L’Espresso
L'Espresso, 30/03/2006
Fatti di ragazzi perbene
Come fa un prodotto di fascia e di nicchia a diventare un successo di massa? Ci fosse una risposta sarebbe piuttosto facile replicare le "operazioni" che hanno sbancato il mercato. Nell'editoria risulta infatti esemplare il caso di Alessandro Piperno, il cui romanzo d'esordio, "Con le peggiori intenzioni", era stato preceduto da una sottile campagna di consenso prodotta dalla Mondadori con un efficace "word of mouth" destinato a innescare l'exploit. Talvolta è un dettaglio a suggestionare il mercato, come nel caso della copertina poco einaudiana del libro di Simona Vinci, "Stanza 411", che alla recente London Book Fair ha attirato l'attenzione di molti operatori stranieri. In altre occasioni, il successo d'autore è il frutto del più classico passaparola, come per le "superfiction" di Tullio Avoledo (l'ultimo romanzo, uscito da Einaudi, si intitola "Tre sono le cose misteriose"). Quanto ai giovanissimi, balza in primo piano una questione di contenuti, ancor prima che di tecniche commerciali. A un primo riscontro sociologico sembrerebbe infatti di assistere a una specie di ripiegamento, alla ricerca di un conforto famigliare e provinciale, che avviene tutto dentro le mitologie della post-adolescenza. Le storie di Federico Moccia si iscrivono nella cornice dell'emozionalità giovanile, un universo in cui la violenza dei sentimenti e dei gesti si dispiega come una liberazione individuale, che non scalfisce il law & order di una società "di destra". La trasgressione è individuale, al massimo generazionale oppure praticata utilizzando la coppia come fattore d'innesco, senza nessuna concessione a dimensioni sociali e neanche collettive. Viene il sospetto che il marketing sia stato efficace più che altro perché ha individuato un riflesso protettivo, un bisogno di autotutela di un mondo giovanile sopraffatto dai nuovi strumenti di intrattenimento: l'ultimo modello della Playstation, ma anche la versione più recente dell'iPod, così come tutti i consumi evoluti, sofisticati, tecnologicamente avanzati, costituiscono un orizzonte inevitabile, con cui ci si misura ogni giorno, ma si portano dietro anche un'eco aliena, una radiazione "globale". Mentre le storie di casa nostra, le trame locali, consentono rappresentazioni e identificazioni molto più partecipate e gestibili. Questo spessore provinciale rappresenta una rassicurazione implicita, e a suo modo infallibile, dal momento che agisce diffondendosi rapidamente nel pubblico, confermando le mappe comportamentali individuali, consentendo di metterle a confronto, di misurare dubbi e desideri, pulsioni e inquietudini. Più che di marketing, si tratta di educazione sentimentale: che poi venga praticata o favorita da circuiti di consumo di massa, è la solita conferma che in fondo nel mercato convivono gli estremi, dalla riproducibilità tecnica più estrema, ossia la serializzazione del cuore come del corpo, all'individualizzazione più confortevole, in cui ogni sentimento può essere trattato come qualcosa di irriducibilmente possessivo, non aggredibile dalla prepotenza di ciò che è globale.
L'Espresso, 30/03/2006
Il capitombolo dell’impero romano
Sostiene lo storico Luciano Canfora che la fiction "Roma" (che ha esordito venerdì 17 marzo su Raidue) suscita una doppia impressione. Da un lato si apprezza il lato brutale, violento della Roma classica, soprattutto quando lo sceneggiato fa vedere il "bellum romanum", la guerra senza quartiere praticata contro i barbari, fra stupri, crocifissioni e combattimenti a corpo a corpo pieni di sangue. Per un altro verso, si rimane allibiti per la quantità di fregnacce storiografiche, di errori, di autentiche panzane inanellate nella trama e nei dialoghi. Per noi che abbiamo studiato sul Bignami, il giudizio è più semplice. "Roma", con il suo sforzo produttivo, i cinque registi, i sei teatri, la Bbc e la Hbo, i 2.500 costumi e i 15 mila figuranti, è una Rometta. Ma mica per colpa di nessuno, neanche della Rai coproduttrice. Ma per un fraintendimento. Riassumibile in questo modo: non bisogna confondere la Roma di Giulio Cesare con la New York di "Sex and the City". Vale a dire: se Samantha si porta a letto un maschione, e le amiche commentano la prestazione, possiamo pensare che si tratti di uno schema tipico dell'età contemporanea, e quindi che la scopatina o scopatona della bellona ci dica qualcosa di noi, ossia dei comportamenti sociali di oggi. Ma se uno dei fulcri della fiction romana è «l'insaziabile nipote di Cesare» che sceglie gli schiavi in base alle misure, chi se ne frega. Un bollino rosso alla base del teleschermo non è che attizzi molto. Morti ammazzati, banchetti, colpi di triclinio e di letto, fanno un po' ridere se proiettati duemila anni fa. Insomma, erano corrotti, crudeli, cattivi, erotomani, abbiamo capito. Tutto questo però fa spettacolo? Mica tanto, almeno per ora. Per fare spettacolo ci vuole Russell Crowe, un protagonista, un'epopea, il dramma personale. Del ritratto della Roma repubblicana e poi imperiale, dell'affresco d'epoca non c'importa nulla. Eravamo bambini quando andava in tv il cult "C'ero anch'io", telecronaca dei grandi eventi storici. L'effetto scenico e narrativo di "Roma" assomiglia proprio alle sequenze di quel lontano programma. La perfidona è andata a letto con il cattivaccio. L'affare politico si complica. Catone il Censore ha aperto un'inchiesta. Anvedi. A voi studio, se ci saranno notizie vi chiederemo la linea. Buonasera a tutti. Sigla di Teleroma.
L'Espresso, 23/03/2006
La sera andavamo al Bar Giamaica
Converrà guardarle tutte, le puntate di "I migliori anni della nostra vita", il programma di RaiSat Extra che dalla fine di febbraio va in onda per dieci settimane il martedì e in replica il sabato (l'intero ciclo è stato curato da Luigi Mattucci, mentre gli incontri con i protagonisti sono realizzati da Lorenza Foschini e Anna Vinci). Già la puntata dedicata al fotoreporter Mario Dondero è stata di bellezza inedita: fotografo, cittadino delle metropoli, "comunista" e soprattutto testimone nei luoghi in cui lo ha portato la sua curiosità e la sua indignazione, Dondero parla una lingua bellissima e straordinariamente precisa, senza un'esitazione o un inciampo. Le sue parole sottolineavano il passaggio d'epoca del boom a Milano, la "vita agra" ma eccitante al Bar Giamaica, ritrovo di intellettuali e artisti; e per contrappunto la scoperta della Parigi mondana ed esistenzialista, suggestiva e severa, una città racchiusa in poche vie accanto alla Senna, in cui ogni giorno poteva accadere di incontrare le divinità, da Hemingway a Juliette Gréco. Con la gioia di esserci e poter fissare i contorni di un mondo in pieno cambiamento, fedele a un bianco e nero che è scelta morale ancor prima che estetica, «perché il colore è ornamento». Nel racconto di Dondero si apprezzava la qualità di una povertà «senza complessi», che consentiva di godere delle cose buone e magari ottime, nella consapevolezza che «quando arrivano i ricchi le cose si svuotano, perché stanno in due dove prima stavano in 20»: ma con la capacità e il gusto di apprezzare la meraviglia quotidiana della Parigi «capitale della rivoluzione, e dell'ideale repubblicano». Essere senza complessi significa anche apprezzare la Roma della "Dolce vita": in modo non dissimile da quello descritto nella bellissima testimonianza di Raffaele La Capria, a sua volta un capolavoro di nonchalance partenopea, capace di fondersi con la Capitale di Fellini e di Visconti, quando Roma era un incrocio del mondo (e mentre il "jet set" fluiva a via Veneto, nei locali la sera si incontravano Moravia, Pasolini, Arbasino, e tutti gli altri). Non è nostalgia. A vederlo oggi, il materiale documentario che accompagna i colloqui con i protagonisti (da non perdere quelli con Adriana Asti, Giorgio Ruffolo, Rosy Bindi), offre l'immagine di un paese lanciatissimo. Internazionale, aperto verso il mondo. Certamente meno provinciale di oggi.
L'Espresso, 16/03/2006
Quante spine ha la Rosa nel pugno
Chi ascolta Radio radicale può facilmente farsi l'idea che la Rosa nel pugno rappresenti un segno di divisione nel centrosinistra. Marco Pannella, Daniele Capezzone e altri esponenti radicali non perdono un'occasione per polemizzare con altri partiti dell'Unione. Contro esponenti della Margherita in quanto clericali, contro Oliviero Diliberto in quanto comunista, antiatlantico e antisraeliano, contro Romano Prodi perché non li valorizza abbastanza. Sicché ci si potrebbe anche chiedere se l'arrivo dei radicali nel centrosinistra sia stato utile. I sondaggi accreditano la Rnp di un risultato fra il 2,5 e il 3,1 per cento, e quindi è ragionevole pensare che il loro contributo sia essenziale (data la formula elettorale pazzesca che il centrodestra ha inflitto agli italiani, con il risultato politico che potrebbe essere assegnato in base alla dislocazione dei vari partitini dello zero virgola). Il talento mediatico di Pannella sta spendendosi nell'asseverare la posizione "strategica" della Rnp, in quanto con l'apporto dei radicali essa sarebbe una delle due formazioni politiche dell'Unione in grado di intercettare il voto transumante da destra (l'altra è la Margherita). Ma bisogna vedere se la nascita e il consolidarsi di questo embrione laico-socialista sia funzionale allo sviluppo dello schieramento nel suo insieme. Anche perché per ora il vantaggio dell'unificazione fra socialisti e radicali è andato tutto a favore di questi ultimi. Il leader socialista Enrico Boselli è praticamente scomparso dalla scena politico-mediatica. L'alleanza di Pannella con i socialisti assomiglia molto a una scalata. In ogni caso questo è l'aspetto minore della vicenda. Perché c'è invece da mettere a fuoco la concorrenza che i radical-socialisti stanno esercitando nei confronti della galassia ex comunista. L'adesione alla Rnp di Lanfranco Turci, Biagio De Giovanni e altre figure della sinistra tradizionale esemplifica il ruolo competitivo della Rnp nei confronti dei Ds. A sua volta, l'"endorsement" malizioso di Achille Occhetto è altamente indiziario di come la sinistra delusa o vendicativa possa guardare con attrazione al nuovo partito. Tutto questo è interessante ma è anche un ulteriore fattore di complicazione. Perché la Rnp può essere soltanto la reincarnazione dell'esistenza politica pannelliana, vale a dire un fenomeno che attraversa la storia della prima e della seconda Repubblica; ma potrebbe essere anche lo "start up" di un'ipotesi politica diversa da quella lungo la quale era avviato il centrosinistra. Cioè diversa e alternativa rispetto al "partito democratico". Occorre mettere a fuoco questo aspetto, che non è ancora molto discusso. È possibile infatti che dopo le elezioni la spinta unificatrice del centrosinistra, che finora si è espressa in chiave liberaldemocratica, come alleanza fra cultura cattoliberale e cultura socialista, rallenti o perfino si arresti. Qualunque sia il risultato del voto, sarà l'egoismo di partito a condurre il gioco: la formazione delle liste ha esposto la fragilità della prospettiva unitaria e la debolezza degli ulivisti e dei prodiani (se tutto va bene, se il centrosinistra vincerà, Prodi dovrà fare l'uomo di governo; alla politica penseranno gli altri). In queste condizioni, la Rosa nel pugno, che oggi appare non più di un nucleo (un embrione, sia detto senza ironia), domani potrebbe diventare un organismo complesso. Sullo sfondo c'è la crisi dei Ds, partito di grandi numeri senza una cultura che possa renderlo trainante. E c'è anche la collocazione neodemocristiana della Margherita, che sembra avere conquistato stabilmente il centro del centrosinistra. Potrebbe diventare attraente l'idea di lanciare l'ipotesi, o il progetto, di una sinistra da scomporre e ricomporre in chiave radicalsocialista. In sé non c'è niente di male nell'immaginare una svolta zapaterista; solo che a questo punto andrebbe probabilmente in frantumi l'idea stessa su cui si è fondato finora il centrosinistra. È la bellezza del proporzionale: ognuno può trovarci la posizione che lo rappresenta, senza dover produrre nessuna sintesi. Divertente, e talvolta spettacolare, dal punto di vista politico: ma non si può dimenticare che ha lasciato all'opposizione la sinistra per quasi mezzo secolo.
L'Espresso, 16/03/2006
Video-istruzioni per l’uso
La televisione di qualità non esiste. Semmai, esistono i programmi di qualità. Bisogna andare a cercarli, scovandoli dentro le reti generaliste, individuandoli nei canali tematici, con indagini degne di un "Blade Runner" mediatico. E poi dipende dalla personalità mutante dello spettatore: se siete il clone di una massaia berlusconiana, codificata dall'Auditel come possibilmente poco scolarizzata e auspicabilmente ultrasessantenne, con l'apparecchio acceso per l'eternità, l'intera programmazione della Rai a partire da "Unomattina" fa per voi. Se nel vostro codice robotico siete un'aspirante velina, i palinsesti Mediaset sono il vostro pane, Maria De Filippi è la vostra regina, e voi non dovreste avere più di diciott'anni (altrimenti il guasto è serio e bisogna chiamare l'esperto di androidi). Se non siete programmati da un potere superiore per essere una donna segregata o una valletta, e neanche un "tronista", l'affare si complica. Ormai i reality show, dal "Grande Fratello" in giù, hanno perso il glam; al massimo, è consentito qualche minuto con la Gialappa's che si accanisce sui reclusi. Ci si può liberare del problema e concentrarsi sull'edizione serale di "Blob". Anche se ormai ghettizzata, in quanto sospetto di subliminale propaganda antipatizzante per la destra, la storica invenzione di Enrico Ghezzi e Marco Giusti è ancora insostituibile per vedere ciò che non si è visto. Essenziale, anzi entomologico, "Blob" consente un ripasso veloce di tutto o praticamente tutto, compreso il cabarettista Rocco Barbaro che fa uno dei numeri migliori visti negli ultimi mesi, una parodia del "Vecchio frac" di Modugno interpretata con accenni, mugolii, silenzi, omissioni, latrati, una prestazione comica con il tocco stralunato del genio (anche se in materia di cabaret quest'anno "Zelig" è andato all'ingiù, nel trend). Archiviato "Blob", c'è chi ama "Striscia"; gli altri seguono ipnoticamente Pupo lo spacchettatore urlante; ma nel post Bonolis l'unica tecnica praticabile consiste nell'esasperazione dello zapping. Postulato: la televisione non va vista su appuntamento, magari programmando il videoregistratore. Quella è una pratica da critici professionali. Ormai il mezzo ha rivelato se stesso: la tv è flusso continuo. Di fronte a quel fluire elettronico ininterrotto, tanto vale andare a casaccio, con il pollice automatico sul telecomando. Nelle reti generaliste si incoccia nella pubblicità, e quindi alla larga. I film si sono già stravisti, e addio. Se è tardi, obbligatoria una sosta su "Porta a Porta", ma si sa in partenza che Massimo D'Alema e Gianfranco Fini dopo cinque minuti hanno già impostato i termini, il resto sono derivate e subordinate, e quindi ci vuole una scanalata per vedere chi c'è a "Matrix". Aprire una discussione sul tema: meglio il Mentana calcistico della domenica, con il maglioncino azzurro che lo allarga un po', o quello istituzionale della tarda serata? Aprirne un'altra: la domenica sera è meglio dedicarsi al maestro Tosatti o al Piccinini furioso che annuncia l'ennesima «puntatona!» di "Controcampo"? Nel dubbio, ricordarsi che il martedì a "Ballarò" va in onda il dibattito intelligente, ma conviene fermarsi soprattutto se c'è Pier Luigi Bersani, che è un divulgatore pop, anzi rock'n'roll, una specie di Ligabue dell'economia, o Giulio Tremonti, che attizza irresistibilmente l'antipatia del pubblico di sinistra. Le battute di Tremonti piacciono molto a destra, anche se lo schema è ripetitivo: anni fa, Visco al Tesoro come Dracula all'Avis; ora Fassino all'economia come l'aviaria agli allevatori (voto: 9 in cattiveria, 6 meno in humour). Da intelligente il dibattito diventa praticamente seminariale a "L'infedele", dove Gad Lerner fa davvero l'approfondimento, con tempi non televisivi (e quindi se per i nevrotici è un tormento per qualcun altro è un'oasi: noi diciamo oasi). D'altronde, La7 è ormai per acclamazione la televisione d'élite grazie alla triade Ferrara-Bignardi-Chiambretti. Certo che non si vive solo di talk show. E nemmeno del "Senso della vita" di Bonolis (nelle sere in cui il desio volge al trash si sente talvolta la mancanza del filosofo Gabriele La Porta). Come antidoto ci si può dedicare a qualche storicizzazione di Giovanni Minoli, ma via via che ci s'inoltra nella notte l'impegno si fa di piombo. Il pollice scivola su qualche scheggia di "Sex and the City", sperando di trovare la puntata in cui la tardona se la fa con il lottatore, oppure quello tremendamente superdotato (facendosi una canna per predisporsi al martirio). Un finale di "Csi Miami", così si capisce definitivamente che il mondo è cattivo. Cinque minuti di "Extreme Makeover", che è uno sguardo sulla provincia americana più profonda, tanto profonda da dare le vertigini. Un pizzico di David Letterman a Raisat Extra (in cui passano repliche utili per chi ha il complesso di colpa per non avere visto Panariello, o il finale del confronto Berlusconi-Rutelli). Poi tutti a letto, noi poveri androidi, a sognare, come disse il profeta Philip Dick, pecore elettriche: o anche schermi finalmente spenti, tanto domani si ricomincia.
L'Espresso, 16/03/2006
Non sparate sul Festival
Poi vi dico del piccione. Intanto sarà il caso di misurare le parole, perché si ha l'impressione che i dati di audience di Giorgio Panariello, definiti "pessimi" dalla critica, l'anno prossimo saranno molto invidiabili. Il 48 per cento nell'ultima serata, capito? Chi sarà lo sfortunato che dovrà confrontarsi con questo share? Qualcuno pensa che la televisione italiana possa produrre molto meglio di Victoria Cabello e Ilary Blasi? Quest'ultima è svantaggiata dal nome, ma sarebbe solo colpa dei suoi genitori se lei e il maritozzo, cioè, il maritotti, non avessero chiamato il loro pupino Cristian, o Christian, come vi pare tanto è uguale (come raccontava Michele Serra, le varianti del nome Christian e la sua diffusione implacabile sono il segno della scristianizzazione strisciante). Comunque Ilary ha fatto una figura migliore di quel che si aspettavano i maligni. Poi, secondo comandamento, niente puzza al naso, niente narici inarcate: se parlate male del Festival l'avete visto, quindi siete complici. Volete avere il becco, altroché. Altrimenti avreste guardato programmi alternativi e molto culturali, film iraniani, documentari e inchieste. Non dite che manca la tv di approfondimento, perché sono bugie. Di recente (per la precisione il 23 febbraio), su La7 è andato un film-inchiesta di Stefano Pistolini, Christian Rocca e Francesco Bonami, "Dalla parte degli angeli", sottotitolo "Dove va la NeoAmerica". Esemplare per capire la psicologia americana e come gli americani percepiscono la necessità infallibile del loro destino. Oltretutto Pistolini, esperto di musica esoterica sul "Foglio", è uno che detesta Povia e l'uso massacrante che fanno le maestre elementari della famigerata (secondo lui) filastrocca sui bambini che fanno "oh", inducendo le scolaresche a cori a bocca spalancata. D'altronde il grande poeta battistiano, Pasquale Panella, quello che ha scritto le parole per il melodramma albanese di Anna Oxa, scrisse proprio per Lucio Battisti un verso indimenticabile in cui descriveva "l'oh dello stupore". Corsi e ricorsi. Noi (vale a dire una comunità informale raccoltasi per la serata finale) abbiamo tifato selvaticamente per Povia e il piccione. Quanto al Festival che verrà nell'anno che verrà, un solo imperativo. Non cambiare nulla! Non toccare niente! Il Festival deve andare per inerzia, qualche volta bene, talvolta male, finché un giorno morirà da solo. Intanto, avanti così!
L'Espresso, 09/03/2006
elezioni western
Ci hanno messo un po' di tempo, ma adesso tutti puntano sui cartelloni sei per tre. Con effetti cinematografici mica male. Un grande western, dove i cowboy non sono ancora gay, tranne le apposite riserve. Piuttosto una trama alla Sergio Leone. Buoni, brutti e cattivi. È il film della campagna elettorale più dura e maligna, e nello stesso tempo più astratta e virtuale, che la storia ricordi. Campagna inutile per le terze file, le comparse che al tempo delle preferenze si scatenavano nei quartieri e nella provincia profonda, per un pugno di consensi, per qualche voto in più, di parenti, amici volonterosi, amici del bar indecisi ma non ostili. E campagna superflua anche per quelli in cima alla lista bloccata, che hanno la pratica certezza di essere eletti. Leader e co-protagonisti occhieggiano dai cartelloni. Gli effetti non sembrano speciali. O forse sì. Vediamo. Nel primo cartellone si contempla la luminosa figura di Gianfranco Fini. Il buono. Lo slogan dice: "L'Italia sicura". L'inquadratura però è venuta di sbieco, e il leader di An mostra una piega nelle labbra tutt'altro che rassicurante. Gli manca soltanto il cigarillo di Clint Eastwood (nessuna allusione alle canne e alla legge antidroga fatta passare per via olimpica). Sarà che lo incattivisce il pensiero di Domenico Fisichella, il professore cattedratico che ha ispirato la fondazione di An e in perfetto disaccordo con la politica costituzionale della Casa delle libertà si è posato come gentil farfalletta sui petali della Margherita. Cattivissimo, Fisichella a "Ballarò" è riuscito a trattare da mentecatto un povero caratterista leghista, sparandogli nella pancia i nomi di Benedetto Croce e di Henri Pirenne, con la faccia accademicamente omicida di chi all'occorrenza non avrebbe avuto remore a far fuoco in nome di Huizinga, Weber e Elias (con uno dei brutti, Fabrizio Cicchitto, che sogghignava accusandolo di vezzo baronale: ma Fisichella, imperturbabile, con una raffica di citazioni che avrebbe steso anche il buon samaritano dell'Occidente, cioè del West, il caritatevole e poetico frate Sandro Bondi). Fini ha fatto un colpo effettivamente gobbo arruolando l'avvocato Giulia Bongiorno, quella dell'«evvài» per l'assoluzione di Giulio Andreotti, il quale ha subito detto che voterà per la fanciulla del West. Ma ha il piombo nelle ali per via delle altre facce del suo partito: Francesco Storace è uno dei brutti e cattivi, ministro della Salute con gessati disdicevoli, un angelo che ha mangiato troppi fagioli ed è favorevole al fumo, nonché non proprio convincente sull'influenza avicola. Un tempo la destra poteva contare sui militari esercito, marina e aviazione, adesso ha problemi anche con l'aviaria. Gianni Alemanno è un altro con la faccia di uno che comincia a giocare quando giocano i cattivi, sguardo teso di chi teme un attacco alle spalle; mentre Maurizio Gasparri non si è più ripreso dalla trombatura da ministro, dopo avere realizzato la legge voluta da Silvio Berlusconi per le sue truppe e le sue troupe. Inoltre il ministro degli Esteri, che spesso esprime una politica estera piuttosto virile, è gravemente scoperto sul lato femminile: poteva dargli una mano la Prestigiacomo, trasferendosi armi e bagagli in An, ma si sa che le donne sono volubili, un giorno dicono che sono pronte a saltare lo steccato e a fuggire nell'Arkansas, poi rimangono a ballare con il loro Cavaliere. Insomma, a destra i buoni sono buoni relativamente. È buono Silvio Berlusconi, ma solo finché non lo fischiano in chiusura di Olimpiadi a Torino (con tutto il rispetto, a Torino andò male anche a un altro pistolero, il cavalier Benito, che tirò alcune bestemmione romagnole e concluse prendendosela con gli operai del senatore Agnelli: «Sono come i fichi, neri fuori e rossi dentro»). Berlusconi ha i tacchi da bounty killer, ma non gli speroni, e il cavallo interno lordo non cresce neanche sotto l'occhio del padrone. Il suo programma è una tipica operazione pensata dal cattivo vero di tutto il centro-destra, ovvero Giulio Tremonti: che nella prima bozza dopo avere elencato le riforme attuate dalla Cdl si era interrogato pensosamente: «Cosa resta da fare?». Ma niente, ci basta. I programmi di Three Mountains sono trovate da commercialista proiettate nella geopolitica: piacciono molto nelle riunioni di categoria. Quanto alle sue proposte generali, eccone alcune sull'ordine pubblico: «Legge & ordine. Non è più vietato vietare. Più severità nei tribunali. La pena non serve solo per rieducare ma anche per punire e scoraggiare...». A molti nella "Casa circondariale delle libertà" (copyright di quel brutto ceffo di Marco Travaglio), dev'essere partito un brivido. Sono buoni anche tutti i capi e i gregari dell'Udc. Buonissimo, Pier Ferdinando Casini, uno capace di scambiarsi i bigliettini con Walter Veltroni, vincete voi, ma no, pareggiamo noi. Addirittura eccellente è Marco Follini, che quando i berluscones gli sparano addosso risponde con ottime battute, sullo schema "me ne hanno date, ma gliene ho dette". Ottimo è Rocco Buttiglione, che con Marcello Pera potrebbe fondare un movimento neocristiano, nella certezza di poter ambire, entrambi, alla successione di papa Ratzinger, quando sarà il momento, oppure al lancio di una crociata in difesa della (demo)cristianità; e se va male un ruolo da predicatori in uno spaghetti western non glielo toglie nessuno, a nessuno dei due. Per la categoria dei brutti e cattivi autentici, i migliori critici assegnano Oscar e nomination, ça va sans dire, alla Lega: c'è il cattivo d'annata, il Senatur, che resiste impavido a tutte le pallottole che il destino gli ha tirato adosso, fa il vecchio saggio, ma in cuor suo deve avere già deciso che la storia della Casa delle libertà è finita, e non appena il referendum spazzerà via la devolution si entrerà in un altro film: la sua banda dei tre Roberti, con Maroni, Castelli e Calderoli è pronta per un remake di "Dio perdona io no" (Maroni non perdona gli esuberi alla Fiat, Castelli non perdona i pm, Calderoli non perdona gli islamici: continueremo a chiamarli Trinità). Quelli dell'Unione sono tutti buoni. Belli, mah. Tolto il bello guaglione per definizione prodiana, Francesco Rutelli, l'estetica del centrosinistra tende decisamente al brutto (neanche Luxuria & Grillini alzano la media e il glamour). Siamo brutti che piacciono, sarebbe lo slogan creato da Giulio Santagata, solo che lui non piace alla Margherita e Arturo Parisi non piace ai rutelliani. Romano Prodi l'ha messa sulla serietà. Fassino, D'Alema e Bersani fanno i seri anche loro, forse per il sospetto che nel clima da Far West la transizione comunista possa concludersi con il passaggio dall'Unipol all'Interpol. I problemi più immediati sono provocati dalla Rosa nel pugno, che più che un partito sembrerebbe una canzone di Celentano, «a mezzanotte sai che io ti cercherò»: ma altro che una carezza, Boselli e Pannella alla Quercia hanno davvero tirato un pugno, anzi un cazzottone, con la candidatura esplosiva, giù la testa, del compagno Lanfranco Turci (l'autocandidatura di Emma Bonino al Quirinale è un sequel, e sembra fatta apposta per far venire il mal sottile al dottor sottile Giuliano Amato). Nel gran duello elettorale, Prodi sta adottando una tattica imperscrutabile. Non spreca un proiettile. Rinvia la decisione sul faccia a faccia televisivo. Tiene coperto il programma. Come fu detto, il Professore (ottimo soprannome per uno sceriffo, di quelli che hanno un passato moderato da far dimenticare e quindi sono diventati micidiali anche con i loro alleati: come è stato ripetutamente scritto, e come hanno raccontato anche a Helmut Kohl, Romano gronda bonomia da tutte le Colt). Quindi i suoi sostenitori sono convinti che al momento buono Prodi avrà ancora a disposizione un impressionante volume di fuoco; i suoi nemici invece sono arcisicuri che quando comincerà a sparare le elezioni saranno già passate. Chi vivrà, e nel West non è facile sopravvivere, vedrà. L'Unione intanto ha fatto onore al suo nome unendo l'estremista moderato Antonio Di Pietro con l'estremista rossa Franca Rame. I cattivi del centro-sinistra sono tutta gente conosciuta, e le loro facce si possono trovare su appositi cartelli davanti a tutti i saloon: Pecoraro Scanio, Mastella, Diliberto. Ma anche nei film più duri si è visto che i cattivi si riscattano. La prova della redenzione l'ha fornita Fausto Bertinotti. D'altronde, l'Unione è davvero davanti alla prova del fuoco. O vince questa volta, e porta a casa il costosissimo scalpo di Berlusconi, oppure si cambia produttore, regista, film, personaggi, distribuzione, e magari anche pubblico. Ma se l'Unione ce la fa, sarà la smentita ufficiale che, quando l'uomo con la pistola incontra l'uomo con il fucile, l'uomo con la pistola è un uomo morto. Per battere i cannoni televisivi del Cavaliere, ci vuole un'azione come quella finale di Butch Cassidy e socio. Per sfuggire alle trappole di una coalizione non proprio volonterosa, divisa sulla politica estera, sugli embrioni, sull'Europa, sul papa, non basta un gran pistolero, la mano veloce, una buona mira. Occorre la principale caratteristica posteriore che ha reso famoso Prodi. Urge la fortuna che talvolta aiuta i parroci. E di fronte all'impresa temeraria del Parroco, dieci anni dopo, ci vuole soltanto del gran cinismo per augurare, alla fine del film, in attesa dell'happy ending, "pacs e bene".
L'Espresso, 09/03/2006
Apoteosi criminale
Vedere la serie di "Csi - La scena del crimine", nelle sue ambientazioni di New York o Miami (sul canale Fox Crime e su Italia 1) è un'esperienza rilassante: a patto di guardare gli episodi con lo spirito giusto, e cioè sapere che si vedranno storie tremende, omicidi spaventosi con particolari agghiaccianti. Eppure ogni puntata è positiva, rassicurante, definitiva. Si capisce da subito che il mondo rappresentato da "Csi" è altamente imperfetto, anzi, dannatamente sbagliato, dove i presunti colpevoli commettono atti che una volta si sarebbero detti innominabili, e magari anche le vittime sono tipini discutibili. Insomma non si salva nessuno, e nemmeno lo spettatore, a cui vengono inflitte magnifiche "slow motion" di proiettili che si infilano nel cranio, e altre devastazioni fisiche prodotte da armi proprie e improprie, con messe a fuoco di rara efficacia (e di notevole impatto sul cervello, sia su quello degli spettatori sia su quello delle povere vittime). E allora perché è rassicurante? Ma perché è l'esatto contrario dei telefilm complicati, esistenziali, metafisici, ambigui, in cui non si sa come va a finire davvero e fra assassini, assassinati e investigatori non si capisce chi è più colpevole. Nelle storie di "Csi" i ruoli sono chiari. E le trame sono meccanismi a orologeria. Non è come in molte story contemporanee, dove vige il principio di indeterminazione (perché in certe psicologie lambiccate, come ha enunciato di recente Cesare Pasqua in un romanzo di matematica precisione che è un'allegoria dell'Italia e della letteratura italiana, "Il viaggiatore di seconda classe", Robin edizioni, «i fatti hanno il difetto di rendere meno interessante la teoria»). Questo schema paradossale non vale per "Csi": qui siamo in pieno positivismo, i fatti sono fatti e le teorie valgono popperianamente solo in base alle evidenze scientifiche. Sulla scena del crimine ogni svolta narrativa è impressa da un riscontro empirico. Strumenti sofisticati, indagini analitiche, risorse tecnologiche servono per falsificare o verificare le ipotesi. E puntualmente gli indizi vengono provati, le macchinazioni svelate: poliziotti e criminali condividono lo stesso codice amorale, solo che il gioco rispetta le parti e ciascuno, di parte, fa la sua. Poi magari, dopo avere sbattuto in galera i colpevoli, ogni detective ha una sua vita o i suoi drammi: ma quella è per l'appunto un'altra storia.
L'Espresso, 02/03/2006
Incubo pareggio
Il pareggio è un incubo, un miraggio, un'opportunità. Tutto sta a intendersi su che cosa significa la parola pareggio. Perché la situazione, al momento è più o meno la seguente. A fronte della flemma olimpica manifestata dall'Unione, Silvio Berlusconi risale. Lima frazioni di percentuale. Man mano che ci si avvicina al voto, la Casa delle libertà si rinfranca. La violentissima campagna mediatica del Cavaliere, insieme con la sua spregiudicata campagna di alleanze con i neofascisti, è fruttuosa. Per ora lo sforzo berlusconiano sembra dare risultato più rilevanti nel voto alla Camera, mentre al Senato, secondo il sondaggio Swg pubblicato in queste pagine, le distanze risultano più stabili. Mancano sei settimane al giudizio di Dio, e l'eventuale rimonta della Cdl può prefigurare lo scenario politico della Madre di tutte le manovre. E qui occorre chiarire che il pareggio non è un pareggio per tutti. Per Berlusconi e per Romano Prodi sarebbe a tutti gli effetti una sconfitta. Per il capo di Forza Italia c'è una sola possibilità: vincere. Berlusconi esiste in quanto "dominus" del sistema politico, come colui che modella lo schieramento bipolare. Se concludesse la sua risalita con un risultato di parità, riemergendo dai giorni in cui sembrava battuto a priori, allorché Giuliano Ferrara lo consigliava di trovarsi una via d'uscita e un successore, il Cavaliere diverrebbe comunque un politico fra gli altri. È vero che si tratterebbe di un mezzo miracolo. Perché vorrebbe dire che alla Cdl sarebbe riuscito il riequilibrio dopo una serie di vistose sconfitte elettorali intermedie. E sarebbe anche la dimostrazione che l'ideologia paga, che nell'Italia del Duemila il discrimine corre ancora fra "comunisti" e anticomunisti. Se Berlusconi rimonta, ciò significa che l'attività di governo è priva di significato, che la crescita zero non importa nulla agli elettori, che il degrado dei conti pubblici, con lo spreco dell'avanzo primario, e la perdita di controllo sulla spesa pubblica, rappresentano variabili irrilevanti. Eppure, anche in caso di "no contest", Berlusconi appartiene al passato. Così come anche Prodi. Il Professore infatti è il prodotto di alcuni fattori storici: è la garanzia cattolica su tutto il centro- sinistra, un'etichetta di governabilità che rende trattabile alla borghesia nazionale l'estremismo parolibero di alcuni partiti e alcune frange della sinistra. Ma nello stesso tempo è anche l'espressione del progetto bipolare, e quindi il suo volto è l'altra faccia di quello di Berlusconi. Tuttavia gli sconfitti dal risultato di parità sarebbero più numerosi. Le ali estreme delle due coalizioni, in primo luogo, e cioè Lega e Rifondazione comunista. Nonostante le minacce di correre in solitario, rinnovate ma anche presto rimangiate dopo l'espulsione dall'esecutivo di Roberto Calderoli, il movimento di Bossi è vitalmente legato alla Cdl: fuori dall'alleanza la Lega sarebbe un soggetto politico localistico, capace di drenare la protesta e le spinte xenofobe e antislamiche, ma non di portare al Nord trofei importanti come le riforme costituzionali e il federalismo fiscale. Quanto a Rifondazione, l'ammucchiamento al centro determinato dal pareggio la metterebbe ai margini: il caso Ferrando è trattabile all'interno dell'Unione, mentre fuori dalla coalizione l'esplodere di "espressività" caratterizzate da slogan come "una cento mille Nassiriya" porterebbe il partito a una deriva incontrollabile anche da un leader culturalmente attrezzato come Fausto Bertinotti. Ma il pareggio non farebbe bene neppure alla coppia di vertice dei Ds, ossia a Piero Fassino e Massimo D'Alema, che hanno puntato tutte le loro carte sull'alternativa al centro-destra e che si troverebbero in condizioni incerte di fronte a uno schema politico nuovo. Nel centro-sinistra in realtà si tende a guardare ai sondaggi ostentando sicurezza. Il costituzionalista Stefano Ceccanti smentisce l'idea che il Senato possa essere perso dall'Unione. Nell'entourage prodiano, Giulio Santagata fa notare alcuni aspetti risultanti da sondaggi in loro possesso: una tendenza alla crescita della lista unitaria; un profilo non straordinario del gradimento di Berlusconi; un orientamento degli astenuti potenzialmente più vicino all'Unione. Ottimismo? «Perlomeno non pessimismo, anche perché la nostra campagna comincia adesso». E allora occorre vedere quali sono i potenziali "vincitori del pareggio". A diverso titolo, i veri trionfatori in caso di parità, o di risultato politicamente illeggibile, sarebbero gli uomini a capo dell'Udc. La triade Casini-Follini-Tabacci. Ognuno di loro a diverso titolo e per ragioni diverse. Ma ai loro occhi il pareggio sarebbe un risultato eccezionale almeno per tre motivi. Primo, per la mancata vittoria del centro-sinistra. Secondo, per la riduzione di Berlusconi a uomo politico fra gli altri, con l'abbattimento della sua leadership. Terzo, e qui entriamo in zona altamente suggestiva, perché con il campo libero dal bipolarismo si spalancano praterie per qualsiasi ipotesi neocentrista, e per qualsiasi manovra di scomposizione e ricomposizione degli assetti politici. Quando Emanuele Macaluso segnala che l'obiettivo principale e immediato è «battere Berlusconi», perché tolto questo tappo «assisteremo a processi che renderanno fluida la politica italiana», indica un rischio, non solo un'opportunità. Perché i più pessimisti vedono dietro il pareggio la fine del bipolarismo e la grande corsa al centro. Un vortice in cui finirebbero Clemente Mastella, settori della Margherita, pezzi di Forza Italia. In cui potrebbe inserirsi anche Gianfranco Fini, approfondendo la democristianizzazione di An. Sullo sfondo, i salotti buoni, su cui si staglia la figura dell'ex commissario Ue Mario Monti, il primo a lanciare il "ballon d'essai" della formula neocentrista per fare le riforme «indispensabili al paese». E naturalmente i cosiddetti poteri forti, dalla Confindustria all'establishment economico terzista, a cui forse non sembrerebbe vero di poter diventare l'imprenditore politico di uno schieramento centrista destinato a occupare per l'eternità l'area di governo. Sono i miraggi e le opportunità della proporzionale. La vera legge canaglia della legislatura che si è conclusa. Perché si scrive pareggio, ma bisogna leggere fallimento della politica. E 12 anni di razionalizzazione del sistema, e del paese, semplicemente buttati via.
L'Espresso, 02/03/2006
Reality Sanremo
A dire che ogni anno il Festival è peggio dell'anno prima si fa la figura dei babbioni che rimpiangono il tempo andato. Però è vero, ogni anno è peggio. Per le altre edizioni, di stagione in stagione, si potevano rispolverare le categorie descrittive di cui si è abusato. Sanremo come specchio dell'Italia contemporanea, del suo costume, della sua società; oppure, al contrario: il Festival come un prodotto autoreferenziale, un acquario di freak che nuotano in una bolla, rappresentando solo se stessi (e "l'ideologia" del festival). Dopo di che le deplorazioni potevano riguardare il fatto che il palco del teatro Ariston, quest'anno allestito scenograficamente dal premio Oscar Dante Ferretti, non è più la vetrina della canzone italiana, come se davvero esistesse una cosa che si chiama "canzone italiana" da mettere in qualche vetrina; oppure più rigorosamente che i freak non fossero abbastanza freak, e ancora più precisamente i mostri non abbastanza mostri. Aria moscia. Vabbé che è l'edizione numero 56, un anno di transizione, né nozze d'oro né di diamante. Festival di legno, come certe quasi medaglie olimpiche. Manca il grande pigliatutto, il conduttore presentatore dittatore che sbanca l'audience, non c'è Fabio Fazio, non c'è Piero Chiambretti, non c'è Paolo Bonolis, e non c'è nemmeno come direttore artistico Tony "Anch'io ho degli amici criminali" Renis. C'è Giorgio Panariello, con un profumo televisivo e neocentrista di Ballandi-Ballandi. E ci sono Victoria Cabello, la iena che diventerà il «folletto disturbatore del Festival», e Ilary Blasi, quella che ha avuto il Pupino dal Pupone, che poverino si è rotto il perone e rischia i Mondiali di Germania: lacrime, applausi, tutti in piedi, ci manca solo l'inno di Mameli cantato dalla bambina. Di Panariello si sa quasi tutto, compreso il fatto che sfida la storia e la cronaca sostenendo che la signora Franchina Ciampi non si riferiva a lui quando parlò della «tv deficiente» (in proposito dà la colpa a una copertina de "L'espresso", evvài!), e si mostra «quasi offeso» quando qualcuno lo addita a simbolo della tv nazional-popolare più ovvia. Il sito del Festival (www.sanremo.rai.it) illustra un ricco elenco di autori, Eddi Berni, Riccardo Cassini, Claudio Fasulo, Pietro Galeotti, Giorgio Panariello, Carlo Pistarino e Claudio Sabelli Fioretti, ma non rinuncia a promettere che «Marta Cecchetto, Claudia Cedro, Vanessa Hessler e Francesca Lancini, quattro splendide modelle italiane, accompagneranno gli artisti, indossando le magiche creazioni dei più grandi couturiers del made in Italy». Col tipico effetto da mercato rionale "donne, mi voglio rovinare, se non vi bastano i cantanti ci metto anche un frullatore". Dopo di che si tratta di riempire cinque serate tv, e non sarà semplice. Perché è vero che quest'anno il Festival sta completando una parabola che prima lo portava ad assomigliare a un reality show, e talvolta ad anticiparne la logica (con la differenza che nei reality non si è mai suicidato nessuno, e quindi l'effetto verità di Sanremo è stato spesso assai più clamoroso, e anche la creazione di leggende urbane, come nel caso di Luigi Tenco, riesumato proprio in prossimità dell'edizione 2006); e che adesso invece lo porta all'identificazione completa con i moduli del reality, con un qualsiasi "Music Farm" dove non si riesumano i morti ma i morti di fama. Uno sguardo ai partecipanti infatti rende subito evidente che fra il Sanremo di quest'anno e un reality a sfondo musicale c'è poca differenza. Manca Francesco Baccini, è vero, ma c'è la gatta morettina Dolcenera, che nell'ultimo "Music Farm" gli piantò una storia di seduzione basata sul prevedibile schema "te la do anzi no". Con lui che non s'è mai capito se ci provava, ci stava o era semplicemente provato. Se è solo per questo mancano anche Iva Zanicchi e Mietta e Franco Simone e Fausto Leali o Loredana Bertè. Ma si sa che ciò che conta è lo spirito. E lo spirito del Sanremo 2006 è proprio quello del recupero di gente in disarmo, di semi-star logorate, di ex campioni d'incassi delusi dalla Siae. Ron, Alex Britti, Gianluca Grignani, Michele Zarrillo fra gli uomini. C'è quello che rifà il se stesso degli esordi, quando rifaceva il Battisti più battistiano, quell'altro che fa il clone di Venditti per l'area meridionale, uno che preme preme e non sfonda mai del tutto perché "cià 'a faccia da burino". Volete una parata di cantanti donne da reality? C'è solo l'imbarazzo della scelta: Anna Oxa e Ivana Spagna, cioè la vecchia guardia, un epinicio generazionale alla Silicon Valley. Anna Tatangelo, allieva e protetta di Gigi D'Alessio, a riprova di una vocazione irriducibile alla subalternità (certificata dall'aver presentato in altra edizione una canzone autobiografica intitolata "Una ragazza di periferia", che ovviamente è diventato un must per tutte le coatte che inflazionano i programmi giovanilistici ed esibizionistici del pomeriggio, con Maria De Filippi o no). Sulla categoria dei "gruppi" bisognerebbe stendere un velo, ma bisogna fare un paio di eccezioni innanzitutto perché ce n'è uno piuttosto "glocal", che sarebbero i Figli di Scampia, uno di quei nomi che richiama classiche battute come quella di Fiorello quando annuncia al padre di voler fare il ballerino: «Ma non potresti fare scippi come tutti gli altri?». Costoro rischiano di far passare in secondo piano il debutto a Sanremo dei Nomadi, che giusto quarant'anni fa avevano esordito al Cantagiro con "Come potete giudicar" e nel frattempo hanno attraversato tutte le fasi di una carriera: il successo con "Dio è morto" e con le ballate di Francesco Guccini, la fase di stanca, l'ideologizzazione tardo-emiliana con storie di mitraglie e partigiani, la morte del leader Augusto Daolio, il ritorno sempre più convinto come band perpetua, amica di Cuba e di Fidel, dotata di un pubblico fedele ed entusiasta, politicamente più vicino a Rifondazione che ai Ds. Anzi, neanche Rifondazione, troppo trotzkismo, troppa sciccheria, i Nomadi sembrano l'immagine perfetta per i Comunisti italiani, il rock secondo Oliviero Diliberto. L'effetto reality dovrebbe essere esaltato da un regolamento supercompetitivo, con eliminazioni a raffica, che alla fine lascerà sul palco del sabato sera solo otto protagonisti, una specie di grande massacro dei poveri svippati. E così si chiude il cerchio, Sanremo diventa una sottomarca dell'"Isola dei famosi". Certo, per movimentare un po' l'ambiente ci vorrebbe qualche scandalo, ma un'esperta del Festival come l'inviata della "Stampa" Marinella Venegoni assicura che per il momento niente, né scandali né polemiche, una noia piatta. Speriamo in Mario Venuti, uno spirito ironico che oscilla fra canzoncine sadomasobondage e cedimenti all'autoerotismo, e che ha la faccia perfetta per risultare antipatico al pubblico di Raiuno. Poi ci vorrebbe probabilmente qualche cosa di clamoroso politicamente, magari l'irruzione dei No Tav, come quella volta che arrivarono i metalmeccanici e Pippo Baudo salvò Sanremo parlamentando con la delegazione operaia. Quanto ai vip veri, si sa che Luca di Montezemolo, uomo di stile, ha declinato ogni invito. Ci vorrebbe qualcuno che faccia colpo, bisognerebbe non perdere il figlio segreto di Moana Pozzi, oppure l'ex ministro Roberto Calderoli. Finirà invece che il momento clou del Festival sarà l'esibizione di Povia, quello che l'anno scorso sbancò fuori concorso con i bambini che fanno oh, l'incubo del grande e sfiziosissimo conoscitore Stefano Pistolini, il quale sul "Foglio" non manca di esecrare l'inflazione scolastica di quella canzone così perfettamente ruffiana, con tutti i mocciosi e le maestre impegnati nell'epopea infantile del cagnolino. Povia stavolta è in gara con una canzone intitolata "Vorrei avere il becco": praticamente perfetta. Se infatti fra becchi e gabbiani Sanremo venisse contagiato dall'aviaria, allora sì il divertimento, allora sì i titoli sui giornali.
L'Espresso, 02/03/2006
Radio fiorello Cult
Sgombriamo il campo da un equivoco culturale: nonostante le teorie dei critici, fra la televisione e la radio non c'è nessuna differenza. Se si azzera l'audio, la televisione fa ridere; se si azzera il video, come da sua essenza, la radio fa ridere pure. Ossia: fa ridere, e anche sghignazzare, se la trasmissione si chiama "Viva Radio2" (dal lunedì al venerdì alle 13.40, in replica alle 23), programma di Fiorello con Marco Baldini giunto alla terza edizione. E qui bisogna sbilanciarsi. Basta ascoltare una puntata di "Viva Radio2" per capire che siamo ai livelli epocali di "Alto gradimento", lo storico exploit di Arbore & Boncompagni. Anzi, qualche volta meglio, perché la trasmissione di Fiorello è tutta scritta, pensata la mattina per essere realizzata nel pomeriggio, con una prodigiosa qualità di invenzione e di humour. Certo, ci sono anche qui i tormentoni. La telefonata cult a casa dello scrittore Andrea Camilleri, o l'intervento dello pseudo-Minà da Cuba, che ogni volta produce uno sterminato elenco di "eroi": «Io, Fidel, Compay Segundo, Sotomayor, Mario Pastore, Paolo Meneguzzi, Cassius Clay...». Ma forse il lato più divertente del programma sono le performance dal vivo, con le strepitose canzoni di Fiorello (indimenticabile una esecuzione di "Delilah" forse migliore di quella di Tom Jones). Oppure gli interventi politico-canori, il samba napoletano di Silvio Berlusconi, Romano Prodi che accenna l'odiosamata "Roma capoccia"; e l'indimenticabile performance di Bobo Craxi, che ha accompagnato (benissimo) Lucio Dalla alla chitarra mentre quest'ultimo, a Bologna, in macchina, cantava nel cellulare: «Oddio, adesso basta perché ci sono i vigili», e clic. Noi non vogliamo sapere niente di questioni tecniche. Se si prendesse lo "specifico radiofonico" di "Viva Radio2" e lo si trasformasse in uno "specifico televisivo" si otterrebbe uno show tale da cambiare la storia della televisione italiana. Le obiezioni non sono valide: la radio è la radio e la tv è la tv. Storie. L'intrattenimento è l'intrattenimento. C'è chi lo sa fare e chi non lo sa fare. C'è chi può e chi non può. Fiorello può. E complimenti a tutti, autori, collaboratori, regista, assistenti di studio; l'unico rischio è che, ascoltato una volta il programma, si rischia la tossicodipendenza, e incombe la nuova legge equiparante droghe pesanti e droghe leggere. Noi vogliamo la droga pesante: dateci la televisione.
L'Espresso, 23/02/2006
L’orrore corre sul bisturi
Si sconsiglia vivamente di guardare "Extreme Makeover" su Fox Life. Perché è un programma carogna. Prende e non molla più. Dimenticatevi le imitazioni provinciali come "Bisturi": qui siamo nell'horror puro. Trovano dei mostri nella provincia americana, li convocano, li trasformano. C'è la donna più brutta del paese, quella che la figlioletta si metteva a piangere se veniva accompagnata a scuola, perché i compagni minacciavano di prenderle entrambe a sassate. C'è il ciccione che per una dieta killer ha perso 90 chili in un anno, e che ha la pelle della pancia che gli arriva quasi alle ginocchia. Un catalogo di casi umani, trentenni che dimostrano settant'anni, povere donne deturpate dalla chirurgia, giovani che se invitano fuori una ragazza vengono denunciati per crudeltà mentale. Qui comincia l'avventura. Li prendono, e cominciano a sbudellarli, a disossarli, a limargli gli zigomi, a ficcargli protesi dappertutto. Poi gli rifanno i denti, gli tirano gli occhi, gli spostano le orecchie. Vengono fuori tumefatti, pieni di bende. Sono poveri corpi martoriati, su cui si sono accaniti chirurghi allegrissimi, in operazioni che sembrano quelle di "Mash". Con il passare delle settimane, le condizioni migliorano e si passa alla seconda fase, la creazione di un look nuovo. Ecco lo specialista di moda, lo hair stylist, la truccatrice. Il mostro alla fine viene ricondotto a una condizione di quasi normalità, magari con due tette così. E qui c'è il colpo di genio: perché prima di riportarli al paese, dove li attende il consesso dei parenti e degli amici, li vestono e li acchittano come star. Gli uomini, vabbé. Le donne invece drappeggiate come mignottoni in serata di gala. Quando rientrano a casa, per lo shock tutti ridono e piangono come vitelli, con i mariti che guardano un po' increduli e vagamente preoccupati, dicendo «è bellissima ma lo era anche prima, per me». Ci sarebbe da discutere sulla moralità di questo genere di "body show", ma non ne vale la pena. "Extreme Makeover" è l'anticipazione di un futuro in cui il rifacimento sarà pratica normale. Meglio prepararsi: anche perché quando la donna rinata o il maschio rifatto si ripresentano a casa hanno l'aria un po' così di chi sta già pensando di parenti e conoscenti: ah, poveri scorfani. E tutti noi, ancora non rifatti, siamo assaliti dal pensiero irriducibile cha forse, anche per noi, un botox non sarebbe una tragedia sociale.
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