L’Espresso
L'Espresso, 13/07/2006
Aria fresca di prima Matinée
Ad accendere la tv di mattina tutti temono di trovare programmi di sottofondo, roba colorata da non seguire e non guardare: un accompagnamento insensato, con facce note soltanto a chi segue quei programmi, e contenuti spaventosi. Poi invece c'è qualcuno che tenta di sperimentare: ad esempio, su Raidue c'è un programma quotidiano alle 11, intitolato "Matinée" sottotitolato "La tv che si ascolta". È una trasmissione firmata da Marco Giusti, uno degli ultimi autori tv con una sua idea di spettacolo e di intrattenimento. Ed è anche un tentativo di "fare radio in tv", come da sottotitolo, cercando di mutuare la lezione di Fiorello, portando in televisione la "verità" della radio. Conduce Max Giusti (evidentemente c'è un'inflazione di Giusti, un giustizialismo da piccolo schermo), che fa le sue imitazioni classiche (Biscardi, Lotito), affiancato dalla iena Sabrina Nobile. Il senso del programma è sintetizzato dall'idea di occupare la cosiddetta "fascia Guardì", trasformando la tv per un pubblico fin troppo prevedibile in uno show semplice e "friendly". Ma è un programma moderno, strutturato all'incirca come un magazine. Maria Cuffaro scandaglia su Internet i giornali stranieri; una volta la settimana il critico musicale Paolo Zaccagnini tiene una rubrica di ottima fattura sul rock. La conduttrice Nobile apre ogni giorno una rubrica di segnalazioni librarie. Sembrerà incredibile una rubrica di libri su una rete generalista intorno a mezzogiorno, ma così è: si tratta di un messaggio esplicito che dice che la tv può consentirsi invenzioni trasgressive. Infine lo stesso Giusti (Marco) apre uno scorcio sul cinema, offrendo sprazzi del suo metodo critico (poco linguaggio specialistico e attenzione disincantata ai prodotti e al mercato). Che "Matinée" abbia un suo successo almeno di critica è dimostrato dagli ospiti che sono intervenuti (Arbore, Baudo): ed è un segnale che si può provare a fare infotainment in modo gradevole e moderno. Insomma, c'è sempre una possibilità evolutiva: non è necessario né obbligatorio riproporre sempre gli stessi format. Il che apre qualche speranza sul fatto che le ingenti risorse della Rai vengano finalmente utilizzate (non dimentichiamo che in qualche bugigattolo del servizio pubblico Carlo Freccero sta ritagliando le figurine). Un po' d'aria fresca, dopo la tv dei servizietti pubblici, è sempre benvenuta.
L'Espresso, 06/07/2006
Il Cavaliere bocciato
Era l'ultimo snodo politico. L'ultima occasione per scardinare la maggioranza e il governo, dopo il risultato allo spasimo delle politiche. Fallita la spallata delle amministrative, il referendum costituzionale del 25-26 giugno era l'opportunità estrema per scuotere l'equilibrio politico. Infatti Romano Prodi era preoccupatissimo. In treno da Roma a Bologna, alla vigilia del weekend elettorale, consultava sondaggi che lo riempivano di inquietudine. Al crescere della partecipazione verso il 50 per cento, il vantaggio del No si riduceva avvicinandosi alla sfera dell'errore statistico. Sarà stato l'effetto Ciampi. Secondo Nando Pagnoncelli di Ipsos il pronunciamento del presidente emerito ha favorito in modo sensibile il delinearsi delle convinzioni, ha convinto gli indecisi e li ha portati ai seggi. Per altri analisti, Ciampi può avere spostato un milione di voti, una quota di quasi il 5 per cento. In ogni caso ciò che è uscito dalle urne ha spazzato via molte nuvole. Si è sentita subito aria fresca. Perché è vero che per ora la condizione operativa del governo non è migliorata. Ma perlomeno la Casa delle libertà non può rivendicare il successo politico "morale" che avrebbe reclamato in caso di approvazione della riforma costituzionale. Sarebbe stata la prova che la maggioranza di aprile era una finzione. Invece adesso il risultato si rovescia sul centrodestra, aprendo ipotesi politiche inedite. «Il referendum confermativo ha sancito a posteriori quell'affermazione politica che l'Unione aveva afferrato in modo rocambolesco alle politiche», dice il politologo Piero Ignazi. E di conseguenza la Casa delle libertà col referendum ha perso definitivamente anche le elezioni. Questo vuol dire che in condizioni "normali" la Cdl non è in grado di scalzare il centrosinistra. La mobilitazione straordinaria di aprile, con la chiamata alle armi del Motore azzurro (i volontari o «mercenari» berlusconiani, secondo la contestata definizione di Prodi), insieme con la capacità berlusconiana di evocare pulsioni profonde con le tasse di successione, cioè con la "morte" fisica e metaforica evocata da un'imposta applicata su un evento luttuoso, avevano condotto il centrodestra a meno di un passo dalla vittoria. Il referendum sulla Costituzione ha riportato le cose alla normalità. Normalità vuol dire che il giudizio dell'elettorato si concentra non più sulla lotta fra il Bene e il Male, bensì sul giudizio fattuale riguardo al centrodestra e alle sue riforme. E anche sul progetto solidificatosi intorno all'"asse" costituito da Forza Italia e Lega Nord: che l'allegro falò di schede referendarie ha incenerito. Con ogni probabilità il distacco di oltre 20 punti al referendum segnala la fine del "forzaleghismo", il movimento che ha per ispiratore Umberto Bossi, per braccio politico e organizzativo Silvio Berlusconi, per ideologo Giulio Tremonti. In realtà non c'erano buone ragioni sostanziali per votare Sì alla riforma della Cdl. Anche i sostenitori più attrezzati culturalmente, fra gli osservatori, come Sergio Romano e Angelo Panebianco, avevano dovuto utilizzare criteri politici: il Sì a un impianto scalandrato come scelta a favore del riformismo costituzionale, per uscire dallo storico immobilismo italiano. Un sostegno a prescindere dalla qualità della riforma. «In realtà», commenta Franco Bassanini, «la riforma era avventurosa nei modi e avventuristica nei contenuti, con invenzioni costituzionali inesistenti nelle democrazie avanzate». D'altronde, anche gli studiosi che si erano pronunciati a favore della riforma, una stretta minoranza fra i costituzionalisti italiani (anche se comprendeva alcuni specialisti di prestigio come Carlo Fusaro e Giuseppe De Vergottini), si erano dovuti arrampicare sugli specchi, arrabattandosi fra un via libera politico e un giudizio costituzionalmente perplesso sulla «farraginosità» del processo legislativo previsto nel nuovo testo. E anche altri studiosi contigui alla destra avevano guardato con malcelata antipatia al processo contraddittorio di rafforzamento della forma di governo da un lato, e dall'altro allo sfarinamento del sistema politico provocato dalla legge elettorale proporzionale approvata dalla Cdl. Ma queste considerazioni sulla materia costituzionale ormai sfumano nell'insignificanza. La riforma promossa dai saggi di Lorenzago era un testo indecente, un malsano frutto politico del compromesso tra le componenti inconciliabili del centrodestra. La devolution alla Lega, l'interesse nazionale ad An, il rafforzamento della premiership a Forza Italia, il taglio dei parlamentari alla demagogia antipolitica che alligna in tutto il centrodestra. All'Udc era andato un compenso esterno all'ambito costituzionale, vale a dire la legge elettorale proporzionale. A questo punto si tratta di vedere su quale punto dell'alleanza agirà il crollo del progetto complessivo. Il primo terreno molle è ovviamente quello della Lega. Perché Umberto Bossi e il suo movimento politico avevano investito tutto il loro capitale sulla conquista della devolution, e ora si trovano nella casella di partenza. Il Nord ha votato No; le uniche soddisfazioni sono venute dalla Lombardia e dal Veneto. Questo risultato fissa l'ennesima smentita del teorema politico con cui Bossi ha "ricattato" per anni la politica italiana. Il leader leghista ha sempre giocato, con abilità manovriera, sull'idea che la Lega è un movimento d'avanguardia, e quindi minoritario; ma al momento buono, quando si fosse trattato di scegliere sulla materia fondamentale, l'autonomia, la secessione, tutto il Nord si sarebbe schierato a favore dello sfondamento leghista. Per la verità la Lega aveva fallito la "marcia sul Po" del 1996; aveva mancato la mobilitazione con le elezioni "padane" nei gazebo; si erano rivelati un bluff il "governo" e il "parlamento" insediati a Mantova e a Venezia. Ciò nonostante Bossi era sempre riuscito a vendere sul mercato politico il suo ruolo strategico, di ago della bilancia e di interdizione. Ma ora le invenzioni bossiane sono smentite dai fatti e dai numeri. L'Italia del Nord è un fenomeno assai più complesso di quanto non raccontino propagandisticamente i leghisti. E quindi per la Lega c'è il rischio immediato di ridursi a insediamento pedemontano, residuale, ma soprattutto di perdere la centralità che le aveva garantito rapporto privilegiato con Berlusconi. Nei prossimi mesi il tema delle riforme, e in particolare dell'approfondimento del federalismo, marcherà il passo. È probabile che l'equilibrio si sposti sul terreno politico, e in questo caso occorrerà seguire con attenzione le mosse dei centristi. Pier Ferdinando Casini ha già indicato la necessità di una riflessione dentro la Cdl. I gemelli del No, Follini e Tabacci, possono riguadagnare una posizione nel partito. Da questo punto di vista, l'Udc ha già messo di fatto sul tappeto la questione della leadership. Berlusconi infatti traballa. Psicologicamente è ancora fermo al giorno delle politiche, alla contestazione del risultato: sembra non essersi accorto che al di là del risultato di aprile, favorito da una drammatizzazione estrema e realisticamente irripetibile, arrivata fino al punto di quasi azzerare l'andamento storico del "partito delle schede bianche", il clima politico ha cambiato segno. È improbabile che in futuro la Cdl possa ripetere quella mobilitazione; inoltre le spallate non sono riuscite. Berlusconi non ha voluto impegnarsi fino in fondo nella campagna per il referendum, ma comunque con le fiacche apparizioni televisive negli ultimi giorni prima del voto ha offerto il suo volto alla sconfitta. Il centrodestra, secondo l'Udc, deve rimettere in discussione il proprio profilo; questo indurrà la Cdl a concentrarsi entro il perimetro dell'alleanza. Nello stesso tempo, anche il centrosinistra deve pensare ai problemi suoi. Nei due giorni del referendum la base dell'Unione ha raggiunto un livello di partecipazione e di impegno analogo a quello delle primarie: ma l'insoddisfazione per il comportamento della maggioranza e del governo serpeggia senza più censure. La delusione è emersa con nettezza negli incontri fra la base e i dirigenti dei partiti: e occorrerà vedere come i vertici di Ds e Margherita parleranno ai militanti che premono per accelerare il partito Democratico (a Roma, martedì 4 luglio, all'hotel Radisson, Piero Fassino e Francesco Rutelli potrebbero misurare con precisione l'insofferenza del "popolo" che spinge per la fusione nella nuova entità politica). In queste condizioni, immaginare una ripresa dell'iniziativa riformatrice sulla Costituzione sembra illusorio. Non tanto per le ragioni addotte dagli osservatori di destra, secondo cui il No era la pietra tombale sulle riforme, una briscola formidabile per i fondamentalisti dell'intangibilità della Carta. Piuttosto, per la ragione appena detta che entrambi gli schieramenti devono prima di tutto guardare all'interno. Anche la frammentarietà del centrosinistra infatti è un problema, che si riverbera sul governo, e influenzerà tutto il percorso che conduce alla legge finanziaria, cioè alla pesante manovra di risanamento di cui ha parlato con chiarezza il ministro dell'economia Tommaso Padoa-Schioppa, rendendolo ancora più accidentato di quanto già non si prospetti. Ma la situazione veramente eccitante è nel centrodestra: da un punto di vista oggettivo è finito un ciclo, si è esaurita una leadership, si è svuotato un progetto politico. Se l'Unione non consegna alla Cdl opportunità impreviste, nel senso di possibili autogol, anziché alla Costituzione Fini e Casini dovranno mettersi a pensare un'ipotesi nuova per il "partito dei moderati". C'è un'espressione che si attribuisce al generale Charles de Gaulle: «Il potere non si conquista, si raccatta». Occorrerà vedere se i due dioscuri, o più precisamente i due mezzi leader, della Cdl mostreranno di avere il tempismo per raccoglierlo. Certo, Fini ha succhiato troppo le ruote di Berlusconi, è stato un gregario opportunista. Casini ha un vantaggio tattico: erano stati proprio due eretici dell'Udc, Follini e Tabacci, a segnalare che l'asse Berlusconi-Bossi squilibrava gravemente la Cdl. Adesso che il programma forzaleghista non figura più all'ordine del giorno, si apre una di quelle opportunità che si presentano non più di una volta per ogni decennio. Chissà se c'è qualcuno che ha voglia davvero di provare a mettere insieme una destra normale. n
L'Espresso, 06/07/2006
Bar Sport Rai
Ogni volta che un cittadino italiano non trova una partita del Mondiale sulla prima rete Rai, si chiede con irritazione per quale motivo deve poi pagare il canone. E vabbé, siamo qualunquisti fino in fondo: il canone serve tangenzialmente per dare la possibilità a qualche minchione furbacchione di farsi fare servizietti dalle squinzie. Ma se uno deve farsi una cultura calcistica (ogni quattro anni vogliamo vedere tutto, ogni partita maggiore, minore o infima) e deve ricorrere a Sky, la domanda fondamentalista e demagogica contro la Rai ha il suo rilievo. Perché a noi non importa nulla se la Rai mette su dei baracconi di speciali e di notturni sul Mondiale. Noi vogliamo vedere le partite. E intanto bisogna dire che di partite buone se ne sono viste poche. Molto spesso poi sono funestate da un commento continuo, un basso borbottante, da esclamazioni praticamente incomprensibili. Un rumore di fondo che favorisce il sonno, sicché ci si addormenta spesso. Un'eccezione non infelice sono alcuni commentatori che operano proprio per la Rai: uno è Sandro Mazzola, che pure si sente costretto a trarre conclusioni sull'andamento dei match dopo appena sei o sette minuti dal calcio d'avvio: ma Sandrino ama ancora il calcio; è moderato, non esagera, e quindi non dà fastidio (fra l'altro, molto apprezzabile la sua prefazione alla recentissima raccolta di scritti di Gianni Brera "Il Club del Giovedì", editore Aragno). L'altro è Fulvio Collovati, che riesce sempre a calarsi nel gioco, individuando errori e capacità tecniche. Il caso di migliore interpretazione tecnico-tattica di una partita è sembrato a molti il commento di Beppe Dossena ad Argentina-Messico. Dossena infatti ha spiegato con chiarezza che il Messico, dato per grande sfavorito, era messo in campo meglio dei campioni sudamericani; ha illustrato per quali motivi, in base al modulo di gioco, riusciva a creare superiorità numerica a centrocampo, ha individuato tutte le mosse tattiche decisive. Che poi alla fine, dopo i supplementari, abbia vinto la squadra di Crespo e Maxi Rodriguez dipende dal fatto che l'Argentina include un alto numero di fuoriclasse, mentre il Messico praticamente nessuno. Così è la vita. Ma così dovrebbe essere anche la tv quando fa vedere il calcio. Perché c'è un solo modo per raccontare bene il pallone, in questi tempi sgonfi: stare sulla tecnica, con poca enfasi, possibilmente con molti silenzi.
L'Espresso, 29/06/2006
Il re è nudo l’Italia pure
Ma è mai possibile, o porco di un cane, che le avventure, in codesto reame, debban risolversi tutte con grandi puttane...: d'accordo che grazie al cielo il reame è stato abbattuto con un referendum preveggente sessant'anni fa; tuttavia le parole di Paolo Villaggio usate da Fabrizio De Andrè nella canzone che racconta ironicamente del re Carlo Martello reduce dalla battaglia di Poitiers sembrano l'epitaffio più appropriato per incorniciare poeticamente l'ultimo scandalo, scoperchiato dal pubblico ministero John Woodcock. Sesso, bugie, videopoker, tangenti, affaracci di casa reale; ma anche una vicenda macroscopica di manipolazione della politica, il Watergate laziale che il folklore dei ricatti sessuali a sfondo televisivo sta tenendo paradossalmente quasi coperto. Nonché più generalmente un ritratto della società italiana che dal caso Ricucci, passando per il caso Moggi per giungere al caso Savoia sta rivelando davvero una nazione eternamente infetta (anche se va rilevato che il lessico di Stefano Ricucci era molto più spiritoso di quello del mancato re d'Italia). A distanza di 14 anni dall'esplosione di Tangentopoli, il quadro è sconfortante. Perché il quadro di Puttanopoli è privo di centro. Si estende in forma ameboide. Le intercettazioni rivelano un virus profondo, apparentemente inestirpabile, diffusissimo, che ha minato interi gruppi sociali: ragion per cui l'appello a fare pulizia sembra un grido di dolore senza speranza. Espressioni come etica pubblica sembrano penosamente remote davanti al panorama di quell'Italia che le intercettazioni mettono sulle prime pagine dei giornali. Nello stesso tempo si susseguono gli inviti a non cadere nel moralismo. D'accordo, proviamo allora a infilarci nella sociologia politica. L'ipotesi più apocalittica è che nei cinque anni di governo della Casa delle libertà un intero ceto di sradicati abbia messo le mani in qualsiasi spazio di potere: sono cadute le inibizioni, i tabù civili, il galateo pubblico e privato, le regolette della buona educazione. Lo avevano scritto i pedagoghi del diritto come Franco Cordero, ed erano stati sbertucciati dagli antimoralisti: Cordero aveva scritto che i «sicofanti» del Cavaliere avrebbero restituito un'Italia depredata, priva di ogni vitalità, sfibrata nel morale e nella morale. Adesso, dopo il Laziogate con cui una banda di spioni ha cercato di far vincere le elezioni regionali a Francesco Storace, riesce piuttosto difficile ricorrere agli schemi a cui solitamente si ricorre, per sfoggiare garantismo: secondo cui la responsabilità penale è personale, ogni cittadino è innocente fino all'ultimo grado di giudizio, le intercettazioni sono talvolta «una barbarie», come insistono in modo un po' stridulo i garantisti del centrodestra. All'epoca di Mani pulite, Antonio Di Pietro ricorse alla formula della «dazione ambientale», per descrivere un sistema in cui politica e affari si intrecciavano in una fisiologia corrotta, talvolta senza poter individuare con precisione assoluta la colpevolezza degli individui. Adesso si sta disegnando un'area brutta e grigia, in cui la criminalità economica convive con il malcostume personale e sociale: reati economici da provare, ma piuttosto evidenti nel romanzo a puntate delle intercettazioni, sono affiancati da comportamenti di bassa e feroce trucidità, a cui forse non si riuscirà ad attribuire un rilievo penale, ma che dipingono con una certa chiarezza tutto un ambiente. Che ci sia un rapporto esplicito fra cinque anni di pessime leggi sulla giustizia e la spettacolare catastrofe comportamentale rilevata dalle intercettazioni dipende da un giudizio politico: ma è indubitabile che il "riequilibrio" tra il primato della politica e il potere dei giudici praticato attraverso le riforme della Cdl e la durissima battaglia contro l'ordine giudiziario coincide temporalmente con il trionfo dei metodi basati sulla sensazione esaltante dell'impunità. La risposta della Casa delle libertà, da parte sia di Silvio Berlusconi sia del partito per ora più coinvolto dalle intercettazioni nelle storiacce politiche, affaristiche e sessuali dell'ambiente romano, ovvero Alleanza nazionale, appaiono quelle classiche. Le intercettazioni sono uno strumento gestito in modo infame, c'è un complotto, vogliono colpirci, davamo fastidio, basta con la gogna mediatica, siamo sereni, non c'è nulla di penalmente rilevante. Sono tutte storie. Anche se l'inchiesta della procura di Potenza dovesse naufragare sulle secche dell'indimostrabilità giudiziaria di certi comportamenti pecioni, lo spettacolo rivelato dalle telefonate dei protagonisti rivela un aspetto di vistosa semplicità: sono bastati pochi anni di intrinsecità con il potere per assistere a un crollo distruttivo nello stile e nella soglia della decenza pubblica e privata. Anzi, l'intreccio tra la politica e l'ambiente circostante è strettissimo. Investe le relazioni fra il portavoce di Gianfranco Fini, Salvatore Sottile, e il démi-monde della Rai. Tocca i procacciatori di starlet ma anche la collusione fra programmi di informazione e uffici stampa dei politici. Coinvolge anche le paradossali ipotesi politiche del rampollo Emanuele Filiberto, con il suo progetto di partito intitolato Valori e futuro, con le pizze al tartufo nel ristorante Il Quirinale di Ginevra, il governo ombra ventilato da Vittorio Emanuele di Savoia, le "porcelle" a cui si richiede sesso in cambio di comparsate in programmi minori della tv di Stato, le imprese di famiglia che sfruttano al meglio le relazioni improprie con la politica. Il catalogo è talmente vario da lasciare la sensazione disarmante che questa sia soltanto una piccola porzione della palude. Sicché ci si chiede, sfidando ovviamente il fuoco preventivo contro il "qualunquismo", se la corruzione non sia ormai talmente diffusa da risultare incontrastabile. Non solo: in condizioni di normalità della vita pubblica, l'uso pubblico delle intercettazioni dovrebbe essere giudicato vivamente problematico. Per una quantità di ottime ragioni: per le possibili distorsioni che esse introducono nelle vicende penali, per le chiamate di correo improprie, destinate a figure laterali che vengono esposte altrettanto impropriamente al giudizio, e talvolta al ludibrio, generale, per le violazioni della riservatezza personale, per l'inquietudine che genera una società controllata dalle registrazioni. Ma di questi tempi risulta impossibile non chiedersi che cosa succederebbe se le intercettazioni non ci fossero. E istintivamente si risponde che verrebbe a mancare anche l'ultimo, anomalo, strumento di contrasto della corruttela. Sfortunato il paese che ha bisogno di intercettazioni telefoniche per sfuggire a un destino di affari sporchi, di viltà civili, di ricatti, di tangenti. E si capisce quindi la provocazione di Marco Pannella, principe dei garantisti ma atterrito evidentemente dalla diffusione dell'infezione civile: pubblicare tutto, subito, sempre. Perché la situazione è eccezionale, e nessuno sa che cosa accadrebbe nel tessuto del paese, se non ci fosse almeno il contrasto delle intercettazioni. Ma è chiaro che la struttura di una società non può essere tutelata soltanto dal Grande Fratello. Si tratta di vedere se ci sono meccanismi da introdurre razionalmente per ridimensionare l'abuso delle posizioni di potere. Fine della tolleranza sull'evasione fiscale, rispetto del merito indipendentemente dalle basi di partenza sociale, durezza legislativa sulla criminalità finanziaria (i casi Parmalat, Cirio e bond Argentina hanno avuto un ruolo fondamentale nel diffondere sfiducia e togliere credibilità all'economia), scelte chiare a favore della concorrenza e contro la rendita corporativa sono gli strumenti per aggredire le posizioni di privilegio. Ma probabilmente occorre andare fino in fondo con l'eliminazione del primato e del condizionamento politico nei servizi pubblici e in particolare nel servizio pubblico, nel senso della Rai. Su questo tema è facile riscuotere grandi insuccessi d'opinione, ma il problema in fondo è semplice: la Rai da tempo è lo specchio della politica, delle sue spartizioni, dei suoi metodi clientelari, e ora anche della spregiudicatezza comportamentale delle mezze tacche che controllano il quartier generale. Tutte le soluzioni intermedie, a questo punto, risultano palliative. Tanto vale passare con metodo alle vie di fatto radicali, cioè alla privatizzazione integrale. Per fare in modo che gli eventuali servizietti ai potenti e ai semi-potenti siano tutti riconducibili al privato: e che non ci siano più di mezzo, come una tentazione evidentemente irresistibile, le opportunità e le complicità del servizio, o del servizietto, pubblico. n
L'Espresso, 29/06/2006
Tanto sesso siamo inglesi
Chi vuole una riprova dell'utilità di allargare il mercato può guardare il programma "Segreti di coppia - The Sex Inspector" (il mercoledì sera su Sky Vivo). Il programma è talmente demenziale da risultare irresistibile. Una coppia di "ispettori del sesso", un uomo e una donna dall'aria fra il sadico, il divertito e l'entomologico, "segue" una coppia di amanti, coniugi o conviventi, ne scruta la vita sessuale, formula la diagnosi, propone una terapia, la fa applicare, giudica i risultati, che generalmente sono incerti. Certo a noi della vita erotica di quelle coppie inglesi non importa nulla, anche se è utile sociologicamente osservare che in Inghilterra il sesso ha due tipologie fondamentali: 1. Sesso rapido e insoddisfacente, con ejaculatio praecox e relativi problemi e drammi annessi; 2. Sesso molto complicato, con coppie che hanno collezioni strepitose di "toys", giocattoli erotici, vibratori di ogni genere compresi quelli piccolissimi dotati di telecomando per potersi sbizzarrire anche al ristorante. Nel primo caso, gli ispettori del sesso consigliano alle coppie senza fantasia di sbrigliare l'immaginazione, concedendosi pratiche fra le più eccentriche; nel secondo, inducono i troppo fantasiosi a tornare al naturale. Molto spesso i consigli fondamentali riguardano gli esercizi di potenziamento dei muscoli pelvici, che sono utili ai maschi per ritardare l'orgasmo e alle donne per avviare l'itinerario molto difficile e lungo che conduce alla sperimentazione degli orgasmi multipli. Robaccia? Chiaro che sì, ma anche piuttosto comica, soprattutto quando le coppie mimano a freddo alcune posizioni severamente complicate, sotto l'occhio degli esperti che rettificano posture e modalità. Eppure un semi-reality di questo genere sembra la riprova perfetta che il mercato è il mercato. Aumentare l'offerta consente in questo caso di evitare la pubblicità sul referendum che compare sulle reti Rai e Mediaset, così come i programmi mattutini, pomeridiani e serali. Gli effetti collaterali sono anche migliori: mentre nella Rai governata dai partiti si vede quali sono le condizioni che conducono alle conduzioni (sesso in cambio di programmi), qui l'andamento è più onesto. Il sesso è in televisione, non sotto o sopra le scrivanie. Probabilmente, dato quanto si apprende dalle intercettazioni, l'ispettore del sesso bisognerebbe mandarlo direttamente in viale Mazzini o a Saxa Rubra.
L'Espresso, 22/06/2006
La rivolta dei padroni
Nelle conversazioni riservate a Palazzo Chigi, Romano Prodi lo ripete spesso: «Un muro contro muro fra governo e imprenditori non conviene a noi e non conviene al paese. Bisogna che lo facciamo capire». Ma fra il dire e il fare c'è di mezzo Vicenza. Cioè il numero di alta spettacolarità circense in cui Silvio Berlusconi si è presentato a casa Montezemolo e si è ripreso la base confindustriale, lasciando stordito il vertice della Confindustria. Gli effetti dell'exploit vicentino non si sono spenti. Il ceto imprenditoriale ha risposto all'appello. Nelle sedi territoriali della Confindustria serpeggia un'insofferenza sorda. Verso il governo, ma soprattutto verso la fase nuova, la maggioranza di centrosinistra. Al potere sono andati "gli altri". E un gran pezzo della base imprenditoriale all'improvviso si è sentito orfano. Amareggiato. Anche incattivito. Deluso dal destino cinico e baro e anche da una Confindustria troppo sbilanciata a sinistra. Con i sentimenti non si scherza. Prima delle elezioni di aprile l'élite confindustriale era inequivocabilmente convinta del fallimento del governo della Cdl. Il vicepresidente Andrea Pininfarina, politicamente un moderato, lasciava capire che applicando con rigore il principio maggioritario e bipolare, il criterio dell'alternanza, c'era una sola conclusione possibile. Questi, cioè i berluscones e i loro alleati, hanno fallito; adesso mettiamo alla prova gli altri, cioè il centrosinistra. Berlusconi ha fatto saltare il quadro. A fine maggio Romano Prodi è stato accolto con freddezza all'assemblea confindustriale di metà mandato. Luca Cordero di Montezemolo ha sollevato ovazioni quando ha citato il grand commis di Berlusconi, Gianni Letta. Ha riscosso consensi soprattutto quando nella sua relazione ha rimarcato i passaggi più "di destra". Successivamente, ha dovuto padroneggiare l'incidente diplomatico di Varese, i fischi (o «i brusii», secondo la versione minimizzante di viale dell'Astronomia) all'indirizzo del segretario della Cgil Guglielmo Epifani. Nel complesso, un clima segnato da una ideologizzazione inedita: per ritrovare un atteggiamento così antigovernativo, da vecchia "razza padrona" bisogna tornare ai primi anni Sessanta, all'opposizione durissima dei monopoli contro la nazionalizzazione dell'energia elettrica (che portò a una specie di temporaneo ritiro della fiducia alla Dc a favore del Pli di Giovanni Malagodi). Il fatto è che in questa stagione non sono i vertici del mondo imprenditoriale a fare la faccia cattiva. È soprattutto la base. «Non dobbiamo dimenticare», dice da Palazzo Chigi Enrico Letta, uno degli uomini della squadra di governo che con Pier Luigi Bersani ha sempre avuto un rapporto di sintonia con la realtà produttiva, «che il fattore Berlusconi ha avuto un ruolo eccezionale». Il Cavaliere è riuscito ad agitare in profondità il sentimento politico degli imprenditori, appellandosi a una loro identità di destra, risvegliando un'istintualità politica che sembrava annegata nel pragmatismo "modernizzante" di Luca Cordero di Montezemolo. Stiamo assistendo allora alle premesse di una "rivolta dei padroni"? Aldo Bonomi, uno studioso che esplora da anni il capitalismo di piccola impresa, sostiene che prima di guardare agli schieramenti politici occorre tenere presente una questione quasi "antropologica": «Quando un'impresa famigliare approda in Confindustria, è come approdare a una spiaggia di lusso dopo avere navigato nel mare aperto del capitalismo molecolare. Non perde il suo Dna, che è fatto di famiglia, territorio, comunità locale, reti corte di produzione. La spaccatura che si è vista a Vicenza è fra questo mondo, che fa i suoi conti difficili con la globalizzazione, e il salotto buono, dove le banche e la finanza contano più del lavoro duro nel mercato». La divaricazione fra élite e seconde file del mondo industriale è diventata un problema cruciale per Montezemolo. Il grande federatore, colui che aveva ricucito la Confindustria e riannodato i fili con il sindacato dopo gli strappi di Antonio D'Amato sull'articolo 18, si trova in una condizione complicata. Dice Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma e braccio destro di Prodi: «Montezemolo si sforza di accreditare le imprese italiane come la punta più avanzata del paese, come la parte che ha già compiuto gran parte del cammino verso la modernizzazione. Ne deriva per converso che è il sistema paese, e segnatamente la parte pubblica, a essere in ritardo e a costituire un freno al recupero di competitività. Ma non è esattamente così». Secondo osservatori attenti anche il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, nel presentare la "due diligence" sui conti pubblici ha lasciato filtrare giudizi freddi sulla struttura industriale e sull'adeguatezza degli investimenti nelle imprese. Il governatore di Bankitalia Mario Draghi ha segnalato nelle "Considerazioni finali" la necessità che la concorrenza diventi senza sconti un elemento strutturale del sistema italiano (guadagnandosi per questo la qualifica di "capo del partito che non c'è, quello del mercato"). La vistosa perdita di competitività dell'industria italiana non può essere imputata soltanto al deficit infrastrutturale, all'insufficienza dei servizi pubblici o alla "over-regulation" burocratica. Anche se, sottolinea Bonomi, «l'arcipelago delle imprese, che ha affrontato negli ultimi dieci anni una selezione feroce, sconta come una difficoltà scoraggiante l'arretratezza di contesto, il mancato adeguamento del sistema». Secondo Santagata, tuttavia, il sistema delle imprese è molto variegato al suo interno; a fianco di realtà molto dinamiche e competitive ci sono ampie aree che non se la sentono di affrontare la competizione e cercano protezione in nicchie a bassa concorrenza o nell'incentivazione pubblica. Quindi una forte domanda di innovazione finalizzata alla competitività convive con una comanda di conservazione protettiva: «Ne deriva una difficoltà oggettiva a rapportarsi in modo lineare con la politica e il governo, e a schierarsi su una linea di riformismo incisivo». Anche il sottosegretario Letta tenta di analizzare la psicologia imprenditoriale: «Il problema è che dalla destra la maggioranza delle imprese italiane accetta anche parole al posto dei fatti. Dal centrosinistra no. Quindi dobbiamo far parlare i fatti. E per far parlare i fatti, cioè realizzazioni vere e durature in chiave di competitività, c'è bisogno di tempo». Non sarà facile. In qualche occasione la base confindustriale sembra apprezzare le posizioni chiare e distinte, come è accaduto con Massimo D'Alema al convegno dei Giovani a Santa Margherita. Meglio un politico "cattivo" e addirittura sprezzante che un muro di gomma. A Montezemolo tocca il compito improbo di riunire tutte queste anime confindustriali. Come commenta Bonomi: «La Confindustria di Montezemolo è stata un incrocio operoso della media impresa, simboleggiata dalla Ferrari, dall'impresa di Pininfarina, dalla Brembo di Bombassei: ma adesso, dal basso, i "piccoli" gli fanno capire che ha prestato troppa attenzione alla punta della piramide. Lui si trova obbligato ad ascoltarli, a tenere insieme il capitalismo delle grandi utilities e il capitalismo turbolento dei piccolissimi». Mentre il governo Prodi si trova nella condizione di dover dire soltanto due parole al mondo imprenditoriale, risanamento e crescita, la Confindustria è a un bivio. Mettersi di traverso, e produrre una nuova virata lanciando per il prossimo mandato candidature "oltre Montezemolo", tutte legate massimalisticamente alla realtà lombarda o veneta, espressione del "male del Nord". Oppure cominciare a cercare un punto di mediazione possibile, in cui potrebbero avere un ruolo figure come quelle di Emma Marcegaglia e di Annamaria Artoni. O ancora tentare di costruire un progetto politico nuovo. Lunedì scorso ha destato notevole impressione il discorso con cui l'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne è intervenuto all'assemblea dell'Unione industriale di Torino. Diciotto cartelle che rappresentano il più lungo discorso pubblico pronunciato in due anni di lavoro a Torino: «Un manifesto neo-industriale», lo definisce lo storico Giuseppe Berta, autore del fortunato e discusso volume "La Fiat dopo la Fiat". Marchionne ha delineato una visione in cui rifiuta il modello ultracompetitivo americano, propone un «dialogo costruttivo» con i sindacati, critica «le fissazioni della maggior parte degli analisti finanziari e anche di pensatori e commentatori economici liberali» a cui piacciono i licenziamenti e gli spargimenti di sangue in azienda. In sostanza, un capitalismo sociale di mercato, che dovrebbe piacere, e in effetti è piaciuto, al centrosinistra. L'autocandidatura della Fiat a fungere di nuovo da interlocutore del governo. E anche un messaggio interno alla Confindustria, per dire che va bene l'irritazione, niente da dire sulle nostalgie berlusconiane, ma conviene fare i conti con la realtà. Il che significa parlare con Prodi e i suoi ministri, e rinunciare alle idee di rivolta che non sono mai morte (era "Contessa" di Paolo Pietrangeli: allora, a minacciare di picchiare, era il proletariato). n
L'Espresso, 22/06/2006
La Venier è un peccato veniale
Vedete come sono avventurati questi tempi: quasi quasi ci tocca difendere anche Mara Venier. Quante volte l'abbiamo sfottuta, quante volte abbiamo criticato con severità forse eccessiva la sua mondanità fin troppo famigliare e domestica. Non ci piaceva il suo look da casalinga in festa. Non ci andava giù che a ogni serata pubblica la si trovasse a fare il trenino sulle note delle canzoni che ovviamente rappresentano la colonna sonora della nostra vita, e blablà, e che naturalmente ci hanno scassato i cosiddetti. Adesso però la signora Venier è al centro di un dilemma cosmico, almeno per noi, perché sostanzialmente l'hanno cacciata da "Domenica In". Per favore, evitare di rispondere immediatamente "chissenefrega". Il programma domenicale è un rito che per le fasce classiche dell'Auditel costituisce un appuntamento di grande rilevanza. Un punto di equilibrio politico delicatissimo. Un assetto che deve rispettare tutto il manuale Cencelli della Rai e della politica. Dunque, se qualcuno ci mette dentro le mani, o mette i piedi nel piatto, non è una questione di banale intrattenimento e della sua gestione. È un affare politico. Tanto più a tenere conto di alcuni fattori di grande rilievo. Calcoliamo innanzitutto che almeno nella versione della Venier la decisione sarebbe stata presa dal direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, notoriamente facente riferimento all'area di centrodestra, il quale avrebbe accampato misteriose pressioni del Vaticano a favore di una mezza-suora-mezza-vamp che piacerebbe di più nelle stanze petrine. Del Noce ha smentito, qualcuno giudica la vicenda irrealistica, ma noi non riusciamo a dimenticare che il Vaticano c'entra spesso: c'è di mezzo un religioso perfino nelle intercettazioni di Luciano Moggi, che più o meno infatti dice: nun me piasce, quel prete intrallazzone; io so' religioso, ma quel prete nun me va gù. Quindi nessuna sorpresa se il Vaticano avesse fatto sapere che la cerimonia di "Domenica In" meritava altre conduttrici invece della laicista Venier. Immolarsi per Mara, allora? Decidete voi. Certo, sarebbe piuttosto strano che la rivoluzione della Rai dovesse cominciare proprio dalla Venier. Conviene seguire bene la vicenda, anche perché, rivoluzione per rivoluzione, e lottizzazione per lottizzazione, sarebbe più divertente una conduttrice esplicitamente prodiana, o di Rifondazione comunista: oppure dei Comunisti italiani. Avanti Auditel, alla riscossa.
L'Espresso, 15/06/2006
Animali esseri umani
Forse il cavallo Barbaro ce la farà, grazie alla chirurgia, alla tecnologia e alle preghiere di cento milioni di americani, compreso il presidente George W. Bush. Il "superhorse", lo strepitoso purosangue imbattuto che aveva trionfato nel classico Kentucky Derby e che domenica 21 maggio si era spezzato una zampa (o meglio una gamba secondo il lessico ippico), alla partenza di una gara nel Maryland, ha sopportato l'operazione che con un'imbragatura di titanio e acciaio gli ha rimesso insieme lo stinco, l'osso pastorale e il sesamoide della posteriore destra. Dean Richardson, il primario della Clinica veterinaria dell'Università di Pennsylvania che ha operato l'arto spezzato in più di venti frammenti, si era dimostrato cautamente ottimista già dai primi giorni dopo l'intervento. Ma questa è semplicemente la vicenda clinica di un animale. L'altra storia è quella di un'America che trepida per la bellissima bestia che aveva visto interrompersi la sua corsa sulla soglia della morte. Una possibile allegoria della conquista americana, con Barbaro che incarnava il mito dei mustang nel West; e il galoppo che si fermava nel dolore folle dell'osso frantumato poteva anche suggerire auspici spaventosi per l'intera America, ossa gemelle spezzate da un destino nemico. L'ultima storia invece non parla soltanto di un cavallo, ma racconta com'è cambiato il rapporto con gli animali. Il rapporto del mondo ultramoderno, tutto artificiale, con il mondo della naturalità, con l'essenza vivente, con il fattore animale. Proprio così, fattore umano e fattore animale a confronto, in una relazione via via più complessa e forse mai del tutto descrivibile. Negli Stati Uniti, territorio marcato dalla modernità materialista, sono censiti cinquanta milioni di cani nelle famiglie, e altrettanti gatti. Ma se dalla statistica si passa alla filosofia, vale la pena di riprendere l'opus magnum di Martha C. Nussbaum, "L'intelligenza delle emozioni", tradotto dal Mulino nel 2004, che agli animali dedica un capitolo aperto da "stories" clamorose: il piccolo Flint, figlio della scimpanzé Flo, che dopo avere assistito con immenso stupore alla morte della madre rimane accanto al cadavere, lo veglia, non mangia più e si lascia morire di stupefatto dolore. La storia degli studiosi George Pitcher e Ed Cone, che «stavano guardando la televisione, una sera, nella loro casa di Princeton: un documentario su un ragazzino inglese con un disturbo cardiaco congenito. Dopo molti alti e bassi, il ragazzo morì. Pitcher, seduto a terra, si ritrovò gli occhi pieni di lacrime. Immediatamente i loro due cani, Lupa e Remus, saltarono su di lui, facendolo quasi cadere, e gli leccarono gli occhi e le guance con tristi guaiti». «Gli animali provano emozioni», annota la Nussbaum, che con semplicità ma senza nascondere una poderosa documentazione filosofica propone una visione «neostoica» dell'interazione fra uomo e animale, per giungere a una concezione degli animali come titolari e portatori di diritti. E lo fa con molta forza anche nel recentemente pubblicato negli Stati Uniti "Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership". A questo punto si potrebbe ironizzare sulle invenzioni zapateriste, leggi e diritti per i grandi primati. E invece è il segno che si è aperta una fase nuova, oppure antichissima, nel faccia a faccia tra le specie: in cui la separatezza fra l'homo sapiens e i suoi predecessori sul pianeta Terra, o nella comunità vivente di Gaia, mostra varchi insospettati, anche se "sentiti" dagli animi più puri, sentimentali, selvaggi. Il che ha implicazioni rilevanti nella vita quotidiana. Non tanto per il gossip che ha allargato il proprio raggio anche alla zoologia (la labrador nera di Massimo D'Alema, Lulù; il labrador biondo del direttore del Tg5, Carlo Rossella; il bassotto di Giuliano Ferrara, eccetera), quanto per il diffondersi di una concezione "non nichilista" e non utilitarista del rapporto fra differenze. Sembra infatti che in una concezione postmaterialista gli animali non possano più essere considerati bestie da soma o carne da macello: anche prescindendo dalle correnti culturali animaliste e dai loro veti alimentari e comportamentali, resta comunque il fatto che l'affermarsi di una cultura "sostenibile" interpella spesso con radicalità la coscienza contemporanea. È sostenibile infatti la grande ecatombe di suini, bovini, polli, volatili e pesci su cui è basata l'alimentazione di massa? Si tratta di una domanda che può apparire provocatoria. Ma chiunque conviva nella propria casa con un animale qualche domanda del genere è indotto a farsela. Ha imparato a spiare il cane o il gatto, a interpretarne umori e dolori, felicità astruse, scodinzolii, malinconie e guaiti; e talvolta gli è sembrato che quella barriera che si alza fra le specie sia permeabile, che alcune parole e certi gesti filtrino fra intelligenze diverse, creando qualcosa che assomiglia a una comunicazione, a un rozzo, ma anche variamente sofisticato, alfabeto delle emozioni. E dunque "rilegge" con una consapevolezza ulteriore l'atteggiamento verso gli animali, come pure i riflessi che il mondo animale getta sulla produzione di immaginario. Film, romanzi. Non tanto le varie e ripetute epopee semi-erotiche di King Kong, quanto i grandi "romanzi" della psicologia animale, il progetto lungo il quale Allen e Beatrice Gardner hanno insegnato l'Ameslan (il linguaggio gestuale americano per i sordi) alla femmina di scimpanzé Washoe e alla femmina di gorilla Koko: progetto che ha trovato il suo epos nel bestseller di Michael Crichton "Congo". Per il resto, non passa giorno senza che vengano pubblicate notizie sulle modalità lessicali e comunicative di scimmie, balene, delfini. Nuove scoperte antropologiche mostrano che per un milione di anni i grandi primati sono stati contigui, senza distinzioni fra l'abbozzo di specie uomo e il suo convivente scimmia. A queste osservazioni etologiche fa da contrappunto il rilievo simpatetico che assumono certe curiosità cronachistiche, come quelle relative a "Chico", presunto gatto di Benedetto XVI, forse una leggenda (ma non è una leggenda la passione di papa Ratzinger per i felini; e non ci sarebbe una novità in Vaticano se è vero che anche Paolo VI portò nell'appartamento papale il suo bel gattone). Ma c'è anche il dibattito che di recente ha investito l'apparato teologico del cristianesimo, a partire dal discusso libro di Andrew Linzey "Teologia animale" (edizioni Cosmopolis). La nuova prossimità con gli animali avrà pure dato luogo al boom commerciale di prodotti specifici, ma soprattutto a un appariscente cambio di paradigma mentale: oggi infatti ci si stupisce di più al pensiero dell'atteggiamento ottocentesco e novecentesco, che incorporava le battute di caccia grossa e il grande massacro degli animali, che non di fronte al sentimento di vicinanza, o di convivenza, con le bestie. Ma è un sentimento, una condivisione, che viene da lontano e appartiene alla memoria dell'umanità. Viene dal paradiso terrestre, prima del frutto proibito. Ma c'è anche in epoca storica: ancora la Nussbaum racconta che nel 55 avanti Cristo il generale romano Pompeo organizzò un combattimento tra uomini ed elefanti. «Accerchiati nell'arena, gli animali capirono di non avere alcuna speranza di fuga. Allora, secondo Plinio, essi cercarono di attirarsi la compassione degli spettatori con atteggiamenti indescrivibilil, e li supplicarono come piangessero la propria sorte con una sorta di lamentazione. Gli spettatori, mossi a pietà e rabbia dalla loro situazione, si alzarono a insultare Pompeo: sentendo, scrive Cicerone, che gli elefanti hanno "qualcosa in comune" con la razza umana». Qualcosa in comune: l'emozione, la paura, l'irrequietezza, il dolore. Il vaticanista Filippo Di Giacomo dice che avverte ancora un brivido quando ricorda il funerale di Raymond Dupas, il parroco che reggeva il seminario di Malole a Kananga (nel Congo), e aveva accompagnato nella formazione sacerdotale il giovane Albert Malula, destinato a diventare il primo vescovo africano. In quei lunghi pomeriggi africani, il parroco Dupas amava accudire la tribù dei suoi animali: sei cani, e poi vari pappagalli che imitavano la sua voce, perfino la sua tosse, e quando lo vedevano gli cantavano l'inno nazionale congolese. Senza contare i gatti, i tacchini, i polli, i colombi, due manguste. Allorché il carro funebre si avvicinò al rettilineo davanti al seminario, tutta la tribù animale si sollevò sulle zampe, alzò la testa, e cominciò un lamento corale, ciascuno con il suo verso, un pianto che non si interruppe se non quando l'auto con la bara attraversò i padiglioni e raggiunse il cimitero, fuori dalla vista di quelle bestie "amiche". Una storia africana, un'immersione sconfinata in una natura priva di barriere. Ma anche una storia che a suo modo illumina quella del purosangue Barbaro, delle scimmie Washoo e Koko, e anche molti interni domestici delle nostre città così artificiali, così innaturali, così bisognose di verità animale. n
L'Espresso, 15/06/2006
I mangiatori di bambini
Una delle prove più convincenti che si può fare intrattenimento di livello è offerta dalla programmazione di RaiSat Extra. Per esempio, sabato 3 giugno, in prima serata, è andato in onda "Mangiavamo i bambini", un programma di Raffaella Spaccarelli (regia di Luca Nannini). Era un talk show piuttosto insolito: i protagonisti erano Miriam Mafai, Giorgio Napolitano, Mario Pirani e Alfredo Reichlin, riuniti in una "conversazione televisiva con il pretesto degli ottant'anni". Naturalmente nel programma, girato a gennaio, il presidente Napolitano è ancora un tranquillo senatore a vita; la banda dei quattro è unita da una evidente complicità; la piccola chiesa romana e raffaellesca di Sant'Eligio degli Orefici consente un racconto disteso e non di rado ironico, come diviene evidente nella conversazione (Pirani: «Io ho smesso di mangiare i bambini abbastanza presto, dopo l'Ungheria». Mafai: «Ma io, ogni tanto... ogni tanto li mangio ancora»). Ma al di là dell'interesse per un colloquio che investe le scelte del passato, l'antifascismo, la critica per l'irrigidimento del socialismo reale, ma anche le ragioni famigliari, le svolte di tipo esistenziale e privato, e si stende sulla politica di oggi con gli «approdi riformisti», va analizzato questo tipo di televisione perché consente un approccio complementare alla storia contemporanea. Gli storici del futuro, infatti, dovranno decidere se affidarsi soltanto alle fonti scritte, oppure accedere anche, tra gli altri, ai documenti filmati. Nel qual caso non si tratterà soltanto di riscontrare le affermazioni, di valutare il realismo e l'equilibrio dei giudizi, bensì di osservare anche le espressioni, le psicologie, i gesti. Con il che, la storia contemporanea si complica, ma si complica anche il ruolo potenziale della tv. Perché si aprirebbero spazi impressionanti di operatività, per chi volesse svolgere questo lavoro di storia "complementare": in Italia mancherà di tutto, ma non i testimoni d'epoca. Anzi, varrebbe la pena di proiettare l'attenzione sui due decenni (anni Cinquanta e Sessanta) in cui l'evoluzione sociale e politica è stata la madre di tutti i cambiamenti. Ci sono due momenti, il miracolo economico e il primo centrosinistra, che aspettano soltanto di essere narrati. E qui non si tratta di fare, come si dice troppo spesso, "servizio pubblico"; basterebbe provare a fare programmaticamente un po' di servizio "civile".
L'Espresso, 08/06/2006
Ma dietro l’angolo c’è il Caimano
Ve lo ricordate? Che cosa c'è dietro l'angolo, chiedeva il sor Costanzo, personificazione dell'italiano popolare, sapiente furbacchione che fa il povero fessacchiotto per non pagare dazio. «Sono stato un cretino», confessò allora a Giampaolo Pansa, quando venne fuori la storiellina della P2, e riuscì ad autosdoganarsi, perché nel Paese del Fottere il chiagnere è la premessa obbligata. Comincia forse in quel momento il supremo capolavoro tattico di Maurizio Costanzo, che raggiunge il suo apice allorché l'uomo coi baffi riesce a diventare il vero punto di equilibrio nel sistema geopolitico di Mediaset. Perché in una costellazione televisiva "scesa in campo" con il Cavaliere, Costanzo ce la fa miracolosamente a impersonare un prodigioso, rocambolesco gioco acrobatico fra la destra e la sinistra. Sinistro lui, perché nella sua mappa deve avere stabilito, a fiuto, a naso, che in Italia non si governa senza un rapporto o una mediazione con la sinistra. E di conseguenza è stato in grado di allestire una rete di relazioni in cui la sua figura si è posta come un punto di riferimento dentro l'universo mediatico berlusconiano. Capacissimo di dialogare con Berlusconi da posizione bonariamente frondista, ma evidentemente complice, e intimamente convinto molto prima di Nanni Moretti che il Caimano ha già vinto, anzi stravinto, cioè ha egemonizzato le coscienze, è penetrato nei cuori e nelle menti degli italiani: e dunque diventa più che mai necessaria una figura come la sua, lui che è prontissimo a interpretare la sinistra televisiva dentro la tv della destra. Con alcune manovre altamente spettacolari, che lo qualificano come un Clausewitz romanesco: come quando lancia l'idea del "terzo polo" televisivo, insieme con l'altra star della riva pubblica, Michele Santoro. E con la convinzione totale, ma vera solo parzialmente, che il potere è la televisione. Cioè che alcuni sfortunati (Silvio, Massimo) sono costretti a sporcarsi le mani con il governo, ma l'élite vera, il potere vero, sono rappresentati in realtà da chi governa il mezzo televisivo. Seppure con fortune via via declinanti, il giochetto dura a lungo. Nel momento delle peggiori batoste della sinistra, Costanzo può criticare il fallimento politico ed elettorale ascrivendolo all'imperfetta conoscenza dello strumento televisivo da parte dei leader sconfitti. Ma di fronte ai poveri vinti si mostra come un garante possibile, un nodo strategico, un ambasciatore potenziale. Ammaestra quindi gli inadatti, fornisce decaloghi per migliorare l'apparenza, depreca chi non riesce a bucare il video. Sicuro che al momento buono, anzi cattivo, la sinistra dolorante dovrà rivolgersi a lui per trovare un contatto, un'apertura, l'abbozzo di un dialogo. Adesso sembra che la corda si sia spezzata. Succede sempre così quando entrano in scena i rapporti di forza veri: e dal momento che il Caimano ha deciso che le Italie sono due, divise da un fronte non permeabile, non c'è più spazio per le terze forze, le terze figure, le diplomazie personali. O con noi o contro di noi, ha stabilito Berlusconi. E quindi anche le famiglie si adeguano, riconoscono la quinta colonna e la esorcizzano con un paio di interviste: d'altronde lo si sa che se basta una dichiarazione di John Elkann per liquidare il superpotere di Luciano Moggi, sarà sufficiente il giudizio di una ragazza Berlusconi per rivelare chi veramente possiede il potere e chi invece agita solo ombre. Insomma, quando il gioco si fa duro, con quel che segue. Adesso bisognerà vedere se il talento drammaturgico del sor Costanzo lo indurrà a cambiare parte, a passare nuovamente nel ruolo della vittima. Parte nobile, quella della vittima politica, che si presta a un feuilleton virtualmente infinito. Anche se c'è da scommettere che in queste ore, un po' scioccato, Costanzo starà pensando che, non voglia il cielo, potrebbe essere caduta su di lui, rovinosamente, la malattia che provoca la sparizione, la deprecata sindrome Funari.
L'Espresso, 08/06/2006
Fiorello Camilleri
Finora la Sicilia di Andrea Camilleri era possibile solo immaginarla. Oppure osservarla nel ritratto e nelle ricostruzioni della fiction televisiva; certo, si poteva anche lasciarla scorrere, quasi come un film naturale, una pellicola psichica, sullo schermo della fantasia. Ascoltarla no, non era possibile, anche se qualcuno, quando esplose al livello di massa il "fenomeno Camilleri", ipotizzò che sarebbe stato impagabile ascoltare quelle "stories" sicule dalla viva voce dello scrittore. Certo, la voce di Camilleri, impastata dal fumo, arrochita dalle sigarette, è sempre apparsa perfetta per raccontare la Sicilia profonda di Vigàta, luogo della mente e sede di una cronaca che prova a farsi mito, e ancora storia: nella lentezza della scansione, nella perfetta sicilianitudine delle consonanti e delle vocali, nella pigra sillabazione di quel linguaggio miracolosamente sospeso fra il moderno e l'arcaico, si ritrova un'isola che non c'è, ma che in realtà è un continente, uno spazio che attraversa i secoli: e anche strati di cultura, sedimentazioni di antropologia, la Magna Grecia e la mafia, la tragedia e l'ironia, e alla fine il suo profilo appare e scompare proprio come un sottile filo di fumo, sull'orizzonte del mare; oppure sul confine estremo del fantasticare, in una controra narrativa che richiama figure e personaggi dalla trama di quella Sicilia apparentemente immutabile. Lo stesso romanzo che appare in questa nuova iniziativa, "Un filo di fumo", introdotto allusivamente dal celebre verso della "Butterfly" pucciniana, sembra perfettamente adeguato per ritrovare le tracce, i segni e gli indizi di quella Sicilia forse introvabile, ma che comunque ha lasciato le sue impronte sulla letteratura, sulle mentalità, sui comportamenti, perfino sugli stereotipi. "Un filo di fumo" infatti è un breve romanzo pubblicato da Garzanti nel 1980, e ripubblicato da Sellerio nel 1997 (oggi è giunto in prossimità delle trenta edizioni, a riprova che Camilleri non è soltanto uno scrittore di polizieschi destinati ai serial televisivi). Procede di lato, infatti, rispetto al personaggio più famoso di Camilleri, l'ineluttabile commissario Montalbano, ed è per questo che forse consente di gettare uno sguardo (o forse meglio prestare un orecchio) alla letteraria, ma non solo letteraria, Sicilia camilleriana. Chi possiede quel piccolo volume, sa che riporta ancora in appendice un lessico siciliano, una summa del particolare linguaggio di Camilleri. Annota lo scrittore, lievemente esponendo la sua sornioneria: «Livio Garzanti volle pubblicare questo mio romanzo risolvendo le perplessità di alcuni suoi eminenti collaboratori. Mi domandò però, quasi a guardarsi le spalle, un glossario». Oggi il glossario sarebbe in fin dei conti superfluo, perché per intuito o per abitudine di lettura le specialità regionali della lingua di Camilleri sono diventate un patrimonio condiviso, che si può citare come elemento di riconoscibilità, con cui si può scherzare in una conversazione serale. Ma occorreva ancora sentirle risuonare, queste parole, avvertirne il fascino acustico, anzi, l'eco suggestiva della vita e delle storie che esse contengono. L'idea di ricorrere all'arte popolare e sopraffina di Rosario Fiorello è ad un tempo originale e necessaria. Originale perché induce immediatamente a mettere a confronto due grandi di Sicilia, il fantasista e lo scrittore. Due figure che si stagliano idealmente quasi come due pupi in un teatrino. Due eroi popolari che si misurano secondo la loro disciplina. Lo spadaccino Fiorello, il guascone destinato a diventare moschettiere dopo una specie di epopea dumasiana dell'intrattenimento, il talento assoluto capace di fare il verso a tutti o a tutti di dare un verso. Di imitare a "Viva Radiodue" Carlo Azeglio Ciampi ma anche Gianni Minà, e naturalmente Camilleri, «il noto scrittore siciliano» delle telefonate più esilaranti. Chi ascolterà la lettura di Fiorello non potrà non apprezzarne il ritmo, e l'aderenza perfetta al racconto. Si riconosce il clima, l'ambiente della Vigàta di fine Ottocento. È una storia che riporta a paesaggi e a psicologie che sembra di interpretare facilmente, in quanto appartengono anche al nostro impoverito immaginario di non siciliani. Echi di Aci Trezza, suoni di Tomasi di Lampedusa, risonanze di una Sicilia inventata che diventa più reale di quella effettuale. E soprattutto una Sicilia che trova una voce, una musica, uno sfondo "sociale", una personificazione. Per questo si è parlato di necessità. Fiorello infatti non è soltanto un performer. La sua demoniaca abilità di aderire al racconto, di scrutarne le pieghe e le svolte, trasforma in effetti la vicenda di un commerciante di zolfo prepotente e losco in un rendiconto corale, uno spezzone di realtà che dal vecchio Ottocento rimbalza fino a oggi. L'impressione è che il multiforme Rosario sia riuscito a prendersi tutta la Sicilia, e a farla parlare, con quell'inflessione antica e sempre nuova, e stupefacente, perché stupisce in ogni accento: che non recita il dialetto, ma dà un suono a quell'«italiano regionale», nobilitato dalle analisi di Tullio De Mauro e restituito oggi a una specie di universalità sonora. E poi c'è la presenza di Camilleri, il protagonista nascosto. Non soltanto lo scrittore, che conosciamo benissimo: è uno sceneggiatore fantastico, anche lui diabolico nell'immaginare e stendere storie paradossali che alla fine si rivelano reali, o più vere del vero. Chi lo ama ne apprezza ogni volta lo stile apparentemente dimesso, umile perché al servizio della trama, che tuttavia si illumina all'improvviso, in una trovata stilistica, in un colpo di talento dell'immaginazione narrativa. Eppure la presenza di Camilleri è reale. Nel senso che si sente la sua voce che interviene associandosi a quella di Fiorello che sta sfumando: e questo sovrapporsi e sostituirsi conferisce al racconto una specie di piccolo choc rivelatore, qualcosa come un'emozione supplementare, un'altra verità in più. Sembra quasi che nel momento in cui la voce dell'autore interviene nella narrazione, tutto si compia: il racconto trova la sua conclusione più appropriata, la Sicilia trova le proprie parole e una voce, anzi due; e l'ascoltatore può lasciarsi prendere dall'incanto di una storia che, volendo, è pronta per ricominciare. Perché si sa che è sempre stato un piacere ulteriore e sommesso, quello di riprendere un libro da capo, dopo averlo letto, e riandare a vedere ciò che si è perso e ciò invece che è restato aggrappato alla memoria. Qui basta un clic sul tasto "play", e l'intera vicenda può ricominciare: per risentire Fiorello che tenta tutte le corde della propria vocalità, per risentire le musiche di Rava, Sellerio, Damiani, Leveratto. Il suono di una voce, di due voci, di un coro. Il suono e la parola di un'isola. n
L'Espresso, 08/06/2006
Modernità su due ruote
Nel ciclismo contemporaneo è successo di tutto, a partire dal doping per proseguire con il sospetto perdurante, ma lo spettacolo del Giro d'Italia è sempre una bellezza, sia in corsa sia nel panorama. Non stupisce quindi che la corsa a tappe abbia dato luogo a libri belli e importanti (si possono ricordare fra gli altri il saggio di Daniele Marchesini "L'Italia del Giro d'Italia", ormai un evergreen, e il recentissimo Gian Luca Favetto "Italia, provincia del Giro", un resoconto avvincente anche sul piano stilistico, vissuto con partecipazione all'interno della carovana). Resta da capire allora se funziona anche la letteratura televisiva, se possiamo chiamare così le cronache quotidiane della corsa. Dopo anni di faticosa messa a punto, le cose vanno meglio. È vero che nei tempi morti Auro Bulbarelli non rinuncia talvolta a esprimere stupore, incredulità e meraviglia rispetto all'ordinaria amministrazione. Tuttavia è preciso, informato, conosce corse, crisi e miracoli di ogni singolo ciclista, campione o ultimo dei gregari, e lo individua alla prima occhiata. Il commento di Davide Cassani è come al solito supercompetente, e anche Silvio Martinello è diventato sciolto nel linguaggio ed efficace nella descrizione (a dimostrazione supplementare che il cliché del ciclista troglodita che dice «son contento di essere arrivato uno» appartiene alla preistoria). Un aspetto curioso delle telecronache di quest'anno è la perdita delle inibizioni rispetto allo "specifico ciclistico". Tutti sanno che le tappe sono lunghe e certi bisogni sono irreprimibili: si sa di leggendari giri persi per un attacco di mal di pancia. Ma in questo 2006 il tabù è caduto definitivamente. Si parla di continuo di corridori che si fermano per soddisfare alcuni bisogni "fisiologici", di attacchi di dissenteria che hanno spremuto questo o quello, di infiammazioni al "soprassella". Se si aggiunge che in certe tappe particolarmente impegnative si guarda con lieve inquietudine allo sforzo dei ciclisti in salita, attestati dai parametri cardiaci che appaiono in sovraimpressione, la conclusione che ne deriva è obbligata: il ciclismo contemporaneo è più che mai una disciplina del corpo. Che poi tutto questo sia sintetizzato dal mezzo etereo per definizione, la televisione, è una delle ulteriori curiosità di una modernità continuamente in bilico fra il passato e l'ultrafuturo, fra il materiale, l'immateriale e l'immaginario.
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