi e Bersani ha fatto affiorare di nuovo un'altra duplicità, se non un'ulteriore schizofrenia, dell'alleanza berlusconiana: che comprende alcuni liberal-liberisti particolarmente ideologizzati, ma anche una quantità di rappresentanti di corporazioni e rendite che si sentono minacciate dalla brezza di libertà economica suscitata dal decreto del ministro dello Sviluppo economico. Ma la minaccia principale della Cdl è un fattore ancora più semplice, quasi brutale: vale a dire la durata del governo Prodi. Se l'esecutivo infatti è in grado di tenere sulle ragioni fondamentali del programma, risanamento finanziario e rilancio della crescita, ogni mese guadagnato comporta un problema in più per il centrodestra. Nel medio periodo infatti la credibilità dell'asse portante del governo (i ministri e i sottosegretari di peso maggiore, da Padoa-Schioppa a D'Alema, da Amato a Bersani, da Rutelli a Letta) renderebbe evidente una differenza qualitativa rispetto all'età berlusconiana. In poco tempo lo scontro non sarebbe più sull'ideologia, ma sui contenuti dell'attività di governo. E se deve discutere sui provvedimenti, lo si è già visto, il centrodestra è fatto di solisti, ognuno dei quali ha una propria ricetta per praticare l'opposizione. Da questo punto di vista, la Casa delle libertà ridiventa un cantiere. Con un capomastro assente per ferie. E la corsa alla successione aperta.
L'Espresso, 13/07/2006
Tra Dortmund e Norimberga
La sera di martedì 4 luglio, pochi istanti dopo i due gol di Grosso e Del Piero, un ex ministro del governo Berlusconi spedisce da una pizzeria di Londra il seguente sms: «Mentre le forze tedesche vengono schiantate a Dortmund, a Roma si celebra una inutile Norimberga». Ecco a che cosa può indurre la miscela del tifo azzurro con il tifo juventino. Certo, sarà banale accostare il paradiso della nuova drammatica vittoria contro la Nazionale tedesca all'inferno delle condanne terrificanti richieste per Calciopoli dal procuratore federale Stefano Palazzi. Eppure sono proprio queste le due facce del pallone: di livello altissimo al Mondiale, a un grado di impressionante malaffare in patria. Si schiude la finale di Berlino mentre 13 nazionali rischiano la retrocessione (o meglio la collocazione sul mercato a prezzi di saldo). La spedizione azzurra a Duisburg era cominciata tra i fumi dello scandalo. Diversi osservatori avevano chiesto un gesto esemplare, l'allontanamento del commissario tecnico Marcello Lippi, una buonuscita veloce per Buffon e Cannavaro, nel nome di Piedi puliti. A posteriori, la grande affermazione della Nazionale azzurra sembra allora merito in larga parte del commissario straordinario Guido Rossi, che ha difeso Lippi in modo apparso inatteso, e ha contribuito all'impresa con cui il cittì ha costruito e plasmato, come nel 1982 Enzo Bearzot, il suo gruppo. Gruppo, parola fatidica. Si sa che gli italiani lavorano bene soprattutto in emergenza, allorché il cuore e la fantasia devono supplire alle doti di organizzazione. E qui l'emergenza c'era, eccome. I giocatori sapevano che il tribunale sportivo stava per decimare la serie A, e che diverse carriere stavano per entrare in fibrillazione. Hanno eretto un fortino e se la sono giocata: adesso sono tutti davanti alla prova più importante della loro vita calcistica. Dovessero vincere, o comunque giocarsi eroicamente la finale di domenica 9 luglio, si alzerà il coro dell'amnistia. Dell'indulgenza, della "giustizia giusta". Ma è proprio l'impianto della "Norimberga" italiana a rendere impossibile la clemenza, fosse pure davanti a un titolo mondiale. L'investigatore speciale Francesco Saverio Borrelli ha messo le mani in un coacervo pazzesco, in cui poteri e contropoteri erano intrecciati da accordi ufficiali e manovre sotto banco. Ha parlato di un «illecito strutturale», in cui riesce arduo discriminare le responsabilità. C'era la cupola di Luciano Moggi, e altre cupole, in un torneo parallelo di scambi, pressioni, condizionamenti, favori, minacce. In queste condizioni, non è possibile individuare i responsabili in base a fatti accertabili con nitidezza penale. Succede, quando è infetto tutto un sistema. Si fanno volare teste, si comminano (e poi si infliggono) condanne esemplari. La giustizia è inevitabilmente sommaria. Ma l'alternativa è il volemose bene, siamo tutti italiani, i "nostri ragazzi" hanno dimostrato che il calcio è sano. Il fatto è che il calcio nell'era Moggi e Galliani ha bisogno di una bonifica. Sotto il profilo della procedura, del diritto, delle garanzie è un'enormità. Ma qui non c'è un processo: c'è una rivoluzione e una ghigliottina. Nella speranza che tagliate le teste non si torni all'Ancien Régime.
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