L’Espresso
L'Espresso, 27/04/2006
Si può ricominciare dal Colle
Il primo obiettivo di questa fase politica consisterebbe nel rientrare nella normalità. Dopo una campagna elettorale stressatissima, dopo un esito al fotofinish, dopo i colpi di coda del Caimano, adesso si tratterebbe di ricucire. Perché è vero che come ripetono tutti l'Italia è spaccata in due; ma intanto la soluzione non consiste di necessità nella Grande Coalizione. Non è il caso nemmeno di ergere verità dogmatiche sul diritto/dovere di governare e velleitarismi sulla logica stringente dell'alternanza. Va riconosciuto semplicemente che lo scontro politico è stato fortissimo, e se una coalizione ha vinto, e se la sente di formare un governo, lo schema è appropriato. Anzi, come spiega un anonimo che ha spedito via sms un talentuoso rap "civile", dopo l'avance di Silvio Berlusconi sulla Grosse Koalition: «Trent'anni e più sono passati / ma gli argomenti non son poi molto cambiati / «con la metà più uno il paese non si governa, / è troppo il rischio per una democrazia moderna». / Le parole di Berlinguer fanno un effetto strano / nell'affilata bocca del Caimano». In sostanza, prima di arrivare a una sorta di nuovo compromesso storico, occorrerà esperire tutte le possibilità offerte dal funzionamento dello schema bipolare. Anche perché non sfugge a nessuno che ciò che per Marco Follini significa mediazione per riprendere in seguito, e in migliori condizioni, la formula dell'alternanza, per molti altri rappresenterebbe una voluttuosa chance di ritorno al pentapartito, o giù di lì. Resta sul tappeto, in ogni caso, il problema di una riconciliazione delle due Italie che si sono scontrate il 9-10 aprile. Perché non è affatto vero che lo scontro politico non ha coinvolto più di tanto la società civile. La guerra civile a bassa intensità innescata da Berlusconi ha lasciato una scia di rancore. Ci vuole un'illusione tipicamente buonista per ignorare il fatto che mezza Italia guarda l'altra metà con sospetto, gli uni che considerano gli altri dei "coglioni", e quelli dell'Unione che giudicano delinquenti gli elettori della Cdl. E allora come si fa a trovare una modalità per riavvicinare queste Italie contrapposte e ostili l'una all'altra? Al momento non ci sono tante possibilità se non quella di trattare con intelligenza e duttilità le decisioni istituzionali che dovranno essere prese nei primi atti della legislatura. È opportuno riportare e chiudere il conflitto entro la prassi istituzionale, all'interno di un efficace funzionamento delle istituzioni. Ci sono tre passaggi chiave, nelle prossime settimane: l'elezione dei presidenti delle Camere, l'elezione del presidente della Repubblica, il referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Sui presidenti di Camera e Senato non c'è troppo da dire. Non ci sarebbe niente di scandaloso se si trovasse modo di concordare con la Cdl, in un ramo del parlamento, l'elezione di una figura considerata di garanzia, senza sollevare squilli di tromba partigiani, che a sinistra si sono già sentiti (nel senso di: eleggiamo chi ci pare, perché abbiamo vinto noi). Quanto al Quirinale, il gioco si fa ancora più complicato. Eppure il Colle è la casella forse decisiva sulla scacchiera istituzionale, quella che darà la misura dell'intensità residuale di conflitto. Sotto questa luce, l'offerta di una trattativa aperta e civile alla Cdl, una consultazione decente fra gentiluomini (se non si vuole parlare con il Caimano si può sempre parlare con Gianni Letta) può portare a una soluzione che non appaia un atto di forza, e che dia rappresentanza a tutti quei cittadini che hanno apprezzato lo sforzo di solidarismo nazionale che ha modellato il settennato di Carlo Azeglio Ciampi. Infine, il referendum. D'accordo, la riforma della Cdl è un obbrobrio e va buttata via. Ma va persa di vista una prospettiva riformatrice sul piano costituzionale? Ecco allora che contatti e consultazioni con il centrodestra saranno utili per aprire un discorso per il futuro. Non per progettare insieme stupidaggini presidenzialiste sudamericane, ma per razionalizzare un sistema parlamentare in chiave moderna, e renderlo capace di prendere decisioni. Alla fine, se lo si riporta dentro il meccanismo istituzionale, il diavolo, cioè il conflitto fra le due Italie, potrebbe anche essere meno cattivo di quanto non appaia.
L'Espresso, 27/04/2006
Pugni e carezze
Tutti voi sapete che "Per un pugno di libri" (pomeriggio della domenica su Raitre) è al nono anno di programmazione. Nel sito web viene definito un "book game", e questo è male, ma è condotto da una coppia notevole. Lo diciamo a tutti voi che non lo guardate mai perché volete vedere la Venier: Neri Marcorè esibisce una souplesse invidiabile, ed è, diciamo così, il poliziotto buono della cultura; Piero Dorfles è inflessibile, ed è il poliziotto cattivo, il professor Carogna. Insieme, naturalmente, funzionano benissimo, visto che il book game in realtà è qualcosa a metà fra un'interrogazione e un'interrogatorio (il programma è scritto da Andrea Salerno con Marta Mandò, Gabriella Oberti, Alessandro Rossi; regia Igor Skofic). Di per sé, "Per un pugno di libri" sarebbe da catalogare come uno di quei programmi esecrabili, che vogliono istruire divertendo, o divertire istruendo; che ben presto fanno venire il sospetto di andare in onda per un'ubbia programmatica e di sinistra. Scolaresche che si confrontano, piccoli premi, una formula da boy scout: ma basta restare appiccicati cinque minuti al programma per avvertirne il fascino lieve. Quasi il sentore di un'Italia reale, fatta di scuole abbastanza per bene, anche se le aule sono cadenti e la Moratti si è fatta fottere i fondi per le scuole o li ha dati alle private (evviva). E studenti, non solo ragazze, che avranno evidentemente insegnanti decenti, anche se maltrattati dallo Stato. Insomma, l'avete capito. Dategli una mano. Al programma, ai conduttori, agli autori e al regista. Dev'essere dai tempi di "Babele" di Corrado Augias che in tv non c'è un programma come si deve sui libri. Non che se ne senta la mancanza, ma qualche volta viene da dire: chissà perché non siamo capaci di spettacolarizzare un po' la cultura. Perché non si organizza una trasmissione con dentro un bel match Buttafuoco contro Baricco, i commenti alla classifica, un po' di Bar sport sulle polemiche (se ne fanno sempre meno, ma si può sempre attizzarne qualcuna). D'accordo che c'è il rischio che in pochi mesi l'eventuale programma culturale diventi un teatrino di freak, tutti convinti di essere il più grande scrittore italiano contemporaneo, ma insomma, perché no? Intanto, auguri a tutti quelli del "Pugno di libri", che trattano Conrad e Faulkner come nostri contemporanei, che non fanno tanti record, ma almeno vanno un po' meglio della Rosa nel pugno.
L'Espresso, 20/04/2006
Operazione Unione
Nel corso della notte delle streghe, mentre dal Viminale affluivano lentamente i voti della Camera, Arturo Parisi rifletteva: «Che cosa significa vincere? Vincere vuol dire prendere un voto più degli altri». Era già scivolata via da un pezzo la souplesse con cui si attendeva un risultato dato per già acquisito, la larga vittoria dell'Unione attestata dai sondaggi, la sconfitta "fisiologica" della Casa delle libertà. Un gioco di miraggi che si era trasformato all'improvviso in un'incubo. Già il Senato se n'era andato, erano state perse regioni come il Piemonte e il Lazio, date per sicure al centro-sinistra. Ondate di panico politico si stavano diffondendo a Piazza Santi Apostoli, nel quartier generale di Romano Prodi. «Vincere vuol dire un voto in più». Ma in realtà ci si attaccava a una speranza esilissima, e cioè che il risultato della Camera si differenziasse da quello del Senato, come sosteneva uno degli analisti più quotati nell'entourage prodiano, il docente di scienza politica Roberto D'Alimonte. «D'Alimonte sostiene che alla Camera si può ancora vincere», anche se il margine si sta assottigliando in modo da far sbigottire, da far torcere le viscere per l'inquietudine. E perché mai ci dovrebbe essere un risultato diverso alla Camera? In parte per alcune superstizioni da Prima Repubblica, congetture sociologiche, con l'idea che il voto dei giovani contiene peculiarità: ci sono sette classi di età che, secondo alcune opinioni, potrebbero preferire il centro-sinistra. Fino al punto di rovesciare il pessimo risultato del Senato? Forse no, con un primo conto a spanne. Ma oltre alle congetture c'è anche un elemento più pesante, «l'offerta politica» diversa rispetto al Senato, con la presenza del simbolo dell'Ulivo, che rastrella più voti rispetto alla somma di Ds e Margherita. Tensione che mozza il respiro, Giulio Santagata che ansimando controllava i dati delle ultime 500 sezioni, i suoi collaboratori intenti soprattutto a frenare l'angoscia di un margine che si assottigliava via via che aumentavano le sezioni scrutinate. Non tiene. Non tiene, forse non tiene, tiene, oddio, speriamo che tenga. Tiene. Non si riesce neppure a gioire. Si conclude così una consultazione elettorale pazzesca, con il cuore che balla a forza di extrasistoli, le coronarie a rischio. Voglia di piangere, freddo nella schiena. La scena di Prodi, Fassino e Rutelli sul palco, Rutelli con un impermeabile vagamente incongruo. Lo scampato pericolo della rimonta che si trasforma in parole che dicono di una vittoria che ancora non c'è, o non c'è del tutto. Ci sarà da aspettare il voto degli italiani all'estero, il frutto dell'impegno del ministro postfascista Tremaglia, per avere una maggioranza anche al Senato. Sono i paradossi di una legge elettorale «sfascista» secondo Marco Pannella, approvata per limitare la sconfitta, per confondere le acque, per introdurre turbolenza in un risultato che veniva dato per scontato da mesi, da anni, dalle elezioni amministrative e regionali. Un attentato alla stabilità e alla razionalizzazione del sistema politico, qualcosa che ha rischiato di vanificare quindici anni di faticosissima, estenuante transizione. Ma in quella notte spaventosa, in quel finale da raccapriccio, non c'era il tempo di ragionare sulle questioni di sistema. Un voto in più era la vittoria, un voto in meno la sconfitta. Poi, naturalmente, a mente appena più fredda, la mattina seguente, si potevano fare altre considerazioni. Roberto Cartocci, uno degli studiosi meno conformisti della politica italiana, anche nelle sue dimensioni simboliche e psicologiche, le meno esplorate dai «positivisti» delle indagini demoscopiche, quelli che hanno creduto ai loro dati in apparenza così nitidi, fino al giorno prima aveva diffidato esplicitamente della vittoria "sicura" del centro-sinistra. Esattamente come il maestro della scienza politica italiana, Giovanni Sartori, che a ogni sondaggio trionfalistico si stringeva nelle spalle e mormorava: «Speriamo bene». Mentre Ilvo Diamanti segnalava sfasature fra il campione nazionale e le indagini condotte su base regionale. La mattina di martedì 11 aprile, dopo la notte dei sondaggi zombie e dei voti resuscitati, Cartocci ragionava sui dati : «Dai primi calcoli la prova elettorale si può sintetizzare all'incirca così: c'è stato un milione di voti validi in più rispetto alle politiche del 2001, pur scontando una diminuzione di due milioni di aventi diritto, in seguito alla bonifica degli elenchi elettorali». È un risultato a suo modo spettacolare, che va riconosciuto in larga misura a Silvio Berlusconi. Il Caimano ha realizzato un'impresa straordinaria, superando colli pirenaici in grandissimo recupero, anche se sul traguardo ha perso la volata. Ha perso le elezioni, ma ha avuto ragione su tutto. Tutto. Aveva detto che oltre una certa soglia di partecipazione, superando l'80 per cento di votanti e spingendo il voto fin verso l'84 per cento, avrebbe potuto vincere, ed era nel giusto. Ne sapeva evidentemente più lui di tutti i sondaggisti; oppure i suoi analisti erano migliori. Ma un'intuizione di questo genere va sostenuta da una campagna formidabile, e Berlusconi è riuscito a imprimere una velocità parossistica al confronto. Condotto sempre in testa, imponendo l'agenda, fissando i temi in discussione, attaccando avversari via via più frastornati. Certo, Berlusconi ha potuto contare su un contesto televisivo che lo ha vistosamente favorito. Nonostante i distinguo degli snob, bastano i rilievi dell'Autorità per le comunicazioni e le multe inflitte per registrare uno squilibrio grave a favore del Cavaliere. Padrone del mezzo, come si dice, ma anche padrone dei mezzi. E tuttavia possedere e controllare gli strumenti non significherebbe molto se non ci fosse la presenza, la voglia, la determinazione, il senso del conflitto anche personale che Berlusconi è stato capace di attizzare. Mentre Prodi e tutto il centro-sinistra conducevano una campagna ora fiacca, ora manierista e ora quasi suicida (sulle tasse), o a essere buoni gravemente autolesionista, il Caimano ha dettato il suo populismo forsennato, con l'intenzione di snidare ogni elettore "deluso" dal miracolo non avvenuto, ogni evasore potenziale e reale, lanciando un messaggio a cui la società del nostro paese ha mostrato di essere sensibile: guardate che questi, la sinistra, vogliono farvi cacciare fuori dei soldi. A questo forcing di intensità mai vista, condotta con un dispendio anche fisico eccezionale, Romano Prodi ha risposto alla sua maniera. Appellandosi alla serietà, facendo ricorso alla necessità di unire un paese lacerato da cinque anni di governo del centro-destra. La via emiliana all'ulivismo. Ma anche lasciandosi incastrare sulla questione fiscale, cioè senza rendersi conto che il tema delle tasse era un argomento mobilitante: il Caimano stava stanando tutte le fasce sociali, tutti i gruppi, tutti gli interessi sensibili. Non poteva più promettere prodigi, dato che l'economia italiana è in condizioni degradate, ma è riuscito a fare interagire due paure: la paura dei "comunisti", valorizzando in modo quarantottesco una frattura storica e psicologica che evidentemente si fa ancora sentire nella cultura e nella psicologia degli elettori, e la paura del "furto socialista". Agli occhi di un'Italia che mostra un «egoismo pauroso e impaurito» (come ha scritto Rossana Rossanda), Berlusconi è apparso come il campione della gramsciana «plebe borghese», richiamando alle urne il popolo delle partite Iva, dei piccoli imprenditori mobilitati in chiave anti Confindustria, contro i poteri forti, contro i salotti buoni, contro l'aristocrazia industriale e gli establishment più sofisticati. Ha chiamato al voto «il figlio del professionista contro il figlio dell'operaio», lotta di classe purissima. Di fronte a questa offensiva, l'Unione e Prodi hanno barcollato, talvolta reagendo con durezza, ma di solito contemplando con sbalordimento la violenza dell'attacco berlusconiano, e rispondendo con genericità alle accuse più demagogiche: è passata l'idea che l'Unione volesse tassare addirittura i titoli di Stato (non i capital gain), e gli sbandamenti sulla tassa di successione hanno spaventato molti piccoli proprietari. Ancora: il centro-sinistra è perfettamente adeguato per segnalare i guasti pubblici prodotti dal governo Berlusconi, a partire dal bilancio dello Stato; mentre il Caimano è efficacissimo nel descrivere e promettere soddisfazioni private. Il Professore accusava l'azzeramento dell'avanzo primario, entità inafferrabile; il Cavaliere parlava tutto ispirato della ricchezza individuale, case, auto, telefonini. Per rispondere all'offensiva del premier sarebbe stata necessaria una campagna propositiva, mentre le molte pagine del programma dell'Unione contenevano tutto fuorché gli slogan per indicare obiettivi aggreganti. Mentre Berlusconi parlava, e qualche volta gridava, a un paese reale, Prodi e l'Unione avevano in mente un paese largamente immaginario, dedito alla sobrietà e al rispetto delle regole. La vittoria dell'Unione era interiorizzata come un riscatto perfino etico dopo la distorsione prodotta dalla Cdl in cinque anni di leggi ad personam e trucchi contabili, senza parlare delle riforme unilaterali come la revisione costituzionale e l'approvazione dello sciagurato "Porcellum", legge elettorale su misura (anche se catastroficamente ritortasi contro chi l'aveva progettata e realizzata). Le illusioni del centro-sinistra erano alimentate da una serie di illusioni minori, esemplificate dal risultato deludente della Rosa nel pugno. Che nelle aspettative della bolla mediatica in cui talvolta sembrano vivere dirigenti e tifosi dell'Unione si erano dilatate oltre misura. Il risultato finale è un bagno di realismo, che deve fare i conti con alcuni dati di fatto. Lo sconquasso nel centro-destra non c'è stato. Anche le due mezze punte, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini hanno portato a casa la pelle. Ma ciò che più conta è che la classe politica si trova davanti due Italie, divise da un soffio di voti e da un abisso di ostilità. I segni di una campagna elettorale trasformata in un'ordalia medievale potrebbero restare a lungo nella società, lasciando tracce difficili da eliminare. È superfluo ripetere che la responsabilità di avere trasformato un confronto elettorale in un giudizio di Dio, in uno scontro fra antropologie irriducibili, ricade sul Caimano. Ora si tratta di vedere se un'affermazione elettorale risicatissima, dilatata alla Camera dalla formula tecnica, può essere tradotta in prassi istituzionale. Dovrebbe essere evidente che per tener fede a una qualche razionalità delle regole occorrerà che l'Unione formi il suo governo: anche se Prodi si è indebolito, anche se il centro-sinistra sembra un esercito che era partito per Austerlitz e si è ritrovato a Stalingrado e ha rotto l'assedio con un combattimento all'ultimo uomo. Senza abusare della retorica, dopo avere evitato per un soffio l'implosione del sistema, come sarebbe avvenuto nel caso di due maggioranze diverse fra Camera e Senato, è necessario condurre la politica e il paese intero su un sentiero di linearità politica e istituzionale. Non solo: proprio tenendo conto della inquietante spaccatura della società italiana, occorrerà cercare di portare sul piano delle istituzioni il successo del centro-sinistra, ma con un'attenzione supplementare a quella parte d'Italia e a quella parte politica che sono risultate tecnicamente soccombenti. In passato si era scherzato sulla fortuna di Prodi e sulla sconfinata grandezza del suo posteriore. La fama non è stata smentita: vittoria all'ultimo respiro alla Camera, affermazione rocambolesca al Senato grazie all'invisa legge del ministro Tremaglia. E in ultimo il tempismo della cattura di Bernardo Provenzano, che se fosse avvenuta qualche ora prima avrebbe forse fornito al governo la briscola decisiva: il governo "amico dei mafiosi" secondo chi demonizza la Cdl, che prende il capo della mafia, ma con un giorno di ritardo. Adesso, dopo la fortuna, ci vuole rigore istituzionale, intelligenza politica, e quella serenità a cui il Professore si è sempre appellato. Ne ha bisogno l'Unione, e ne ha bisogno tutto il paese. n
L'Espresso, 20/04/2006
Feticismo Madonna
Alberto Moravia teneva accesa la tv su uno dei canali musicali in cui apparivano i primi videoclip, dove si sbizzarrivano fantasie alla ricerca di uno choc visivo: «Una forma di surrealismo minore», li definiva. Non occorre riandare a Disney per sapere che l'incrocio fra musica e immagini, fra melodie, ritmi e film è sempre stato un modo per esaltare la musica e per farla diventare a due dimensioni. Anzi, nei casi più elaborati si è assistito al tentativo di creare un mondo particolare: basti pensare all'iconografia beatlesiana del Sottomarino giallo e della banda del Sgt. Pepper; oppure alla narrazione targata Pink Floyd di "The Wall", dove l'artificio del disegno animato traduceva la musica in piccole icone, cammei e frammenti mitologici. È la tecnica che ha portato al capolavoro di John Landis, "Thriller" con Michael Jackson, in cui la reinterpretazione dell'universo horror si trasforma in estetizzazione pura (qualcosa di simile a quello che farà più programmaticamente Quentin Tarantino con i due "Kill Bill", ad esempio). Perché attraverso la musica si definiscono soprattutto sistemi di fissazione del trend: Madonna che esplora la corporeità dell'America neolatina esibendo un feticismo cristianista orientato al sexy è forse l'esempio più rilevante. Tanto che mentre oggi i Rolling Stones continuano a esporsi nei video come "band", cioè mimando la tradizione, la signora Ciccone, con "Confessions on a dance floor" recupera sequenze in cui il ballo è una dichiarazione di identità. Come in un "Flashdance" del nuovo millennio, in cui non c'è trama ma solo l'ideologia del quattro quarti.
L'Espresso, 20/04/2006
Se tre minuti vi sembran pochi
Dopo i duelli elettorali in tv abbiamo a disposizione una buona quantità di materiale da analizzare. Meglio l'efficienza fredda di Clemente Mimun o la veste tricamerale di Bruno Vespa? E soprattutto, funzionano i confronti a minutaggio? Prima di rispondere, conviene prendere nota di un aspetto particolare. In un libro recente, "Convergenza multimediale e analisi sociologica" (edizioni Il Segnalibro), la studiosa di processi comunicativi Angela Maria Zocchi, sulla scia di Pierre Bourdieu, mette in rilievo che la televisione tende a privilegiare i cosiddetti "fast thinkers", ovvero gli specialisti del pensiero usa e getta. L'argomento è che dietro l'apparenza di equilibrio democratico che ogni ribalta televisiva esibisce c'è un «lato oscuro» in cui il «pluralismo apparente dei media» rivela un aspetto essenzialmente manipolatorio. Si tratta di vedere intanto se il "pensiero veloce", quello imposto dai 30 secondi della domanda, dai due minuti e mezzo della risposta e dal minuto della eventuale replica rappresenta una modalità praticabile o una distorsione implicita. In teoria il tempo limitato, che riduce a slogan i programmi politici, dovrebbe essere una regola favorevole al "fast thinker" Berlusconi, uomo di televisione, padrone del mezzo e soprattutto padrone dei mezzi. Mentre Romano Prodi doveva trovarsi in difficoltà a riassumere le sue argomentazioni in 150 secondi. Si è visto invece che in certe momenti il tempo contingentato era perfino troppo ampio, e i contendenti dovevano riempirlo con sequenze di parole amorfe, riempitivi o scarti laterali, passaggi strumentali o incongrui ad altro argomento. C'era la disabitudine dei duellanti al rispetto dei tempi, e va bene. Ma nel format del faccia a faccia si è anche riscontrato un aspetto richiamato ancora dalla Zocchi, «un'elevata autoreferenzialità consolidata anche dalle relazioni personali» (sempre le stesse facce, come diceva Bourdieu, che producono «effetti di chiusura e, tanto vale dirlo, di censura»). Un giornalista che conduce, due giornalisti che formulano domande, due contendenti che dibattono di entità enigmatiche come l'avanzo primario: l'effetto di autoreferenzialità è inevitabile. Eppure non si capisce come alcuni abbiano rimpianto le tele-risse con le voci sovrapposte, le urla, i commenti beceri. Non si può volere l'America solo quando fa comodo. E quanto al confronto Mimun-Vespa, meglio Vespa, ai punti.
L'Espresso, 13/04/2006
Fini e Casini dioscuri oscurati
In attesa di conoscere il risultato del voto popolare, ci sono comunque già due perdenti. Vittime di una sconfitta secca, cattiva, forse irrecuperabile. Sono la nuova generazione della Casa delle libertà, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini. Avevano cominciato la campagna elettorale belli pimpanti, ottimamente disposti in campo secondo lo schema spettacolare delle "tre punte"; l'hanno conclusa in difesa, oscurati dal forcing mediatico di Silvio Berlusconi, ridotti al rango di riserve, utilizzati soltanto nei ritagli di tempo e nelle partite minori. Qualunque giudizio si possa nutrire sui due cinquantenni del Polo, il loro oscuramento testimonia in primo luogo il fallimento del centrodestra sotto il profilo politico e culturale. Tanto Casini quanto Fini dovevano rappresentare un'alternativa reale alla leadership del Cavaliere, ma sono bastati due mesi di campagna elettorale esasperata per ridurli al rango di gregari. Berlusconi ha giocato tutte le sue carte per salvare se stesso, per drenare voti dagli alleati cercando di concentrarli su Forza Italia, per mantenere un ruolo politico nella fase post- elettorale, per far sapere che comunque vadano le cose nella prossima stagione politica sarà ancora lì. La conseguenza più importante è che come progetto politico il centrodestra non esiste più: esiste semmai l'armata berlusconiana, un esercito di fedelissimi pronti a rilanciare il Verbo del capo. Ma intanto la Lega ha già fatto sapere che in caso di sconfitta elettorale tornerà alla politica delle mani libere (e occorre aggiungere che la probabile bocciatura della riforma costituzionale della Cdl al referendum confermativo darà un colpo durissimo alla tenuta della coalizione). E non si hanno notizie significative, se non qualche ballon d'essai berlusconiano, sui progetti di costruzione del partito unico dei moderati. Sicché ci sono notevoli possibilità che dopo il 10 aprile la Cdl torni a essere un cantiere. Lo stato di malessere delle due mezze punte, chiamiamole così, è testimoniato dal disagio di Fini, praticamente respinto a priori dall'ingresso nel Partito popolare europeo; e dal nervosismo di Casini, particolarmente incattivitosi nelle ultime due settimane di campagna. Ma su tutto si staglia la certezza che nonostante ogni sforzo di immagine il centrodestra sta insieme solo ed esclusivamente grazie al coagulo di Berlusconi. Le varie culture della Cdl non hanno prodotto nessuna sintesi apprezzabile, se non il compattamento a scopo elettorale. L'unica personalità politica in grado di sfidare Berlusconi è stata quella di Marco Follini, che non ha immagine ma ha cultura e coraggio: tuttavia il suo schema, orientato alla sostituzione del Cavaliere alla guida della Cdl (che poi era quello di Bruno Tabacci e di poche altre menti libere dell'Udc), gli è stato ritorto contro, come se fosse una quinta colonna, un nemico che aveva aperto un fronte interno nel centrodestra. Vada come vada, i dioscuri sono stati oscurati. Nel caso della sconfitta di Berlusconi, Fini e Casini si troveranno nella condizione di essere poco credibili nella lotta per la successione. Già appaiono poco convincenti adesso, mentre fanno la voce grossa contro la sinistra e manifestano con flebili sussurri le loro obiezioni al trionfalismo berlusconiano. Hanno commesso il peccato maggiore che si possa fare in politica: vale a dire che hanno manifestato una gratitudine vagamente riluttante a chi li aveva riscattati politicamente dal loro passato missino e democristiano (quando dire dc era un insulto). Ma si è visto che oggi non vanno di moda le misure mignon. Berlusconi ha imposto un duello elettorale in cui mezze figure e mezze punte scompaiono nell'anonimato. Fini e Casini hanno accettato il loro ruolo di comprimari, forse puntando sul paradigma di Gianni Agnelli, secondo cui se Berlusconi vince, vincono anche loro; se viene sconfitto, perde solo lui. È possibile che siano già proiettati sul dopo. Ma con quale carico di credibilità può proporsi come leader chi ha accettato per convenienza di essere gregario? Il futuro di un centrodestra rinnovato passa essenzialmente per questa domanda.
L'Espresso, 13/04/2006
Tra il Caimano e una nuova Dc
Fino al "numero" dell'Ici, tutti i sondaggi serpeggianti fra i corridoi di partito, commissionati dalle grandi banche, lasciati circolare dalle multinazionali, risultavano omogenei. Per la Casa delle libertà non si poteva parlare di rimonta: anche gli autogol dell'Unione sul fisco erano stati accolti dall'opinione pubblica come una semplice perturbazione, un rumore di fondo che introduceva turbolenza senza modificare sensibilmente le preferenze degli elettori. Ma i giorni successivi all'ultimo confronto televisivo diventavano caldissimi, incendiati dalla volontà del Caimano di giocarsi tutto, proprio tutto. Perfino di offendere deliberatamente, in un intervento alla Confcommercio, gli elettori del centrosinistra, i "coglioni" che non sanno che cosa li aspetta sotto il regime del comunista, altrimenti detto "utile idiota", Romano Prodi. Berlusconi è un talento grandissimo sia quando azzecca il trucco del baro, cioè l'asso che viene fuori dalla manica all'ultimo giro del poker, sia quando pratica la sua tecnica prediletta, il "chiagni e fotti" in tutte le sue varianti. Anche dopo l'accusa di coglioneria ai moderati che votano per l'Unione, accolta con un sentito applauso dai commercianti, ha detto che le sue parole erano state pronunciate con «ironia» e praticamente in tono «affettuoso». Il fatto è invece che il Cavaliere ha ottenuto ciò che voleva: trasformare le elezioni di domenica in un'ordalia, un giudizio di Dio, l'Armageddon tra le forze del Bene e le forze del Male. Un risultato disastroso per una democrazia avanzata, fondata sull'alternanza, cioè sul sacrosanto principio che i governi vengono giudicati alle urne per ciò che hanno realizzato durante la legislatura. Eccoci invece, nonostante i rimbrotti di Carlo Azeglio Ciampi, in piena guerra di civiltà, con ondate di euforia o di panico che si stendono sui due eserciti in lotta. Una battaglia premoderna, in cui la spregiudicatezza berlusconiana sembra riuscita a mettere nell'incertezza un risultato che fino a qualche giorno fa sembrava assodato. Per un esercizio di realismo politico, conviene mettere sul tappeto i tre scenari possibili. La vittoria del centrosinistra, il successo di Berlusconi, e il risultato più controverso, il pareggio. Vittoria dell'Unione Era il risultato più probabile, la conclusione logica di una sequenza di tornate elettorali in cui la Cdl aveva accumulato una sconfitta dopo l'altra. Quando qualcuno gli fa notare che un conto è prendere più voti dell'avversario e un altro governare, Prodi non sembra preoccuparsi: Francesco Rutelli e Walter Veltroni si stanno impegnando sul futuro partito democratico, Fausto Bertinotti, pur citando di continuo l'età postfordista e la precarizzazione della vita, ossia i temi classici dell'ideologia della nuova sinistra, si è dato il profilo dell'uomo di governo e delle istituzioni. Il Professore deve mostrare rapidamente la capacità di formare un governo efficiente, dal profilo europeo: la qualità dei ministri è la prova migliore che il centrosinistra è in grado di schierare uomini capaci di rassicurare i mercati e di tentare il rilancio dell'economia nazionale, facendolo uscire dalla sindrome della crescita zero. Per i dicasteri principali, si prospettano candidature di livello, da Tommaso Padoa-Schioppa a Mario Monti, da Enrico Letta e Pier Luigi Bersani a Massimo D'Alema e Giuliano Amato (se il dottor Sottile deve rinunciare al Colle). Primo provvedimento del nuovo governo Prodi: una "due diligence" sulla condizione dei conti pubblici: le personalità economiche dell'Unione, a cominciare da Vincenzo Visco e Laura Pennacchi, sono convinte che il centrodestra lasci conti spaventosi, molto peggiori di quelli ufficializzati. Mentre si profila una finanziaria di guerra, si tratta di vedere quali sono i contraccolpi nella Cdl. Silvio Berlusconi spera di risultare il capo del primo partito al Senato, in modo da risultare ancora centrale in ogni negoziato, e in grado all'occorrenza di alzare barricate. Gianfranco Fini è il più sconfitto di tutti, perché perde senza avere una strategia di riserva: non può reggere cinque anni di opposizione senza sviluppi. Roberto Maroni ha già annunciato che in caso di sconfitta la Lega se ne va per i fatti suoi. Nell'Udc, Pier Ferdinando Casini, Marco Follini e Bruno Tabacci mandano segnali al centrosinistra, «perché se Prodi radicalizza noi facciamo un'opposizione durissima; ma se Prodi sente la necessità di allargare la maggioranza, noi siamo un partito di governo, non un partito della protesta». Quanto al Quirinale, la prima scelta è Carlo Azeglio Ciampi, dato che Prodi si ritrova perfettamente nella visione ciampiana di un'Italia pacificata. Se il presidente non ci sta, Giuliano Amato è ancora in prima fila. Vittoria di Berlusconi Non è la Cdl a vincere: è un successo tutto del Caimano. È riuscito nell'impresa impossibile, nella rimonta incredibile. Vince perché è senza inibizioni, non conosce tabù. Lacera le convenzioni politiche e civili e poi accusa gli avversari di non avere capito il suo humour. Convince la maggioranza degli italiani che i comunisti sono un incubo, descrive un paese immaginario, esalta riforme fallimentari (anche le "porcate" come la legge elettorale di Calderoli), dipinge una ricchezza inesistente e la descrive come un Eden a rischio di esproprio sovietico. Se nel 2001 aveva illustrato un sogno, ora ha evocato il Terrore. Su tutto ciò, ha piazzato la briscola dell'Ici, un contropiede all'ultimo minuto. I suoi alleati non sono meno sorpresi degli avversari. Fini e Casini, ridotti definitivamente al rango di gregari, accettano un ruolo accessorio nel futuro "Partito del popolo". Mentre il centrosinistra si scioglie come neve al sole, Prodi cerca un incarico internazionale e il partito democratico entra in stallo, Berlusconi prepara un'altra finanziaria illusionista. Nel frattempo manda Gianni Letta al Quirinale, piangendo lacrime di coccodrillo su Ciampi sacrificato alle ragioni di partito. Si sente immortale, invincibile, capace di ipnotizzare per sempre un paese intero. Gli rimane un solo ostacolo, il referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Se la Cdl lo perde, come è probabile, il centrodestra è finito. La Lega se ne va, progettando altre marce sul Po. Comincia un'estate davvero da incubi, con un paese spaccato in due come forse non si era mai visto, dopo il Quarantotto. Pareggio Il pareggio equivale a qualsiasi risultato politicamente illeggibile. Esemplificato da una maggioranza diversa fra Camera e Senato. È il trionfo della nuova legge elettorale, il "Porcellum". L'Italia della crescita zero si ritrova nella politica zero. Di rivotare non se ne parla. Ed è anche la gioia di tutti gli inciucisti, i sostenitori della teoria di Mario Monti che le riforme necessarie per il paese sono troppo pesanti per essere realizzate da una sola parte politica, e ci vuole dunque uno sforzo corale e bipartisan. Solo che ci sono due modi per farlo: un governo di salute pubblica sostenuto dai poteri forti, una specie di consiglio d'amministrazione della borghesia, con la benedizione di Luca Cordero di Montezemolo e di Diego Della Valle; oppure una chiamata a raccolta di tutta l'Italia postdemocristiana. Si tratta di uno scenario meraviglioso per i politici più manovrieri, per la razza doc Prima Repubblica. Da Clemente Mastella a Ciriaco De Mita, da Casini e Buttiglione ai socialisti razza pentapartito. Prodi è fuori tempo e fuori gioco, Berlusconi anche, a meno che non si ricicli, perfetto Zelig, come padre nobile dell'Inciucio. Fini deve darsi da fare come un disperato per non essere emarginato. Fassino e D'Alema pure. Umberto Bossi gode, pensando alle potenzialità disgregatrici che si spalancano per la Lega. Cominciano i preparativi per realizzare la Terza Repubblica (o siamo già alla Quarta?). Dopo avere annunciato il suo possibile voto a Pippo Franco, Giulio Andreotti contempla soddisfatto un'Italia che diviene di nuovo eterna, premoderna, corporativa. Quindici anni di transizione politica vengono buttati nella spazzatura della storia. Quasi quasi, fa meno impressione la vittoria del Caimano (si sottolinea quasi).
L'Espresso, 13/04/2006
Bologna la bella
Premessa: noi non siamo neutrali, facciamo il tifo per Bologna. Condividiamo integralmente (di più, fanaticamente) il giudizio di Pier Paolo Pasolini: «Cos'ha Bologna, che è così bella? L'inverno col sole e la neve, l'aria barbaricamente azzurra sul cotto. Dopo Venezia, Bologna è la città più bella d'Italia, questo spero sia noto». Che sia noto, boh. Ma queste parole tornavano in mente vedendo il film di Francesco Conversano e Nene Grignaffini, "Dove la bellezza non si annoia mai", in cui Bologna veniva incontrata e descritta dagli occhi e dalle suggestioni di Tahar Ben Jelloun (su Raitre, il 31 marzo alle otto di mattina; la settimana successiva tocca a Björn Larsson raccontare paesaggi emiliani attraverso le vie d'acqua). Nel primo di questi "Diari di viaggio" realizzati per Rai Educational, Ben Jelloun non si limita a conoscere alcuni bolognesi eccellenti, autoctoni e d'elezione, come Francesco Guccini, Eugenio Riccomini, Umberto Eco, Stefano Benni. Ciò che colpisce, fin dalle prime immagini, è proprio l'incanto della città, raffigurata nel suo colore inconfondibile, guardata dall'alto per poter assistere allo spettacolo dei tetti e delle torri. Vabbè, noi siamo parziali. Eppure anche a un occhio imparziale non può sfuggire il senso profondo di Bologna, bene individuato da questo film: cioè quella «regola civile» iscritta nella comunità, anche nelle sue forme esteriori, di cui parla Sergio Zavoli in un filmato d'epoca "citato" nel montaggio del documentario. Come spiegava bene uno degli intellettuali più conosciuti di Bologna, il critico d'arte Riccomini, la stessa piazza Maggiore è un progetto civile, la «costruzione di un vuoto» per poter rendere possibile l'incontro dei cittadini, una specie di pratica vivente della convivenza "democratica". Ciò che sorprende è che lo scrittore Ben Jelloun non si limita a parlare e a vedere: fissa lo spettacolo di Bologna con rapidi schizzi sul suo taccuino, se ne appropria, ridisegna la città per poterla rivivere. Sono questi scorci che rivelano la sostanza profonda della città, i portici descritti da Eco, il memoriale della Resistenza di cui parla Benni. Forse il segreto di Bologna è proprio la coincidenza di misura civile e di misura urbana. Una misura che non esclude il conflitto, ma offre luoghi e modi per comporlo. E che questo film riesce a rivelare con uno stile fatto soprattutto di pudore e onestà, senza nessuna retorica.
L'Espresso, 06/04/2006
Apocalisse senza riscatto
Il finale apocalittico del film di Nanni Moretti, con gli incendi tribali appiccati dopo la condanna in tribunale del "Caimano", rappresenta la sintesi estrema di una visione altamente pessimistica dell'Italia contemporanea. Pessimistica eppure realistica. Oscuramente credibile. Un vaticinio non si sa quanto corretto dal desiderio che sia un antidoto. Secondo il regista romano, Berlusconi ha già vinto. Ha vinto vent'anni fa, quando è riuscito a imporre come un esercizio di libertà il trionfo delle sue tv commerciali. Libertà, ovvero tette e culi. Ovvero ipnosi popolare, penetrazione nella psicologia di massa, reality show dove la lotta di classe degradava al livello di invidia sociale. Eccolo lì allora, il berlusconismo: le sterminate platee televisive del gruppo Fininvest vengono modellate con il passare delle stagioni e con il succedersi dei palinsesti in modo da trasformarsi in un elettorato potenziale. Nel 1994 è bastata la creazione di Forza Italia, e l'idea «di un nuovo, un grande miracolo italiano», per fare coincidere l'audience del piccolo schermo con il consenso politico. Si era capito praticamente tutto quando i candidati della "gioiosa macchina da guerra", la povera alleanza dei progressisti guidata da Achille Occhetto, andavano nei supermercati del Nord e incontravano gli operai del postfordismo che fischiettavano ironicamente l'inno del partito proprietario: "E Forza Italia, per essere liberi...". Nel 2001, com'è noto, è bastato il "sogno", l'idea meravigliosa che il banchetto dei ricchi avrebbe lasciato cadere qualche briciola anche per i poveri e gli outsider. Cinque anni dopo, con un rovesciamento spettacolare, e con una capacità sregolata di incarnare in se stesso la protesta e il regime, la promessa e la furia, il Caimano sta puntando tutte le sue carte sullo spavento, su uno scontro di civiltà tra antropologie separate e irriducibili alla mediazione politica, demonizzando senza scrupolo alcuno metà abbondante del paese. Tutto verosimile, nella profezia cattiva di Moretti, tutto plausibile anche sociologicamente, se è vero che da vent'anni la realtà si stava disgregando senza riparo. Semmai le eventuali obiezioni riguardano il fatto che ciò che noi abbiamo chiamato berlusconismo in altri paesi avanzati si è chiamato semplicemente modernizzazione. Anche altrove, nell'Europa evoluta, il passaggio d'epoca è stato segnato dal disincanto, dall'irruzione del cinismo, dall'anomia sociale, dall'egoismo di classe, da venature demagogiche. E allora perché da noi tutto ciò ha assunto caratteri parossistici? Perché ha vinto l'autismo consumista, perché il legame sociale si è dissolto? Perché il Caimano, singolare impasto di conformismo cattolico e di spregiudicatezza amorale, scommette su uno stralunato giudizio di Dio tra le forze del bene, il suo clan, e l'esercito del male, "le sinistre"? Per rispondere occorre mettere a fuoco che il mutamento socioculturale è tanto più prevedibile e governabile quanto più sono saldi gli assetti istituzionali, quanto più la prassi collettiva vive di norme condivise, anche e soprattutto nell'orizzonte della vita quotidiana. Nell'età del Caimano, invece, la sospensione delle regole ad personam, e la rottura delle convenzioni primarie a beneficio dei clientes, porta la politica sulle soglie della guerra civile strisciante e permanente. Risulta conveniente un'imprenditoria politica che punta le sue carte sul duello mortale tra fazioni contrapposte. Per cui non c'è troppo da stupirsi se poi, nell'apologo cinematografico, la caduta del Padrone sfocia tragicamente nello scontro attizzato dai suoi fan, ossia in una sindrome che evoca scene di matrice jugoslava. A schermo spento, dopo l'ultima livida scena del film, viene naturale anche interrogarsi sulle terapie possibili per il futuro. Ovvero chiedersi se la società italiana contemporanea possieda riserve di tenuta civica e di lealtà pubblica per assicurare un futuro al paese. C'è un riscatto o no? Per Moretti la catastrofe si è già compiuta, e il pessimismo consente solo palliativi o elusioni nel privato. A maggior ragione, dopo un racconto così inquietante, privo di speranze com'è, bisogna chiedersi se la politica ha gli strumenti per reagire alla disgregazione, per tentare di invertire la rotta.
L'Espresso, 06/04/2006
Cantautore senza cuore
Come diceva il "maestro solitario" Lucio Battisti, «questi stanno a fa' solo dell'accompagnamento». Eppure il segreto dei cantautori consisteva nell'essere in sintonia con lo spirito del tempo. Accadde negli anni Settanta, quando il pubblico si ritrovava meravigliosamente dentro le strofe di Fabrizio De André e degli altri. Ma adesso? Già negli anni Ottanta e Novanta i cantautori non hanno proposto grandi significati e nemmeno troppi piccoli slogan; inoltratisi nel primo decennio del 2000, viene anche voglia di capire che cosa stanno raccontando, e se ci raccontano qualcosa. A Bologna, come al solito, Francesco Guccini adotta i tempi lunghi: traduce Plauto, ha trovato e portato in italiano dal dialetto una canzone della Resistenza emiliana, che inserirà nel prossimo disco, e che potrebbe essere "La locomotiva" del nuovo secolo: chi l'ha ascoltata dice che si tratta di un pezzo "fenogliano", in cui l'epica si dispiega su un tessuto antiretorico. Immagini scabre, paura, sudore, fatica. Ma Guccini è un caso a sé: con gli anni è riuscito a crearsi un consenso privo di obiezioni, in cui la sua fisionomia culturale e la sua figura fisica coincidono alla perfezione. La sua è la tendenza Guccini: tracce di Dylan, echi dei Nomadi ai tempi di Augusto Daolio, "Noi non ci saremo" più il ricordo di Guevara, e talvolta un intimismo vivificato dalla cultura e dalla padronanza del lessico. Ma allora la tendenza, ammesso che una tendenza ci sia, dove sta? Nel panorama di questi mesi si stagliano ancora una volta due protagonisti sulla scena da oltre un trentennio. Sono Francesco De Gregori e Ivano Fossati. Il primo sta pubblicando un disco dopo l'altro, e l'ultimo, "Calypsos", suona bene, morbido, avvolgente. Quanto ai contenuti, bisogna andare a cercare il messaggio con il lanternino: «Ma guarda la gente che salti mortali che fa / E quanti nani sui trampoli», potrebbe essere un ritratto dell'Italia del "Caimano", e del "Caimano" stesso, cioè di un paese passato dalle meraviglie romantiche della donna cannone ai fenomeni da baraccone divenuti capipopolo. Ma più che un messaggio sembrerebbe un messaggino, un sms, con cui De Gregori si tiene in contatto con i suoi amici e gli aficionados. Mentre Fossati, eh, Fossati. Il compositore più musone e celebrato d'Italia, che fu uno straordinario autore di canzonette e ha cercato in tutti modi di farle dimenticare, viene monumentalizzato in una biografia scritta da Andrea Scanzi ("Ivano Fossati. Il volatore", quasi 300 pagine in uscita da Giunti il 5 aprile). Sarà l'occasione per ripercorrere la vicenda di uno dei più bravi costruttori di musica che siano apparsi in Italia, gravato dal peso di dimostrare in ogni album la sua caratura intellettuale, e che forse non ha mai percepito fino in fondo che la qualità culturale non si esprime soltanto con la ricerca, ma anche con la disponibilità a sintetizzarla nello standard, in canzoni fatte e finite, quelle che si ricordano perché mettono a confronto la dignità musicale con il piacere del pubblico, e con la grazia dell'ascolto. E invece l'impressione è che Fossati stia ancora ricercando una legittimazione sul piano della critica politica, come nella canzone più citata del suo ultimo disco ("L'arcangelo"), che com'è noto si intitola "Cara democrazia", e che si concede il gusto di mettersi in posizione terzista, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra» quasi à la Gaber (anche se prestata a Celentano). Questa volta, invece, a proposito di democrazia: «Cara gemma imperfetta / Equazione sbagliata / Non scritta e mai corretta», e «Ahi, che pessime orchestre / Che brutta musica che sento» (come antidoto, si può scaricare dal Web "Lo scrutatore non votante" di Samuele Bersani, secondo il quale il disimpegnato «è come un ateo praticante seduto in chiesa la domenica»). Quanto agli altri, si tratta di intendersi: anche Luciano Ligabue mantiene una venatura cantautorale, che in passato si era espressa in pezzi come "Ho messo via" e "Metti in circolo il tuo amore" (buona anche nella versione di Fiorella Mannoia); ma il "Liga" punta soprattutto a definirsi come grande autore popolare, un Battisti dei tempi nuovi. Antonello Venditti resta fedele soprattutto a se stesso, e forse è una scelta coerente, quella di una canzone che sfida la ripetitività di refrain come «che fantastica storia è la vita». Dopo di che, è una faccenda di nicchie. C'è la nicchia di Vinicio Capossela, che persegue in modo radicale la propria diversità "patafisica". Il giardinetto di Michele Salvemini in arte Caparezza, quello di "Fuori dal Tunnel", che ora ha proposto un disco "postumo": «Io sono il cadavere di me stesso e canto "Non mi fregio di un feretro che mi dia stima e buona nomea, non mi piace la bara Versace, mi piace la bara plebea, mia l'idea di comperarla all'Ikea"». Per scaramanzia, si può ascoltare l'ultima produzione di Gianna Nannini, un'altra che non sarà proprio una cantautrice classica ma tiene dritta la barra e continua imperterrita a miscelare tradizione e pulsazione. Oppure Simone Cristicchi, quello di Biagio Antonacci, uno che sa che cos'è l'ironia. E per i veri reazionari c'è sempre l'opera omnia di Max Pezzali, che non fa nulla per sofisticarsi, ma che è pur sempre il migliore autore di parole per le canzoni che esista in circolazione (quando se ne accorgerà qualcun altro, brindisi per tutti). n
L'Espresso, 06/04/2006
Mammuccari? Mamma mia
Eh no, questa volta non mi prendete. Non mi avrete. Non ce la farete a ricattarmi con l'idea che se non rido sono io che non capisco. Guardate che io (e dico io come sintesi di una comunità che condivide alcuni tenui criteri di giudizio televisivo: insomma, noi), guardate che noi siamo diventati scafati. Non ci fregate più con la fola del trash. Ma quale trash, che poi voi pronunciate "trèsh", all'americana, o all'amatriciana. Trash o trèsh dovrebbe essere il programma di Teo Mammuccari "Distraction"? Proprio sicuri? Avete le idee chiare sul trash? Parentesi. Trash o trèsh, noi di questi tempi siamo riusciti a evitare "Grande Fratello" e "La fattoria", con ottimi benefici per l'umore. Forse riusciremo a evitare anche "Music Farm", anche se è più difficile perché ci piacciono le canzonette (ma ha ragione Aldo Grasso: se la vittoria di Dolcenera nell'edizione precedente doveva produrre a Sanremo la canzone "Com'è straordinaria la vita", si capirà perché al Festival noi gentaglia cinica abbiamo fatto il tifo per Anna Tatangelo, nonostante il testo di Mogol e il "patronage" di Gigi D'Alessio, e benché non ricordiamo la sua canzone). Ma "Distraction", in onda su Italia 1 il martedì sera, quello no, non ci avrà. «Uova in faccia, ventilatori fermati con il naso, pulsanti che danno la scossa»: comincia così la cronaca del "Corriere della Sera". E poi il mucchio selvaggio dei 15 disgraziati tutti nudi. E soprattutto, Mammuccari. Nessuno ha ancora capito che cosa Mammuccari sia capace di fare. A occhio, dev'essere una specie di comico "de destra" (ma potrebbe anche essere "de sinistra"). Un provocatore ma della mutua, che prima dello show aveva promesso: «Vogliamo divertire, non scandalizzare». Ma via: è uno che fa una battuta sui Cugini di campagna definendoli «quelli che cantano con tappo al sedere»; dovrebbe essere capace di tutto. Dopo di che, leggiamo una dichiarazione di Michele Bonatesta, componente della direzione nazionale di An e membro della commissione di Vigilanza della Rai, il quale ha dichiarato: «Un concentrato di insulsaggine e volgarità». Ora, noi siamo del parere che nulla del pensiero di uno di An sia condivisibile. Mai. Su nessun argomento. Siamo fatti così, mica colpa nostra. Vediamo Gianfranco Fini e ci dà fastidio anche la sua pettinatura, la sua voce, il modo in cui si succhia la lingua. È solo per questo che ci viene voglia di dire: «Viva Mammuccari». Però, guardarlo, no.
L'Espresso, 30/03/2006
Parte il missile Fiorello
Con quei baffetti che gli danno un'aria saracena, a prima vista è leggero, leggerissimo, impalpabile. E invece Rosario Fiorello, in arte Fiorello, per gli amici siciliani Saro, secondo nome Tindaro, è 87 chili di energia pura. Una radiazione nucleare. Quasi tre chili persi a ogni spettacolo, perché nelle tre ore del suo show "Volevo fare il ballerino", che sta spopolando in giro per l'Italia, il dispendio fisico è spaventoso: «Non ho tecnica, non ho studiato, non uso il diaframma, canto di gola, con una fatica bestiale». Mettiamoci la puntata quotidiana del programma cult "Viva Radio 2", le convention aziendali che servono anche per sperimentare nuovi personaggi e nuovi numeri, e si capisce subito che l'ex divo del karaoke, classe 1960, deve avere un fisico da atleta. Allora avanti con il monologo, storia vera di Fiorello raccontata da lui medesimo. «Un fisico da fuoriclasse? Sarà perché da giovanissimo avevo una carriera nel calcio», scherza. Fino a 15 anni ha giocato ala destra nella Megarese, la squadra di Megara Hyblaea, un amore per il pallone destinato a perpetuarsi con il tifo per «la grande Inter» (pronunciando il sacro nome nerazzurro alza religiosamente il dito), «vista per la prima volta allo stadio di Catania». Città fatale in ogni senso, dato che a Catania c'è pure nato. «Ma solo per ragioni ospedaliere: la mamma Rosaria, brava ragazza di Giardini Naxos, ha avuto qualche difficoltà a farmi nascere, e io qualche seria difficoltà a saltar fuori. Un cesareo da 64 punti, tanto che mia madre, dopo quello strazio, sospirò: sia chiaro, dopo Rosario, nessuno». E gli fece mettere nel secondo nome il richiamo alla Madonna dei Tindari, la Madonna nera a cui era devota. Si sa che fine fanno le promesse. Mamma Rosaria ebbe altri tre figli: Anna, nel 1961, Catena detta Cati (l'eccentrico nome viene da una nonna), nel 1966 e Giuseppe detto sciaguratamente a suo tempo Fiorellino, e ora Beppe, nel 1969. Forse non riusciva a resistere al fascino di papà Nicola, appuntato radiotelegrafista nella Guardia di finanza, «che era nato a Letojanni, assomigliava a Clark Gable, e morì all'improvviso nel 1990 a una festa». Allora se ne stavano ad Augusta, aspettando che Rosario raggiungesse lentamente la quarta al liceo scientifico Principe di Napoli. «Nello show lo dico chiaro, l'unico mio titolo di studio è il battesimo. Studiare, ma si poteva? Augusta è un'isola, eravamo circondati dal sole e dal mare, fin da bambini si stava sempre fuori, a giocare a "chiappeddi", le pietre al posto delle bocce, in palio le figurine Panini». Ma poi, come esercizio culturale, è riuscito a incidere una canzone pop sui versi di "San Martino" di Carducci, «La nebbia a gl'irti colli piovigginando sale». E a farsi invitare dal rettore dell'Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi, per un faccia a faccia con 1.500 studenti. Comunque agli inizi, altro che ballerino. «Volevo davvero fare il calciatore. Ma gli anni del liceo erano gli anni delle prime radio libere: Radio Marte, Radiorama, Augusta Centrale. Era il tempo della "Febbre del sabato sera"». Tutti travolti da John Travolta? «Roba da poco, gare di disc jockey ai balli studenteschi. Ma uscivamo da un grandissimo provincialismo, quando andare al cinema a Catania era un'impresa eroica». L'esordio avviene come dj al Gran ballo della ragioneria, ma il primo spettacolino vero è al bar, imitando "Tutto il calcio minuto per minuto" con le voci di Ciotti, Ameri e Bortoluzzi. Poi, corrente l'anno 1976, si fa vivo il destino. A Brucoli, sei chilometri da Augusta, tirano su un villaggio Valtur. Molti ci vanno a lavorare. E ne escono la sera con gli occhi schizzati: «Voi non potete immaginare! Sono tutti milanesi! E si vestono con certe stoffe... Nessuno aveva mai visto un pareo. Anzi, prima di andare militare, nella Caserma Milano a Bari, Car e Car avanzato, non ero mai uscito dalla Sicilia, Milano era un altro pianeta, e i milanesi marziani». A quei tempi i ragazzi li mandavano a lavorare, d'estate: «Andavo a vendere la lattuga con l'Apecar, facevo il banditore: donne, lattuga fresca! Cinquecento lire al giorno». Solo che il Valtur era un paradiso off limits. Impossibile entrare, anche il ristorante era un miraggio. «Allora una sera tagliamo la rete metallica, entriamo vestiti da turisti, e ci appare davanti la meraviglia: i suoni, la festa, belle donne, ricchezza, gozzoviglio puro. Ci beccano subito. Voi che camera avete? "La Seicentoventicinque!". La faccia di bronzo non basta. Sguardo clinico dell'uomo della sicurezza e poi la sentenza: "Fuori"». Da quel momento, l'imperativo divenne: lavorare al Valtur. «Anche perché era un buon lavoro, si facevano i turni, 6 ore e 40, e soprattutto dopo il lavoro si poteva restare nel villaggio. Seguo la trafila: ufficio di collocamento, lista d'attesa, assunzione come facchino di cucina. Sa che cos'è il facchino di cucina? Un paria, uno che è un gradino sotto il lavapiatti. Ma io cercavo di lavorare bene, come ho sempre fatto, qualunque fosse il lavoro». In modo da fare una modesta ma sicura carriera: aiuto cuoco, detto anche "commis di cucina", poi cameriere, posto molto ambito nella gerarchia del villaggio, con la fascia rossa in vita che fa il suo effetto. «Facevo gli show ai tavoli, le imitazioni, e piacevo. Qualcuno chiedeva al caposala: "Mi mette dove c'è quello moro? ". Ma soprattutto dal ristorante vedevo il bar, cioè la vita, la mondanità: e alla fine al bar sono riuscito ad arrivare». E il bar è la svolta. «Come no: alzo gli occhi e vedo l'anfiteatro dello spettacolo serale. Faccio i miei show al banco, con i clienti che si incuriosiscono. Un giorno vedo l'asta del microfono che mi tenta, mi avvicino, la afferro e faccio: sssà, sssà; e parto con "Moonlight Serenade", inventando tutte le parole». La gente lo nota, e Fiorello ottiene l'occasione per qualche piccolo show. Solo che proprio allora, dopo alcuni rinvii per ragioni scolastiche, arriva la cartolina precetto. Casermette di Bari, «la prima vera difficoltà della mia vita». E allora? «Mi dico: qui, o mi diverto o crepo». Erano anni difficili, con le Br che avevano fatto razzie nelle armerie militari, si faceva la guardia con il colpo in canna nel Garand. «Eppure ci provo, a divertirmi. Imitavo il colonnello comandante, il tenente, l'ufficiale di picchetto. Mi mettono nel plotoncino d'onore, con i galloni da caporale, mi faccio un coso così con le marce e le esercitazioni. E quando credo di essermi guadagnato una posizione, l'Esercito italiano mi manda a Sacile». Vicino a Pordenone, profondo Friuli. «Per un siculo come me era la Siberia, una Finlandia, muschi, licheni, il grande Nord. Ma era gente meravigliosa, che voleva un gran bene ai militari, dopo il terremoto di Gemona. Il giorno del congedo m'è venuto da piangere. Nel frattempo anche lì ho cominciato a fare spettacolo: cameriere nella mensa sottufficiali, metto su una band, faccio il presentatore a tutte le feste: Natale, Capodanno, Pasqua, niente licenze perché per tornare a casa ci vogliono 21 ore di treno, chi li aveva allora i soldi per l'aereo?». Quando ritorna al Valtur, il capovillaggio, Enzo Olivieri, non vuole più assumerlo come cameriere. «Mi dice: vieni a fare l'animatore, e io arriccio il naso, perché si guadagna poco, e precariamente. Poi però comincio: senza le basi musicali, improvvisando tutto. Al mattino andavo in spiaggia per farmi conoscere con qualche trovata. Travestito da papa, facevo la benedizione dei cornetti. Così la faccia e il nome cominciavano a circolare, e la sera la gente veniva all'anfiteatro per vedermi». È il decollo? «Macché. Olivieri se ne fila in Costa d'Avorio, e mi chiama con sé. È il primo bivio della mia vita. Mio padre contrarissimo, la fidanzatina pure. Ma io mi dico, se rimango qui, ci muoio: e allora mollo la morosa e nel 1983 vado laggiù in Africa, in un villaggio da parenti poveri del Club Méd. Capo animatore. Discreto successo, con i turisti che dall'Italia chiedevano di prenotare dove lavoravo io. D'inverno l'organizzazione mi mandava in montagna, a Marilleva, a Pila, a San Sicario. Una sofferenza, perché la gente devi andare a cercartela sulle piste. E io ci andavo: a far vedere a quelli delle settimane bianche un siciliano travestito da orso». Nel 1989, quando finisce la stagione a Marilleva, arriva una svolta ulteriore. «Conosco Bernardo Cherubini, che sarebbe il fratello di Jovanotti, e che faceva l'istruttore di tiro con l'arco nei villaggi: "Andiamo a Milano?", propone. Si va. Lorenzo faceva "Uno due tre Jovanotti", stava esplodendo; io, un nessuno: mi hanno preso a fare le voci. Parlavo in radio parodiando un ascoltatore di Bergamo, molto gutturale. Comunque Claudio Cecchetto, uno con la vista lunga, mi osserva con l'occhio clinico e mi fa: "Ti faccio provare Radio DeeJay". E qui siamo al secondo bivio». Erano tempi difficili. Fiorello racconta di essere stato tentato più volte di tornare indietro. Con la radio di Cecchetto passava tutta musica straniera, «e io invece facevo "Amico è" di Dario Baldan Bembo, cose molto popolari. Ho una specie di buco nella cultura televisiva, una voragine d'ignoranza vera, perché per un periodo sono stato sempre in giro per il mondo. L'Africa, la Spagna, Ibiza. Eppure forse per questo ho un mio stile, perché non mi sono fatto influenzare troppo». Per fortuna ci fu la valvola di sfogo di DeeJay Television, anche questa di Cecchetto, una specie di Mtv ante litteram: «Vera fucina di talenti. C'erano Linus, Amadeus, Albertino, Jovanotti, Pieraccioni, e ho cominciato a fare un programma con Amadeus, "Mattinata esagerata", e i primi personaggi, cioè le parodie di Michele Cucuzza e Bruno Vespa. Mi inventai la macchietta del meccanico della Vespa di Bruno Vespa. Ma mi sentivo ancora un pesce fuor d'acqua, i vecchi clienti mi guardavano perplessi: "Al villaggio eri un'altra cosa", insomma non ero contento. Oltretutto, nel 1990 Radio DeeJay mi manda al Festival di Sanremo, e mentre sono lì sulla Riviera squilla il telefono: torna a casa perché papà è morto. È per questo che Sanremo ancora oggi mi prende la gola». Qualche volta è il caso a decidere. «Già, all'improvviso la mia vita prese tutta un'altra piega. Incontrai Marco Baldini, che oggi è il mio alter ego. Nacque "Viva Radio DeeJay", che è l'antenato di "Viva Radio 2". E Gerry Scotti, che mi aveva sentito fare il cantautore ermetico Gregorio De Francesco, mi chiamò al "Gioco del 9", con Teo Teocoli e Gene Gnocchi. Va tutto benino. Così vengo preso per il Cantagiro, con Mara Venier e Gino Rivieccio. Di me scrivono: "Sta nascendo una stella. Bisogna ucciderla prima che uccida noi". Sembrava che gli avessi fatto qualcosa. Finché Fatma Ruffini annuncia: "Abbiamo un format olandese, per fare una cosa giapponese, il karaoke. Sfruttiamo le bellezze dell'Italia, le piazze, facciamo un programma che non costa niente e vediamo se da cosa nasce cosa"». La cosa comincia ad Alba, le puntate d'esordio tutte con inquadrature strette per non far vedere il deserto intorno al palco. Risultati deludenti, 3 per cento, massimo 5 per cento. Essere o non essere, chiudere o non chiudere? «Andavamo alle 20, contro i tiggì. Okay, si chiude, finiamo le puntate già programmate. Solo che a un tratto l'audience comincia a crescere. Prima insensibilmente. Ottocentomila, un milione; poi più forte, un milione e mezzo, due milioni, due milioni e sei. A Pescara, 20 mila persone, senza la sicurezza, senza organizzazione: distruggono la piazza. A Milano, 100 mila persone in piazza del Duomo. Centomila anche a Torino. Uno stress tremendo, perché ero ostaggio del successo, non potevo nemmeno andare al ristorante senza essere assalito da frotte di aspiranti cantanti; in un cinema mi dovettero portare via altrimenti nemmeno cominciava il film». Era il 1992, la prima delle due stagioni del karaoke. «Ma ero insoddisfatto, perché mi limitavo a far cantare i partecipanti. Era il segreto vero del karaoke, perché la gente in quel momento, con il trauma quotidiano di Tangentopoli, preferiva guardare se stessa anziché la politica: e pensava, davanti alla tv, quello che sa fare lui lo so fare anch'io. Si identificava. Eppure io non mi limitavo al karaoke. Prima della trasmissione intrattenevo il pubblico almeno per un'ora. Mi mettevo alla prova. Ma sa com'è la televisione, quando c'è un successo vogliono spremerlo fino in fondo. Così si fa il Superkaraoke con i Vip, finisco a Roma con un delirio, il sindaco Francesco Rutelli che canta con me». Mica male, Rutelli. «Ma intanto incasso la prima sconfitta autentica. Le prendo da Paolo Bonolis, la mia bestia nera, che con "I cervelloni", mi fa un mazzo tanto. Ed evidentemente sconfitta chiama sconfitta: vado a Sanremo, 1995, con "Finalmente tu" di Max Pezzali, con in testa la corona del vincitore annunciato. Sul palco dell'Ariston la voce mi viene fuori un po' faticosa. Il giorno dopo, un massacro. Scrivono "carriera finita, un bluff". Ne esco con le ossa rotte». Siamo a un altro bivio: «Capisco che devo lasciare Milano. Tutto andava troppo veloce. Non parlo delle mie disavventure personali, anche se non ho avuto nessuna conseguenza giudiziaria, niente: ma a distanza di dieci anni sono ancora nella lista, non appena c'è una storia di coca c'è qualcuno che mi chiede un commento». E allora Fiorello va a Roma con Maurizio Costanzo: «Facevo "La febbre del venerdì sera" e poi "Buona Domenica" il sassofono gliel'ho inventato io, dovevamo batterci contro la Venier che era una macchina da guerra». Di notte, al "Costanzo Show", «raccontavo cose, fatti, Aldo Grasso parlò di un Fiorello "pasoliniano"». Addirittura. «Ma avevo voglia di lavorare da solo, anche se sapevo che Costanzo ci sarebbe rimasto male». Figurarsi se il ras ci rimane bene. «Ma incontro Bibi Ballandi, uno che suggerisce prudenza sussurrando con il tipico accento romagnolo e la esse molle: "Ricordati che bisogna volare basso". Ballandi si sbilancia, come può sbilanciarsi uno come Ballandi, e mi dice: "Se ti metto vicino qualcuno che ti aiuti, che ti consigli, che ti ripulisca un po', hai le potenzialità per fare il sabato sera su Rai uno"». Come in effetti sarebbe avvenuto, con le edizioni di "Stasera pago io", il programma costruito con Giampiero Solari. «Ma volete capirlo che io, il ragazzo del Valtur, mi sono trovato a fianco gente come Dustin Hoffman, Liza Minnelli, John Travolta, Fanny Ardant?». Successo inarrestabile. Anche se l'evento principale di quegli anni, siamo al 1996, è tutto personale: «Ho incontrato mia moglie, Susanna Biondo, e ho conosciuto il cambiamento vero. Perché lei era ed è una donna che mi ha portato in casa la stabilità: con una figlia, Olivia, che adesso ha 13 anni ed è come figlia mia. Abitiamo a Roma, verso il quartiere Fleming, e aspettiamo la nascita di Angelica, che arriva a luglio». Fa una vita da impiegato, più che da artista: «Non ho la Ferrari, uso la Panda. Vado al bar al mattino come tutti, la gente è contenta di vedermi ma senza eccessi. Con Susanna ci siamo sposati nel 2002, un passaggio ulteriore nel senso della vita sicura, e quando il lavoro è finito ce ne stiamo in famiglia». Sul lavoro sono un gruppo, una squadra a metà fra la tribù e la factory: «Con la radio ho ritrovato Marco Baldini, reduce dalle sue disavventure di gioco. Mia sorella Catena lavora con l'organizzazione. Il mio manager, Antonio Germinario, lo avevo conosciuto come cliente di un villaggio turistico dove lavoravo. Antonio Cifariello è con me da sempre». Gli altri della squadra, con Baldini, sono Francesco Bozzi, Alberto Dirisio, Riccardo Cassini, Federico Taddia. Le manca la televisione, Fiorello? «Non ne sento il bisogno. Con la radio, tutti i giorni ci inventiamo qualcosa che raggiunge il pubblico. E va anche sui giornali, perché abbiamo inventiva, leggiamo tutto, seguiamo l'attualità. Io non faccio proclami politici, perché lo spettacolo è di tutti, e non si possono dividere le platee fra destra e sinistra. Ma nella vita ho avuto un bivio dietro l'altro, e so che cosa significa scegliere». E il prossimo bivio, Rosario? È a Sanremo, per salvare il Festival? «Il prossimo bivio significa diventare un buon padre». n
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