L’Espresso
L'Espresso, 16/02/2006
Ma quanto ci è costato Berlusconi?
Fra le tecniche della politica populista ce n'è una che i politologi definiscono "manipolazione dell'agenda". Funziona più o meno così. Si presenta un programma elettorale, dopo di che si selezionano i temi giudicati soggettivamente più importanti, che vengono imposti propagandisticamente all'opinione pubblica, e su cui alla fine si chiede il giudizio degli elettori. Ciò consente di mandare in secondo piano una larga serie di punti programmatici controversi. Tanto per dire, a molti pendolari non importa granché delle grandi opere, se i trasporti normali vanno in malora; qualcun altro giudica la riforma della Costituzione qualcosa di molto più importante e grave del taglio delle tasse; altri ancora pensano che il ritorno al sistema proporzionale sia un attacco cinico alla tenuta del paese, e guardano con sufficienza o diffidenza alle promesse (peraltro non mantenute) sulla riduzione dei reati. L'abilità spettacolare di Silvio Berlusconi è consistita proprio nel portare la di?scussione pubblica sul terreno scelto da lui. Sulle 33 riforme prodotte dal suo governo, come se fosse importante il numero delle leggi e non la loro qualità, il loro varo legislativo, e non la loro realizzazione concreta. Ad esempio, è difficile non giudicare regressiva la riforma della scuola realizzata da Letizia Moratti, e basta entrare in un qualsiasi istituto scolastico per capire in quali condizioni deve lavorare un insegnante di buona volontà. E anche sul Contratto con gli italiani ci sarà da discutere: fra pochi giorni esce un nuovo libro di Luca Ricolfi ("Tempo scaduto", Il Mulino), che misura proprio il grado di attuazione dei cinque punti, e che contiene molte serie delusioni per la destra, parecchie delusioni per la sinistra, e una delusione grandissima proprio per Berlusconi. Il quale però è impegnato in una campagna titanica, basata su un solo assunto: deve fare il possibile per ricreare la fusione calda fra sé e il popolo. Deve mobilitare nuovamente il proprio elettorato deluso. Quindi ha ripristinato la sua formula infallibile: "noi" contro i comunisti, un manicheismo che investe e anzi specula sulle fratture della storia politica italiana. È venuto nell'Emilia profonda e ha ironizzato sul fatto che «qui perfino il sole è rosso»; ha ripetuto le solite ovvietà sugli intrecci fra giunte rosse e coop. Ha ripetuto quell'autentica trovata geniale che è il "pentagono rosso", con le sue ombre e risonanze misteriche. Ha ripreso tonalità quarantottesche, riuscendo a presentarsi come vera opposizione contro un potere virtuale ma rosso e pericoloso. Funziona? Sulle platee televisive un po' funziona. Se il Potere appare a tutte le ore in qualsiasi programma, compreso quello di Irene Pivetti, con l'accompagnamento trionfale di Arrigo Sacchi e di qualche goleador milanista, può anche scattare il pensiero che un altro potere, cioè l'alternanza, sarebbe un salto nel buio. Qualcosa che evoca ideologie minacciose, rischi per la proprietà, accanimento burocratico e fiscale. Il fatto è che almeno per ora non si è assistito a una risposta convincente e coordinata del centrosinistra. Berlusconi sul piano della dialettica, con i suoi "foglietti e disegnini" (Diego Della Valle), è capace di sfuggire a ogni attacco individuale . Ecco allora che occorre riportare in agenda, cioè nella discussione pubblica, i temi su cui la Cdl è in difficoltà e su cui ha poche risposte. L'economia. Il reddito degli italiani. Nel 2001 avevano puntato tutto sul "miracolo", un tasso di incremento del Pil superiore al 3 per cento. Siamo alla crescita zero. Non è soltanto un indice macroeconomico: si tratta di ricchezza scomparsa, che non è più nelle tasche degli italiani. Un risultato ottenuto bruciando l'avanzo primario, aggravando il deficit, sfondando la spesa pubblica. Tutto questo significa una sola cosa: che il paese si indebita. Che la terra dei sorrisi e dei gipponi, dei ristoranti sfacciati e delle vacanze al Billionaire, nasconde dietro di sé un sistema tarlato, sempre meno competitivo, abituato al benessere ma incapace di mantenerlo. In sostanza, occorrerà portare in campagna elettorale la domanda: quanto ci è costato Berlusconi? Con un po' di fantasia contabile si può anche quantificare la cifra e chiedergliene conto. Ma occorre farlo presto: altrimenti l'ipnosi del Cavaliere addormenterà non solo le platee televisive ma anche ampi settori di elettorato.
L'Espresso, 16/02/2006
Più giullari che Iene
Per molti la televisione produce giornalismo addomesticato, e questa diagnosi è vera per difetto, nel senso che di questi tempi i telegiornali 1 e 2 della Rai descrivono un paese allucinato, dominato da una strana figura che le spara grosse, sostenendo tesi che sono già state molto liquidate dopo approfondita discussione in molti bar. C'è da essere invece più scettici sulla tesi secondo cui il vero giornalismo e la vera controinformazione sarebbero quelli di "Striscia la notizia" o "Le iene". Per un appuntamento quotidiano come "Striscia" bisogna sempre pensare che c'è dietro il cervello di Antonio Ricci, cioè un'intelligenza desiderosa di trasformare ogni tragedia in farsa e viceversa. Mentre per "Le iene" il discorso diventa più complesso, soprattutto se lo si riferisce alla politica. In apparenza, le Iene trattano gli uomini politici tutti allo stesso modo, con equo e feroce spirito bipartisan. Ma c'è un ma. Ridurre il rapporto con la politica a uno sberleffo è una costante della società italiana. C'è nella nostra storia nazionale un fondo qualunquista, uno spessore anarcoide, una pulsione familista che gode nel vedere beffeggiato un mezzo ministro o un quasi leader. Ma se si osserva la carrellata di incontri delle Iene con Silvio Berlusconi, le sue risate complici, i suoi rabbuffi ironici, ci si accorge facilmente che la psicologia berlusconica e quella delle Iene sono congruenti. Al massimo il Cavaliere si stizzisce e si rabbuia se il Trio Medusa insiste troppo. Ma il programma delle Iene non è affatto una contestazione del potere, ci mancherebbe: è una complicità giullaresca che fa godere l'Imperatore finché ha voglia di divertirsi. Dopo, naturalmente, s'incazza, il clown ha il suo momento di gloria, e Mediaset la dimostrazione che ci sono i comunisti anche fra noi, e sono comunisti "divertenti". E invece la realtà più probabile è che abbia ragione Franco Cordero, lo stregone del diritto penale, il quale sostiene che con le sue tre reti il signor B. ha istupidito la gente e reso disponibile una visione del mondo che ha al suo centro Berlusconi. Nel sentire la sequela di quasi-verità e di autentiche leggende metropolitane con cui diluvia Berlusconi nelle nostre serate, si capisce facilmente che le Iene non sono un antidoto, bensì un complemento. «Non si dà vita vera nella falsa», sosteneva il vecchio Adorno: il che vuol dire che non ci sono isole felici nel mare di Mediaset.
L'Espresso, 09/02/2006
La notte di Silvio
Dove sono i laici, i libertari, gli anticlericali, i radicalconservatori del centrodestra? Dormono tutti sulla collina, e dormono sonni beati, mentre nelle ultime settimane di legislatura la Casa delle libertà dà spettacolo trasformandosi nella Casa della reazione. Leggi regressive. Strappi alle convenzioni. Arroganza anti-istituzionale. Certo, non stupisce assistere allo show del cavalier Berlusconi che si rivolge al cassintegrato dicendogli «fortunato lei che ha il sussidio». Ma di fronte alle leggi ambigue e demagogiche come la riforma della legittima difesa, o al bastone implicito nella legge propagandata da Gianfranco Fini sulla droga, ogni volta si resta sbalorditi. Si sa che Berlusconi ha due anime: la prima famigliare, «mite e sorridente» secondo "il Foglio", pronta però a rivelarsi ghignante, aggressiva. Grazie alle sue milizie è quasi riuscito a trasformare Carlo Azeglio Ciampi in un eversore, solo perché ha reagito con puntualità alla sua invasione televisiva. E anche il centrodestra ha le medesime due anime. Quando si fondono, ecco l'addizione "Lega più Vandea": che non è un'invenzione ideologica da ultimi giorni del regime, quanto piuttosto un ritorno alle origini. Perché è vero che il Cavaliere è il capo di Forza Italia, cioè di un movimento nazionale: ma se fosse stato per lui, forse gli sarebbe piaciuto di più essere il padrone della Lega. Mentalità intrinsecamente lumbàrd, plasmata dall'insofferenza per lacci e lacciuoli, per la fiscalità, per le regole. Padrone a casa sua, secondo un suo slogan sulle ristrutturazioni edilizie, libero anche di costruirsi la tomba di famiglia nel giardino. Su questo sfondo psicologico ruspante il premier ha poi modellato la sua maschera più confessionale, chiamando a raccolta lo spirito di don Sturzo, le zie suore, e in ultimo il figlioletto Luigi che sempre prega. È anche questa componente machista che risulta simpatetica al sentimento più intimo della Lega. E che su un piano maledettamente più serio, con la legge sulla legittima difesa, interpreta gli umori più profondi e vischiosi della società: con i leghisti subito scattanti a difendere chi spara 13 colpi di pistola ammazzando un ladro albanese, e prima ancora a compiacersi per l'equiparazione fra la "roba" e la vita umana instaurata giuridicamente dalla riforma. Un vulnus drammatico al regime di civiltà giuridica a cui eravamo abituati, anche se suscita il consenso della borghesia spaventata, l'adesione irriflessa a una logica western. È un argomento su cui non si sono sentite molte voci critiche fra i cattolici della Cdl, sicché si rimpiange la prudenza democristiana d'antan, un po' gommosa e spugnosa, ma in grado di filtrare il fondo torbido e gli istinti della società italiana. Quanto alla nuova legislazione sulla droga, non risponde a nessuna logica che non sia l'obiettivo pubblicitario del "giamaicano" Fini e di An. Equiparare l'eroina agli spinelli è un'esemplificazione del braccio violento della legge, oltre che una di quelle trovate da uomo d'ordine in cui Fini primeggia, come primeggiava da divo della destra intollerante al "Maurizio Costanzo Show" nelle sue posizioni contro i maestri gay. Fra i ministri di An, Francesco Storace ha scelto la via muscolare, e si adopera in ogni modo per fare terrorismo spicciolo contro la legge sull'aborto, lasciando aleggiare sulla porca Italia della scristianizzazione edonista l'ombra di un esercito di centinaia di migliaia di non nati che chiedono riscatto per il passato e protezione per il futuro. E si mette di traverso sulla pillola abortiva, modificando le norme sull'importazione dei farmaci, tanto per fare sentire la pressione delle istituzioni, e fare vedere alla gerarchia cattolica che la linea è ortodossa. Altro che atei devoti. Qui c'è un clericalismo strumentale e fazioso, quello che fa chiedere rumorosamente le inchieste sul funzionamento della legge 194, e svicola silenziosamente quando viene fuori che la legge funziona e i consultori non sono un abortificio. Sul piano del divertissement confessionale, invece, l'anima brianzola di Berlusconi è riuscita a produrre una riuscita incarnazione nazionale del bigotto che si affida a Dio per non dare a Cesare. E non è solo folklore. La stessa legge sull'impugnabilità delle sentenze, respinta dal Quirinale, è solo l'ultimo capitolo della serie disarmante di leggi sulla giustizia, trangugiate ogni volta dagli alleati di Berlusconi, talvolta con qualche mal di pancia, qualche altra con il cinismo più schietto, ma alla fine mandate giù e assimilate senza troppi contorcimenti: perché evidentemente quel che non ammazza ingrassa.
L'Espresso, 09/02/2006
VIVA il cannibale Vasco
La "Notte dei Telegatti", mercoledì 25 gennaio su Canale 5, potrebbe essere trattata ragionevolmente come uno dei vertici trash della nostra televisione, così provinciale, così demenziale, così evitabile. Ma succede che uno si mette davanti al teleschermo con l'idea di confermarsi nelle proprie certezze, secondo cui tutto è ormai scritto secondo il paradigma infallibile dell'"Isola dei Famosi" (gente poco famosa che si fa del male, come Zequila e Pappalardo, e fa del male anche a tutti noi, oltre che alla Mara Venier). E poi invece si imbatte in un capitolo geniale di televisione dell'assurdo, ma anche di pura televisione dell'intrattenimento, insomma una (forse involontaria) genialata. Premiavano Vasco Rossi, e bisognava vederlo. Bello grasso, intacchinato come una rockstar in disarmo, probabilmente annoiato, scettico sull'utilità di essere intervenuto. Lo premiava Fiorello, cioè il talento allo stato puro, capace di spingere la panza all'infuori e di premerla contro l'addome del Blasco, e giù risate, e nascita della complicità. Perché Fiorello ha cominciato a recitare qualche verso di quella tale canzone del rocker di Zocca che parla più o meno del senso da ridare alla vita e da dare a questa storia. E ogni volta che accennava: «Eh, la Vita», Vascorossi, con l'occhio cadente, gli mancava solo uno stecchino all'angolo delle labbra, lasciava andare: «Eeeeeeh». E poi quando l'altro suggeriva: «Eh, la storia», il Blasco, sempre con la palpebra smorta e una specie di sorriso diffidente, gargarizzava: «Aaaaaah». È durata quasi cinque minuti, di «eeeeeeh», di «aaaaah», di borborigmi, di gargarismi, di occhiate e di occhiaie. Alla fine Fiorello ha cominciato a cantare la strofa della canzone, «Voglio ridare, un senso a questa vita...», e dopo avere esitato un po' anche Vasco si è messo a seguirlo. Insieme hanno preso forza e convinzione, e se ne sono usciti a braccetto, come due compagnoni, come due che escono tardi dal Roxy Bar, magari un po' brilli, anzi, forse completamente ubriachi, però tonici, «eeeeeh». E soprattutto completamente sfasati rispetto alla televisione e alle regole dell'Isola, alle convenzioni dei talk show: ecco, sono stati cinque minuti di situazionismo, o di terrorismo puro. Da ovazioni. Speriamo che lo ridiano, che lo facciano rivedere. Perché era la tv che divora se stessa, un caso di cannibalismo esemplare. Era la post-televisione: «Eeeeeeeh».
L'Espresso, 02/02/2006
Super Luca for president
Il gioco politico preferito dei corridoi e nei salotti dell'economia nazionale, mentre ricorre il terzo anniversario della scomparsa di Gianni Agnelli, è riassunto dalla domanda: «Che cosa direbbe l'Avvocato?». Già, come si pronuncerebbe adesso, alla fine del quinquennio berlusconiano, quel formidabile inventore di battute che erano verdetti, sentenze praticamente inappellabili? Dunque, nel 1994 l'Avvocato convoca a Roma il neofita governante Berlusconi, insieme alla "haute" dell'economia nazionale, e tutti insieme decidono che non sa usare le posate: pollice verso, e Silvio cadrà. Poi nel 1996 lascia capire che con il centro-sinistra di Prodi le cose andranno meglio, perché si adotteranno misure «europee» e quindi impopolari senza gente in piazza. Quando l'assemblea "vota Antonio", cioè il rutilante D'Amato, contro il candidato di famiglia Carlo Callieri, fa la faccia schifata, «hanno vinto i berluschini». Poi dà il via libera al Cavaliere, messo in croce dalla stampa estera, con la celebre affermazione secondo cui «non siamo una Repubblica delle banane». Ma quando Berlusconi e Bossi licenziano il suo fiduciario Renato Ruggiero, affonda il colpo: altro che banane, «siamo il paese dei fichi d'India». Adesso, quello che Alcide De Gasperi definì nel 1947 «il quarto partito» (come ha ricordato Giancarlo Galli nel volume "Poteri deboli", appena uscito da Mondadori), si guarda in faccia. Ogni protagonista controlla le mosse dell'altro. Ci si scruta e ci si interroga. Già qualche mese fa "L'espresso" aveva rivelato che nel consiglio direttivo di Confindustria prevaleva largamente un giudizio negativo sul bilancio del governo del Cavaliere: «Inferiore alle aspettative». Il presidente Luca Cordero di Montezemolo aveva aggiunto che un governo di fine legislatura «può ancora fare cose importanti», ma le ultime due Finanziarie erano state disarmanti: quella di Domenico Siniscalco aveva rapidamente accantonato l'intervento progettato a riduzione dell'Irap, e l'ultima di Giulio Tremonti aveva concesso soltanto un taglietto di un punto degli oneri sul costo del lavoro. Un passo nella direzione giusta, detto in pubblico. Una inezia, detto in camera caritatis. Quindi ecco la valutazione dominante su Berlusconi: cinque anni di obiettivi spacciati per risultati. Crescita zero, o zero virgola. I conti pubblici, meglio non parlarne. La spesa pubblica, decollata, che per un governo di destra e sedicente liberista è un controsenso. In qualsiasi occasione Montezemolo ripete il grido di dolore: «La politica ha abbandonato l'industria. Negli ultimi cinque anni abbiamo visto la mancanza più totale di politica industriale». Non sembrerebbero esserci molti margini a sostegno di Berlusconi e del centro-destra. Eppure a un esame meno superficiale viene fuori che i "partiti" dell'economia sono più di uno. A parte il partito berlusconiano fondamentalista, l'establishment economico si divide almeno in altre due fazioni. Quelli di sinistra, o che accettano il centro-sinistra e Romano Prodi come il male minore, ed eventualmente come l'anticipazione di quel Partito democratico che dovrebbe finalmente deideologizzare il confronto politico, allontanando i turbamenti che comporta l'avvicendamento al governo. E il "partito del presidente", raccolto intorno a Montezemolo, attentissimo a ogni risultato che possa scomporre il panorama politico, e a mettere in campo ipotesi diverse. Gli "idéologue" berlusconiani in questo momento sono quelli che soffrono di più. Sono sodali del Cavaliere come Fedele Confalonieri, le cui visioni politiche appaiono inestricabilmente avvinte alle sorti dell'impero economico che fa capo al premier. Oppure sono esponenti come la presidente dell'Assolombarda, Diana Bracco, e figure di riferimento come Gianmarco Moratti, che considerano impraticabile ogni altra scelta. Si vota a destra, perché il mondo dell'industria è conservatore, liberista, sbrigativo, poche storie. Se il «nostro» governo non è stato all'altezza, e se uno dei nostri, Silvio da Arcore, che nel 2001 alle assise confindustriali di Parma parlando dalla «comune trincea del lavoro» infiammò gli entusiasmi esclamando «il vostro programma è il mio programma, governiamo insieme», è andato sotto le aspettative, l'idea non muore. L'economia deve stare da questa parte, la sinistra è un mondo alieno. Ed è logico che possano continuare a pensarla così i liberisti più convinti, come il desaparecido D'Amato, e come il "competitor" strabattuto da Montezemolo nella corsa per viale dell'Astronomia, il veneto para- leghista Nicola Tognana. Non è una posizione che raccolga in questo momento molti consensi. Come avrebbe detto l'Avvocato, la Fiat è storicamente governativa. E quindi ci si deve preparare al possibile trapasso di potere. Anche se uno dei grandi vecchi dell'élite industriale, il presidente onorario di Rcs Mediagroup, Cesare Romiti, prende le distanze e invita a non fare il tifo: «Il compito di banchieri, manager e industriali non è quello di fare politica. Quando si hanno responsabilità aziendali ed economiche, magari con migliaia di dipendenti, ci vuole rispetto. Non condivido le dichiarazioni di coloro che si definiscono di destra o di sinistra. Io ho sempre ritenuto opportuno astenermi». In realtà le dichiarazioni latitano. Occorre procedere per indizi, segnali impliciti. Ad esempio, molti guardano con interesse alla posizione di uno dei vicepresidenti confindustriali, il torinese Andrea Pininfarina, «un rigorista». Cioè un esponente di cultura liberal-conservatrice, ma puntuale intellettualmente, a cui si attribuisce un ragionamento vincolante: se nella sua valutazione la Casa delle libertà ha fallito, non serve immaginare scenari inciucisti, grandi centri, prospettive neotrasformiste. In politica si gioca con le carte che ci sono, non con le fantasie, e quindi al fallimento del centro-destra si risponde mettendo alla prova il centro- sinistra. Senza sconti ma anche senza elusioni. Il "partito" del centro-sinistra vede invece all'opera alcuni grandi banchieri, notoriamente filoprodiani, come Alessandro Profumo, Enrico Salza, Giovanni Bazoli, Corrado Passera. A cui si affiancano i sostenitori espliciti del partito democratico capeggiati naturalmente da Carlo De Benedetti e una pattuglia, in crescita, di leader stimati nel mondo imprenditoriale come Vittorio Merloni (a cui si aggiunge per via di relazioni personali il presidente delle Ferrovie, ex Ibm Italia, Elio Catania) e un ulivista storico come Mario Carraro. E se l'ulivismo di Annamaria Artoni, attuale presidente della Federindustria emiliana, non è mai stato in discussione, al punto che si prevedono per lei candidature (improbabili) e ministeri (probabili), nel mainstream di centro-sinistra figurano nomi importanti come quelli di Roberto Colaninno, Emma Marcegaglia, Alberto Tripi, oltre all'ex StMicroelectronics Pasquale Pistorio. I più informati sostengono che anche un duro come Alberto Bombassei starebbe dimostrando un atteggiamento da realpolitiker non troppo dissimile da quello del Pininfarina giovane, e forse anche il responsabile della Federmeccanica, Massimo Calearo, reduce dal complicato accordo (13 mesi di conflitto e negoziato) con i metalmeccanici, a cui gli oltranzisti rimproverano di avere lasciato ai sindacati la bandiera dei 100 euro. Un'incognita è rappresentata da uno dei grandi protagonisti sullo sfondo, Marco Tronchetti Provera, il quale tuttavia sembra incline a guardare alla politica in chiave sistemica, e con simpatia alla dimensione "professionale" di molti ministri virtuali del centro-sinistra, a cominciare da Enrico Letta e da Pier Luigi Bersani. Senza contare il ruolo che può avere nella definizione dei suoi orientamenti Riccardo Perissich, che ha avuto una carriera nella Commissione a Bruxelles, e di cui è nota l'insofferenza per le pulsioni anti-europee di parti della Cdl. Tutto ciò ha una razionalità se il risultato elettorale sarà netto. Ma se invece il pasticciato sistema proporzionale rimescolerà le carte, dando luogo a un risultato contestato o difficilmente leggibile, ecco che lo scenario si complicherebbe. Per ora si tratta di una subordinata, ma c'è tutto un mondo che silenziosamente ha guardato con favore alle soluzioni neocentriste delineate dall'ex commissario europeo Mario Monti. Che si chiami Grande Centro o altro, è un'ipotesi che non scompare mai. Se la politica fallisce, se gli schieramenti non ce la fanno, se il bipolarismo chiude la propria parabola in una implosione, se, se, se. A forza di ipotetiche, la figura di Montezemolo acquista una visibilità e un rilievo impressionanti. È lui l'uomo che può raccogliere il potere nel caso di un no contest? «De Gaulle diceva che il potere non si conquista, si raccatta», ammiccano a viale dell'Astronomia. A dispetto di qualche attrito più pubblico che privato in seguito ai suoi attacchi violentissimi a Berlusconi, anche Diego Della Valle è uno dei potenziali grandi elettori del "partito del superpresidente", il Cavaliere bianco capace di rimettere in sesto i cocci che la politica lascerebbe sul terreno. E intorno a Super-Luca non si schiererebbero soltanto gli amici di sempre, come Nerio Alessandri e Paolo Borgomanero, nonché tutto l'ambiente dei confindustriali "dal basso", con gli emiliani in testa, ed eventualmente, dall'alto, i grandi sauri della Fiat, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens. Guarda con simpatia a queste suggestioni anche il gruppo degli ex presidenti di Confindustria (Luigi Abete, Giorgio Fossa e, sorpresa, il vecchio liberale Sergio Pininfarina), con l'aggiunta del petroliere Edoardo Garrone. Per ora è poco più che un gioco. Ma alcuni fanno rilevare l'accento che Montezemolo ha sempre posto sulla necessità di una classe dirigente costituita «dalle persone per bene», di un governo che affronti i problemi del paese al di là delle divisioni ideologiche. Qualcuno ricorda il sostanziale via libera a Capri, convegno dei Giovani di Confindustria, sulla legge proporzionale, poi corretto parzialmente dopo qualche protesta interna. Per adesso, insomma, il partito del presidente è un altro partito che non c'è. E che però potrebbe esserci, fiorire all'improvviso, mobilitare risorse mediatiche. Se poi il 9 aprile dodici anni di bipolarismo finissero davvero nella palude, le ipotesi assumerebbe un ineffabile altro sentore di realtà.
L'Espresso, 02/02/2006
Il trash è di rigore
Ogni domenica sera l'appuntamento con "Controcampo" è d'obbligo. Vabbè che sulla Rai c'è la "Domenica sportiva", con la sapienza statistica e tattica del maestro Tosatti, ma voi non siete mica gente che sa di sport: voi volete vedere la tv, possibilmente al suo peggio. E allora "Controcampo" raggiunge vette imprecisate e comunque altissime, perché Marco Piccinini è capace di tenerlo sul filo sottilissimo che divide il trash dal puah. Tanto per dire, poche domeniche fa uno dei freak più affezionati del programma, Maurizio Mosca, si è rivolto a Giampiero Mughini chiamandolo «Ormezzano». Squilibro mentale? Assuefazione da programmi televisivi che non consente di distinguere gli ospiti? Intanto, va detto che noi abbiamo una passione autentica per Mughini, in primo luogo perché è uno juventino nel fondo all'anima, ma soprattutto perché contrariamente alla vulgata è un uomo di grandissimo buon senso ed equilibrio. Il quale, davanti a uno schizzato che lo chiamava Ormezzano (ottimo giornalista anche costui, un classico) ha avuto la forza e lo spirito di ribattere, qualche istante più tardi: «Chiamami pure Gianni Brera, non mi offendo». Il successo di "Controcampo" non sarebbe spiegabile, di per sé, se non fosse che il programma sportivo di Italia 1 è un gioco equilibristico tra lo sport e il cazzeggio. D'accordo, manca sempre la Canalis, nel senso di Elisabetta, che dava un pizzico di pepe in più, perché tutti vedendola si chiedevano: e con Bobo come va? Però ci sono sempre «le pagelle di Ziliani, temutissime!», e magari la presenza di Luciano Moggi che rintuzza le accuse con battute ciociare. Piccinini è buffo all'inizio del programma quando annuncia ogni domenica «una puntata storica!». Poi ovviamente la trasmissione è fatta largamente di moviole e di interpretazioni della moviola. E allora c'è quel tale arbitro che sembra avere in testa un'acconciatura in legno, un'opera unica intagliata da un artigiano tirolese. Un tripudio del chissenefrega o della faziosità più esasperata: se non fosse che di tanto in tanto lo scettico Mughini fa sentire il suo scetticismo, in modo da ridare un tono di laica mondanità al soprannaturale e al preternaturale del calcio. Comunque si dibatte: e nel dibattito anche il cultore del diritto romano, ossia il romanista Paolo Liguori, emette giudizi accettabili: sicché "Controcampo", alla fine, non è un caso di maleducazione civile.
L'Espresso, 27/01/2006
Dopo Rocca tocca a Rocco
Il rinnovarsi del successo di "Un caso di coscienza", serial in sei puntate giunto al bis su Raiuno, suggerisce considerazioni sul giallo e sul noir, non solo in tv. Negli ultimi anni infatti si era assistito all'exploit di Giorgio Faletti, che con due macro-romanzi ha composto una specie di hard boiled globale, privo di inflessioni locali. Oppure alle narrazioni "epocali" di Tullio Avoledo, scrittore popolare di gran classe, che con "Lo stato dell'Unione" e "Tre sono le cose misteriose" (meglio il primo, ma non male il secondo) ha costruito intrecci in cui la dimensione storico- politica incrocia l'affabulazione pura. Infine c'è l'esordio di Massimo Cotto, che ha tentato "una narrazione intimistica che si apre su risvolti psicologici inquietanti" (Faletti). Per la verità, il romanzo di Cotto ("L'ultima volta che sono morto", editore Aliberti) è ancora più ambizioso, perché prova a fondere la narrazione oggettiva su uno sfondo mitologico, creando una storia tutta disincarnata, ambientata in un luogo della memoria o dell'assenza, "gestita" integralmente dall'autore attraverso le metafore continue del linguaggio. Va da sè che la profondità degli apparati simbolici e psicologici si addice poco alla tv generalista. E allora non si potrebbe chiedere all'avvocato dei poveri Rocco Tasca (l'attore Sebastiano Somma), un altro che combatte guerre apparentemente perdute, di assumere le cadenze metafisiche dei grandi reinventori del poliziesco come D?rrenmatt. Somma è un altro dei nazionalpopolari come il maresciallo Rocca, anche se qui siamo a Trieste e le storie sono un filo più complicate. Il suo successo non dipende però nè dalla story nè dal plot, e neanche dall'anatomo-patologa Barbara Livi che forse si innamora ma dovrebbe vendicarsi proprio di lui. Il protagonista della fiction (diretta da Luigi Perelli) è la personificazione dell'italiano che la domenica non si fa la barba, che esce senza lavarsi tanto non ha impegni, magari con la soddisfazione ulteriore di lasciare lo spazzolino da denti nell'armadietto. Quindi atmosfera molto materiale, e rinvio dello scioglimento del dramma alla puntata finale, quando sperabilmente si sarà fatto la doccia. Comunque tifano per lui le mamme, che sono abituate alla scarsa igiene dei figli adulti, e anche i maschi di casa, che si sentiranno confortati nelle loro abitudini più losche (evviva il realismo! evviva la provincia!).
L'Espresso, 19/01/2006
Se il passato Coop ipoteca il futuro
Il pasticcio Unipol è un simbolo di come il passato ipotechi il presente. Le coop rosse infatti sono una componente di quella vastissima manomorta organizzativa che costituiva il sistema associativo e di potere del Pci. Era un insieme di strutture che comprendeva la Cgil, le associazioni femminili, i gruppi giovanili e studenteschi, i consumatori riuniti, le Feste dell'Unità, le realtà sportive, cinematografiche, di intrattenimento. Si può dire che non esistesse sfera della vita civile che non fosse presidiata da una peculiare organizzazione del Pci. Si trattava di un autentico mondo a parte, che nella prima Repubblica rappresentava la particolarità più profonda del comunismo nazionale: quasi un'altra Italia, contrapposta a quella dei "padroni", alla Dc, al potere codificato dalla conventio ad excludendum. Esclusi dal governo, i comunisti avevano creato un universo parallelo, dotato di una fortissima solidarietà interna. Era quella realtà che consentiva anche la spregiudicatezza dei comportamenti, dal diritto di esazione a percentuale sugli affari dei "capitalisti" con i paesi del blocco sovietico ai legami preferenziali fra coop e giunte comuniste. Ma questa sistematica continuità fra la politica e gli affari era a suo modo giustificata dall'esclusione del Pci dalla stanza dei bottoni. Le organizzazioni collaterali della Democrazia cristiana e dei partiti di governo potevano fare leva sui "loro" ministri o sui capi locali; il mondo comunista non poteva vivere soltanto ispirandosi a nobili e storiche ragioni di mutualità e di solidarietà. Via via che la cooperazione cresceva, dall'autodifesa "di massa" si passava alla tutela di interessi "di classe", che poi alla fine sarebbero diventati interessi di parte senza troppe vernici ideologiche. Per la rete rossa e solidale fu naturalmente un terremoto l'Ottantanove, Bolognina compresa. Non esisteva più un mondo escluso, la democrazia dell'alternanza metteva in gioco tutti; e nella realtà del postcomunismo la compresenza di organizzazioni satelliti perdeva gran parte della propria ragion d'essere. Non c'era più un partito di massa tenuto lontano dal potere con tutti i suoi elettori e "soci". E le coop più grandi, come ha spiegato ripetutamente Lanfranco Turci, si sono progressivamente affrancate dal controllo del partito, visto che dovevano fare i conti con il mercato, non solo con la mutualità. Quindi oggi non ha molto senso un movimento cooperativo legato ai Ds, né collaterale né consustanziale, dal momento che le grandi imprese della cooperazione seguono logiche industriali ed economiche, non politiche, e che la sinistra si è a sua volta articolata (si parla continuamente del legame preferenziale con i ds, dimenticando il ruolo nella cooperazione di altri pezzi residui del Pci, come Rifondazione comunista e i Comunisti italiani). In ogni caso, pensando ai Ds attuali, la Legacoop è un problema più che una risorsa. Vale la pena di citare un solo punto critico, e rivelatore: quando le grandi imprese coop sono in corsa per gli appalti sulle opere pubbliche, o se li sono già aggiudicati, la dirigenza Ds è davvero libera e credibile nelle posizioni che assume sulle infrastrutture? Oppure la solidarietà con la Legacoop è un valore in più rispetto ai desideri dell'opinione pubblica? Per dire, la Tav in Val di Susa è un bene o un male in sé, o il discorso cambia se ci sono coinvolte imprese cooperative? Occorre un salto verso la modernità, e ciò può avvenire con tre mosse collegate. In primo luogo una politica di riforme che agisca sulle regole, in modo che le coop operino liberamente sul mercato, dentro un chiaro sistema di concorrenza, senza né sostegni né sbarramenti impliciti. Poi occorre valutare se abbia senso o no la divisione da guerra fredda fra cooperative rosse e bianche (risposta: no, la guerra fredda è finita, e la fusione tra Legacoop e Confcooperative libererebbe la cooperazione dalla politica). E infine: se il problema dell'intreccio fra coop e Ds è un lascito della storia e va risolto anche dal lato politico, non c'è nessuna ricetta alternativa al partito democratico. Che non è una formula delle oligarchie o un'invenzione dei poteri forti, ma un modo per adeguare la politica all'Italia post-ideologica, uscendo se Dio vuole dal Novecento.
L'Espresso, 19/01/2006
Alla Rai i Conti non tornano
Appunti post-Epifania. Il primo gennaio, un riflesso condizionato induce ad accendere la tivù per ascoltare i valzer mentre si scalda il brodo di cappone. Già, ci si era dimenticati che per qualche motivo Raiuno non si collega più con Vienna, e anche quest'anno ha deciso di infliggerci una specie di concerto "greatest hits" dalla Fenice di Venezia: una cosa sovietica, senza uno straccio di commento, con il direttore d'orchestra in clergyman, con i brani d'opera tipo "Vissi d'arte" annunciati da una sovraimpressione (i cantanti no, evidentemente non urgeva dire chi fossero, e quindi erano condannati all'anonimato, o forse ai titoli di coda). E il pubblico era composto da gente evidentemente digiuna di musica, e quindi prodiga di ovazioni a prescindere, soprattutto per il soprano in vistosa mise rossa e scollatura profonda. Aaaargh! Ridateci il Danubio blu e la marcia di Radetzky. L'insigne pistolata del concerto di Capodanno serviva forse a rivalutare un altro capolavoro di Raiuno, il programma della sera prima, san Silvestro, "L'anno che verrà", di e con Carlo Conti. Il tema della serata era "famo caciara": da Rimini, con un pubblico congelato ma desideroso comunque di esserci, si è assistito a un programma modestamente provinciale, di quelli che alla fine inducono tristezza e voglia di andare a letto prima del botto: Rita Pavone che annuncia il ritiro dalle scene e intanto maltratta un suo vecchio hit, "Cuore", infarcendolo di yeah e altri strani versi; Teddy Reno che alla fine duetta con lei (e pensare che è un signore così elegante), e subito dopo la solita sfilata di mezzi cantanti e mezzi vip, mezze belle donne e mezzi protagonisti. Oltretutto l'orchestra e i cantanti erano mixati malissimo, per cui si sentiva soltanto la voce, in particolare di Al Bano, che è un combattente ma quella sera tendeva troppo al sovracuto sgolato e ondulatorio. Insomma, occhèi che in tv si fa un Capodanno da poveri, ma appunto per questo ci vorrebbe uno spettacolo come Dio comanda, in studio e non su un raggelato palco riminese (il mare d'inverno, si sa). Coraggio, signor servizio pubblico, faccia uno sforzo: lo sa anche lei che quando il pan ci manca ci vogliono brioche e circenses: non bastano Dolcenera e Anna Tatangelo, e nemmeno Alex Britti e Gianluca Grignani. Un po' di impegno, per favore, altrimenti l'anno prossimo niente brodo di cappone e neanche uno spumantino.
L'Espresso, 12/01/2006
Cavaliere inutile e dannoso
L'ultimo Berlusconi sembrerebbe tornato fra gli umani, anche secondo il sondaggio pubblicato in queste pagine. Dov'è finito il leader esplosivo, l'inventore sulfureo, il gaffeur fragoroso ma anche l'uomo immagine strepitoso? Andato, illanguidito, figura fra i dispersi, se è vero che la maggioranza del campione giudica il suo operato "né positivo né negativo". Cioè come se il "fasso tutto mi" di Arcore, il tremendo lavoratore notturno, l'indefesso presidente operaio, fosse passato sulla realtà italiana con la levità di un refolo di vento, di una brezza leggera, di un sospiro insignificante, che magari scompiglia le chiome (non la sua, opportunamente asfaltata) ma non cambia la fisionomia degli italiani. Scoraggiante, no? Mettiamoci nei panni dell'Unto, del vincitore totale, di colui che non teme rivali, che pensa seriamente di essere il numero uno al mondo («E Bill Gates?», gli chiedono; e lui: «Già, c'è Bill Gates... Allora sono il numero uno dopo Bill Gates»), e pensiamo all'impressione che gli fa il convincimento dei suoi concittadini secondo cui tutto il suo daffare è risultato irrilevante. E aggiungiamo anche l'altro dato prevalente nell'indagine, e cioè che l'Italia sta peggio rispetto a cinque anni fa. La somma di queste due risposte dice che Re Silvio è stato insieme inutile e dannoso. Di fronte a queste risposte, sembrano pezzi fuori mercato e fuori catalogo, roba d'antiquariato, gli artifici del repertorio berlusconiano, aggiornato al 2006. Dodici anni fa, nel governo del decreto salvaladri (e della svalutazione sbrigliata, e conseguentemente del tasso d'interesse pericolosamente in crescita), il refrain canticchiava: non ci lasciano lavorare; c'è chi rema contro. Adesso invece il ritornello è diventato: il governo non riesce a comunicare i suoi grandi risultati. Conta poco che questa canzone triste sia uguale a quella che cantava il centrosinistra negli ultimi mesi dell'esecutivo guidato da Giuliano Amato, e si è poi visto com'è andata a finire. L'importante è che Berlusconi crede davvero a questa favola, cioè che il paese sta benissimo, che per merito del governo tutti hanno tre telefonini e i ristoranti sono pieni, insomma che tutto va ben madama la marchesa, se non fosse che televisioni e giornali, in mano alla sinistra, ingannano gli italiani. E quindi il fiducioso Berlusconi si dedicherà a convincerci che le cattive percezioni dipendono dall'euro e dalla "lira svenduta da Prodi" (ma la durissima trattativa con i tedeschi sul cambio l'aveva condotta Carlo Azeglio Ciampi, o no?) e che il governo ha prodotto una formidabile quantità di leggi e di riforme. Qui ci vuole una pausa, perché non conviene replicare lo sketch di Diego Della Valle a "Porta a porta", ossia «Silvio, piantala con i foglietti e i disegnini, gli italiani non sono bambini». Le scarpe nel piatto si possono mettere una volta, e ci vuole una star come Della Valle per un exploit del genere: i cittadini qualunque potranno semmai obiettare al trionfalismo numerico del capo del governo che governare non equivale a produrre leggi; che le leggi o le riforme non sono buone di per sé; che leggi e riforme vanno applicate, attuate, sorvegliate. Tra le riforme varate, la cosiddetta Legge Biagi ha liberalizzato il mercato del lavoro senza uno sfondo minimo di welfare a sostegno del lavoro precarizzato. La riforma della scuola, nonostante le rassicurazioni di Letizia Moratti, è un prodotto classista e regressivo. La riforma costituzionale è un attentato all'uguaglianza dei cittadini, dal momento che è stata approvata unilateralmente, in base a una maggioranza parlamentare che non è una maggioranza nel paese: per cui oggi ci sono cittadini meno rappresentati costituzionalmente di altri. La riforma elettorale in senso proporzionale è tecnicamente, secondo uno specialista come Amato, "una baggianata". E così via. Governare non è legificare. Le leggi della Cdl rischiano tutte di fare la fine della patente a punti, accolta con favore e annegata nel lassismo (basta un viaggio in autostrada per valutare i comportamenti degli automobilisti e l'efficacia dei controlli). Ma il bilancio più serio dell'attività del governo Berlusconi non va stilato in base alle sue invenzioni mediatiche come il Contratto con gli italiani. La sintesi della legislatura di centrodestra è nella dannata precisione della formula crescita zero: ci hanno messo cinque anni, ma ce l'hanno fatta. Zero, o zero virgola qualcosa, ma sottolineando zero. Un prodigio ottenuto grazie alla collaborazione di Giulio Tremonti, che a Berlusconi ha tenuto il sacco con i Dpef che prevedevano una crescita dal ritmo straordinario, e con la partecipazione entusiastica del ras di Bankitalia, Antonio Fazio, che aveva garantito sulla possibilità del miracolo "dietro l'angolo". Giustificata, la crescita zero, prima con l'11 settembre e la sindrome del crollo dell'Occidente dopo l'attacco alle Twin Towers e al Pentagono, fino a quando il solito inventivo Tremonti non cambiò idea, togliendo un pilastro alla teoria giustificazionista della destra. Ma oltre alla crescita mancata, e comunque costantemente più bassa della media di Eurolandia, riesce difficile spiegare razionalmente la parabola di un governo "delle libertà", che aveva esordito con i tipici argomenti della "supply side economics", taglio delle tasse in primo luogo, ed è finito con lo sfondamento della spesa pubblica, come il più allegramente liberal dei governi di sinistra. E ancora sarebbe interessante spiegare come sia stato possibile che nonostante tutti i condoni, i concordati, il ciarpame fiscale introdotto con le una tantum, le cartolarizzazioni, le vendite e le svendite, i gravami parafiscali introdotti sulle banche e le assicurazioni e da queste immediatamente scaricate sui clienti, insomma nonostante tutta la fantasia di Tremonti e il galleggiamento di Domenico Siniscalco, sempre in attesa della crescita che doveva arrivare e non arrivava mai, ci siamo giocati quattro punti e mezzo di avanzo primario: cioè soldi buoni, frutto di un risanamento che era stato incisivo, al tempo dei pessimi svenditori Prodi e Ciampi. Oppure la prestazione del Cavaliere si può misurare sulla qualità del metodo con cui ha gestito la sua compagine politica. E qui bisogna concedergli le attenuanti, come d'uso, dato che sarebbe stato improbo per chicchessia trovare mediazioni ragionevoli fra i partiti e le culture della Cdl. Berlusconi ha dovuto giostrare fra alleati dimostratisi sempre pronti a votare leggi canaglia come quella sul falso in bilancio, ultima di una poderosa serie di riforme strumentali della giustizia, e poi leggi ad personam, riforme carogna come quella della Costituzione, riforme burla come quella sul conflitto d'interessi, riforme truffa come la legge Gasparri sul sistema televisivo; ma via via incattiviti, gli alleati, nel farsi pagare "cash" la sua leadership (Pier Ferdinando Casini con la proporzionale, Gianfranco Fini con una crescita vistosa di ruolo, non esattamente speculare alla crescita delle sue qualità culturali e politiche). Eppure non è nel carattere di Berlusconi mollare l'osso. È vero che l'ultima stagione è stata davvero "horribilis", con sconfitte elettorali in casa e sconfitte sportive in trasferta (ah, il disastro del Milan a Istambul, nella finale di Champion's League con il Liverpool!). Ma a quasi settant'anni, sembra ancora in grado di innescare il conflitto politico, e non perché, come ritiene il campione del nostro sondaggio, "inventerà" qualcosa, tirerà fuori una trovata capace di rovesciare la tendenza. Può contare ancora su quasi un terzo dell'elettorato indeciso, perplesso, propenso per ora ad astenersi: cercherà di mobilitarlo. Per ora gli hanno sbagliato i cartelloni, e li ha sostituiti. Quelli nuovi sono peggio dei vecchi, ma Berlusconi non conosce requie. Ha già aperto l'offensiva mediatica, punterà di nuovo a dipingere l'Unione come una reincarnazione del comunismo, "miseria, terrore e morte". Vecchiume da guitti, ma ha sempre funzionato, forse funzionerà ancora. Ma ha di riserva anche un'arma "fine-di-mondo", che non dipende da lui ma che può facilmente assecondare, favorire, promuovere: il suicidio del centrosinistra, in seguito a Bankopoli, sullo sfondo dello spappolamento del sistema politico dovuto al sistema proporzionale. Ma in questo caso la salvezza di Berlusconi equivarrebbe allo sfaldamento del paese: può augurarselo soltanto chi possiede un piccolo eden per il buen retiro. Possibilmente offshore.
L'Espresso, 12/01/2006
Nuvole rosa sul Tg
Ah, che piacere i telegiornali della Rai durante queste feste (si parla naturalmente di Tg1 e Tg2, quelli di Clemente J. Mimun e Mauro Mazza). D'accordo, prima c'è da sbrigare le faccende domestiche, ossia le scalate, i furbetti, con opportune messe a fuoco del look postpostcomunista di Giovanni Consorte e di quello metasessantottino di Ivano Sacchetti (amici ben introdotti al Botteghino garantiscono che ai tempi d'oro, quando le botteghe erano davvero oscure, uno con i baffi e i capelli di Sacchetti non avrebbe mai fatto carriera nelle coop, e meno che mai nel glorioso partito che fu di Gramsci e Togliatti). Ma c'è sempre il rischio che salti fuori qualche storia in cui è invischiato un amicone del Cavaliere, un Livolsi, un Brancher, un problema, e quindi non si mette troppo il dito nell'Opa. Ma dopo tali mestizie, liquidate queste nequizie, si passa al giulebbe, arrivan le liquirizie. E sono leccornie natalizie, come i fichi secchi e i datteri, con i campi innevati e i consigli per gli sciatori, i saldi da Harrod's a Londra, per dimenticare forse i prezzi italiani: anche se poi saltano fuori gli esperti che spiegano come risparmiare (consiglio numero uno: spendere meno). E fra poco arriva l'anno nuovo con la solita carrellata delle feste a Madrid Berlino Londra New York Tokyo, eccetera, cioè la sagra del chissenefrega, ma così rassicurante: come un servizio su un reality show polacco o ceco interpretato da una colonia di gorilla, e una grande iniziativa della guardia di finanza contro i depositi clandestini di fuochi artificiali. Si diventa inevitabilmente più ottimisti, o come minimo meno pessimisti, a dispetto della severità professionale della Busi (ottima la nuova acconciatura, dicono le famiglie, ma il cipiglio è un po' troppo di sinistra; e di sinistra è anche la faccia di David Sassoli, con il suo atteggiamento professorile): forse non è vero che le cose vanno così male, che i consumi hanno ceduto, che siamo sotto il Botswana, che i giornalisti alla conferenza stampa hanno fatto "buuuuu" quando il Cavaliere ha minacciato la solita storiella... Beati i tg di fine anno, perché sono un balsamo; soffondono nuvole rosa, rotocalchizzano la cronaca, diffondono aspettative con il segno più. Certamente non fanno terrorismo mediatico. Eppure, con tutti i loro sforzi, riescono ancora a farsi considerare da Re Silvio come covi di insidiosi estremisti, nemici suoi integrali, peggiori di quelli del Tg3, che almeno hanno il marchio e si fanno riconoscere. Contrappasso paradossale: tanti sforzi, per quei cari direttori, per poi finire nel calderone dei brutti, cattivi e comunisti.
L'Espresso, 04/01/2006
Finale senza morale
Alla fine del grande risiko, delle Opa fallite o in via di fallimento, del concerto e dei concertisti, dell'aggiotaggio, degli immobiliaristi, resta da capire perché. Perché tutto questo. Perché la battaglia di retroguardia della Banca d'Italia, con il governatore asserragliato nel suo fortilizio. La scuola realista, di cui è capofila il quotidiano di Giuliano Ferrara, concede ad Antonio Fazio una specie di onore delle armi: «Ha scelto la strada della protezione dell'italianità, il che era lecito ma non indispensabile. Ha perso questa battaglia e, con questa, il suo ruolo, ma solo per i linciatori la sconfitta è una colpa». Sulle colonne del "Corriere della Sera", Dario Di Vico invece ha stilato un epitaffio molto più aspro. Il governatore «è caduto perché alla fine ha creduto che si potesse fermare il vento della globalizzazione con le mani di Gianpiero Fiorani». Mentre Salvatore Bragantini ha archiviato la questione con brutalità: «Fosse per Fazio, avremmo oggi a capo di uno dei principali gruppi bancari una banda di malfattori». Come si intuisce, "Il Foglio" fa della fenomenologia pura. Non fa cenno a criteri giuridici prevalenti o metodi di autocontrollo del sistema: Fazio ha condotto la sua guerra, sarebbe sciocco pensare che le sue dimissioni siano il risultato di una rivincita dei valori. È un'analisi che risente di una matrice marxista. Non esiste il bene o il male, ci sono soltanto rapporti di forza. Il "Corriere" esprime le sue convinzioni, che sono il concentrato dei codici intellettuali di Mario Monti e Francesco Giavazzi. Posizioni come altre, comunque di parte, legate al patto di sindacato. Già. Ma intanto bisognerebbe capire finalmente che cosa significa "italianità" e quale valore abbia. Uno spirito pratico potrebbe rispondere che l'ex governatore aveva poca fiducia nella qualità competitiva delle banche italiane: lo sbarco di concorrenti stranieri avrebbe potuto scardinare l'intero sistema, mettendo allo scoperto le inefficienze degli istituti. E nella visione di un uomo come Fazio che era stato ostinatamente scettico sull'euro (come alluse in un suo libro, senza citarlo, Tommaso Padoa-Schioppa), convinto che l'industria italiana non fosse in grado di resistere alla concorrenza internazionale se non ricorrendo all'alternanza di svalutazione e inflazione, la struttura bancaria del nostro paese costituiva una risorsa non negoziabile, non trattabile sul mercato. Secondo questa diagnosi pessimistica, gli innovatori, coloro che provengono dall'esterno del sistema bancario, come Alessandro Profumo e Corrado Passera, andavano considerati alla stregua di una quinta colonna. Occorreva tutelare l'italianissimo intreccio di interessi fra banche e imprese per evitare che l'apparato economico entrasse in tensione o addirittura potesse collassare. Secondo i critici di Fazio, era uno schema reazionario, provinciale, paternalistico, oneroso per i cittadini-clienti. Tuttavia, criticato il criticabile dello "stregone di Alvito", secondo la definizione di uno dei suoi antagonisti più espliciti, Diego Della Valle, resta ancora da capire che cosa c'entri in tutto questo la politica. C'è di mezzo una nuova Tangentopoli, titolano i giornali; no, ribatte Paolo Mieli in uno dei suoi rari editoriali, qui si tratta di casi specifici, non di una distorsione di sistema, non la corruzione strutturale, non l'oligopolio colluso scoperchiato da Mani pulite nel 1992. Eppure, in agosto, all'epoca delle intercettazioni, nel clima del bacio in fronte di Fiorani a Fazio, e delle trascrizioni che rivelano la sbrigatività operativa del boss dell'Unipol Giovanni Consorte, Arturo Parisi muove le acque estive con una intervista al "Corriere della Sera", in cui allude al ritorno della questione morale. E qui si scatena la bagarre. Perché un conto sono i traffici di una gang di sradicati, gli insider abituati alle plusvalenze facili, e un conto è la dignità storica del mondo cooperativo rosso. E un altro conto ancora è l'onore di Piero Fassino, che a Consorte ha fatto troppe telefonate. Insomma, c'è un disegno finanziario di sinistra, contrapposto a una strategia finanziaria di destra? E i Ds sono o non sono legati a filo doppio alla scalata dell'Unipol sulla Bnl? Perché alcuni settori diessini sono prudentissimi verso il governatore? E perché Pier Luigi Bersani parla della "canea" che si è scatenata contro la Banca d'Italia? A qualcuno torna in mente il takeover su Telecom, con Massimo D'Alema che irrideva il vecchio capitalismo dei salotti buoni, dove c'erano quelli che pretendono di comandare con «l'uno e mezzo per cento». E il sostegno ai «capitani coraggiosi» guidati da Roberto Colaninno. E l'idea che dalla merchant bank di Palazzo Chigi D'Alema stesse tentando la rivoluzione, cioè la creazione di un nuovo strato capitalistico, più moderno e svincolato dalle vecchie lealtà verso i poteri forti esemplificati da Fiat e Mediobanca. Ma in questo caso, pur con tutto il rilievo che poteva avere l'operazione Bnl, il disegno strategico sembrava molto più limitato. Tanto più che sul caso Unipol si sviluppava un conflitto fra Margherita e Ds, che si sta trascinando fin qui, con Rutelli che ancora critica il «collateralismo» e riceve risposte piccate. In realtà si stavano delineando strategie multiple, una serie di disegni a geometria variabile. Che però si incrociavano tutti e convergevano fino a sfiorare una cattedrale degli equilibri politico-economici, quell'autentica camera di compensazione che è il gruppo Rcs. Una scalata ostile di cui non si sa più niente, se non che è fallita: ma era un'operazione che aveva evidentemente goduto di appoggi ancora imprecisati anche se leggibili in filigrana, e che potrebbero spiegare perché un immobiliarista come Ricucci abbia cercato di espugnare nientemeno che via Solferino. E qui c'è il primo segnale di pericolo. Perché a quanto si sa la scalata di Rcs era pilotata o condizionata da Ubaldo Livolsi, un uomo legato a Silvio Berlusconi. Quindi sul tema di Rcs vengono pericolosamente a contatto due establishment. Il patto di sindacato che controlla il "Corriere", da una parte, e un settore politico-economico alieno, una "racaille" finanziaria fatta di "homines novi" ma di cui è intuitiva una contiguità con il potere berlusconiano. Fantapolitica? Teoria cospirativa? Dietrologie? Chi ha assistito allo scontro in diretta televisiva lunedì 19 dicembre a "Porta a Porta" fra Della Valle e Berlusconi, con l'industriale delle Tod's che trattava il presidente del consiglio con un "tu" praticamente liquidatorio, ha avuto l'impressione che quello fosse un vero showdown fra poteri. Fra un potere che era stato sfidato e messo alle corde, e che ora si prendeva la sua vendetta. Vendetta simbolica, quindi essenzialmente politica, praticata contro quel Berlusconi che su Fazio ha tenuto duro fin quasi all'impossibile (memore forse di quando le "Considerazioni finali" garantivano il miracolo dietro l'angolo). Non è finita, naturalmente, con l'arresto di Fiorani e le dimissioni di Fazio. Ci sono un paio di uomini del governo nei guai, Giuseppe Valentino di An (sottosegretario alla Giustizia) e il forzista Aldo Brancher (sottosegretario alle Riforme istituzionali), i conti correnti speciali per correntisti illustri, l'affaire della banca leghista Credieuronord, gli arricchimenti personali, i clienti tosati. C'è di tutto. Ma non è Tangentopoli. «È la debolezza della politica», dice Pier Ferdinando Casini, che apre spazi alle consorterie. Nel vuoto politico, si muovono cordate che occupano postazioni, si scontrano, contrattano, eludono i controlli e talvolta scivolano nella criminalità economica. Indossano magliette politiche per contare su sponde utili. I partiti si prestano a fare da spalla, entrando così nel risiko. Quando i raider vengono infilzati dalla giustizia, il messaggio lanciato agli italiani rischia di essere uno solo: qui il più pulito ha la rogna. Non è Tangentopoli, forse è peggio: è il feudalesimo con qualche secolo di ritardo.
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