L’Espresso
L'Espresso, 01/06/2006
Molto meglio le news corsare
Ogni volta che si sente parlare di servizio pubblico, viene voglia di mettere mano alla pistola. Un passo indietro: nel centrosinistra c'è una tesi prevalente, secondo cui il duopolio va certamente ridimensionato, e quindi la Rai privatizzata, ma mantenendo una rete dedicata al servizio pubblico. Che cosa sia il servizio pubblico, intanto, nessuno lo sa. Forse le dirette televisive dei congressi di partito, delle grandi sedute parlamentari, delle manifestazioni sindacali di massa. E poi programmi in prima serata con l'opera lirica, i concerti, la prosa, la cultura, molto Piero Angela. Tutte storie. Chi ha seguito uno dei grandi momenti della religione democratica e istituzionale del nostro paese, cioè l'elezione del presidente della Repubblica, non può non avere condiviso il giudizio di Aldo Grasso: il migliore servizio pubblico l'ha fatto Sky Tg 24 (vale a dire un canale rigorosamente privato e quindi senza alcuna responsabilità istituzionale). Proprio mentre si svolgeva lo spoglio della votazione che ha portato all'elezione di Giorgio Napolitano, la Rai mandava in onda interviste di Anna La Rosa ad alcuni personaggi politici minori, particolarmente desiderosi di apparire; le reti Mediaset mostravano il loro tradizionale disinteresse (ma non si può fargliene colpa, le tre reti di Silvio Berlusconi devono fare i loro calcoli di mercato senza fisime istituzionali). Se la cavava con decenza La7, anche se una piccola rete corsara potrebbe forse valorizzare meglio la propria capacità di intervenire nella vita pubblica. Su Sky Tg 24 si dava lo spoglio dei voti in diretta, cioè la possibilità di interpretare sul momento ciò che stava accadendo. Insomma, dalle chiacchiere alla sostanza c'è un oceano. Il servizio pubblico è sempre stato lo strumento o l'ideologia dietro cui si è acquattata la lottizzazione. Qualcuno obietterà che il servizio pubblico la Rai lo fa effettivamente in certe ore mattutine, cioè nelle fasce commercialmente meno ambite. Ma questo non cambia la sostanza della questione: se una donna fosse virtuosa durante il giorno e troppo disponibile invece la sera, quando scorrono i soldi e lo champagne, la conclusione sarebbe fin troppo evidente. La virtù non è una faccenda oraria. Ragion per cui, quando la Rai fa i documentari in ore antelucane e la sera programma i reality show, la conclusione è una sola: altro che servizio pubblico, trattasi di mignotta.
L'Espresso, 25/05/2006
Rosa nel pugno e spina nel fianco
Ad ascoltare con una certa frequenza Radio radicale, è difficile non restare ammirati per la capacità della Rosa nel pugno di martellare su qualche tema politico per portarlo all'attenzione del pubblico. È il caso della polemica aperta da Marco Pannella sui quattro, ovvero otto, senatori non eletti nella Rnp. Si tratta di un caso piuttosto complicato sotto il profilo giuridico e che probabilmente è sintetizzabile nel modo seguente. In base allo spirito della legge elettorale non ci sono dubbi: la Rosa nel pugno non ha raggiunto la soglia di sbarramento al Senato, e quindi non ha diritto a nessun senatore. Ma socialisti e soprattutto radicali si appellano esplicitamente "alla lettera della legge": infatti nella norma elettorale, essendo questa stata scritta con i piedi (come non poche altre leggi della Casa delle libertà) è rimasto un varco. In questo varco Pannella e i rosapugnisti hanno infilato prima un dito, poi il braccio. E andranno avanti a lungo, perché questa è la tecnica su cui Pannella, Emma Bonino e i radicali in genere hanno fondato la loro azione politica. Conta pochissimo che il risultato elettorale della Rnp sia stato particolarmente deludente, a dispetto di quanto si aspettavano i simpatizzanti, che sono particolarmente numerosi nelle strutture mediatiche: i rosapugnisti, o rosapugnoni come li chiama "Il Foglio" si sono comunque arrogati la rappresentanza di quel modesto peso elettorale che ha consentito di far pendere il piatto della bilancia elettorale dalla parte del centrosinistra. Invece conta, e molto, la qualità polemica del piccolo partito aggregato all'Unione. Il caso del Senato non sarebbe molto più che pretestuoso se non fosse l'indizio di una sindrome che ha già colpito il centrosinistra, e che ha mostrato un'eccellente capacità di disorientare i simpatizzanti durante l'iter di formazione del governo. Chiamiamolo "effetto proporzionale", o in qualiasi altro modo, ma il risultato non cambia. La Rnp si è distinta ad esempio con una esplicita operazione di lobbying politico per imporre la figura della Bonino al ministero della Difesa. Non è immediatamente intuitivo quali siano le sue competenze in materia, e per quale motivo invece la Bonino, ex commissario europeo, non potrebbe ricoprire egregiamente il ruolo di ministro delle Politiche comunitarie o un'altra poltrona ministeriale. Sempre ammesso che alla Rosa nel pugno "spetti" una quota di ministeri. Perché per la verità non è affatto detto che il governo debba essere composto in seguito a un sistematico processo di spartizione. Certamente non è ciò che si aspetta quella metà della società italiana che ha votato per il centrosinistra. E invece la sindrome rosapugnista sta agendo in modo virulento dentro l'Unione. Si è vista una sorda lotta per l'aggiudicazione dei ministeri fra i partiti maggiori. Con lo scandalo del povero Giuliano Amato, colui che fu il dottor Sottile, ed è vicepresidente del Pse, palleggiato fra Ds e Margherita, nel senso di rendere chiaro che chi Amato insedia, in carico lo piglia, essendo lui senza tessere di partito. In sostanza, finora l'Unione ha trovato l'unità soltanto nelle elezioni per i vertici delle Camere e per il Quirinale. E quindi bisogna rilevare una notevole sfasatura fra la solidarietà di coalizione, che si vede quando si tratta di occupare caselle istituzionali, e la rivalità fra i partiti, che insorge allorché si passa alla fase della lottizzazione. Non è certo responsabilità soltanto della Rnp o di Clemente Mastella, né di chiunque tratti sulle posizioni di potere e di governo. Resta comunque il fatto che lo spettacolo finora non è stato di buon livello. Anzi. Sembra di essere tornati all'ambiente della prima Repubblica, con i veti, i negoziati, i ricatti. Dice: è l'effetto della legge elettorale voluta dal centrodestra. Sì, può darsi. Ma le leggi sono le leggi, e dopo le leggi ci sono i comportamenti. Per quanto l'opinione pubblica sia distratta dal collasso catastrofico del calcio nazionale, se cominciasse a serpeggiare anche qualche insoddisfazione per il modo in cui il centrosinistra va al governo, verrebbe voglia di dire: chi mal comincia...
L'Espresso, 25/05/2006
E adesso si gioca tutto
Non c'è da fare le mammole, dicono i prodiani, ogni governo è nato da una trattativa tesa fino all'ultimo. Non è una novità che si sia dovuto fare i conti con le ambizioni delle formazioni minori, Rosa nel pugno, Comunisti italiani, il partito di Mastella. Inutile stupirsi per un déjà-vu. Tanto più che lo sanno tutti che il Professore non ha un esercito alle spalle, ma solo una pattuglia striminzita. E che quindi i partiti abbiano rimesso le mani sul giocattolo. È il sistema proporzionale, no? I bei sogni vanno nel cassetto, almeno per ora. Ottimo. Cioè, mica tanto. Insomma, una cosa grigia. Domani è un altro giorno. Il centrosinistra ha una formidabile capacità di dimenticare. Dimenticare la "lezione" delle primarie, tanto per dire, i celebri quattro milioni e tre. Nonché il risultato dell'Ulivo alla Camera, che il 9-10 aprile ha salvato la baracca. Ma mettiamoci anche le dichiarazioni dette e ripetute da Walter Veltroni, «ogni volta che abbiamo messo a disposizione una casa più grande, i cittadini hanno detto: qui stiamo meglio». Tutto nell'oblio? Intanto, a governo fatto, c'è un punto da mettere in chiaro: Romano Prodi dura. O perlomeno: non è a rischio immediato. A risultato elettorale appena acquisito, il suo braccio destro Giulio Santagata aveva confessato agli amici: «Le prospettive del futuro governo Prodi si capiranno subito. Basterà osservare la composizione ministeriale». Adesso il test è pronto: nell'esecutivo sono entrati Francesco Rutelli e Massimo D'Alema, e hanno assunto un ruolo centrale. Si giocano la faccia e il futuro politico. Si stagliano nelle foto accanto al premier. Vuol dire che scommettono sul governo dell'Unione. Probabilmente non avevano altre possibilità. Sarebbe stato paradossale, se non comico, che i due maggiori partiti della coalizione avessero preso una posizione attendista, tipo «vai avanti te che a noi scappa da ridere». Nonostante le manovre e manovrine, i veti, i ricatti, le minacce, le mosse e contromosse sullo scacchiere dei dicasteri che hanno segnato il negoziato per formare il governo, Rutelli, D'Alema, Fassino e tutti gli altri capi e capetti del centrosinistra hanno una consapevolezza: che l'Unione con i prossimi mesi si gioca la pelle, non soltanto la faccia. Il centrosinistra infatti con le ultime elezioni politiche è riuscito a spremere tutto il suo elettorato. Si è trattato di uno sforzo immenso e praticamente irripetibile. I ventiquattromila voti di scarto che hanno significato il successo elettorale, quella fragilissima barriera allo strapotere berlusconiano, sono il segno, il battesimo, il crisma del governo Prodi. «Se il governo fallisce», dice Enrico Letta, trait-d'union con le élite economiche, «siamo pronti per l'estrema unzione». Quindi, governo imbullonato, blindato, ferreamente contrattato per assicurare solidità. Per questo non c'è stato nessun colpo d'ala, niente invenzioni dalla società civile, solo il sigillo tecnocratico di Tommaso Padoa-Schioppa all'Economia: una figura di riferimento e rassicurazione per l'Unione europea, la Banca centrale di Francoforte, i mercati finanziari internazionali, le agenzie di rating. Con Pier Luigi Bersani (e Antonio Di Pietro) a fare il lavoraccio sull'economia reale, le infrastrutture, le grandi opere. Anche per tentare, soprattutto attraverso il pragmatismo popolare del ministro piacentino, di ricucire un rapporto con il Nord, con le associazioni territoriali della Confindustria, nelle quali non si è ancora spento il brusco rigurgito filoberlusconiano (che nella base ha determinato attriti, e se non attriti certamente mugugni, con il vertice di Viale dell'Astronomia). In sostanza, i "poteri forti" dei partiti sono dentro il governo, resi visibili dalle figure di Rutelli e D'Alema alla vicepresidenza di Palazzo Chigi. Il senso è: niente scherzi. Le scaramucce, gli scontri, la politica politicante deve rimanere fuori dal perimetro dell'esecutivo. Solo che in questo modo si profila subito un problema. Il Partito democratico rischia l'ibernazione. La divisione di ruoli fra il governo e il parlamento, fra la gestione del paese e la politica espone una cesura fra un governo politicamente commissariato e le aspettative di rinnovamento del "formato" dei partiti all'interno dell'alleanza. Per ora evidentemente si tratta soprattutto di raffreddare il clima generale. Dopo le battaglie sui vertici istituzionali, incluse le battaglie all'interno della coalizione, il centrosinistra ha bisogno di un varo senza scossoni. Si trova davanti due scogli, le elezioni amministrative e il referendum costituzionale, su cui la Casa delle libertà cercherà di radicalizzare nuovamente il faccia a faccia con l'Unione. Silvio Berlusconi lascia circolare sondaggi secondo cui il centrodestra sarebbe in vantaggio di quattro-cinque punti percentuali, e sta valutando se il suo elettorato è in grado di rimobilitarsi per una ulteriore battaglia campale. Incassate le sconfitte sulle Camere e il Quirinale, il referendum è il passaggio estremo per dimostrare la sua tesi, secondo cui «la vera maggioranza è la mia». Ma anche per l'Unione l'iter costituzionale è uno snodo complicato. Perché la tentazione è quella di sterilizzare il confronto sulle riforme, scegliendo la strada dell'amministrazione. Tuttavia il centrosinistra non può contare solo sull'inerzia: se la spinta riformatrice si stempera, e nel frattempo la prospettiva del Partito democratico si oscura, tutta la retorica sul rinnovamento va fuori corso. Il fatto è che l'Unione non può puntare soltanto sulla credibilità di un governo che si qualifichi come un consiglio d'amministrazione. «Non possiamo rischiare un contraccolpo di delusione», dice il principale teorico del Partito democratico, Michele Salvati. Lo stesso Veltroni, che aspetta dalle elezioni comunali di Roma un'investitura plebiscitaria, ha mandato a dire che la legislatura dovrà avere due fasi: «creazione del Partito democratico nella prima, riforma istituzionale nella seconda». Nel frattempo, Prodi deve cercare un sentiero fra risanamento e crescita. Forse i dati statistici sul Pil gli daranno una mano. Ma intanto bisognerà trovare un ufficiale di collegamento fra il governo e la politica. Circola un identikit, e ha tutte le fattezze di Walter, re di Roma. n
L'Espresso, 25/05/2006
Se il troppo Crozza
Il tentativo di Maurizio Crozza di allestire uno spettacolo da largo pubblico è ammirevole, così come è apprezzabile che La7 abbia deciso di mandare "Crozza Italia" in prima serata (il martedì, poi in replica a tarda sera il sabato). Tanto per chiarire: Crozza è uno dei migliori talenti che siano apparsi nell'intrattenimento contemporaneo. Imitazioni che ricreano il personaggio, lo rifanno, lo scavano, ne accentuano un tratto per farlo diventare assoluto. L'Arrigo Sacchi dell'intensitè, dell'umiltè e dello straordinèrio. Il Serse Cosmi del "crosse", nel senso del traversone. E così via. Anche la sua presenza nell'ultimo show di Adriano Celentano, "Rockpolitik", aveva una funzione di esorcismo e di antidoto: vale a dire l'introduzione nell'omelia del "re degli ignoranti" di qualche venatura anarchica e finalmente irresponsabile. Oh, insomma, il giullare deve far ridere, sennò che giullare è? Lo "Zapatero" di allora rappresentava una trovata maliziosa che acchiappava lo spirito del tempo, tanto da essere accolta da peana generali. E allora, funziona "Crozza Italia"? Sì e no. Diciamola tutta: reggere due ore di "one man show" è una faticaccia. Talvolta perfino Fiorello rischia di mostrare la corda, salvandosi con un mestiere infinito. Crozza ha i numeri, e una riscontrabile cattiveria bipartisan, utile per non apparire un propagandista dell'ovvio. Ma dà l'impressione di essere ancora un fantasista capace di dare il suo meglio facendo il comprimario, non il protagonista. È perfetto quando irrompe in uno schema altrui, più che quando è il primattore. Dunque, giudizio sospeso. Ma le ultime puntate vanno godute, anche perché "Crozza Italia" ha una briscola aggiuntiva, ossia la moglie di Crozza, Carla Signoris. Talmente svampita, nelle sue quasi-interviste, da risultare ogni volta irresistibile. La si guarda, con la sua aria quietamente domestica, una casalinga tutt'altro che disperata, e si vede una signora morbida, a suo agio e a suo modo piacente: capace di offrire un tale senso di disponibilità nei confronti degli ospiti da apparire attraente. Anzi, se non è un sacrilegio, addirittura sexy. La televisione ha i suoi misteri: uno comincia a seguire un programma perché c'è il tale, e si ritrova incapricciato artisticamente della talaltra. Comunque Crozza non se ne abbia, di questa intromissione fra moglie e marito: succede, lo si sa, nelle migliori famiglie. Anzi, solo nelle migliori.
L'Espresso, 18/05/2006
Lord Giorgio d’Italia
Il punto decisivo della vicenda politica di Giorgio Napolitano si fissa a metà degli anni Ottanta, allorché il Pci dell'ultimo Berlinguer raggiunge l'acme del risentimento antisocialista, contro il Psi della «mutazione genetica», contro la figura ingombrante di Bettino Craxi. Fu una parte minoritaria del Partito comunista a cercare di mantenere un contatto con i socialisti. Ma il mainstream del partito era modellato su una contrapposizione irriducibile, quasi sulla ripugnanza che a Berlinguer e ai berlingueriani ispirava il modernismo spregiudicato dei craxiani. Mentre per i movimentisti come Pietro Ingrao, la stessa concezione di un compromesso con il Psi risultava insostenibile se configurava una mediazione "socialdemocratica" al ribasso. E un uomo come Napolitano, indiscutibilmente il leader della "destra" comunista, veniva facilmente esorcizzato dagli ingraiani con l'epiteto di "migliorista", con un chiaro riferimento, come ha ricordato in questi giorni Emanuele Macaluso, al migliorismo prampoliniano (ossia a un'azione politica che intende migliorare le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice senza rivoluzionare le condizioni strutturali del capitalismo). Allora apparve a molti che l'azione di Napolitano fosse insufficiente. Lo ha ricordato di recente, e in modo spregioso, Giuliano Ferrara, accusandolo sarcasticamente di avere segatura al posto del sangue. Certamente fu debole il suo tentativo di reagire dall'interno all'iniziativa del Pci contro il referendum sulla scala mobile, che si sarebbe rivelato uno dei colpi gobbi di Craxi in quella che allora appariva una strategia di stampo mitterrandiano, teso a ridimensionare e a relativizzare il partito comunista. Ma occorre considerare che a dispetto dell'aplomb aristocratico, dell'anglofilia, del gusto puntiglioso e di un'eleganza formale indubitabile, Napolitano è sempre stato, fin quasi all'ultimo, un uomo di partito, e dunque di "quel" partito. Di un organismo quindi in cui non si tolleravano strappi, dove i mutamenti avvenivano in modo bradisismico, dopo essere stati valutati con attenzione lenta e macchinosa, e infine vidimati con un senso di liberazione finale e collettiva. Fin dal momento in cui si iscrisse al Pci, nel novembre del 1945, «presentato» da Mario Alicata e Renzo Lapiccirella, il ventenne Napolitano, che sembrava destinato a una vita culturale d'alto bordo, entrò in simbiosi con quell'entità singolare che era il Pci. Aveva frequentato per qualche mese Curzio Malaparte, uno strapaesano fascista sulla via di un comunismo nazionale, salvo poi rinunciare a quel rapporto per l'incompatibilità fra psicologie, e dei rigori; Alicata gli aveva affidato la rubrica di critica teatrale sulla «Voce», quotidiano che allora usciva a Napoli; era insomma intriso della cultura di quella Napoli vivacissima che usciva dalla guerra cercando una propria via, fra il crocianesimo e orientamenti nuovi, il cinema, la poesia, l'America di Elio Vittorini, con una spruzzata di marxismo che allora si limitava al "Manifesto" del 1848, letto in appendice del Labriola ripubblicato da Croce. «Continuavo in realtà a soffrire di insufficiente approfondimento e convinzione dal lato "ideologico", ma sempre più forte si era fatto in me l'impulso politico e, direi, morale, il senso della necessità di un impegno concreto a operare in una realtà dolorante, carica di ingiustizie e di miserie». Nacque in quel contesto il rapporto con Giorgio Amendola, «energia politica allo stato puro», e si confermò allora «l'intimo rifiuto del destino di avvocato» (come ha confessato con una lievissima autoironia nella sua autobiografia politica, "Dal Pci al socialismo europeo", uscita pochi mesi fa da Laterza). Bastano queste annotazioni per capire una personalità complessa, intrisa di intellettualità meridionale attraverso il rapporto precocissimo con i giovani del settimanale "IX maggio" dei Guf di Napoli, organizzazione universitaria fascista che «era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino a un certo punto tollerato». Il gruppo napoletano comprendeva Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Tommaso Giglio, Massimo Caprara. Tutti destinati a carriere di primo piano nella letteratura, nel cinema, nel giornalismo (ancora oggi, parlandone con affetto volutamente spudorato, Antonio Ghirelli dice: «Giorgio è mio fratello»). Dicono i suoi nemici che Napolitano è sempre stato un campione nel rilevare a posteriori gli "errori" del Pci a cui aveva contribuito. L'opposizione al progetto degasperiano di integrazione europea, considerata «un sottoprodotto della strategia di divisione e di asservimento dell'Europa attribuita agli Stati Uniti», e che configura oggi ai suoi occhi «forse il più grave segno di cecità della sinistra, che avrebbe pesato a lungo sul suo ruolo nazionale e internazionale». Nel 1956, la giustificazione dell'intervento militare sovietico in Ungheria, i carri armati a Budapest, con un intervento polemico contro Antonio Giolitti (che in seguito ai sanguinosi fatti ungheresi uscì dal Pci): «Mi mosse allora anche un certo zelo conformistico», avrebbe poi confessato; e questa confessione, unita al «tormento autocritico» che perdura a distanza di mezzo secolo, di nuovo lo accomuna esistenzialmente, se non politicamente, a Ingrao e a tutta una generazione comunista passata attraverso le tragedie del Novecento. In fondo, Napolitano è la sintesi migliore dell'impossibilità del Pci di essere normale: della sua impossibilità di condurre tempestivamente una revisione in senso non marxista, come i socialdemocratici tedeschi della Spd avevano fatto già nel 1959; dell'incapacità dunque di presentarsi come alternativa politica reale, dopo il fallimento del centrosinistra (quello di Moro, Nenni e Fanfani). Uno degli episodi meno ricordati di questi tempi risale al momento in cui Amendola lanciò su "Rinascita", in risposta a Norberto Bobbio, l'idea del «grande partito unico del movimento operaio», né socialdemocratico né comunista. Ne venne una bufera nel Pci, soprattutto alla base. Naturalmente alla federazione di Napoli, di cui era diventato segretario, Napolitano assunse un atteggiamento «misurato, sdrammatizzante», anche se oggi è disposto a riconoscere: «Finii per sottovalutare il senso della scossa salutare che era venuta da quelle prese di posizione, per quanto contraddittorie o non conseguenti, di Amendola». A guardarle con gli occhi di oggi, contraddittorie o non conseguenti erano le posizioni del Pci: capace di esprimere il suo «grave dissenso» nel 1968 rispetto all'invasione di Praga, di impegnare tutta o quasi la propria credibilità nell'esperienza di solidarietà nazionale, in coincidenza con la gravità degli choc economici e con l'aggressività del fenomeno terrorista sfociata nell'assassinio di Aldo Moro; ma nello stesso tempo impossibilitato dal suo Dna, dalle storie personali dei dirigenti, dal peso della cultura gramscian-marxista, a portare fino in fondo una revisione che lo legittimasse senza residui al governo del paese. «I nostri limiti di fondo furono due», dice Napolitano: «Da un lato, quello di restare impastoiati nella falsa coscienza che il Pci aveva di sé come forza rivoluzionaria; dall'altro, di non fare i conti con la necessità di sbloccare il sistema democratico italiano, traendo da questa necessità tutte le ineludibili implicazioni». Oggi, la sua elezione al Quirinale viene salutata come la fine di ogni possibile pregiudiziale anticomunista. Grazie all'ossessione berlusconiana, si dimentica, come Napolitano ha raccontato spesso, che questa pregiudiziale cadde ufficialmente già all'epoca della "non sfiducia" (1976), dopo che Ingrao era stato eletto alla presidenza della Camera, e con la nomina di numerosi esponenti comunisti alla presidenza di varie commissioni parlamentari. Tutto ciò mentre la figura di Napolitano continuava a evolvere proiettandosi sempre più su uno sfondo culturale e "diplomatico": l'amicizia intellettuale con Piero Sraffa a Cambridge, il primo viaggio in America nel 1978, con una storica presentazione di Franco Modigliani a Harvard, con l'intellighenzia americana intenta a osservare con simpatia il rappresentante dei comunisti "pinker than red". Ogni evoluzione possibile del rapporto con i socialisti, e del Pci stesso, crolla con il referendum sulla scala mobile che si sarebbe tenuto nel 1985. Racconta Napolitano: «Avevo espresso le mie preoccupazioni a Reichlin, ma furono soverchiate dal clima parossistico e dalla lotta di logica a oltranza che dominava il vertice del Pci». A incaricarsi di provocare il cambiamento del Pci sarebbe stata la storia, con la caduta del Muro, la Bolognina, lo strappo di Achille Occhetto. Già nell'agosto del 1989, mentre "Der Spiegel" titolava "Explodiert Ddr" e in Italia pochi si erano accorti della crisi finale dell'impero comunista, Napolitano diceva a "L'espresso" che le ultime contorsioni del comunismo sovietico «inducono a giudizi e conclusioni che vanno al di là di ogni nostra posizione precedente». Era la premessa della svolta che avrebbe portato al cambiamento del Pci. Ma anche alla proiezione di Napolitano sempre più verso la dimensione europea. In ogni caso, presidente della Camera nei due anni di Tangentopoli, ministro degli Interni con Romano Prodi, figura eminentemente istituzionale, riconoscibile nel profilo dei gesti come nella forma delle esternazioni, si trova ora sul Colle più alto, al vertice dello Stato. Finisce per l'ennesima volta la discriminante "anticomunista", e si spera che sia quella buona. Ma c'è anche chi sottolinea un aspetto politico: mentre un Quirinale dominato da D'Alema poteva configurare una ricomposizione "socialista" dell'Unione, una sorta di egemonia su tutta l'alleanza, il presidente Napolitano è l'ombrello migliore per completare il cammino che porta al partito democratico. Se l'operazione riuscirà, anche Napolitano l'europeo, l'americano, il vecchio "ministro degli esteri del Pci", potrà dire di non essere stato soltanto un notabile recuperato dal Novecento. n
L'Espresso, 18/05/2006
Nostalgia canaglia
Noi non ricorreremo alla vieta battuta sull'operazione Piedi puliti e su Pedatopoli. Vorremmo semplicemente proporre un piccolo manifesto per rifare il mondo del calcio. Vi chiederete chi siamo noi: siamo i nostalgici. Gente che sa benissimo che il mondo è guasto, non c'è più religione e non c'è mai stata, che il Pallone è sempre stato gonfiato con quattrini, scommesse, partite arrangiate, arbitri comprati, venduti e cornuti. Com'è noto, e come dicevano i vecchi gourmet calcistici, il calcio non è un gioco per signorine. E quando lo è, devono essere signorine molto, molto disponibili. Non siamo mica moralisti. Ci andava bene tutto perché ci avevano promesso una quantità di roba: che il calcio sarebbe diventata un'industria, possibilmente quotata in Borsa, che le società sarebbero divenute imprese, i dirigenti si sarebbero trasformati in manager. Da un lato. Dall'altro, il gioco sarebbe diventato una scienza. Schemi perfetti, moduli esatti, traiettorie tracciate al computer. Nulla lasciato al caso. Il tre-quattro-uno-due o la difesa a cinque come una manifestazione della Trinità o dei Cinque postulati di Euclide (erano cinque, i postulati? Se sono di meno, compriamone qualcuno). E invece ci ritroviamo in una situazione in cui abbiamo il calcio corrotto di una volta, solo che rispetto al passato il piccolo cabotaggio delle combine, delle torte, delle pastette, è diventato a quanto dicono gli esperti un'industria del crimine. Allora, se è soltanto una questione di formato, per favore, non menatecela più. Non raccontateci più balle, dopo il tagliatasse, il salvafallimenti e il lodo sui diritti televisivi comprensivo dei rovesci finanziari. Se il calcio è rimasto quello di una volta, solo infinitamente più gonfiato, si tratta di tirare le conseguenze. Torniamo indietro. Ma integralmente. Torniamo all'epoca dei dirigenti pasticcioni, e anche allo stile faraonico dei presidenti storicamente definiti "ricchi scemi". Ma niente mezze misure: perché essere solo pasticcioni quando si può essere irresistibilmente cialtroni? Perché solo leggermente disonesti quando si può tornare ad agire da autentici farabutti? Non si trascuri che ciò può avere conseguenze entusiasmanti. I presidenti dovranno essere capaci esibire il remake di espressioni celebri come quella in risposta alla diagnosi dell'allenatore di turno sulla mancanza di amalgama: «Quanto costa questo amalgama, ché lo compriamo subito» (ovvero i latinismi imperfetti come "sine qua non", siamo qua noi). Gli allenatori saranno scelti solo tra ubriaconi, bevitori e sottanieri impenitenti. E quanto ai giocatori e al gioco, urge riaprire il discorso. Riaperto il discorso, sia chiaro che si dovrà giocare come una volta, con il libero, i terzini, le ali, senza fisime tattiche di tipo sacchiano o zemaniano. Anzi, i difensori dovranno essere truculenti e assassini, gli attaccanti veloci e potenti anche se possibilmente con i piedi di granito o unipedi. I trequartisti saranno giocolieri, funamboli, foche ammaestrate, capaci di tutto con il pallone anche se fisicamente flebili. E per finire: nel calcio del futuro, cioè quello di una volta, la preparazione fisica andrà considerata e punita come il doping. Cioè un mezzo illegale. Se deve vincere il talento, chi la mette sull'atletico va squalificato. Sine qua non.
L'Espresso, 18/05/2006
Reality Rossellini
In coincidenza con il centenario della nascita di Roberto Rossellini si sono sentite alcune polemiche di famiglia, poco interessanti: mentre è di qualche interesse cercare di ricostruire l'idea che il regista di "Roma città aperta" si era formato a proposito della televisione. Meritoriamente, Raisat Cinema World ha dedicato l'intera serata dell'8 maggio al mondo cinematografico di Rossellini: sono stati mandati in onda "Il generale Della Rovere" (1959), "La forza e la ragione" (un'intervista del 1971 a Salvador Allende) e un colloquio con Carlo Mazzarella sul set del film "Viva l'Italia". Ma dal punto di vista della riflessione sulla televisione il documento più significativo di quella serata è stato il film di Jean-Louis Comolli (regista e docente di cinema che è stato a lungo caporedattore dei "Cahiers du Cinéma") "L'ultima utopia", che porta come sottotitolo "La televisione secondo Rossellini" (produzione Ina e Vivo Film). Il film di Comolli prende le mosse dal grande, anzi immane, visonario progetto di Rossellini concepito agli inizi degli anni Sessanta per la Fides: una specie di storia generale della civiltà, dalla preistoria al Novecento, in cui si sintetizzasse ciò che conosciamo come il "realismo" di Rossellini. Ciò che sorprende non è tanto la smisurata grandezza del progetto, di cui il regista realizzò soltanto alcuni capitoli (dedicati fra gli altri a Socrate, Agostino d'Ippona, Pascal); ma è piuttosto la sua radicalità. Rossellini si dichiarava infatti contrario allo «spettacolo»: intendeva la televisione come un mezzo che potesse andare al cuore delle cose, alla loro essenza, senza la minima concessione allo show. «Anch'io ho fatto lo spettacolo, in passato, ma ora non lo voglio fare più». Concepiva evidentemente una potenzialità straordinaria nel medium televisivo, e voleva proporre un programma culturale, quasi un manifesto della televisione per la società di massa. Non tanto per sviluppare una pedagogia civile, quanto per modellare le immagini secondo una necessità artistica e culturale irriducibile, scabra, senza nessun orpello. Non era una televisione fuori dalla realtà, era un progetto senza tempo. Oggi, calati come siamo nella tv tutta spettacolo, tutta reality show, il progetto di Rossellini sembra un reperto d'epoca. Lo è infatti, ma con una forza contestativa che offre ancora un metro di giudizio per capire, e magari esecrare, la tv di oggi.
L'Espresso, 11/05/2006
Laboratorio Veltroni
Parliamo con Walter Veltroni poco dopo che Franco Marini ha conquistato il seggio più alto di Palazzo Madama, affiancando Fausto Bertinotti al vertice delle Camere, ponendo fine a una impasse piena di inquietudini per il centrosinistra, e subito dopo la cerimonia con cui le autorità italiane hanno accolto a Ciampino le salme dei militari italiani uccisi nell'attentato di Nassiriya. Sentimenti contrastanti, quindi, mentre il popolarissimo sindaco di Roma si sta preparando al rush che lo riconfermerà al Campidoglio: il suo antagonista, Gianni Alemanno, sembra rappresentare più una candidatura di bandiera che non un'alternativa politica reale. Anzi, il fatto che l'ex missino Alemanno rappresenti una posizione di frontiera, sul margine estremo dello schieramento della Casa delle libertà, ha già determinato effetti imprevisti nel centrodestra, come la nascita della lista "Moderati per Veltroni", creata da Alberto Michelini, membro dell'Opus Dei, che alle elezioni politiche del 9 aprile era candidato per Forza Italia. In ogni caso, Veltroni rappresenta un unicum nel panorama dell'Unione. Forse la sola personalità politica che nel futuro potrebbe rappresentare un autentico scatto in avanti "postideologico", una risorsa politica in grado di dare un impulso originale all'evoluzione politica del centrosinistra. Il possibile protagonista, come sta dimostrando con la sua azione in Campidoglio e con il consenso che raccoglie nella capitale, di un salto culturale di cui l'Unione ha un bisogno essenziale. Quando dice «noi», sembra infatti riferirsi non soltanto e generalmente all'Unione, ma a una specie di Camelot romana, dove con la sua "band of brothers" sta sperimentando un metodo di governo e il paradigma possibile del centrosinistra futuro. Sindaco Veltroni, qual è la sensazione che si prova di fronte al primo passaggio politico della legislatura? Al Senato è sembrato che l'Unione rischiasse di incartarsi, e avesse successo l'offensiva della Cdl tesa a dimostrare che c'è una prospettiva di ingovernabilità. L'elezione di Marini risolve tutto? Le nuvole si sono dissolte? La strada è già in discesa? «In questo momento c'è la sensazione consapevole di essere usciti finalmente dal collo dell'imbuto: eravamo in una condizione di sospensione, di incertezza, dentro una transizione che sembrava non finire mai. Ora, dopo tutte le polemiche innescate da Silvio Berlusconi, dopo accuse che ormai appaiono infondate, torniamo dentro la realtà. L'elezione di Bertinotti e Marini, la soluzione del puzzle di Camera e Senato, fissa ufficialmente il momento del cambio di fase politica. È un processo speculare: si chiude un'epoca segnata dal centrodestra e nello stesso tempo si apre quella sotto il segno del centrosinistra. In questa specularità si manifesta il cambiamento, la sensazione che la politica ha preso un'altra direzione». Una specie di momento storico per il nostro paese e per il centrosinistra. E quindi impegnativo. Forse troppo, per un'alleanza variegata come l'Unione. «Siamo davanti a un crinale, a una prova decisiva per il riformismo. E questo deve indurci a ragionare con passione e insieme con freddezza. Un momento simile non accadrà mai più, e non ci sarà un'opportunità come questa». Di fronte a questa occasione come deve porsi il centrosinistra? «C'è innanzitutto la necessità di un accertamento rigoroso delle condizioni in cui il centrodestra lascia il paese. Noi siamo convinti, anche adesso, fuori dalla campagna elettorale, che l'Italia è in uno stato drammatico, come il presidente Ciampi ha confermato con le sue parole il primo maggio. Non è questione di propaganda politica, o di disfattismo, di "declinismo": bisogna guardare i conti veri, e valutare qual è stato l'effetto delle politiche del centrodestra. Il sospetto è naturalmente che la realtà sia molto peggiore dei dati ufficiali. Siamo abituati a faccende del genere: quando Marrazzo è entrato alla Regione Lazio, ci ha messo niente per accorgersi che il deficit della sanità era il doppio di quanto dichiarato». D'accordo, ci vuole la "due diligence". Ma non si può governare recriminando, come ha fatto per cinque anni il centrodestra. «No, dobbiamo dare subito l'idea del cambiamento. E dobbiamo darlo in base a due profili. Il primo, quello della sobrietà. Il secondo, quello del rapporto con il popolo». Addirittura il popolo. «Mi lasci spiegare. Sulla sobrietà dovrebbe essere facile intendersi, dopo cinque anni di berlusconismo: mi riferisco a uno stile di governo, basato su un'idea sana della politica. Non è vero che i cittadini rifiutano la politica: accettano invece facilmente una politica lieve e alta, lieve e non invadente, con partiti non intrusivi, i quali devono capire a fondo la relazione del tutto nuova che la gente chiede alla politica. Tutto questo si deve vedere nella scelta degli uomini, nella ricchezza delle competenze portate in politica, nella terzietà come valore». Che cosa intende con terzietà? «Ci sono aree e settori della vita pubblica che devono essere sottratti all'occupazione della politica e alla logica dello spoils system. In questo senso la terzietà è un valore che va dalla Corte costituzionale al servizio pubblico televisivo, e che non può essere consegnata alla tagliola bipolare». E il popolo? «Vede, le esperienze più belle del centrosinistra, dei governi riformisti nelle democrazie avanzate, si sono basate su due pilastri: la capacità di unire crescita e modernizzazione, da un lato, a uno sguardo aperto alle opportunità e ai disagi, dall'altro. È questa in fondo la maggiore differenza rispetto al pensiero di Berlusconi, esemplificato dalla frase infelice sul figlio dell'operaio e sul figlio del professionista, e sulla sinistra che vorrebbe colpevolmente, a suo parere, portare il primo al livello del secondo. Ma è proprio così, noi siamo diversi, e vogliamo dare opportunità a tutti: anzi, oggi uno dei principi tradizionalmente più forti della sinistra, la tensione verso l'uguaglianza, va interpretato politicamente nello sforzo di abbattere le barriere sociali, nel costruire parità di occasioni, nel favorire la mobilità. Benvenuta una società in cui il figlio dell'operaio può competere con il figlio dell'avvocato, non le sembra?». In realtà la destra accusa la sinistra di difendere privilegi e i cosiddetti diritti acquisiti, cioè una società immobile. «Potremmo rispondere che la destra vuole una società castale. Ma il punto vero è che noi, il centrosinistra, non dobbiamo avere paura della nostra idea di società. Io ho sempre diffidato di un riformismo "freddo". La fortuna della nostra esperienza di governo a Roma dipende da un'idea di modernità che non è centrata soltanto sulla città "connessa", su una comunità collegata a Internet grazie al wi-fi, ma anche sui centri di trattamento e di assistenza per l'Alzheimer, su un welfare che unisce politica pubblica e volontariato. Il riformismo che arriva vicino alla gente, che valorizza le opportunità, è un sentimento caldo, con un calore particolare per i cittadini meno avvantaggiati, che devono sentire la vicinanza del riformismo, la sua concretezza...». Ciò che lei definisce il «governo di prossimità». Ma non le sembra che finora, almeno fuori di Roma, il centrosinistra non abbia saputo offrire un messaggio culturale, un'idea di governo, nonostante l'ampiezza enciclopedica del programma dell'Unione? «Occorre comunicare alcuni messaggi, elementari ma centrali. Il primo: ci vuole una politica integrata sulla formazione e la ricerca. È essenziale far capire che dobbiamo girare pagina». Questo che cosa significa, ad esempio rispetto alla riforma Moratti, che molti a sinistra considerano regressiva sul piano sociale? «Premetto che non si può vivere nell'ossessione della destra, e quindi non penso che si debba abbattere tutto, perché non si può rivoluzionare le riforme a ogni legislatura: credo invece che sia necessario uscire dallo schema delle riforme a stralcio, a pezzi e bocconi. Senza un disegno complessivo non si va da nessuna parte. Ci vuole un disegno organico dagli asili nido all'università e alla ricerca, in modo che si veda l'intenzione generale di una politica. Certo, è più difficile, ma si tratta di un tema politico su cui ci giochiamo il futuro». Sulla formazione e la ricerca è arduo essere in disaccordo. Poi però ci sono le scelte che incidono sull'economia e cioè sugli interessi. E qui comincia il difficile. «Non è mia intenzione fare della retorica. Dobbiamo guardare la realtà, senza sconti. A Roma, tanto per dire, abbiamo definito la costruzione di campus universitari nei quartieri periferici della città, con un evidente doppio significato sociale, di connessione a due vie fra la ricerca e il concreto tessuto urbano. Quanto all'economia, comunque, sono convinto che il centrosinistra deve scegliere esplicitamente una prospettiva legata allo sviluppo sostenibile. Se pensiamo alla trasformazione che l'apparato industriale italiano dovrà affrontare, l'orizzonte della sostenibilità, e il tema connesso della qualificazione dell'ambiente, diventano centrali. Anche in questo caso, non c'è soltanto un enunciato politico. Noi abbiamo prodotto politica: ad esempio, abbiamo approvato una delibera simile a quella di Barcellona, secondo cui tutte le costruzioni nuove devono essere alimentate con energia rinnovabile, l'acqua per il 50 per cento e l'elettricità per il 30». Può darsi che Roma sia un laboratorio del centrosinistra. Ma si può proiettarlo sul piano nazionale? «Pensiamoci su: o noi scegliamo una specificità autenticamente italiana, che nel cambiamento della struttura economica punti esplicitamente sulla cultura e l'ambiente, oppure rischiamo di perdere il vecchio senza conseguire il nuovo. Ci sarà pure qualche ragione se nel turismo Roma cresce del 6 per cento mentre l'Italia cala simmetricamente della stessa percentuale. Più 6, meno 6: ma la crescita di Roma non è casuale, non è data solo dal fatto che noi abbiamo il Colosseo e la Fontana di Trevi. C'è stata una valorizzazione del tessuto urbano, iniziative come l'Auditorium, un lavoro continuo sulla specificità artistica e culturale della città, ma anche una tensione costante alla inclusione sociale e al recupero delle periferie». Sembra un'idea di sviluppo "leggero". Eppure il paese ha un deficit rilevante anche su aspetti pesanti come le infrastrutture. «Vero, ma anche un grande progetto sulle infrastrutture va concepito in chiave di sostenibilità, per trasferire traffico dal privato al pubblico; e inoltre le metropolitane, il trasporto pubblico, le grandi utility, insomma tutte le dotazioni infrastrutturali, vanno collocate su uno sfondo di sviluppo che faccia i conti con obiettivi sociali rilevanti, a partire dalla riduzione della conflittualità. Grazie al cielo noi non abbiamo periferie abbandonate a se stesse come quelle parigine; ma in prospettiva anche le infrastrutture vanno pensate come strumenti per una società che non esclude, anzi, una società volutamente inclusiva». Lei sembra convinto che l'economia è secondaria, rispetto ai grandi sentimenti collettivi. «No, l'economia è centrale, ma un paese vive se ci sono due segni più: più crescita e più integrazione sociale. Oggi il sentimento sociale può oscillare dalla paura alla speranza. La paura è il sintomo di una grande fragilità, il timore di perdere ciò che si ha. Il centrodestra ha investito su tutte le paure possibili, dall'immigrazione alla tassa di successione, dalla criminalità alla concorrenza cinese. Noi dobbiamo cercare di riprendere il filo tra le persone e una speranza, e quello che chiamiamo il governo di prossimità è il tramite che mette a contatto chi amministra con la vita reale delle persone». Si tratta di capire chi sarà in grado di proporre questa speranza. «Il voto del 9 aprile ha detto una cosa semplicissima, che moltissimi avevano capito da tempo, semplici cittadini, semplici elettori: ogni volta che ci date una casa più larga stiamo meglio». Il che significa che il Partito democratico è uno sbocco obbligato. «Naturalmente, ne sono convinto, l'ho detto in ogni occasione e lavorerò perché diventi una realtà. Tuttavia occorre essere coscienti che il Partito democratico non è la semplice somma di Ds e Margherita. Dobbiamo coinvolgere milioni di italiani che hanno voglia di partecipare a un'esperienza di riformismo realista». Oppure al realismo utopico del primo Blair, ispirato da un intellettuale come Anthony Giddens. «Sia come sia, è necessario che il Partito democratico nasca quartiere per quartiere, nelle città, nei paesi, raccogliendo i cittadini, i giovani, gli intellettuali, gli imprenditori, i lavoratori. Deve essere un partito leggero nella struttura, ma dotato di convinzioni forti. Guardi, voglio sbilanciarmi: credo che in prospettiva sia un soggetto politico che può diventare maggioritario, a patto che sia pluralista in campo etico e culturale. E intanto l'Ulivo, cioè l'embrione parlamentare del partito nuovo, rappresenta lo sfondo migliore e più rassicurante per il governo di centrosinistra, la sua base di consenso e il suo strumento parlamentare più efficace». E sul piano del riformismo costituzionale? Qualche osservatore avverte il rischio che la bocciatura della riforma della Cdl porti a una stagnazione del rinnovamento istituzionale. «Intanto bisognerà dire la verità all'opinione pubblica sui conti e chiarire quali politiche dovranno essere attuate. Sono convinto che in seguito, nella seconda parte della legislatura, dopo avere rimesso in linea di volo il paese, occorrerà trovare uno strumento di discussione con l'opposizione, un organismo ad hoc, un tavolo di confronto. Perché c'è l'esigenza di ricostruire un assetto istituzionale funzionante, a cominciare ovviamente dalla legge elettorale, cercando un buon equilibrio fra il ruolo delle assemblee elettive, la cui funzione di controllo deve essere rafforzata, e il potere da attribuire al premier. La mia convinzione è che un sistema elettorale e istituzionale che proietti sul piano nazionale la legge per l'elezione popolare dei sindaci sia un buon metodo. La formula per i sindaci ha cambiato il modo di essere delle città, che sono diventate motori di sviluppo, fonti di innovazione, luoghi in cui la responsabilità politica viene messa a confronto con il giudizio diretto dei cittadini». Ma si può fare una riforma condivisa con l'opposizione, dopo che per tutta la campagna elettorale il capo del centrodestra ha giocato alla guerra civile? «La società non è così divisa come appare, e neanche intossicata, avvelenata. Avvelenata semmai è la politica, e gli avvelenatori non sono mancati. Per questo credo che invece sia possibile trovare un metodo che porti a negoziati e accordi. È lo stesso concetto che ha ispirato la richiesta di un "pit stop" da parte di Luca Cordero di Montezemolo. Io farò il possibile per dare una mano. Una mano al Partito democratico, così come a un accordo per le riforme. Le due cose, secondo me, vanno avanti insieme». n
L'Espresso, 11/05/2006
Tutti i santi Michele
Dieci anni di articoli per "la Repubblica", l'impegno quotidiano di uno scrittore che si consegna al commento dell'attualità, pedina fatti e misfatti, grandezze e piccolezze, minuzie, inezie ed eventi colossali: il giornalismo è anche un modo per far finta di essere sani, e Michele Serra ha raccolto le sue malattie ricorrenti in "Tutti i santi giorni" (che esce in queste ore da Feltrinelli). I lettori riconosceranno la prosa apparsa nella rubrica "L'amaca", e diversi articoli di intervento sollecitati dalla cronaca. Ma letti a distanza di tempo i testi montati in questo libro acquistano un'altra intonazione, una tonalità che stupisce per coerenza e consequenzialità nel tempo. Vuol dire probabilmente che dalla cronaca nasce una filosofia. Basta leggere le prime pagine, inedite, dedicate a una mattinata qualunque, allorché l a radiosveglia diffonde nella camera da letto la voce di Roberto Calderoli, per capire che l'ottimismo che Serra giudica necessario per affrontare una giornata altrettanto qualunque è per la verità lo specchio del suo pessimismo: in ogni caso, di quel sentimento psicologico necessario per affrontare la realtà «quando la prima impressione del mondo è che i mostri ne abbiano preso possesso, sotto forma di ganze con la bocca rifatta che invadono il video, o dei bruti di fondovalle che incredibilmente fanno il ministro». Dopo questa ouverture, il libro è strutturato come una giornata tipo, con il lavoro, il mezzogiorno, il dopopranzo, la cena. Si diverte, Serra, a fare il reazionario, l'anticonsumista, l'antiamericano (prendendosela magari lateralmente con lo spugnoso pancake, da inzuppare con lo sciroppo d'acero, «un'orribile puccia melensa e stucchevole», «che era la sola cosa americana, assieme al baseball, fin qui giudicata inesportabile»). Solo che nel corso di una giornata qualunque si attraversano quasi tutte le mitologie contemporanee, dal "brunch" alla temperatura «percepita», al raffreddore da fieno dipinto come un fragello dal tg di turno, tra una fauna composta di «centrocampisti e veline», nell'infinito reality show in cui viviamo tutti, magari rabbrividendo. Sicché alla fine sembra del tutto adeguato lo schema sarcastico del «Mangiate merda: cento miliardi di mosche non possono sbagliare». Ma bisogna considerare che l'esercizio esorcistico di Serra, i suoi contravveleni sociopolitici, le sue dichiarazioni di opposizione sono in esplicita controtendenza, il frutto dell'atteggiamento disfattista dei «soliti moralisti di sinistra come me». Michele, ovvero la negazione perfida dell'euforia: «So che è un pensiero economicamente scorretto, ma ogni volta che i consumi calano non riesco a condividere del tutto il lutto generalizzato». È come se lo spettatore Serra vedesse davanti a sé uno spettacolo che capisce perfettamente ma di cui non condivide nulla. E allora, di fronte all'indicibile, alle porcate del calderolismo, fugge nel nonsense più di buonsenso: «Vedo con particolare favore un'invasione cinese della Padania. Sono maneschi come gli americani, ma hanno una cucina migliore». Perché forse una salvezza possibile è nello stupore, nello sbalordimento, forse addirittura nella catalessi percettiva. Serra commenta la crisi dei sondaggi (perché abbiamo attraversato anche la crisi dei sondaggi, dopo la fede nei sondaggi e ultimamente la sfasatura degli exit poll): «Più della metà dei sondati rifiuta di rispondere». E allora l'ammutolimento è forse l'unico modo per continuare a ragionare, e a scrivere.
L'Espresso, 11/05/2006
Piero Angela santo subito
Messa in archivio la tv delle ragazze, nessuno si aspettava la bella sorpresa della tv delle suore. Bene, secondo quanto ha riportato sulla "Stampa" Gianluca Nicoletti esiste un periodico online, "Marketing&Tv", che ha realizzato un'inchiesta su un campione di 350 monache. Il parere delle religiose ha una sua importanza perché si depreca sempre che non si parli mai del paese reale, cioè di quella parte sconosciuta della società dove ci sono le persone vere, gente autentica. Certo, vediamo i numeri dell'Auditel, ma sono cifre e percentuali. A prima vista sembrerebbe che le suorine, «attive in 80 oratori, «costantemente a contatto con giovani e famiglie» (di bene in meglio, sempre più paese reale), fossero un campione fin troppo prevedibile. Riferisce infatti Nicoletti che il 38 per cento delle sorelle individua in Piero Angela l'esemplare televisivo più amato. Fin qui, niente di speciale. Tutti noi siamo afflitti da indagini demoscopiche secondo cui il pubblico vuole l'approfondimento e le inchieste, la serietà e possibilmente la noia. Possibile che anche nei conventi prevalga questa lieve ipocrisia? Che le suore pratichino la dissimulazione, per quanto onesta? Ma no. Alle suore piace la tv. E anche loro sanno benissimo che l'intrattenimento è l'intrattenimento. Che non si vive soltanto di documentari. Alla fine non ci si può accontentare soltanto di fiction sui papi e su Padre Pio. Difatti, anche le suore hanno un cuore. Che batte certamente per Don Matteo (il quale di recente ha inflazionato la Rai con continue ospitate di Terence Hill provocando violente ondate di ateismo di ritorno, nonché accessi di anticlericalismo vecchio stampo); ma «una suora su due vorrebbe il ritorno di Paolo Limiti in video; per le sorelle è un uomo rassicurante e ottimo storico della cultura popolare». Vedete che cosa succede a fare le inchieste. Si scopre che le sorelle invitano Michele Cucuzza a tornare opportunamente al tg, che preferiscono la "Domenica sportiva" di Paola Ferrari alle maschere di "Controcampo" e che qualcuna apprezza anche l'Annunziata, nel senso di Lucia, non della Santa Vergine. Ma il colpo gobbo è proprio Limiti. Quello che secondo Aldo Grasso faceva «un karaoke dall'oltretomba», la tv delle mummie, l'archeologia canora. E ridateglielo, Limiti, allora. Lo dice il paese reale. Lo vogliono le suore. Questa è una crociata, lo dice anche l'eremita: Dio lo vuole.
L'Espresso, 04/05/2006
Cavalier Camaleonte
Silvio Ultimo, o Penultimo, ovvero l'eterno rifiuto della normalità. Il Caimano non può essere normale. Deve puntare sempre sull'eccezionalità. «Sovrano», dice Carl Schmitt, teorico della politica come mobilitazione totale, «è chi decide sullo stato di eccezione». Già, ma l'eccezionalità va creata, sollecitata, aizzata. E Berlusconi è riuscito a crearla. Il suo recupero in campagna elettorale, quando da almeno due anni tutti lo davano per sconfitto e si preparavano al dopo, è stato realizzato proprio puntando sulla divisione del paese in due parti avverse, addirittura antropologicamente irriducibili. Due Italie incompatibili, ostili, sovraccariche di inimicizia. Come sia riuscito in questa impresa ha quasi dell'incredibile. Ha giocato tutta la prima parte della campagna elettorale sui suoi temi più classici, a cominciare ovviamente dall'anticomunismo. Nell'ultima parte della campagna, via via che il voto diventava incombente, ha sollevato il tema delle tasse, cioè dell'esproprio delle "sinistre" ai danni della borghesia berlusconiana, i presunti moderati. Lotta da ultima spiaggia contro i rossi, ed esorcismo ideologico sulla "robba", la proprietà, la successione: è riuscito a fare un Quarantotto sul Settequaranta. Ma non basta: secondo il suo ex sondaggista Luigi Crespi, colui che inventò il Contratto con gli italiani, il Cavalier Caimano ha evocato paure profonde, «miseria terrore morte», e ha scosso la società italiana sulla tassa di successione, «che implica un evento luttuoso». Era l'ultima possibilità che gli rimaneva: ha quasi settant'anni, poco da guadagnare e molto da perdere. Come tutte le personalità fuori dall'ordinario, i grandi mercenari, i condottieri disperati, i giocatori che incarnano insieme il re e il giullare, il "king" e il "fool", Berlusconi non ha né inibizioni né tabù. Ha deciso consapevolmente di reinnescare una specie di guerra civile a bassa intensità, convinto che solo il grande caos e pulsioni più profonde potevano ravvivare la sua leadership, in quanto condottiero di un fronte impegnato in uno scontro di civiltà. Gli è andata male. Malino o malissimo dipenderà dai prossimi giorni, settimane, mesi. Bene o benissimo dall'impazzimento della politica. A posteriori, dopo il voto al fotofinish, può apparire incredibile la successione degli eventi, quella rincorsa pazzesca, senza respiro, che lo ha condotto a meno di 25 mila voti di distacco dall'Unione. Gli è mancato un niente, un sospiro, un sogno, un naso di Cleopatra. Quasi incredibile che la storia possa decidersi nella casualità ineffabile dei piccoli numeri; che il perfezionista per autodefinizione Silvio Berlusconi si sia dovuto arrestare di fronte a quel diaframma fragilissimo. È per questa sensazione di frustrazione impotente, o di onnipotenza frustrata, che il giorno dopo i risultati detta il suo comando: «Il voto deve cambiare». Il sovrano getta il peso dello scettro sulla bilancia della democrazia liberale? Oppure sta semplicemente giocando ai bussolotti con il sistema politico? Calma e sangue freddo. Il Caimano è un rettile, sangue arterioso e venoso un po' mischiati, temperatura del corpo fredda o calda a seconda del clima esterno. Qualche volta il maestro Giovanni Sartori lo ha chiamato sarcasticamente «il Cavalier Traballa», ma per una volta aveva frainteso le acrobazie berlusconiane. I traballamenti non dipendono infatti da scarso equilibrio, ma dall'adeguamento alle condizioni ambientali. Ci vuole aggressività, furore, addirittura ferocia? Re Silvio digrigna, schiuma, si inarca e inveisce. Occorre invece pacatezza e persuasività? Le labbra si spianano nel sorriso, la dentatura si ingentilisce, e il "fool" si trasforma in un mostro di simpatia e di buone maniere. In fondo, è sempre rimasto un imprenditore. Sa quando deve attaccare; e sa benissimo, allorché viene respinto, come arretrare. In questo momento tuttavia, è drammaticamente combattuto. Le persone a lui più vicine, da Fedele Confalonieri a Gianni Letta, lasciano capire che il Cavaliere è nelle sue fasi altalenanti. Traballa, direbbe il solito Sartori? No, non traballa: ma oscilla, il suo umore barcolla. Un giorno, a Portorotondo, si lascia andare, il pessimismo lo invade, pensa al «governo delle sinistre» e confida: «Questi dureranno cinque anni». Poche ore dopo Fausto Bertinotti produce alcuni degli effetti pirotecnici, «Mediaset deve dimagrire», e allora Berlusconi richiama all'ordine il suo esercito, lo schiera di nuovo in formazione di battaglia contro quello che i giornali di destra chiamano «l'esproprio proletario». Politica, affari, proprietà, il solito groviglio inestricabile. Ma intanto Re Silvio torna a fare politica. Prende tempo. Rallenta i meccanismi istituzionali. Intima che non sia Carlo Azeglio Ciampi a conferire l'incarico di governo. E intanto intravede la possibilità di sparigliare la situazione creatasi in Parlamento. Il progetto Andreotti. Difficile stabilire con esattezza dove sia nata l'idea della candidatura alla presidenza del Senato del divo Giulio. Di sicuro chi l'ha enunciata con maggiore precisione è stato Rocco Buttiglione, al consiglio nazionale dell'Udc: «Se eleggiamo il senatore a vita Andreotti, che può prendere voti anche fra i senatori dell'Unione, si dimostrerà che Romano Prodi non ha una maggioranza, e il presidente della Repubblica non potrà dargli l'incarico di formare il governo». È la via più breve all'implosione della legislatura. La sterilizzazione del premio di maggioranza con un riequilibrio anomalo al Senato. Il grande incubo di sistema. In ogni caso l'apertura di una fase politica illeggibile: da un lato ci sarebbe una estenuante trattativa su modelli di larghe intese, inciuci, "schema Monti", la Bocconi al governo; e dall'altro la pressione di organismi internazionale come il Fondo monetario per avere un governo di rassicurazione dei mercati. Qualcun altro si incaricherebbe di ventilare la possibilità di votare nuovamente soltanto per il Senato: «Un'ipotesi accademica», secondo un costituzionalista come Augusto Barbera, mentre Sartori si è già schierato contro il «rivotismo», sintomo di una malattia infantile del maggioritarismo imperfetto. Eppure le larghe intese sono state il primo espediente messo in campo da Berlusconi dopo l'esito del 9-10 aprile; anche con sceneggiate formidabili, come quella di accusare Prodi di insensibilità democratica e di irresponsabilità civile perché non aderiva all'invito della Grande coalizione. In realtà la Grosse Koalition è un'ipotesi particolarmente complicata, perché spaccherebbe le due alleanze elettorali. Piace naturalmente a Pier Ferdinando Casini, perché riporterebbe in auge quel processo di scomposizione e scongelamento dei poli che i postdemocristiani hanno sempre auspicato. Probabilmente non dispiace a Gianfranco Fini, nonostante i maldipancia che potrebbe provocare dentro An, in quanto creerebbe le condizioni di fondo per il transito del partito tra le file del Partito popolare europeo. Ma più di tutti piace naturalmente al Caimano. Il quale sarebbe messo in difficoltà da un governo di legislatura. Certo, potrebbe esercitare il suo ruolo di capo del maggiore partito della Cdl, mettersi di traverso sulle decisioni governative più fastidiose, trattare cocciutamente su tutto, fare ostruzionismo, bombardare il paese con campagne ossessive. Ma è una prospettiva guerrigliera. Implica che il Cavaliere si rintani nella foresta e organizzi la resistenza "anticomunista" convincendo di nuovo l'opinione pubblica che i suoi affari privati e pubblici coincidono con quelli del paese (è stato il suo capolavoro più fantastico, finora, persuadere i poveri a sostenere i ricchi). Ma se la situazione politica dovesse evolvere verso un governo istituzionale, o di garanzia, o qualsiasi formula di solidarietà nazionale, Berlusconi potrebbe trovare un'altra incarnazione, un altro ruolo da interpretare in modo sublime. Padre nobile della Grande coalizione, uomo disinteressato capace di gesti spassionati come il passo indietro, animatore della riscossa nazionale nel nome delle riforme indifferibili. Eccetera. Con un ennesimo colpo magistrale, il Caimano si trasformerebbe in un altro animale. Deporrebbe la ferocia, abbandonerebbe i suoi istinti più selvaggi, ed eccolo pronto a ripresentarsi sulla scena. Suadente, affabile, pragmaticamente irresistibile. Dietro l'ombra di Andreotti, delle larghe intese, della caduta preventiva del governo delle odiate sinistre, sembra già prendere forma e colore la silhouette del grande Camaleonte. n
L'Espresso, 04/05/2006
La telenovela va in onda con il tg
Facciamo i conti della serva. Una delle meglio bubbole inventate dai gran mondani è che la televisione non incide sull'opinione pubblica. Fior di mondani sostengono questa eccellente tesi, con gesti di schifata superiorità su quelli invece che sostengono la contraria. Si ricorda qui che una dozzina di anni fa lo stimato professor Luca Ricolfi, ora idolatrato a destra, sostenne che la tv aveva spostato, a favore del Cavaliere delle libertà, circa quattro milioni di voti. Gli sfiziosi di allora dissero che l'analisi era grezza e che i processi comunicativi sono molto, molto più complessi. Come no. Siamo tutti scafati e non crediamo a quello che raccontano gli ideologi dell'antiberlusconismo. Ma d'altronde non crediamo neppure a ciò che raccontano Clemente Mimun e Carlo Rossella: e andiamo, boys, abbiamo smesso di credere in Dio e in Marx e dovremmo credere nel Tg1 o nel Tg5? Per capire qualcosa dell'Italia forse è più utile registrare ciò che scrivono ai giornali i lettori dall'estero, gente semplice che fa ragionamenti semplici, poco mondani. Che suonano così: noi abbiamo la fortuna di non vedere i tg italiani; vediamo i tg francesi, tedeschi o brasiliani, che sono poco influenzati dal potere berlusconiano. E allora ci siamo convinti che Clemente e Carlo sono dei simpatici narratori di una realtà romanzesca. Fuori dal romanzo noi, noi elettori "esteri", ci siamo fatti un'idea più realistica delle cose, e votiamo contro Berlusconi. A questo punto, è chiaro che agli occhi degli italiani all'estero il fenomenale Caimano, altro che statista, è quel tale del kapò, uno che si rivolge ai deputati chiamandoli «turisti della democrazia», e che al momento buono fa le corna in foto. Ma a onore e gloria di Carlo e Clemente, e soprattutto di tutti quei fini intellettuali che hanno sostenuto che la tv non conta nella formazione del consenso, bisognerà pure farsi la domanda finale. Vale a dire: se è vero che la tv non conta niente, per quale motivo i berluscones hanno fatto di tutto per metterci le mani sopra? Se la tv era inessenziale, uomini eleganti e stilisticamente impeccabili come certi amici della Cdl avrebbero dovuto dire: siamo superiori a queste bassezze, la televisione prendetela voi. E invece no, se la sono presa e l'hanno militarizzata. Delle due l'una: o non credevano a ciò che dicevano i mondani, oppure vale lo schema di Totò: «La serva serve». Ovvero, la tv conta.
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