L’Espresso
L'Espresso, 04/01/2006
Giù le mani dallo zapping
Faranno il piacere di mettere a disposizione di chi non è capace neanche di accendere la tv un attrezzo totale, che contenga tutto quello che serve per la ricezione e la riproduzione. Faranno il piacere di raggruppare, in un unico "coso", l'etere, il satellitare, il digitale, il dvd, il vhs, Internet, la banda larga e qualsiasi altra roba a destinazione televisiva. Dopo di che cominceremo a ragionare sui programmi, e su quali reti o canali vorremo sintonizzarci. Perché intanto si rinviano gli acquisti, si aspetta la modalità nuova, l'ordigno definitivo che non ci faccia pentire dell'acquisto intempestivo, con gli esperti che ridacchiano e dicono: stupido, te l'avevo detto. Dice: intanto godetevi Al Bano e Loredana. O Pippo e Katia. O il trionfo sull'Isola di Lori Del Santo. Sì, marameo. Noi aspettiamo la televisione "de qualità". La aspettiamo come aspettiamo il successo del centrosinistra, non perché si abbia particolare fiducia sulle sorti magnifiche e progressive, ma perché dopo cinque anni di Silvio e Gianfranco e Pier Ferdinando, con l'aggiunta di Roberto Calderoli, uno ha il diritto di tirare il fiato. Cioè ha il diritto di cambiare canale. E non solo per rivedere il volto di Enzo Biagi, di Michele Santoro e di Daniele Luttazzi, gli ostracizzati dell'Editto di Sofia: che quando riappariranno scenderanno lacrime e diremo bentornati, quanto tempo, dove siete stati, quanto ci siete mancati, come si fa con i parenti che non si sono visti per un po'. Ma cambiare canale significherebbe anche vedere il Tg1 e il Tg2 senza doversi chiedere: ma è vero? Che cosa sono quelle nuvole rosa sulla penisola? Sono previsioni meteo o l'imposizione di un clima? E non perché la televisione della Casa delle libertà sia la televisione dell'intrattenimento, mentre la tv dell'Unione sarebbe quell'altra. Siamo grandi, lo sappiamo bene che la televisione è tutta infotainment, sia quando appaiono il papa, la senatrice Rita Levi Montalcini e il presidente Ciampi che deplora la cattiva tv, sia quando si profila Paolo Crepet o Giucas Casella. D'altronde, se uno vuole programmi alternativi, già adesso ne trova quanti ne vuole. Il bouquet di Sky consente di vedere, che so, "Cult", che manda film brasiliani o congolesi con un perfetto cartellone da cinema d'essai; un canale dedicato agli animali, con moltissimi serpenti e coccodrilli; e qualsiasi programma di nicchia si senta il bisogno. Con il che, qualcuno potrebbe avere la tentazione di dare ragione all'ex ministro Maurizio Gasparri (a proposito, s'è poi capito perché lo fecero fuori dal Berlusconi bis?), che per tutelare il sistema berlusconiano inventò il Sic, ossia il sistema integrato della comunicazione, diluendo il potere televisivo del Cavaliere in un indistinto imprendibile. Però, però. È vero che i "satellitari" passano ormai le serate facendosi il proprio palinsesto su misura: non piace "Porta a Porta"? Trovo un film "classic", magari una bella commedia anni Cinquanta su cui addormentarsi placidamente. Contemplo una partita della Ternana (si fa per dire) del 1992. Guardo il salvataggio di un gatto su "Animal Planet", bravi i vigili del fuoco di Santa Monica. C'è anche chi ormai non guarda un programma ma guarda genericamente la televisione: dito pollice sul telecomando, un canale dietro l'altro, zapping puro, trionfo del totem domestico come puro frullato di nulla, blob infinito, immagini senza sosta e senza senso, e alla fine della ginnastica si ritrova pure un pollice da atleta, muscolosissimo. Bisogna tuttavia specificare che la diffusione del satellitare è frenata dalle assemblee di condominio, che non si mettono mai d'accordo sull'installazione dell'antenna, giacché non solo è complicato realizzare il partito democratico, è complicatissimo anche passare alla parabola unica. E quindi gli operatori della pubblicità, quelli che guardano l'auditel come se fossero i dieci comandamenti, fanno ancora i conti con le sei reti del Sib, che non vuole dire Si bemolle, ma Sistema integrato Berlusconi, con qualche spazio concesso al Tg3 e a La7. Ogni volta che può, Aldo Grasso ricorda che il pubblico della televisione generalista è costituito prevalentemente da donne prevalentemente meridionali, prevalentemente a bassa scolarità, prevalentemente esposte al piccolo schermo per tutta la giornata. Quindi è con quella tv che bisogna fare i conti: con la tv di massa, non con la tv di nicchia. E allora, nella benigna ipotesi che il centrosinistra vada al governo, bisognerà che il cambiamento di canale e programmi tenga conto della realtà, e non delle illusioni. A sinistra c'è gente che non ha mai visto "L'isola dei famosi" e che pensa in buona fede che il popolo desideri ardentemente la prosa, la lirica, la cultura, la politica "alta", le inchieste, l'approfondimento, la tortura intellettuale, il dibattito, le rassegne librarie. Questi, bisogna fermarli subito. Spiegare che non hanno ancora capito che il mezzo è il messaggio. La televisione è la televisione. E quindi non si tratta di cambiare tutto, facendo la rivoluzione contro il popolo e l'Auditel. Eh no, bisogna essere riformisti anche qui. Essere riformisti in campo televisivo significa innanzitutto comprendere che non si tratta di sostituire, ma di migliorare. Il progetto potrebbe essere sintetizzato con slogan di questo genere: "Più Fiorello per tutti". Oppure "Corrado Guzzanti al potere". Perché Fiorello è la televisione al suo meglio, intrattenimento puro, fantasia, ritmo, divertimento, ironia. Al massimo il professor Prodi potrebbe fargli una telefonata e indurlo a fare lavorare di più e meglio i suoi autori. Perché come disse una volta il Professore, non Prodi, ma sempre Grasso, «se avesse anche autori come quelli di David Letterman, con la tv di Fiorello noi avremmo la nostra Broadway». E quanto a Guzzanti, dopo il successo strepitoso dell'imitazione di Tremonti, povca tvoia!, potrebbe rifare utilmente tutta la galleria del centro-sinistra, dal Professore, non Grasso, ma di nuovo Prodi, immortalato mentre accarezza la mortadella, fino a Francesco Rutelli che compone al pianoforte l'inno "Forza Ulivo", sulle note della canzoncina di re Silvio. Vero è che si finisce sempre a parlare della Rai, ossia solo di una metà dell'etere. Ma si spera che il programma di governo dell'Unione non contempli anche di cambiare l'anima di Mediaset. Avesse dato ascolto a certi provocatori, il centro-sinistra avrebbe privatizzato integralmente la Rai smantellando nel contempo, ovviamente, l'altra metà del duopolio. Reti tutte private, ma una soltanto per ogni proprietario. Obiettano i più meditabondi: e il servizio pubblico? Risposta: ragazzi, il servizio pubblico andava bene ai tempi del maestro Manzi, dell'"Approdo", del centro- sinistra storico, di Mario Soldati, di Studio Uno, di quando il calcio era una rarità domenicale preziosa e ansiosamente attesa, di quando c'era la solidarietà nazionale. Adesso il servizio pubblico a che cosa servirebbe? A nazionalizzare "Matrix" e "Porta a Porta"? Ad assicurare qualche rendita politica e qualche spartizione dentro il piccolo schermo? No, se dobbiamo cambiare, cambiamo. Non si arriva qui a proporre di spostare la Rai a Pordenone, o a Reggio Calabria, come pure sarebbe un'ottima idea per smobilitare lottizzazioni, generoni e semi-vip. Ma intanto proviamo a creare un mercato, cioè un pluralismo, cioè reti autonome, e poi vedremo come va. Peggio di adesso non andrebbe. Chiedono i più avvertiti: e la cultura? Risposta: se c'è una domanda, ci sarà anche un'offerta. Se c'è qualcuno che vuole Pavarotti, si fa per dire, o Albertazzi, qualcuno farà i suoi conti e glieli darà. Altrimenti, se non c'è la domanda, tanto peggio per l'Italia. Come diceva Nanni Moretti: «Ve lo meritate Alberto Sordi!». Solo che con il passare del tempo, guardando la tv contemporanea, state certi che Moretti rimpiange anche Albertone. Insomma. Con la prossima stagione si cambia. Iscriviamo nella bozza di programma che vogliamo una tv meno banalis. Con un invito: alla prima difficoltà, non vengano a dirci che risolveranno tutto con un nuovo programma di Adriano. Il prossimo Celentano lo vogliamo per il suo settantesimo compleanno, non prima. Coronamento di una carriera, eccetera. Grande prova di televisione "contro", e va bene. Ma intanto, lasciateci respirare. Lasciateci fare il nostro zapping quotidiano.
L'Espresso, 04/01/2006
Rock Parade
La storia del rock può essere letta come un processo fluviale ma lineare, che comincia più o meno ufficialmente con Bill Haley e "Rock Around the Clock", poco più di cinquant'anni fa, e si sviluppa fino a oggi, dopo avere attraversato il beat, il funk, il punk, la dance, l'hip hop, e qualsiasi forma musicale e spettacolare che non sia riconducibile a una tradizione specifica, e che appaia in qualche misura eversiva. Oppure si può interpretarla attraverso dimensioni intrecciate, storia di musicisti che hanno svolto la loro esperienza sul campo, nei "complessi", nei gruppi, nelle band, nelle session, nelle reunion. Gente che cita altra gente, musica che mima e cambia altra musica. Forse è vero che il programma, o il manifesto, del rock è impossibile da stendere. È talmente onnivoro, così flessibile il concetto di "rock", da risultare in fondo irrilevante a fini descrittivi. Per individuare le ascendenze bisognerebbe risalire alle parole di George Gershwin, che commentò la "Rapsodia in Blue" dicendo: «C'è dentro il nostro blues, il brio delle nostre città, il ritmo della vita americana, la pulsazione di ciò che è moderno». Ma in questo modo accetteremmo in primo luogo l'idea che il rock non è mai nato, in quanto è esistito da sempre, fin dai ritmi e dai suoni dell'eco culturale afroamericana; e secondariamente dovremmo prendere per buona l'idea che il rock è l'America: il che è vero, ma solo in parte. Perché non si può negare che nella pulsazione del rock ci sono le sistole e diastole del cuore americano, se è vero che basta ascoltare un capolavoro dei Pink Floyd, tanto per esemplificare "Wish You Were Here", per accorgersi che sotto una verniciatura onirica, dietro l'"acidità" delle parole c'è fortissimo l'impianto del blues, dissimulato ma capace di dare forma ai sogni e alle libertà poetiche estreme di quegli anni Settanta. Eppure non è tutto, e non è solo America. Se infatti si vuole provare a capire «se è rock o no» (come si chiedeva Lucio Battisti in una delle sue produzioni più solipsistiche), conviene procedere in via davvero enciclopedica. E l'occasione è offerta dalla "Enciclopedia del Rock" con "L'espresso" dalla prossima settimana (prima uscita al prezzo speciale di un euro in più), leggendo le biografie e seguendo i rimandi cedendo alla tentazione momentanea, alla suggestione di un rinvio, per vedere quali musicisti hanno suonato con chi, come si sono riorganizzati i gruppi, da quale cosa è nata un'altra cosa, da quale musica è nata un'altra musica. Mettere a frutto le informazioni su tutti i protagonisti e gli album dalle origini a oggi per registrare che nei vecchi Yardbirds, quelli di "For your Love", hanno suonato la chitarra solista tre virtuosi come Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. Era l'Inghilterra ruggente dei metà Sessanta, e ciascuno si può divertire a inseguire le carriere di questi grandi chitarristi: "Slowhand" Clapton che continua a coltivare quarant'anni dopo il suo blues armonioso e tecnicamente perfetto, Beck che ha sfiorato i terreni strumentali dell'indicibile ma anche del pop, Page che è passato alla storia per avere innervato la verve già quasi metallica dei Led Zeppelin. Oppure si può ripercorrere la carriera dei Beatles, andare alla ricerca del modo in cui il Quartetto di Liverpool si è appropriato dei rocchettini giovanili dell'America più ludica, degli anni Cinquanta più divertenti e futili, impregnandola di scintillante British Style: «I should have known better with a girl like you...»: cose da college, da festa adolescenziale, chewing gum, hula hoop, drive in, però con il "touch" di Lennon & McCartney, pronto a trasformarsi nell'opera- mondo del "Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band", dopo avere attraversato l'inevitabile Penny Lane con i colori e i suoni dei pompieri, il ritratto della regina, il barbiere all'angolo, in quell'isola così dolcemente pre-thatcheriana, ma anche così innovativa ed eccitante. Sicché non risulta poi del tutto incongruo o inaspettato che tanto John Lennon quanto Paul McCartney si siano misurati con i classici del rock'n'roll, dato che alla fine si torna sempre alle radici. E se si ascolta l'ultima produzione dei Rolling Stones, viene da condividere il giudizio di qualche vecchio maestro del blues, secondo cui Jagger & Richards, dopo la carriera, le donne, la droga, la ricchezza, il jet set, alla fine di tutto «non hanno tradito» la vecchia lezione di Muddy Waters e più in là dei maestri semidimenticati del Delta del Mississippi. Perché davvero il rock è eclettico, e questo suo eclettismo consente di inglobare stili e modi, senza preclusione alcuna. Gli Zeppelin sono capaci di allestire ballate struggenti come "Stairway to Heaven", con quell'arpeggio che tutti hanno provato a fare sulle sei corde acustiche; i Beach Boys hanno provato a reinventare la forma-canzone nella ritmica di "Good Vibrations"; i Doors avevano tentato, grazie al talento prossemico di Jim Morrison, di occupare lo spazio teatrale del palcoscenico con una performance estetizzante e mortuaria; i Kraftwerk hanno prodotto un'avanguardia elettronica che sembra citare talvolta le atmosfere di Weimar, sfumandole nel camouflage della musica artificiale. È per questo che non si può dire qual è il destino del rock. Quando la scena musicale sembrava languire, è nato il "movimento" punk, con il suo slogan "no future", un nichilismo sarcastico vomitato contro l'Inghilterra borghese. In America la musica di "mainstream" si è fatta contaminare dal reggae giamaicano; è nata la tendenza hip hop, il rap è diventato una forma di rivoltosa espressione metropolitana, la parola del ghetto che diventa ritmo. Dopo la fine dei Nirvana e lo spegnersi del Seattle sound, gruppi come i Green Day, quelli di "American Idiot", hanno ripreso il vessillo del punk e lo hanno portato nei territori dell'emozione, una sorta di punk "compassionevole" che potrebbe addirittura piacere ai neocon. Gioco di contaminazioni, non è vero che il rock sia rimasto lo stesso dai tempi di Elvis Presley, e di quella musica che «piace ai giovani perché non piace ai loro vecchi». Ma oggi non possiamo immaginare "dove va" il rock. Ormai non è più un fiume, è un oceano. Ognuno deve trovare la sua rotta, cercando i segni, e le musiche, che si sono fissati nei cataloghi discografici come nel vissuto e nell'immaginario. Si può cominciare da qualsiasi punto, agli inizi o alla fine della storia. Alla fine si può condividere una frase di George Harrison: «Il rock non è una rivoluzione, è un'evoluzione». In altri tempi si sarebbe detto una rivoluzione permanente. Adesso sappiamo che è stata un'arte capace di mettersi continuamente a confronto con il pubblico, spesso con il mercato, talvolta con l'industria, con il mercato di massa. Nel momento in cui la musica non si ascolta più come una volta, in religioso silenzio, in poltrona, ma accompagna la vita quotidiana come un sottofondo, o come un concentrato di ascolto informatizzato nell'iPod, viene facile considerare tutta l'esperienza del rock come un universo unico, in cui si può entrare da qualsiasi apertura, e in cui si può, o si deve, viaggiare anche senza meta. Qui c'è il primo Dylan, che richiama i Byrds; qui ci sono gli Hollies, che avevano alla chitarra Graham Nash; ecco il Boss, che riprende l'America profonda dei "losers", i perdenti, la working class che non va in paradiso. Eccetera. Basta cominciare e non si smette più. Il rock è davvero un'enciclopedia.
L'Espresso, 27/12/2005
Proporzionale avvelenata
Eccola qui, la frittata della proporzionale. Messa in padella, rovesciata come si rovesciano le frittate, e ammannita agli elettori. Un piatto con ingredienti azzeccatissimi per avvelenare la digestione al centro-sinistra. E nello stesso tempo per gettare nel cestino 12 anni di tentata stabilizzazione del sistema politico. Da qualsiasi angolo si guardino le proiezioni di Stefano Draghi, l'effetto è disarmante. Si poteva pensare una legge elettorale scassata, slegata dal criterio di territorialità (altro che federalismo o devolution), ma ci voleva una fantasia straordinaria per inventare un metodo elettorale che sembra peggiore, molto peggiore del proporzionale della prima Repubblica. Poi si potrà discutere se la reinvenzione dell'ombrello, cioè della proporzionale, è stato un crimine o un errore, o tutt'e due. Guardando i numeri, sembra un congegno perverso, fatto apposta per schiacciare il risultato verso il pareggio, per ammorbidire il risultato nelle aree dove le maggioranze sono più pronunciate, con il premio di maggioranza alla Camera che è una trovata per fingere di puntare ancora sul bipolarismo. In cambio bisognerebbe digerire quella cosa tremenda che sono le liste bloccate, gestite da un'oligarchia: manca solo che si chieda al popolo sovrano di votare per liste di incappucciati. Ma si sa che il problema stridente è al Senato. E qui la domanda se si tratti di crimine, errore o entrambi pende insidiosamente verso l'idea che si sia trattato di un errore (quindi peggiore di un crimine, secondo una nota scuola). Perché anche i numeri di Draghi dimostrano che la trovata del premio di maggioranza regionale, escogitata per sfuggire a un rischio di incostituzionalità della prima stesura, può determinare risultati caotici, ma tendenzialmente sterilizza la possibilità che una coalizione vinca con numeri sufficienti per governare efficacemente. Di recente Giuliano Amato ha detto: «Si discute sul fatto che la legge elettorale sia costituzionale o no, e nessuno dice che è una baggianata». Adesso si aggiunge un'ulteriore problema costituzionale, perché in una legge scritta con i piedi ci si è accorti che gli elettori della Val d'Aosta e gli italiani all'estero non contribuiscono alla formazione del premio di maggioranza: dunque ci sono elettori il cui voto vale meno. Si sostiene che l'errore sia rimediabile, ma il timore a questo punto è che si rimedi con un altro errore. Ma il punto fondamentale è che se un sistema non favorisce l'espressione di maggioranze chiare, il pericolo del trasformismo parlamentare è a un passo. Nella Cdl spergiurano sulla fedeltà al bipolarismo, ma che cosa succederà se al Senato non si avrà una maggioranza nitida? Qualcuno giurerebbe sulla tenuta degli schieramenti? La realtà è che questo sistema elettorale sembra fatto apposta per generare, non subito ma presto, una coalizione centrista che vinca anche con un risultato modesto (35-40 per cento). Per evitare questo rischio occorre che l'Unione trasformi le elezioni del 2006 da proporzionali a maggioritarie, Prodi contro Berlusconi, centro-sinistra contro centro-destra. Poi si potrà procedere a buttare via la legge canaglia, o legge guazzabuglio, la legge sbagliata: insomma, occorrerà liberarsi dell'errore e anche del crimine.
L'Espresso, 27/12/2005
Passione Rossana
Soffusa, a sinistra, da un alone di mito che lei rifiuta con troppa enfasi, «non io, i miti sono una proiezione altrui, io non c'entro», nella sua alta coscienza di sé Rossana Rossanda sa benissimo di avere pubblicato il libro più bello dell'anno, tanto da fare schiattare d'invidia la romanzeria italiana. Libro che si intitola "La ragazza del secolo scorso" e che, appena pubblicato da Einaudi, è subito diventato un santino per una quantità di orfani e orfane della sinistra più fremente. Ed è per questo clima di adorazione che converrà prima di tutto accennare quali sono i difettucci di un libro piuttosto straordinario. Innanzitutto, basta la prima lettura veloce per notare che la scrittrice Rossanda è rimasta, buon per lei e la sua età, una di quelle che giovanilmente pensano "tanto peggio per i fatti", se è vero che sbaglia l'anno in cui Enrico Berlinguer andò ai cancelli della Fiat, «contro la prima grande cassa integrazione: furono quarantacinque giorni gloriosi ma fuori tempo massimo». Così fuori tempo massimo che la Rossanda scrive 1979, ed era già il 1980. Meno suggestivo di questi slittamenti della memoria è un editing che lascia qua e là ripetizioni un po' noiose, e certi svarioni come «c'erano dei microclima», o l'uso dell'aggettivo "corrusco" all'opposto del suo significato. Bisogna premettere tuttavia che almeno metà del libro è narrazione pura, svolta con uno stile così personale che prima di accettarlo come necessario, giusto, logico, bisogna entrarci e lasciarsi prendere, superando una certa diffidenza immediata. E quindi gli errori blu si possono anche prendere come licenze narrative, giochi trasognati della memoria. I primi capitoli infatti sono la storia di un'infanzia e di un'adolescenza. La vita famigliare a Pola, il disastro economico del padre notaio in seguito alla crisi del '29, le stagioni in parcheggio dagli zii a Venezia, la famiglia che si riunisce a Milano senza che mai la vecchia cicatrice si sanasse del tutto. Poi il "Bildungsroman" dell'università, gli studi con Banfi e Marangoni, la guerra, i bombardamenti, il contatto con la Resistenza. Tutto raccontato con la leggerezza misericordiosa di chi ricorda la propria gioventù ed è capace di farla diventare ritmo e atmosfera: pagine stupende sulla Milano bombardata, sugli studi alla Statale, sulla guerra che c'era, eccome se c'era, ma si fingeva che non ci fosse perché non alterasse la vita. Non è detto allora che il "journal" della Rossanda vada letto seguendo la sua evoluzione politico-culturale. Dato che lo sfondo politico è il solito problema degli ingraiani contro gli amendoliani, rivoluzione o riforme, leninisti o luxemburghiani, si può stare fuori dalla teoria, dai «rapporti di forza», dal marxismo più o meno eccentrico e andare liberamente a caccia di episodi. Alcuni drammatici, come nel 1956, invasione dell'Ungheria, una foto che mostra un funzionario comunista impiccato a un fanale, mentre sotto di lui ridono due operai di una fabbrica in sciopero: «Fu la prima volta che mi dissi: Ci odiano. Non i padroni, loro, i nostri ci odiano». Qui ci vuole la forza di uno stile per chiudere quella tragedia con un tocco impressionante: «Era un odio massiccio, sedimentato, non si arriva a queste enormità senza un'offesa lungamente patita. Quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede, avevo trentadue anni». È la stessa economia delle parole a innescare un brivido. Inutile chiedersi per quale ragione una giovane intellettuale, laureata in lettere e quasi laureata in filosofia, dotata di una spaventosa sicurezza di giudizio, non trae le conseguenze. Ma davvero eravate ciechi, non vedevate, davvero non sapevate?, le chiede incredulo K. S. Karol, l'«antistalinista ma non anticomunista» divenuto il suo compagno dopo la separazione da Rodolfo Banfi. Macché: il mondo della Rossanda è hegeliano, tutto il reale è razionale, e quindi la realtà del Pci implicava la razionalità dello starci dentro, e gli errori giustificavano teleologicamente se stessi. Da ciò deriva lo schema autoassolutorio e ineluttabile che seppellisce le obiezioni: abbiamo sbagliato tutto ma avevamo ragione. Le cecità, i dérapage, le omissioni derivano dall'etica della responsabilità verso il partito, verso le masse, verso chi aveva trovato nel Pci un mondo a parte in cui ripararsi. Errori su errori, ma per le ragioni giuste. E c'è sempre una ragione, anche se il prezzo di tutto questo è una cortina di corrività alla ragion di partito, screziata di arroganza intellettuale. Sarà anche per questa fede coattiva che il codice dogmatico del Pci conserva un suo fascino implacabile. Si legga dell'incontro a cena, in una «modesta trattoria» con Luigi Longo, salito a Milano per indurla ad accettare l'invito a dirigere, a Roma, la sezione culturale del Pci. Lei nicchia, accampa «le urgenze», «le molte ragioni per declinare l'offerta». «Lui aspettò che finissi poi proferì: Ascoltate. Io non invito a cena nessuno, sono avaro. Ho invitato voi perché i vostri compagni mi hanno detto che facevate delle obiezioni all'incarico. Vi ho spiegato perché la direzione ha deciso che veniate a Roma. Non fatemelo ripetere. Trovatevi a Roma a dicembre». Lei resta a bocca aperta: «Potevo dire di no, e non sarebbe successa una catastrofe...». Ma alla fine: «Ci pensai due giorni e dissi sì. Come tutti si attendevano». C'è Togliatti che dopo un complicato giro di bozze di "Rinascita", con molte correzioni e annotazioni, a proposito del commento a un discorso di Kruscev sugli intellettuali «di una stupidità sconfortante», di fronte alla sua ultima obiezione le scrive ironicamente: «Chi è il segretario del Pci? Tu o io?». C'è un Pajetta che minaccia retoricamente il suicidio e lei gli spalanca la finestra sul giardino dicendo con sarcasmo «buttati». Un Amendola che va sul personale: «Ti sei messa con Karol? Peccato, una così brava persona», perché ai suoi occhi «io ero già un serpente ingraiano». Longo che nei giorni dell'invasione di Praga la ferma in un corridoio, «il volto teso e gli occhi grigi pieni di collera», per confessarle, sbigottito: «Sapete, non mi hanno neanche informato». Alla fine, anche il più cocciuto degli anticomunisti farà fatica a trattenere l'emozione quando con poche parole il libro racconta il corteo funebre di Antonio Banfi, il professore abituato a curare il collegio senatoriale di Cremona, felice di calarsi nella terra e nella vita dei suoi contadini: «Due giorni dopo, ai suoi funerali, c'erano senato e comune e partito e università e allievi e tutta Milano, e un mare di contadini in bicicletta venuti dal cremonese, un mare mantellato e silenzioso che colmò le grandi strade e rifluì la sera verso le campagne». Per il cacciatore di storie, il clou non è il processo del partito ai deviazionisti del "manifesto" (con lei, fra gli altri, Natoli, Pintor, Magri, Castellina). Ad esempio, il viaggio a Cuba, nel 1967, è un prodigio di umorismo. Fidel Castro che ammette pensosamente problemi e contraddizioni: «Sì, i contadini non volevano mollare la terra. Che fare? Hay que fusilarlos?». E quando il discorso si sposta sull'Urss, «non ne sapevano nulla... Ascoltarono con stupore quando, sentendo troppe sciocchezze, parlammo del gruppo leninista, degli anni Venti, e Trenta, i processi, la guerra». «Riportandoci all'albergo, Castro ancora ruminava, possibile che Stalin avesse fatto ammazzare Trockij, gli pareva un'enormità. Non l'aveva mai saputo...». Naturalmente il libro della Rossanda si può leggere in tutt'altro modo. Più politico. Più simpatetico. Più storicamente e dialetticamente avvertito. E poi magari concludere che ad esempio la signora in rosso ideologizza e mitologizza l'autunno caldo, ossia «la più grande e colta lotta operaia del dopoguerra», che grazie alla sapienza operaia porta addirittura aumenti di produzione sgraditi al capitale. Si può ragionevolmente obiettare che il suo racconto elude, e dove non basta l'elusione subentra l'amnesia. Si può dire che sfoggia il senno di poi. Che è costellato di giustificazionismi. Ma non importa. È un gran libro: quindi tanto peggio per i fatti.
L'Espresso, 27/12/2005
Che bel tempo che fa Teocoli
A chi è capitato di accendere la tv domenica 11 dicembre, e di piazzarsi su Raitre intercettando "Che tempo che fa" di Fabio Fazio, dopo il solito pomeriggio di calcio e in attesa del derby Inter-Milan, è stato offerto il premio di una prestazione in studio di Teo Teocoli, di quelle inattese, una gemma televisiva non prevista. Il contorno non sembrava promettere granché: una delle classiche conversazioni con l'ospite. Cioè il più consueto dei chissenefrega. Solo che questa volta Teocoli era disteso, tranquillo, divertito. Voi sapete com'è, Teo: un fuoriclasse. Ma anche un fuoriclasse nevrotico, ombroso, scassaminchie. Sarà stato rassicurante l'interlocutore Fazio, sarà stato il clima domenicale, ma Teocoli ha realizzato uno dei suoi capolavori. Capolavori minimi: la storia del suo arrivo a Milano da bambino, dopo un viaggio interminabile su una delle tradotte dal Sud, «un postale che fermava dappertutto», la tremenda craniata in seguito alla caduta in Stazione centrale, e poi la vita nella Milano degli anni Cinquanta. La scuola, gli studi di ragioneria con il professore senza mani, la professoressa Musci destinata a superare il secolo di vita, le gite scolastiche. Roba da niente, un amarcord milanese qualsiasi. Però realizzato insieme con una verve e con un umorismo da accademia del popolo, con un senso straordinario dell'aneddoto. E Fazio, che aveva capito tutto, si è messo gentilmente al servizio dei racconti di Teocoli, senza importunare, senza voler primeggiare, ridendo lui per primo alle battute, lasciandogli quasi 20 minuti di primo piano, perché evidentemente si era accorto che stava avvenendo qualcosa di piccolo, ma irripetibile. Molto meglio il cabarettista Teocoli che il politico Pier Ferdinando Casini, che pure non se l'era cavata male, alla sua maniera bolognesona. Se si deve fare conversazione, arte dimenticata, tanto vale soffermarsi sulle modeste storie della vita di uno qualunque (Teocoli è stato qualunque a lungo, e forse per questo ha una concezione gelosissima del proprio lavoro e del proprio ruolo, e litiga praticamente con tutti non appena si sente toccato nelle sue prerogative di showman). Quanto a Fazio, bene bravo bis. E continueremo tutti a chiederci fino a quando si accontenterà di questa sua posizione di nicchia, e fino a quando la formidabile Rai contemporanea eviterà di chiedergli di impegnarsi in uno show bello grandioso come ai vecchi tempi.
L'Espresso, 16/12/2005
Unione, se ci sei batti un programma
Con le conferenze programmatiche della Margherita e dei Ds si è diffusa nel centrosinistra un'ondata di ottimismo, perché «adesso abbiamo il programma». Se è per questo i programmi sono due, che diventano tre se si considera l'output della Fabbrica di Prodi a Bologna, e quattro o cinque a considerare anche le proposte di Bertinotti e l'antiprogramma dei piccoli dell'Unione. La conseguenza è che i due maggiori partiti del centrosinistra si mostrano convinti che ormai il più è fatto; ma non hanno calcolato che del loro dibattito all'esterno non è rifluito nulla. O meglio, vaghe idee, riunite da un sentimento empiricamente irrilevante. Si badi bene, qui non si vuole cadere nella trappola dei "cinque punti per i primi cento giorni", evidentemente una gag alla Totò, che per motivi imperscrutabili riscuote un successo via via maggiore ogni volta che viene ripetuta, come la lettera di Totò e Peppino alla Malafemmena, punto: il problema non sono né il programmismo né i cinque punti; la questione vera e seria è un orientamento di fondo per cinque anni di governo. Eppure, tolta di mezzo l'ossessione dei cinque punti o dei cento giorni, bisognerebbe che venisse fuori una linea visibile e coerente. Finora si è assistito all'analisi della realtà italiana; adesso ci vorrebbe una prospettiva generale, un modello di riferimento, una politica da esporre al paese. Vabbè, qualcosa si è sentito. Alla conferenza diessina Pier Luigi Bersani ha fatto probabilmente il discorso della vita, e comunque l'intervento più importante della sua carriera politica, felicemente riformatore, lasciando capire che alle due cinquantenni punte future (Rutelli e Veltroni) occorrerà aggiungere anche la punta emiliana. Ma "una certa idea" dell'Italia non si è ancora sentita. Non che sia facile, perché il centrosinistra, se vincerà le lezioni, si troverà a dover gestire un paese che ha bisogno nello stesso tempo di una fortissima modernizzazione, e della ristrutturazione selettiva dello Stato sociale. L'ammodernamento dell'economia non è un problema, dato che anche se non lo promuove la politica lo realizzerà il mercato: solo che in questo caso, cioè nella prospettiva poco evitabile di tensioni nei settori produttivi, e di contraccolpi sociali politicamente insostenibili, diventa essenziale spiegare come dovrà essere cambiato, e radicalmente, il welfare: a chi dare, a chi togliere. Precipitata nel guazzabuglio del sistema proporzionale, l'Unione fatica in realtà a trovare una sintesi. Il centrodestra giochicchia con l'imbroglio delle "tre punte". L'Unione non può cullarsi nell'idea che in ogni caso "noi" siamo migliori di "loro", capaci eventualmente di gestire attraverso il consenso scelte complesse come la Tav, di risolvere con la concertazione il problema del recupero del potere d'acquisto per le fasce sociali impoverite, e di mettere in squadra ministri di professionalità infinitamente superiori a quelli della Cdl. Tutto vero o verosimile. Ma nel 2001 Berlusconi annunciò e promise. Le promesse, quasi tutte disattese, come no: il Contratto è da buttare, e i nuovi cartelloni sono generici prima ancora che minacciosi. Il Cavaliere sa che il pubblico dimentica facilmente. Tanto per dire, pochi mesi fa aveva promesso solennemente che entro la legi?slatura avrebbe riportato il debito pubblico sotto il 100 per cento del Pil; adesso il Pil veleggia disastrosamente verso il 110, e non c'è nessuno che gliene chieda conto. E tuttavia quel Berlusconi annunciava qualcosa. Un'indistinta megalomania populista, va da sé. O una circonvenzione politica. Ma ora che cosa sta annunciando il centrosinistra? Che cosa promette? Il programma sarebbe l'accordo sui Pacs "un po' meno Pacs" e sul testamento biologico? Come ha detto nel suo anti-ideologismo Giuseppe De Rita: «I giornali scrivono dei Pacs, e i politici si convincono della centralità dei Pacs». Ma con tutto il rispetto per i simil-Pacs e i soggetti contraenti, non sarà il caso che finalmente l'Unione spieghi come intende governare la società italiana? Più tasse o meno tasse? Più pensioni o meno pensioni? Più grandi opere o più infrastrutture tecnologiche? Più spesa pubblica, meno spesa pubblica? Più insegnanti, meno insegnanti? Bastano anche quattro punti, o sei, non c'è l'obbligo dei cinque. Anche 12, se serve. L'importante è farsi vivi.
L'Espresso, 16/12/2005
Ipnosi Bignardi
C'è qualche motivo per parlare male del talk show de La 7 "Le invasioni barbariche"? Uno solo, e cioè che ormai il programma viene definito "di culto", e oggi anche chi nutre un rispetto profondo per ogni professione di fede, appena sente la parola culto mette mano al telecomando, nel timore che compaia qualche ateo devoto, un Pera o qualche idolatra di Giuliano Ferrara (gli atei devoti sono molto atei ma ritengono che se un dio esiste è grande e grosso e si chiama Giuliano, a dispetto della sua apostasia; simmetricamente, non si capisce dove nel frattempo siano finiti, sic transit, i cultori di Paolo Mieli e del terzismo). Dicebamus comunque delle "Invasioni". Lo scrivente è altresì convinto che il successino del talk show sia inspiegabile, a meno di usare come criterio esplicativo la presenza e l'incombenza di Daria Bignardi. Oddio, l'incombenza: ed è subito Bonolis. Ma non c'è altro modo di spiegare la "necessità", in senso filosofico e televisivo, di Daria. Che uno stava già architettando di andarsene a leggere il miglior libro dell'anno o del decennio (Rossana Rossanda, "La ragazza del secolo scorso", Einaudi, altroché) e invece si trova l'ex sorellastra del "Grande Fratello", trasformata in una donna gentile e materna, che ammicca e si ritrae, sembra osare ma "con juicio", e quando si trova di fronte Paolo Crepet gli estorce il meglio ma soprattutto il peggio, fino a fargli confessare che lui, l'intellettuale Crepet, è di sinistra, ma così di sinistra che da anni non si preoccupa neanche di votare (ottimo, c'è stata l'invasione dei barbari e lo psicologo insegue l'assoluto). Quando il discorso scivola su Cogne e Crepet dice che questa società odia i bambini, la mammina Daria si schermisce e ha perfettamente ragione: gli psicologi amano traumatizzare le casalinghe, ma la Bignardi non è una casalinga e non si fa impressionare. E poi, basta con la psicologia: parafrasando Karl Kraus, Freud e Crepet sono i malati, non i medici. L'unico effetto psicologico accettabile, a proposito delle "invasioni" è di tipo ipnotico: perché Daria è pura ipnosi, la trovi nell'etere e ti ipnotizza. Di che cosa poi parli il programma, boh. Sono passate interviste a Michele Serra e a Daniele Cordero di Montezemolo, il fratello di Luca che ha reinventato la cravatta. Ma che importa, il programma è lei, la ragazza maga, una del nostro secolo: e lasciarsi ipnotizzare è dolce in certe sere.
L'Espresso, 02/12/2005
Barifuoco e Buttaficco
Baricco e Buttafuoco: il Rosso e il Nero, per evocare alla carlona ascendenze stendhaliane. I protagonisti del principale duello culturale, letterario, artistico, politico, romanzesco, storico, giornalistico, editoriale, melodrammatico, mercantile, lobbistico della stagione. Rosso e Nero fino a un certo punto, comunque. Alessandro Baricco è uno stracùlt del rossoverdismo, di una sinistra veltronica e televisiva (e adesso radiofonica, «perché la radio è più sommessa e meno volgare»), a cui quelli del "Foglio", sostenitori del "competitor" di destra, hanno sempre rimproverato le maniche arrotolate e il "fighettismo". Per cercare riferimenti culturali in materia, prima di leggere il nuovo bestseller di Baricco "Questa storia", consultare il suo instant book da Feltrinelli, anno 2002, titolo "Next", sottotitolo "Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà" (l'incipit recita: «Ovviamente la prima domanda che viene in mente è: cosa diavolo è la globalizzazione?», e i link alle parole chiave vengono definiti "bonus tracks"). E Pietrangelo Buttafuoco, davvero sarebbe nero nero? Nerissimo, dicono tutti. Eppure, nell'intervista choc a Norberto Bobbio, anno 1999, dopo avere indotto il maestro dell'azionismo torinese a un clamoroso coming out sull'«eravamo tutti fascisti e ci vergognavamo di dirlo», di fronte alla domanda del filosofo, «mi spiega perché è fascista?», lo spudorato rispose: «Professore, confessione per confessione, io non sono fascista. Sono altro». Ecco. «Ho amato lo scandalo di chi gioca da fascista in questo dopoguerra perché è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti altrimenti inaccessibili». Maliziosamente, si potrebbe dire che il funambolico Baricco non avrebbe saputo confondere meglio le acque. Certo che sarebbe un tiro mancino accostare il torinese acrobata multimediale autore di "Castelli di rabbia", che com'è noto conclude i suoi chilometrici ringraziamenti scrivendo che d'ora in avanti non scriverà più ringraziamenti, e notare che il siciliano dannunzian-futurista cultore dei legionari fiumani e dei loro fasti erotici termina il suo libro con un "backstage" che chissà dove l'avrà trovato o mimato (un sicilianuzzu che anglicizza?). Provocatorio sarebbe anche fonderli in un Barifuoco o in un Buttaficco. Ma l'artificio suonerebbe traditore, perché "Questa storia" (Fandango) di Baricco e "Le uova del drago" (Mondadori) sono due libri lontanissimi, che forse fondano due tradizioni opportunamente inventate, secondo il precetto di Eric Hobsbawm. Intanto, però, hanno inaugurato due metodi commerciali contrapposti: il marketing totale di Fandango, neoeditore di Baricco: quattro copertine su progetto grafico di Damir Jellici e disegni di Gianluigi Toccafondo. Che non si capiva a che cosa servissero, quattro illustrazioni diverse, finché non si sono viste a Roma le affissioni con i disegni di Toccafondo divenute cartelloni cinematografici à la Fandango. Mentre per Buttafuoco, una sola copertina ma stupenda, e un anti-marketing addirittura perfetto: un diluvio di recensioni-interventi-discussioni sul "Foglio", con Giuliano Ferrara a tirare il gruppone, in modo da innescare il passaparola (Baricco preferirebbe "word-of-mouth"?), sicché dopo la prima prudentissima tiratura, la Mondadori è andata in rottura di stock, ristampando affannosamente, mentre le librerie restavano sprovviste, «Buttafuoco? Esaurito!» ("sold out"!). Quanto al valore letterario, non è questa la sede. Fenomenologicamente, va registrato che Buttafuoco è stato lanciato da un incessante fuoco amico di Giulianone: «Pietrangelo Buttafuoco ha la sensibilità patologica di Louis-Ferdinand Céline ma scrive per sua e nostra fortuna nella lingua salutare di Alessandro Manzoni». A seguire la raffica del plotone del "Foglio". «Romanzo fascistissimo ed eccezionalmente partigiano». «Ecco un nemico sontuoso». «Andrebbe letto a scuola» (Alessandro Giuli). Oppure: «Sarà un fascista de merda». «Vabbé, però è bravo» (Stefa- no Di Michele, ricordando gli scambi di battute a "l'Unità", primi anni Novanta, quando Buttafuoco scriveva sul "Secolo d'Italia". «Un occhio e un orecchio formidabili»; «l'incantevole ritmo» (secondo quel talento inconfondibile della stroncatrice "professional" Mariarosa Mancuso). L'unico stroncatore autentico è uno dei bastian contrari seri, Ernesto Galli della Loggia: «Il libro fornisce una serie di falsi storici ingenui quanto clamorosi, invenzioni da favoletta orientate a mettere da parte le miserie e il fallimento del fascismo in Sicilia». Sarà il contrappasso, sarà la nemesi: perché nel successo speculare di Baricco c'è invece un qualche riconoscimento della plausibilità storiografica della sua ricostruzione di Caporetto. Quindi viene da dire che lo scontro di egemonie culturali c'è davvero, fra le storiacce di Buttafuoco e il paradigma ipercorretto della corrente bariccata, con la destra-destra, quella del "Secolo d'Italia", che insorge dicendo: «Ma vedete che ce li avevamo anche noi gli intellettuali, colpa nostra se non siamo stati capaci di sostenerli!». Chi è causa del suo mal, eccetera. A chi è stufo dell'egemonia, si può ricordare che il romanzo del quarantasettenne Baricco vende tre volte il romanzo del quarantatreenne Buttafuoco, ma il confronto è evidentemente ineguale perché il creativo, l'autore e conduttore di "L'amore è un dardo", viene da successi vagamente inquietanti come "Seta" e il rifacimento in stile contemporaneo dell'Iliade. Mentre Buttafuoco non ha immagine televisiva né trionfi pubblici alle spalle, e neanche il bacino "midcult" del presunto rivale. Chi obietta al successo di questi due quarantenni antinomici può trovare ragioni serie. Scrivendo su "la Repubblica" la recensione di "Questa storia", Michele Serra ha realizzato un gioiello di dosature («In uno dei capitoli più tromboneschi, e più coinvolgenti, che abbia mai letto negli ultimi anni», «si arretra di fronte a certe sonate stentoree», «certe volte si fa "ooooh" e si applaude»). A sua volta, il libro di Buttafuoco è sembrato più la descrizione di un romanzo che un romanzo fatto e finito. Il suo fascismo, e dai!, «un fascismo sniffato come cocaina», secondo un altro siciliano, Francesco Merlo, sempre su "la Repubblica", è assaporato in «un delirio irritante e squisito» (per la verità Merlo si prende anche il gusto paternalistico e campanilistico di definire Buttafuoco «giornalista giovane e di grande talento», forse per segnalare gerarchie almeno anagrafiche, ma promuovendolo, urka!, al rango di «nostro Tolkien»). D'altronde, recensendo tempestivamente Baricco, "il Foglio" diceva che «non ci sono maniche di camicia arrotolate, in questo romanzo», «niente seta, niente oceano mare», e il sommario esclamava: "Bel romanzo". Onore delle armi, insomma. Forse non tira aria di grande coalizione per niente. Almeno fra egemonie letterarie.
L'Espresso, 02/12/2005
Mi manda l’orco vendicatore
Ci sono sere in cui non si ha nessuna voglia di impegno, di società, di argomenti pesanti e/o civili, e si avvia lo zapping con la sola aspettativa di trovare una commedia possibilmente brillante o un programma di intrattenimento che non sia incivile. Poi invece si capita su un programma civilmente "hard", e non si riesce a staccare. È successo per una recente puntata di "Mi manda Raitre" (18 novembre), che ha proposto una storia ai confini della realtà. Riassunto: protagonista una bella ragazza di 24 anni, con un lavoro in un settore sensibile alla moda (parrucchiera), disponibile agli imperativi della chirurgia estetica. Vuole farsi un intervento di mastoplastica additiva, cioè ingrandirsi il seno. Se ne va in un centro specializzato, o presunto tale, dove le danno consigli piuttosto interessati e in una sola seduta le praticano tre interventi: rinoplastica, rimodellamento del seno, liposuzione alle cosce. Risultato: l'operazione non riesce, devono rioperarla, c'è un'emorragia, i chirurghi la caricano su un auto privata e la scaricano in ospedale al San Camillo. Rischia di morire, si salva a malapena, resta in coma 47 giorni. Esce dal calvario con danni ai polmoni e tante cicatrici. Ci si chiede perché mai una donna così giovane e bella non sa accettarsi. Ci si chiede perché in una sede medica abilitata a interventini ambulatoriali si pratichino interventoni massicci. E magari ci si chiede anche quale sia l'affidabilità di questi centri estetici, e quale sia la deontologia di medici che operano in quel modo. Tutte domande puntuali nell'epoca in cui le ragazzine chiedono il rifacimento delle tette come regalo di compleanno. Ma in questa rubrica conta solo l'apprezzamento per un programma che è riuscito a selezionare una storia del genere. Per la bravura degli autori che sono riusciti a ricostruirla come se fosse un thriller. E anche per il ruolo del conduttore, Andrea Vianello, uomo di rara bruttezza visiva e rara qualità televisiva: che chiude la trasmissione segnalando che i chirurghi in questione si sono rifiutati di apparire nel programma e hanno mobilitato avvocati per impedire che fosse fatto il loro nome e il nome della clinica. Mentre chiude il programma dicendo che no, loro i nomi li hanno fatti, Vianello in primo piano sembra un orco: ma un orco buono, che vendica un torto. Magari lo condanneranno in sede civile o penale: ma come prova di giornalismo, accidenti.
L'Espresso, 25/11/2005
S’è rotta l’Unione
Lontano da Roma, in periferia, nelle province, nelle giunte amministrative, nei Consigli comunali si ride con i denti verdi: «Cucù, l'Unione non c'è più». In Piemonte, dissidi teatrali sull'alta velocità. A Venezia, diessini che espellono diessini dopo il caso Casson-Cacciari. A Modena, pasticci margheritici sulla Fondazione della Cassa di Risparmio. Basso profilo, di solito. Ma nella capitale, un vecchio corsaro della politica come Marco Pannella, impegnato nella tessitura dell'accordo politico con lo Sdi di Enrico Boselli e con i socialisti di Bobo Craxi, lancia un monito: «L'obiettivo principale in questa fase politica consiste nel battere il centro-destra. Però...». Eccoci, alla questione centrale dell'Unione. Commenta infatti Pannella nei suoi interventi: «L'effetto delle primarie si è via via depotenziato. È rimasta forte l'onda di consenso che ha confermato la leadership di Romano Prodi; ma l'Unione è entrata in turbolenza». Succede. Per la verità succede sempre al centro-sinistra. Succede, secondo il rito prodiano più ortodosso, quando al disegno intelligente e politicamente creazionista della linea ulivista si oppone il darwinismo ottocentesco delle culture storiche residuali. Sui temi di fondo come il ritiro dall'Iraq o sul rapporto con la Chiesa. Ma succede anche su questioni di bassa cucina partitica, come è accaduto con la baruffa sul finanziamento elettorale della campagna di Prodi: cioè una vicenda minore che si è ampliata a dismisura con gli interventi pubblici del brasseur del Professore, l'ex cestista Angelo Rovati (presidente della fondazione Governareper), e le reazioni mutriose della Margherita e dei Ds, finché Prodi ha stretto le labbra e ha sibilato: «Di soldi e di corna si parla solo in famiglia». Intanto però la temperatura politica era diventata torrida, con il tesoriere diessino Ugo Sposetti, uomo di sperimentate capacità pragmatiche, stimato da lady Flavia Franzoni, che parlando di Rovati e del braccio destro prodiano Giulio Santagata era esploso: «Prodi dica ai suoi cani di smettere di abbaiare». A volte l'unico rimedio è la medicina omeopatica dell'ironia, e Prodi aveva dedicato un pomeriggio alla soluzione del problema. Che si era materializzata nell'ampio stand del CioccoShow di piazza Santo Stefano, a un passo dalla residenza bolognese del candidato premier, con l'acquisto e la spedizione ai due tesorieri Ds e Dl, Sposetti e Luigi Lusi, di due cani di cioccolata fondente in bella confezione bianca, altezza al garrese 35 centimetri, peso mezzo chilo. Biglietto affettuoso e diplomazia avviata, anche con il conforto di una conversazione a tu per tu con Piero Fassino sull'aereo per Le Mans in occasione del congresso del Psf (5 mila socialisti francesi pronti all'ovazione per il cattolico Prodi, che li aveva salutati come «camarades d'Europe»). Folklore? Fino a un certo punto. Perché la malastoria del finanziamento è il sintomo di un conflitto strisciante che investe tutto il centro-sinistra. Nella patria del Professore, Bologna, il sindaco Sergio Cofferati è impegnato in una campagna ultralegalitaria che sta provocando attriti vistosi a sinistra, con Rifondazione comunista e i Verdi, ma anche con la componente cattolica della Margherita e con i movimenti sociali. A Palermo, in vista delle elezioni regionali, c'è la contrapposizione fra il candidato di Francesco Rutelli, il rettore di Catania Ferdinando Latteri, e la candidata della società civile Rita Borsellino, che ha portato al diapason il contrasto fra i due maggiori partiti candidati a confluire nel partito democratico. Ma i veri punti caldi della coalizione sono di carattere marcatamente politico. Anche in questo momento il fattore di tensione è rappresentato dagli strappi di Arturo Parisi, anima dell'Ulivo. Con un'intervista al "Corriere della Sera" Parisi ha sostenuto che nella prospettiva del partito democratico i partiti attuali sono entità a termine. Sbagliato sorprendersi, per la verità, dal momento che Parisi, storico ispiratore politico-culturale di Prodi, «stratega sistemico» nella definizione di Santagata, teorico e unico vincitore reale della scommessa delle primarie, ha sempre guardato a un orizzonte "americano", un bipartitismo compiuto in cui le identità sono destinate a stemperarsi. Solo che ogni volta che Parisi parla i Ds insorgono. Evidentemente ha il dono fatato di toccare nervi scoperti. L'estate scorsa aveva risollevato la questione morale, a proposito dell'intreccio politico-economico sullo sfondo della scalata di Unipol alla Bnl, suscitando fitte di dolore nella Quercia. Sulla questione dei partiti "transeunti" o morituri è intervenuto con durezza Franco Marini, evocando il pericolo di «visioni plebiscitarie» che non si addicono del tutto alla modesta statura fisica del "Negus", che non ha nulla del capo carismatico. Quando poi il politologo sardo- bolognese ha letto «con incredulità» le dichiarazioni al "Corriere" del diessino Giuseppe Caldarola («E allora noi gli rispondiamo: no, devi morire tu»), si è lasciato andare nella risposta a una frase crudele per Caldarola e i Ds: «Capisco che la sua prima formazione militante possa averlo familiarizzato con la morte più di quanto abbia fatto con me la mia prima formazione militare». Per capire questo lessico di pretta "école parisienne" bisogna sapere che Parisi ha frequentato la scuola militare della Nunziatella, ma soprattutto che non è mai stato comunista, e quindi complice dei misfatti del socialismo reale. Ci vuole poco a capire che questa non è normale dialettica fra correnti del futuro partito unico. Sono segnali del persistere di una diversità ontologica fra catto-ulivisti e diessini, fra riformisti da un lato e socialisti dall'altro, che periodicamente affiora con ruvidezza. Fino a pochi mesi fa si pensava che le difficoltà, per Prodi, sarebbero sorte nel rapporto di medio periodo con Rifondazione comunista. Ma per la verità Fausto Bertinotti sembra avere accettato integralmente, dopo l'esito per lui non straordinario delle primarie, la logica dell'alleanza larga e l'imperativo essenziale di sconfiggere la Casa delle libertà. Primum vincere. Oggi invece, in seguito alla quasi approvazione della caotica legge elettorale varata unilateralmente dal centro-destra, le contraddizioni sono in seno al popolo, ossia dentro l'Unione. E nonostante il precetto del presidente Mao, la diagnosi di una grande confusione sotto il cielo non è affatto la riprova di una situazione eccellente. A guardare i dati dei sondaggi, sostanzialmente omogenei per tutti gli istituti demoscopici, la condizione del centro-sinistra sembrerebbe rassicurante, con un vantaggio che nemmeno la trappola della legge elettorale per il Senato minaccia di scalfire. Ma ci sono almeno due aspetti da valutare, che generano inquietudine. Per un verso, la quota ancora molto alta di indecisi (un quarto del totale), che fa dire al circuito prodiano: «Non dimentichiamo che Angela Merkel ha vinto i sondaggi, con un 30 per cento di incerti, e ha quasi perso le elezioni con il voto vero». E in secondo luogo un dato, segnalato da Roberto Weber dell'Swg, secondo il quale «il consenso dell'Unione è stabile, ma c'è ancora un "quadrante" della società italiana potenzialmente mobilitabile, rappresentato dal mondo cattolico». Questa rilevazione chiarisce probabilmente il forcing di destra sulle posizioni della Chiesa, con le iniziative antiabortiste di Francesco Storace, così come spiega l'irritazione nell'ambiente di Prodi suscitata dalle forzature zapateriste di Boselli contro il Concordato, proprio mentre il Professore stava cercando una ricucitura con il cardinale Ruini. A questo proposito, viene attribuita a un Prodi inferocito una battuta: «Nei dieci Comandamenti non ce n'è uno che imponga di essere stupidi». Occorre capire se è questione di stupidità, oppure una questione di natura (secondo l'apologo, lo scorpione punge la rana in mezzo al fiume anche se ciò provoca la morte di entrambi: «È la mia natura»). La natura del centro-sinistra è composita: chissà se di qui alle elezioni l'Unione sarà capace di fare tacere il proprio Dna così meticcio, così naturalmente autolesionista.
L'Espresso, 25/11/2005
Professione Report
La puntata di "Report" di domenica 13 novembre su Raitre era intitolata "Il re della bistecca" ed era dedicata al gruppo modenese Cremonini. In questa rubrica non si vogliono giudicare le vicende messe sotto esame: storie di carne più o meno avariata (secondo la tesi di "Report", forniture a una multinazionale di partite di manzo non esente dal rischio Bse; esportazione in Russia di carne in scatola inquinata dal botulino e a Cuba di altro scatolame in condizioni inquietanti). La cronaca dice che l'azienda ha smentito tutto, il ministro anche lui modenese Carlo Giovanardi si è detto «allibito» per l'attacco all'immagine di una società come l'Inalca, e per converso il giorno dopo in Borsa il titolo è caduto malamente. Qui si parla di tv e interessa solo segnalare un aspetto: e cioè che l'inchiesta del programma di Milena Gabanelli era una prova di raro impegno giornalistico. Una di quelle indagini che richiedono tempo, viaggi, documenti, testimonianze, verifiche. Poi può darsi che l'autrice dell'inchiesta (Sabrina Giannini) abbia preso un abbaglio, che i documenti proposti siano cartaccia e che lo scoop non stia in piedi. Se alla fine il gruppo modenese dovesse sbugiardare "Report", molti si divertiranno perché potranno dire che Gabanelli e soci sono gente ideologizzata (magari fondamentalista- vegetariana) che odia il capitalismo (e la carne). Intanto però sul piano formale il programma, come non di rado succede a "Report", era un concentrato di tv fatta sul campo. Popolare e professionale ad un tempo. Capace di raccontare con scansioni serrate, senza mai perdere il filo, inseguendo una traccia in tutto il pianeta e alla fine proponendo senza esitazione i risultati. Una di quelle indagini che sui giornali si leggono sempre più raramente, perché non c'è tempo, costano, il pubblico vuole sapere chi ha vinto sull'"Isola", e che cosa ha detto Al Bano, non che un dodicenne è morto di botulino lassù a Mosca. E che nessuna rete televisiva ormai progetta, perché contraddice la logica della tv, intrattenimento più pubblicità: insomma, non si può incassare la pubblicità se si aggredisce il capitalismo. Ma che è l'unica cosa che assomiglia ancora a un oggetto evocato solitamente a sproposito: il "servizio pubblico", per chi ancora ci crede (noi crediamo che tutta la tv sia infotainment, da Celentano a Berlusconi a Baudo: ma certe volte questa certezza vacilla).
L'Espresso, 18/11/2005
La nuvola di Prodi
Primo passo: leggere l'inchiesta dell'"Economist" sull'Italia, già definita "homme malade" dell'Europa contemporanea, e mettere agli atti le ragioni dell'incombente catastrofe nazionale, dallo sfaldamento dei conti pubblici alla perdita di competitività. Secondo passo: mettere questo scenario funereo a confronto con il rosa pastello di Silvio Berlusconi: contratto con gli italiani rispettato all'85 per cento, riforme strutturali a iosa, tenuta dell'economia in un periodo di stagnazione continentale. Dopo di che si tratta di vedere chi è nel giusto: il cupo catastrofista Bill Emmott? Oppure il fragrante ottimista Silvio Berlusconi? Nell'Italia di oggi per l'opinione pubblica è difficile scegliere, dato che il governo diffonde rassicurazioni: siamo riemersi dal sotto zero della recessione a un punto decimale sopra la linea. Di fronte a un parziale recupero nella crescita del Pil, i telegiornali parlavano di una performance che aveva reso l'Italia «la locomotiva d'Europa». La responsabilità del cattivo andamento di bilancio dipende dal tecnico Domenico Siniscalco. In ogni caso, la colpa della scarsa competitività è dell'euro «di Prodi» (si dimenticano di Carlo Azeglio Ciampi). E comunque delle sinistre, del sindacato, dell'extradeficit. Mentre pratica il "chiagni e fotti", Berlusconi sembra John Belushi nei "Blues Brothers", quando incontra l'ex fidanzata che vuole ammazzarlo perché non si è presentato al matrimonio. Non è stata colpa mia. È morta mia madre. Mi si è rotta la macchina. Io avrei voluto, ma, ma, ma. E allora, per riassumere: "The Economist" è la bibbia del pensiero liberista. Basta scorrere l'intervista al suo direttore per rendersi conto che l'analisi è, come direbbe Giulio Tremonti, esplicitamente e ineluttabilmente "mercatista". Il fallimento italiano, o il declino, l'avanzamento verso il baratro dipende dall'incapacità di liberalizzare, di aprire alla concorrenza, di eliminare le rendite, la burocrazia, il vincolismo. Il giudizio negativo accomuna il Cavaliere e Romano Prodi, entrambi gli schieramenti, il centro-destra e il centro-sinistra. Niente cultura di mercato, inevitabile il declino, con una sorte argentina già all'orizzonte. La sintesi è evidentemente thatcheriana. Niente sospetti di malevolenza politica verso il Berlusconi «unfit to rule», solo una radicale registrazione dell'incapacità italiana di adeguarsi al laissez-faire. Non ci sarebbe molto di nuovo se il giudizio di Emmott non investisse anche l'opposizione di centro-sinistra: «Chiunque vinca non c'è molta speranza». E qui il dente duole. Per certi aspetti questo giudizio affianca all'"Economist" buona parte dell'establishment italiano. Secondo il quale la Casa delle libertà ha dichiarato implicitamente fallimento, senza tuttavia che l'Unione abbia mostrato programmi e idee di governo tali da poter ragionevolmente invertire il tragitto verso l'abisso. Questa è un'opinione manierista, da parte della nostra élite economica, dettata da un'insopprimibile vocazione alla diplomazia con il potere politico (e in qualche caso gravata da un residuo di ideologismo per cui il governo di centro-destra sarà pure inefficiente, ma è più comodo di un'alternativa). Eppure questo manierismo va sbloccato, e l'unico modo per sbloccarlo consiste nel rendere pubblici i progetti politico-economici che caratterizzeranno l'azione di un governo futuro. Perché oggi il programma dell'Unione è una nuvola indistinta, che non parla ai cittadini e fa leva esclusivamente sulla bancarotta della Cdl. E che lascia spazio alla demagogia berlusconiana riassunta dallo slogan «una casa per tutti» (cioè la rivisitazione del milione di posti di lavoro, delle dentiere per gli anziani, del «meno tasse per tutti», insomma del «sogno»). Quindi, o ha ragione Emmott, e l'Italia è condannata senza appello comunque vadano le elezioni della primavera 2006. Oppure Prodi e l'Unione riescono a parlare alla società italiana e alla sua classe dirigente, indicando problemi, obiettivi e soluzioni praticabili, facendo scattare meccanismi di consenso. Perché a questo punto, il problema maggiore consiste nello smentire l'"Economist" e l'ineluttabilità del declino. Berlusconi può provarci con il populismo. Il centro- sinistra deve provarci con la ragione empirica, con una pattuglia di potenziali ministri credibili e professionali, con un'idea di fondo. Meglio che la tiri fuori, questa idea, prima che sia troppo tardi.
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