L’Espresso
L'Espresso, 18/11/2005
Si è ammosciato il Molleggiato
Non sarebbe finito in gloria, "Rockpolitik", se Adriano Celentano non avesse cannato l'ultima canzone, fermandosi e lasciando via libera ai titoli di coda: «Stop, stop, sei davanti e mi copri le parole», perché non vedeva il gobbo. Ma nella terza puntata aveva sbagliato anche "Una carezza in un pugno", a riprova di una propensione storica all'inceppamento: si bloccò anche nel 1966 a Sanremo, subito dopo l'avvio del "Ragazzo della via Gluck", e si discusse per giorni se l'avesse fatto apposta o no (le giurie, per non sapere né leggere né scrivere, lo eliminarono in prima serata). Quindi una controstoria di "Rockpolitik" dovrebbe prescindere dalle esibizioni di Adriano. Anche perché sulle pagine dei giornali non sembra sia stata accennata la questione vera: e cioè chissenefrega di ciò che Celentano giudica "rock" o "lento". Il pubblico di Brugherio applaudiva tutte le ovvietà possibili, e cioè che ciò che è buono fa bene, e ciò che è cattivo fa male. Invece le cose migliori vengono dall'imprevisto. Non soltanto Maurizio Crozza, uno che surclassa tutti, quando ha fatto "Zapatero" e nell'ultima puntata il "Gipsy King Mix" sul ritorno della proporzionale: «Yo no credevo possibile che in questa mi vita / yo ritornavo nel tiempo in cui c'era De Mita». Ma soprattutto quando è stato veramente maligno filosoficamente, a proposito dell'imperfetta evoluzione umana: «Tremila anni fa c'era Platone... Oggi c'è Buttiglione». Fra gli imprevisti veramente imprevisti, "epocale" invece lo scaracchio di Patti Smith nel mezzo di "Because the Night". Quanto a Celentano, l'imprevedibile è stato come sempre particolarmente prevedibile. Cioè attento ai soliti funambolismi, facendo il paraculo un po' di qua e un po' di là, e destreggiandosi tra Dario Fo, «che sarebbe il sindaco giusto per questa città», e il Contratto con gli italiani, «che qui c'è scritto che sarebbe lento, ma a suo tempo sarebbe stato anche rock». Che le quattro puntate di "Rockpolitik" siano state effettivamente di sinistra è accertato non proprio in base agli ospiti come Roberto Benigni e Sabina Guzzanti, ma per l'accoglienza del pubblico, capace di fischiare anche solo la gigantografia di Silvio Berlusconi. Fosse venuto, il Cavaliere, chissà che sarebbe successo. Magari lo applaudivano. Naturalmente, Adriano è stato alla propria altezza e ha bassamente concluso che non sa per chi votare. Come uomo contro se ne sono visti di più cattivi.
L'Espresso, 04/11/2005
I blitz passano i problemi restano
Leghisti ed esponenti di An che plaudono all'azione "law & order" del sindaco di Bologna Sergio Cofferati svolgono la loro ovvia provocazione. Il fastidio che possono suscitare nella sinistra è simile all'insofferenza che si prova allorché il tema della sicurezza diventa strumento di una campagna elettorale: la sicurezza è un bene pubblico, e dovrebbe essere perseguita come uno sfondo normale della convivenza civile. Gli imprenditori politici della sicurezza speculano in genere sui timori della gente, giustificati o ingiustificati che siano. Inserire questo argomento in un programma politico di parte aggiunge al confronto fra gli schieramenti pulsioni tipicamente populiste. Ma le iniziative di Cofferati non appartengono, se non in via mediata, alla sfera della sicurezza pubblica. Non c'è un legame diretto fra l'insediamento dei romeni sul greto del Reno e fenomeni di delinquenza. Lo stesso sindaco di Bologna ha iscritto le proprie iniziative, cioè gli sgomberi, i controlli dei vigili urbani sui lavavetri, le baracche spianate dalle ruspe, nel criterio della "legalità". Ed è su questo concetto che occorre intendersi. La legalità è un concetto generale e astratto. Farlo diventare un connotato generale della vita civica è in sé un'impresa meritoria, perché sono molti i cittadini che concepiscono le regole come il tessuto in cui si esercita la propria libertà quotidiana. Tutto bene, allora? No, non proprio. Il primo errore, nel centrosinistra, è consistito nell'avere allestito un dibattito caotico sulla legalità stessa: valore in sé, valore per la sinistra, valore da commisurare o da subordinare ad altri valori? In primo luogo, la legalità non è né di destra né di sinistra, a dispetto di Gianfranco Fini e di Roberto Calderoli. Soprattutto in una città come Bologna, abituata all'ordine e all'efficienza pubblica, sulla legalità non si fanno campagne elettorali e politiche: i cittadini la pretendono come una condizione oggettiva e irrinunciabile. Ma le città sono diventate realtà complesse. L'immigrazione ha mutato la convivenza collettiva. Talvolta l'atteggiamento di tolleranza cede il passo all'insofferenza. E allora come si ripristina il tessuto urbano della legalità? Riesce arduo pensare che alcune mosse spettacolari come gli sgomberi di via Roveretolo e l'abbattimento delle baracche nel Lungoreno abbiano dato un contributo significativo al ritorno all'ordine. I blitz passano, i problemi restano. Cofferati argomenta le proprie decisioni segnalando problemi circoscritti su cui era urgente intervenire: ad esempio, l'insediamento dei romeni sul lungofiume è inquinato dalla presenza di un caporalato che utilizza nei cantieri edili quella manodopera in nero, facilmente reperibile, disperata e sfruttabile. Ma le soluzioni sono buone quando non eccedono la taglia dei problemi. Se fosse possibile riportare la legalità a qualsiasi costo, il centro di Bologna, particolarmente la zona universitaria, potrebbe essere bonificato con un'azione di elicotteri, accompagnati dalla "Cavalcata delle Valchirie": ma non si tratterebbe della legalità ripristinata, bensì di una variante felsinea di "Apocalypse Now". E quindi se il problema del Lungoreno era la presenza di lavoro nero e sfruttamento, è bene capire se il mezzo migliore per risolverlo consiste nell'abbattimento di cento baracche. Oppure se la soluzione è sfasata rispetto al problema. Come si è visto, i blitz del sindaco hanno aperto una questione politica dentro la sinistra e fra la sinistra e i cattolici. A sinistra non ci sono soltanto Rifondazione comunista o i movimenti a criticare Cofferati. Lo storico sindaco migliorista Guido Fanti ha attaccato duramente le scelte del primo cittadino. Mauro Zani, influente figura di riferimento dei Ds bolognesi, ha chiesto una riflessione sull'azione del sindaco, lasciando trasparire un disagio che appartiene a molti esponenti dell'élite diessina locale. Assessori e sindaci della regione si pronunciano con prudenza, ma non dissimulano la loro contrarietà. Le associazioni cattoliche di base sono scatenate. Perché alla fine non è tanto il concetto della legalità, l'astrazione della legalità, a suscitare inquietudini: ma l'idea che colpendo in modo esemplare gli ultimi, i più deboli, il "summum ius" di Cofferati possa apparire "summa iniuria".
L'Espresso, 04/11/2005
Benemerito quel giullare
Dove c'è il sovrano, ci sono i giullari. Chi è il sovrano in Italia? Silvio Berlusconi, obviously. Si alzino le note dell'inno, "God Save the King". E allora, perché diavolo il Re Cavaliere si è messo a fare l'elenco dei comici cattivi, spaventati e guerrieri? E vabbé, Sabina Guzzanti sarà cattiva, ha la perfidia dentro, ma è anche la figlioletta di Paolo Guzzanti, che dentro è buono, buonissimo, un babà. Se vuole dire cattiverie, lasciategliele dire. Corrado Guzzanti è meno cattivo, ma a noi piace di più, perché è un vero comico "slapstick", fisicità micidiale: ma ha sempre imitato e ridicolizzato destri e sinistri, Giulio Tremonti e Francesco Rutelli, Romano Prodi e Fausto Bertinotti. E allora, che vuole il Re Cavaliere? Ma è chiaro da tempo immemorabile: vuole solo essere amato, non nel senso di Giuliano, ma nel senso dell'Amore, ch'a nullo amato amar perdona. Amato nel senso di Sandro Bondi, amato nel senso di Fabrizio Cicchitto, di Schifani, di Alfano, di Vito, di tutti gli adoratori che gli sono caduti davanti in ginocchio folgorati dalla straordinaria umanità del Capo. Però, lo conceda il Re Cavaliere, un giullare è un giullare. Deve dire le cattiverie. Altrimenti non si diverte il re e non si diverte la corte. Piuttosto, non si è capito bene che cosa abbia voluto spiegare Dario Vergassola. Il partner di un'altra reproba, Serena Dandini. Innanzitutto, Vergassola è il satiro più brutto d'Italia, al punto che molti sospettano che sia satiro davvero, addirittura con il piede caprino. E Vergassola, che è colto e intelligente, e quindi per far ridere dice delle volgarità spaventose (ma con leggerezza), si è messo a spiegare il metodo che usa lui: cinque colpi a sinistra e cinque colpi a destra. Un equilibrio della satira. Addirittura una lottizzazione della satira. Ma andiamo, Vergassola. Non è una sua esclusiva. Lo si sapeva benissimo. Fanno tutti così. I comici dicono cose tremende sulla destra, perché è troppo di destra, e poi parlano male della sinistra perché è poco di sinistra. Risultato: noi abbiamo una satira di centro. E il centro del centro è Vergassola. Perché la satira deve fare incazzare quelli di destra, fare soffrire quelli di sinistra, e prendere un'audience generale. Solo che quelli di sinistra, come Vergassola, sono più acuti, e si preoccupano anche dell'altra metà del pubblico. Sono dei benemeriti. Cavaliere, altro che proscrizione, li proponga per un cavalierato.
L'Espresso, 28/10/2005
Bonolis è sempre in fuorigioco
In questa rubrica non si è mai parlato del post-Novantesimo minuto di Paolo Bonolis, perché la domenica i frequentatori del calcio, quorum ego, si piazzano davanti a "Diretta gol" di Sky, e dormono beatamente almeno per tutto il primo tempo, così ritenendo assolto il loro obbligo alla cerimonia calcistica del weekend. Quindi nessuno ha poi voglia di risistemarsi sul divano nel pomeriggio inoltrato per vedere la sintesi del campionato di serie A su Canale 5. Ma l'altra domenica avevo perso il programma di Sky, e mi sono detto: vediamo che cosa fa oggi il nostro Paolino. Ma sapete com'è. La televisione pomeridiana è lenta. Paolino parla, parla, discute, imita Totò. E quando si discute, viene voglia di scanalare alla ricerca di qualcosa di meno noioso. Zap, ed ecco un'occhiata a "Domenica In", dove Pippo Baudo faceva giochi incomprensibili con certi bambini. Su Canale 5 il nostro Paolino intervistava Demetrio Albertini, noto centrocampista di valore nazionale e internazionale. E allora zap, un'occhiata a Raitre. Per poi tornare precipitosamente da Bonolis, nel timore di perdere gli "highlights" di una partita qualsiasi. Niente: Bonolis stava divertendosi in una bella conversazione con Gabriele Albertini, sindaco milanese di valore nazionale e internazionale. Allora via con un rapido passaggio su La7, dove chissà che cosa stavano mandando in onda. Al ritorno su Canale 5 stavano tutti allegramente ridendo sui labbroni di Demetrio, che in effetti sono notevoli, anche se con il tempo si sono un po' ridotti, contrariamente a quello che succede alle divette della tv, vecchie e bambine. Morale: vedi la scalogna marcia, ma in un'ora di zapping non sono riuscito a intercettare neanche un "àilàits". Dev'essere un grande esperimento mentale e sociologico, quello di Bonolis e dei suoi autori, organizzare un programma calcistico, dopo averlo pagato decine di milioni di euro, e poi nascondere il calcio nelle pieghe del talk show. Certo il nostro Paolino potrebbe obiettare, alla Totò: «Parli come badi! Lei mi faccia il piacere di restare ipnotizzato su Canale 5! Mi faccia il piacere, sennò le faccio il ritocco!». Bonolis avrebbe pure ragione. Ma ormai noi telespettatori siamo fatti così. Non facciamo il piacere. Troviamo geniale il calcio senza calcio. Ma siamo anche incorreggibili. Scanaliamo finché ci pare. E la prossima domenica, tutti a vedere "Diretta gol", e tanti saluti a Bonolis.
L'Espresso, 27/10/2005
Tsunami Romano
È la storia, bellezze. L'onda anomala di 4 milioni e 300 mila volonterosi che fa piazza pulita dei cincischiatori, dei prudentini, dei sostenitori mascherati del proporzionale, dei fautori della defezione in nome dell'interesse comune. Con la ciliegina di 7 mila votanti che hanno impegnato una domenica, hanno fatto la fila, versato un euro per poi depositare nell'urna una scheda bianca, fenomenale esempio di adesione allo schieramento e di scetticismo per le scelte. Per questo il leader dimezzato, il candidato senza partito, l'amministratore del condominio (copyright Ilvo Diamanti), insomma il professor Romano Prodi, adesso può contemplare con soddisfazione il panorama tutto inedito che si è formato dopo lo tsunami politico di domenica 16 ottobre. Intere strategie sono finite nel retrobottega, roba vecchia. Sarà che il popolo dell'Unione ha continuato a ragionare con il modulo maggioritario anche nella prospettiva della proporzionale, dopo il colpo di mano della maggioranza di centro-destra: «E si sa che il popolo è un'entità ostinata», dice Arturo Parisi, massimo guru delle primarie, piccolo grande cerimoniere del riassemblaggio politico nel centro-sinistra. Difatti è bastata una sola domenica di sole, un'ottobrata mite e famigliare, per spalancare di nuovo il sole sui destini dell'Ulivo. Con risultati impressionanti. Perché l'onda anomala, la cui cresta era stata percepita nei giorni precedenti ma non rivelata dai sondaggisti nel timore di sbagliare grossolanamente le previsioni, ha spazzato via una serie amplissima di illusionismi. Non erano inutili, le primarie? Non servivano soltanto come rito per incoronare un candidato già scelto, e magari accettato a malincuore? Non c'erano i rischi di inquinamento pro-bertinottiano o pro-mastelliano da parte della destra più fantasiosa? E in fondo: ma visto che la voce grossa contro il ritorno alla legge proporzionale non era servita a niente, e il centro-destra si era ricompattato, e l'intellettuale Marco Follini aveva dovuto cedere il campo ai suoi soci più sbrigativi, non si era capito che l'esimio professor Prodi, il tecnocrate europeo, l'uomo senza partito, non serviva più a niente, se non come bandierina sfilacciata, più un consulente di governo che un protagonista della lotta politica? E invece, invece. La prima conseguenza era che l'orologio politico del centro-sinistra si rimetteva a zero. Archiviato il durissimo confronto apertosi con l'iniziativa di Francesco Rutelli, che si era concluso con l'abbandono della lista unitaria, e che ai prodiani più radicali aveva fatto pensare a un'eccessiva arrendevolezza di Prodi. Derubricati tutti i progetti neocentristi, cioè gli esercizi politicanti di questi ultimi mesi: eppure agli occhi dei più sospettosi il nuovo sistema proporzionale era stato costruito proprio per rendere possibile il raggruppamento al centro. In un sistema che assegna il premio di maggioranza alla coalizione maggiore, si può benissimo programmare un raggruppamento centrista. Ne aveva parlato a caldo Giuliano Amato, individuando i rischi di un sistema tripolare, con un Centro in grado di praticare la vecchia e funzionalissima politica dei due forni: funzionalissima ai fini della eternità dell'occupazione del potere, e di alternanze gestite eventualmente per via oligarchica. Ma si intravedeva addirittura la possibilità di un polo centrista autonomo, capace di tagliare le ali e di governare da solo per sempre, naturalmente dopo avere fatto saltare il confine bipolare. Una prospettiva entusiasmante per tutti coloro che con la denuncia delle insufficienze del sistema maggioritario intendevano favorire il grande rimescolamento. Tutto finito. Battuta sul campo l'idea che un giorno non troppo lontano sarebbe arrivato il Cavaliere bianco, sotto le spoglie di Luca Cordero di Montezemolo, e attraverso le mediazioni sapientissime di Pier Ferdinando Casini, per costituire un governo adeguato alla modernità, in grado di fare le riforme che «il sistema bipolare non riesce a fare», o almeno di assicurare una continuità post-dorotea molto rassicurante per i poteri forti. Dissolta anche la sottile strategia diplomatica del cardinale Ruini, intesa a trovare radicamenti e sintonie nel centro in via di rinascita, in attesa di una scintilla soprannaturale che ridesse vita a una nuova casa comune dei cattolici. Dimenticate improvvisamente tutte le differenziazioni, gli strappi, gli scazzi degli ultimi mesi: il colpo di Rutelli sulla bioetica, subito prima del referendum sulla fecondazione assistita; il "no" ai Pacs, dopo che Prodi si era esposto in modo estemporaneo con la lettera a Franco Grillini. E archiviato anche il «gran recupero» del centro-destra, avvenuto non tanto nell'opinione pubblica quanto nel clima euforico della tenuta parlamentare sul campo potenzialmente minato della riforma proporzionale. Il punto è che una buona parte dell'opinione pubblica di centro-sinistra ha voluto esprimersi direttamente, e dire la sua su ciò che stava avvenendo. I giudizi dell'elettorato non sono mai un distillato di purezza, dato che insieme alla riflessione puntuale convogliano sentimenti irriflessi. Ma uno di questi sentimenti, forse quello prevalente, suonava così: attenzione, qui è all'opera una cupola che sta tentando l'esproprio. Cioè il furto con destrezza del risultato elettorale. Ma non solo: ci siamo dimenticati che i cittadini avevano liquidato il proporzionale e si erano presi il maggioritario attraverso due referendum? E allora, per tornare alle sottigliezze della scoppoliana "Repubblica dei partiti", al sistema delle elezioni basate sullo zero virgola, era sufficiente un pronunciamento di una fazione parlamentare, all'improvviso solidale nel tentare il furto con destrezza ai danni del popolo, e del popolo di centro-sinistra in particolare? Dopo di che, è ovvio che il centro-sinistra ridiventerà un cantiere. Lista unitaria, partito riformista, partito democratico. Ma non perché abbia cambiato idea il popolo: piuttosto perché anche le strutture politiche non possono restare indifferenti al pronunciamento popolare. «Domenica scorsa è avvenuto un miracolo», dice uno dei prodiani più ostinati, il braccio destro Giulio Santagata, «e adesso bisogna tornare nella normalità». Purché si sappia che la normalità è quella rilevata ancora prima delle elezioni europee, e quindi dell'esperienza del Listone, dalle indagini dell'Istituto Cattaneo: e cioè che esiste un'Italia che si sente davvero di centro-sinistra, senza troppe sfumature, e che resta indifferente rispetto alle identità di partito. «Evidentemente», dice Prodi, «qualcuno si era dimenticato che l'Ulivo aveva messo radici nella società italiana». Anzi, secondo ricerche sociologiche ulteriori esistono fasce di elettorato per le quali la semplificazione dei partiti e dei simboli costituisce un fattore di attrazione. Tanto che adesso i prodiani, a partire da Parisi, restano su posizioni oltranziste: è sufficiente il varo della nuova lista unitaria fra la Margherita e Ds? Subito dopo la carica dei Quattro milioni, il segretario della Quercia, Piero Fassino, ha detto: «È un primo passo». Ma ha anche aggiunto: «È chiaro che non può trattarsi soltanto di un espediente tecnico. In un panorama proporzionale, che privilegia le differenze, un'esperienza politica unitaria si qualifica in base al suo contenuto politico». Vale a dire che occorre un valore aggiunto di credibilità programmatica. D'altronde, Prodi lo dice e lo ripete: «Noi il programma l'abbiamo presentato. Non è stato letto, ma le priorità sono indicate con chiarezza. E ci sono dodici commissioni al lavoro». Nel frattempo i vecchi "pontieri", come Enrico Letta e Pier Luigi Castagnetti, sono tornati a far sentire la loro voce. Dario Franceschini ha riscoperto la sua vena ulivista. L'orologio della politica si risincronizza con il momento in cui il simbolo dell'Ulivo sembrava poter fondere culture storico-politiche diverse e in passato contrapposte. Sette anni fa, nell'"ottobre nero" di Prodi, il primo governo dell'Ulivo veniva abbattuto. Nell'ottobre rosa del 2005, la storia sembra ricominciare da capo: e tutto perché la piccola borghesia moderata, il popolo della sinistra, certi banchieri invisi a Berlusconi, qualche suora, diversi preti, hanno deciso che valeva la pena di sacrificare una domenica e santificare l'Unione.
L'Espresso, 27/10/2005
Un visionario fra le lucciole
Perché di tanto in tanto la destra riscopre un simbolo della sinistra? E per quale ragione Pier Paolo Pasolini risulta ancora, a trent'anni dalla sua morte disperata ed estrema, un segno di contraddizione? Una delle risposte eventuali, fra le tante possibili, è che il regista, lo scrittore, il polemista, l'uomo pubblico Pasolini era soprattutto e sempre un intellettuale. Ossia un produttore di significati a getto continuo, disposto a fare lavoro culturale a tempo pieno, in ogni momento, su ogni argomento. Anche quando dava un calcio al pallone, simile a un discobolo classico, bellissimo in quel gesto tecnico fermato da un'istantanea. Ed è chiaro che soprattutto nei primi anni Settanta l'intellettuale Pasolini reagiva con la propria intera personalità alle rotture, ai contrasti, alle sfasature provocate dalla modernizzazione italiana. Proprio il gettarsi in ogni discussione, nel realizzare di continuo una testimonianza vivente sui fatti, "sul campo", dava consistenza alla contraddizione pasoliniana. Contraddizione che veniva da un'idea di per sé arcaica della società nazionale, come se esistesse anche allora una ingenuità felice, un sentimento incorrotto della natura, investito dall'industrializzazione e da essa travolto: l'addio alle lucciole era l'epicedio per l'Italia rurale, per la campagna, per il "paese", mentre le periferie si dilatavano in seguito ai programmi urbanistici dell'edilizia popolare, avviati negli anni Cinquanta da Amintore Fanfani, e nel frattempo il centrosinistra "storico" aveva perso le occasioni offerte dal neocapitalismo, ovvero la chance di inserire le masse popolari e operaie in un circuito di consumo evoluto. Nello stesso tempo, Pasolini era progressista in politica, in quanto si sentiva, ed era considerato, "di sinistra". Anche se questo progressismo si alimentava più che altro della denuncia: l'intellettuale "marxista", ma anche l'intellettuale a suo modo cattolico, esponeva la classe politica di governo, il Palazzo, a un processo in cui la sentenza era già redatta. Sfuggiva, all'intellettuale, ciò che Aldo Moro avrebbe rilevato all'epoca dello scandalo Lockheed. La Dc non si farà processare nelle piazze, protestava Moro, e aggiungeva una glossa ineccepibile: i processi, in democrazia, si fanno con il voto. Pasolini invece agita simboli, e i simboli sono ambigui. Quando sta dalla parte del poliziotto, critica il sessantottismo in chiave estetica. Se denuncia l'orrore dei capelli lunghi, e decanta la nuca orgogliosamente glabra del proletario, ha in mente un'iconografia. Se devia rispetto al senso comune quando parla dell'aborto, si riferisce a una sessualità mitologizzata. E il mito, ossia un'immagine eterna, lo investe e lo ossessiona. La sua antropologia è atemporale, svincolata dal suo marxismo. Il mito è Medea, ma anche Canterbury; è il Vangelo di Matteo ma anche la felicità mondana di Boccaccio o della cultura araba; e alla fine la tragedia di senso e del corpo di Salò/Sade trascende la politica per situarsi in un mondo a parte e tragicamente estetizzante. La poesia civile delle "Ceneri di Gramsci" è forse una prova di mimetismo intellettuale non diversa dalle esplorazioni psicoanalitiche e messianiche di "Teorema". E anche la grandezza drammatica della visione pasoliniana consiste probabilmente in un fraintendimento, o in un equivoco: per la semplice ragione che con il mito, la natura, le icone dell'immaginazione, le strutture profonde del freudismo e i paradigmi della linguistica, si coglie forse la perdita di un senso, ma non si riesce a descrivere empiricamente il processo sociale che investe l'Italia dei Sessanta e Settanta. Ricondurre i sintomi della modernizzazione a una struttura eterna è una manovra intellettuale di suggestione formidabile, ma ingestibile politicamente proprio in quanto è il frutto di una visione soggettiva. La potenza visionaria di Pasolini equivale alla sua miopia nell'osservare i fenomeni della realtà effettuale. Proiettare in una dimensione mitica la politica italiana significava anche rinunciare ad agire politicamente. Scrivere lettere luterane, pubblicare scritti corsari, agire dal margine. Ma Pasolini non era Foucault, e pazienza; ma l'imminenza di una rivoluzione impossibile portava a ignorare le riforme di cui l'Italia aveva un tragico bisogno.
L'Espresso, 27/10/2005
Tremonti nel microonde
Corrado Guzzanti è il comico più materiale. Corrado Guzzanti è il comico più intellettuale. L'antinomia è solo apparente, perché i personaggi reinventati da Guzzanti sono innanzitutto interpretazioni fisiche; ma poi sono anche elaborazioni culturali, proiezioni stralunate di una personalità, doppi sovversivi per quanto sono rivelatori. L'ultimo eroe politico ridotto dolosamente a freak è stato il fenomenale Giulio Tremonti rifatto in "Parla con me", programma di Serena Dandini su Raitre (la domenica in seconda serata). La microonde di Guzzanti aveva già rosolato il Romano Prodi che accarezza la mortadella e dice "fermo, un semaforo, io sono morto nel 1977". Il Fausto Bertinotti che si ingarbuglia in cifre demenziali, sghignazzando per la soddisfazione. Il Francesco Rutelli che recita il programma di governo con l'accento di Alberto Sordi (oppure compone al pianoforte l'inno dell'Ulivo, ricavandone per slittamenti progressivi una cover di "E forza Italia, per essere liberi"). Ma il Tremonti stressato da Guzzanti è forse qualcosa in più. Non tanto per l'imitazione lessicale, dato che l'erre labiale del ministro dell'Economia poteva essere più accurata: piuttosto per avere colto l'aria insieme scientifica e stralunata di Tremonti, individuando le sue teorie geoeconomiche e commerciali per trasportarle in una regione surreale. La battuta antigovernativa: "Non abbiamo aumentato le tasse. Abbiamo raso al suolo il paese ma non abbiamo aumentato le tasse" è militante ma prevedibile; mentre la risposta alla domanda della Dandini sul cuneo fiscale ("Significa che le tasse le pagheranno solo quelli di Cuneo") è una bizzarria geniale, uno scarto che lancia il ministro nell'orbita delle sue dottrine esoteriche, nell'ultradimensione della "lex mercatoria". Siamo a un passo dalla più grande invenzione di Guzzanti, l'Antonello Venditti che canta "Tutto Roma" martellando i tasti del pianoforte ("e se avremo una bambina poi la chiameremo: Ròòòma"). Manca proprio un niente. Peccato che Guzzanti cada nel popolaresco, quando fa inciampare catastroficamente Tremonti nell'impronunciabilità delle "cartolarizzazioni". Nel progetto comico dell'infame Corrado, Tremonti, con i suoi "ma dai" e "porca puttana" è l'ideologia vivente del commercialista lanciato nella globalizzazione, o nell'iperspazio. Meglio non volgarizzarlo, dato che non si è visto niente di meglio, ultimamente.
L'Espresso, 14/10/2005
Celentano gira a sinistra
Se dopo 37 anni Paolo Conte gli ha scritto un'altra canzone, vuol dire che i tempi sono maturi. Maturi per che cosa? Uhè ragazzi, sveglia, ma per il cambiamento d'epoca. Per la svolta. La virata. L'inversione a U. Eh sì, il pezzo del vecchio astigiano, l'avvocato Conte, si intitola "L'Indiano". Secondo le spiegazioni dell'autore dovrebbe essere un ritratto di come Adriano Celentano è veramente, di come parla, di come si muove. L'essenza celentanesca di nuovo distillata dopo l'immortalità di "Azzurro", certificata da innumerevoli gite scolastiche e falò di classi miste sulla spiaggia. Conta niente se l'indiano in questione sarà dell'India asiatica, una specie di Peter Sellers in "Hollywood Party", generatore di disastri, oppure un Cavallo Pazzo americano che sfida le praterie, i cieli e l'Uomo bianco. Il 20 ottobre torna Celentano, il Re degli ignoranti, Geppo il Folle, il teorico dello Yuppi Du, l'interprete del Prisencolinensinainciusol (òl ràit!), quello che disse e scrisse «il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai». Adesso il titolo del programma è "Rockpolitik", e dovrebbe trattarsi di una storia degli ultimi cinque decenni attraverso la musica. Ma se Adriano deve svoltare, intanto avrà deciso che la svolta dev'essere rumorosa, strepitante, tremendista, e susciterà un casino pazzesco. Così parlò l'Indiano. Per la verità l'Indiano lo ha sempre fatto, più che dirlo o cantarlo. Ha fatto l'Indiano ogni volta che temeva di restare ingabbiato. Qualcuno dovrebbe ricordarlo, il secondo disco della trilogia firmata da Mogol e Gianni Bella, con una canzone (im)politica costruitagli addosso da Ivano Fossati: «Io sono un uomo libero, né destra né sinistra». Era l'ennesima terza via dell'imperatore Adriano. Primo comandamento, svicolare. Il rock quando c'era il beat. L'ecologia ante litteram quando si costruivano case popolari e il ragazzo della via Gluck era angosciato da «catrame e cemento». Le prediche contro gli scioperi, «chi non lavora non fa l'amore», ai tempi dell'autunno caldo. I tempi in cui Eugenio Scalfari lo infilza, alla fine del suo catastrofico e clamoroso "Fantastico" di fine anni Ottanta: «Celentano evoca l'istinto e l'indistinto», profetizzando che qualcun altro avrebbe raccolto la sua "lezione", come la chiamava un appassionato del trash, Giuliano Ferrara. Il testimone lo impugnò ovviamente Silvio Berlusconi, e subito se ne accorse l'Avvocato, in certe telefonate mattutine, quando le inibizioni non raggiungono ancora il livello convenzionale: «Luca, ma lo sai che Berlusconi mi sembra Celentano?». D'altronde, com'era possibile sfuggire al paragone? Entrambi di modesta statura, fisicamente s'intende, tutt'e due pelati, anche se Adriano non ha fatto il trapianto: carismatici di periferia, machos di quartiere, grandi narratori di storie meneghine fra bulli e pupe, attentissimi ai gusti del pubblico e dell'audience, perché entrambi convinti che «il popolo non sbaglia mai». Ai posteri, o ai poster, o ai cartelloni sei per tre, la sentenza su quale rapporto c'è fra i pantaloni bicolori del Clan e i doppipetti di Caraceni. C'era anzi il rischio che l'estremista paleodemocristiano, l'ex Molleggiato ("ex" perché, nel molleggiarsi, l'ultima volta si schiantò in diretta tv una caviglia) si sentisse oscurato dal successo rockpolitico del suo concittadino Berlusca. L'avrà invidiato, perché il Cavaliere, che anche lui ha di sicuro un cavallo bianco che suda pochissimo, possiede quell'abilità diabolica nel raccontare le barzellette, «a Tigellì, questi nun so' cristiani, questi so' democristiani», mentre lui ha quelle sue amnesie, le sue pause, le sue derive di significato, e le sue storie diventano così divagazioni infinite, perdite del filo, smarrimento del senso. Ed è anche possibile che da Berlusconi si sia sentito oscurato: il sospetto è plausibile. Sono quasi coetanei, Celentano ha solo un paio d'anni meno del sessantanovenne capo del governo. Quello lì gli ha rubato la scena, qualche volta anche con le canzoni. Per rifarsi, Adriano si lanciava in dibattiti più grandi di lui, come quello con il fratello grasso Giulianone, sulla donazione degli organi, attirandosi scomuniche dalla comunità dei chirurghi; mentre il Cavaliere cavalcava allegramente la popolarità immensa di chi sa promettere miracoli, e faceva la politica estera, con le pacche sulle spalle a George e a Vladimir, esattamente come l'avrebbe fatta Adriano. Sicché, chissà che gusto sopraffino all'idea di disarcionarlo dal cavallo, bianco o nero non importa. L'Indiano si apposta dietro una collina, o dietro lo skyline di New York che fa da fondale a "Rockpolitik", e aspetta con pazienza da irochese, o da seminole, da sioux, da apache. Al momento buono, mentre spira aria da cambio di regime, il pellerossa convoca una tribù di indiani cattivi: l'anarco-situazionista Carlo Freccero, il benignista Vincenzo Cerami, l'ospite di Alcatraz Jack Folla alias Diego Cugia. Quindi annuncia che nel giro di alcune lune chiamerà tutta la sinistra moderata, estrema, buddista, tantrica ed eccentrica, dal perfidissimo Subcomandante Marcos al disgustoso mangiatore di cacca Daniele Luttazzi e all'infame zapaterista Sabina Guzzanti, con invito esteso al pessimo consigliere comunale diessino Luciano Ligabue. Si sa, lui è un sismografo. Registra i terremoti e si adegua. Adesso i segnali bradisismici dicono che si prepara uno smottamento formidabile da destra a sinistra: l'anima di Celentano gode con un sentimento squisito: una rivoluzione! finalmente! Ha le carte in regola: è sempre stato in un clan di centrodestrasinistra. L'Unione è un nome che poteva stare nel "Mondo in mi settima". Via ai segnali di fumo. E l'uomo libero, né destra né sinistra? Intanto, i filologi osserveranno che Fossati, grande e sofisticato autore, gli ha infilato nella strofa successiva un verso ideologicamente suicida: «Ci sono cantanti a cui non si può credere». Ma non importa: nessuno "crede" in Adriano. Nemmeno lui crede all'Indiano che è in lui. Perché Celentano a tutto può resistere, fuorché alle obiezioni. Perché lui non capisce, percepisce. Lui non sa, sente. Lui non guarda, vede. E se l'Indiano scorge all'orizzonte la fuga della destra, che altro può fare se non salutarli, sgolandosi, «ciao ragazzi, ciao»?
L'Espresso, 14/10/2005
Gnocchi a colazione
Il Tg2 ha alle spalle una carriera di infotainment, che ebbe il culmine o conobbe l'acme sotto la direzione di Clement J. Mimun. Il suo successore Mauro Mazza è più politico, ma anche più giornalista rispetto a molti laudatores attuali. In quanto cronista proveniente dalla destra estrema, non dovrebbe sapere nulla di intrattenimento. E invece il Tg2 si lancia in iniziative originali. L'estate scorsa "Mistrà", il magazine di Michele Bovi che alle 13.30 presentava reliquie d'archivio (e le "poesie" di Pasquale Panella, l'autore di Lucio Battisti, il traduttore delle opere di Riccardo Cocciante, che lanciavano i servizi di costume: mai visto, in televisione, un poeta che realizza poemetti "di servizio", con il trasferimento dell'attualità nella metafisica). Adesso al Tg2 Mazza & co. se ne sono inventata un'altra, cioè la rubrica "Tg Duel", un controtelegiornale di due minuti affidato a Gene Gnocchi. Notizie scartate dal tg ufficiale recuperate dal cestino della carta straccia. Qualche notizia vera? «Verosimile», risponde Gnocchi. Vabbé, ammettiamolo: c'è spirito di iniziativa, in un giornalista come Mazza, provenienza "Secolo d'Italia", nel dare credito a un uomo, uno scrittore, un comico di sinistra come Gene. Il quale dà il suo meglio allorché riesce a mischiare il sacro e il profano, il crudo e il cotto, l'alto e il basso, come nella sua rubrica "culturale" sull'inserto domenicale del "Sole 24 Ore": mentre per i palati fini risulta "cheap" la partecipazione a "Quelli che il calcio". Gnocchi è un personaggio articolato: colto, informato, curioso di calcio e rock'n'roll, attento alla fenomenologia culturale, capace di fare satira su libri e premi letterari, insomma, non è solo l'autore immortale del "cul de Sac", come in franco-padano si chiama il vicolo cieco tattico in cui ci ha cacciati nel 1994 la fortuna di Arrigo. Quando è al meglio, dietro quel volto serissimo, Gene incenerisce velleità politiche e demenze letterarie, trombonismi culturali e loffiaggini pubbliche. Divertente, allora, "Tg Duel"? Intanto, chapeau, dato che deve battersi a mani nude contro il finale di Pupo e "Striscia la notizia". Prime puntate un po' ingessate; poi, grazie al cielo, Gene "entra" e fa gol. Bisognerebbe soltanto non lasciarlo solo davanti alla telecamera, mettergli accanto qualcosa o qualcuno, sviluppare l'idea. Ma intanto, è un'ideuzza gradevole.
L'Espresso, 07/10/2005
Entra in pista la safety reform
Dicono gli esperti che nel circuito automobilistico americano, nelle prove tipo Indianapolis, è malvista la possibilità che una monoposto vada in testa e ci rimanga per tutta la corsa fino alla bandiera a scacchi. Al gusto americano per la competizione non va giù che il divertimento finisca già nei primi giri, che non si vedano sorpassi, colpi di scena, alternanza al comando. E allora, quando si profila una situazione di egemonia, al minimo appiglio (una goccia di pioggia, un piccolo incidente, una modesta perdita d'olio sull'asfalto) si manda in pista la "safety car": la velocità viene ridotta, le vetture si raggruppano, in pratica la gara ricomincia da capo. A giudicare da quanto sta succedendo nella nostra politica, sembra che la Casa delle libertà abbia capito la lezione, e si appresti a varare una specie di "safety reform": questo è, non altro è, la legge elettorale proporzionale, su cui il centrodestra ha deciso di impegnare le sue forze parlamentari. Spaventato dalla possibilità di una sconfitta pesante, cioè di un giudizio negativo degli elettori sulla sua prova al governo, Silvio Berlusconi ha deciso di mischiare le carte. Ciò che colpisce tuttavia non è la spregiudicatezza di un leader politico e di un'alleanza letteralmente pronti a tutto pur di evitare o almeno ridurre una sconfitta elettorale. Ci sono innanzitutto due aspetti da mettere in rilievo, che rendono l'iniziativa di riforma elettorale una rottura grave delle convenzioni politiche che reggono una democrazia non indecente. Il primo aspetto è che il sistema proporzionale è stato liquidato dodici anni fa, in seguito a due referendum popolari, in cui l'opinione pubblica si pronunciò massicciamente per un rovesciamento del metodo elettorale su cui era fondata la "Repubblica dei partiti". Il secondo dovrebbe essere un'ovvietà: le leggi che regolano il sistema politico e la formazione del consenso si possono cambiare, ma solo se esiste un ampio accordo tra le forze politiche. Ora, è vero che ci stiamo abituando a tutto, ma è o non è sorprendente che la maggioranza di governo cerchi di modificare la struttura stessa della competizione politica attraverso un'iniziativa di parte? La verità è che la società italiana è mitridatizzata: anche una profonda riforma costituzionale, incardinata sulla devolution, verrà approvata in modo partigiano, con il solo voto delle forze di centrodestra. Nessuno stupore quindi, nonostante le proteste di Marco Follini, che si proceda in modo analogo sulla legge elettorale. Sul "Corriere della Sera" del 3 ottobre, un commentatore equilibrato come Massimo Franco ha scritto che il centrosinistra ha capito che «il vero obiettivo del ritorno al proporzionale non è la rivincita della Cdl. Semmai il tentativo di azzoppare una vittoria dell'Ulivo, esponendo un futuro governo Prodi al ricatto dei partitini». Il che significa che lo scopo principale del centrodestra, oggi come oggi, consiste nell'avvelenare i pozzi: «impedire che il centrosinistra riesca a governare». È piuttosto mortificante che una manovra simile provenga da chi non troppe stagioni fa ha sostenuto la «religione del maggioritario»; e risultano rivelatrici le ragioni che vengono invocate a favore del ritorno alla formula proporzionale. Non ce n'è una che si riferisca all'interesse del paese; si citano soltanto ragioni che riguardano il funzionamento di coalizioni e partiti. Autoreferenzialità pura. Fra gli effetti secondari di un eventuale ritorno al proporzionale, oltretutto con un sistema di liste bloccate (tutto il potere alle centrali di partito), ci sarebbe anche la conseguenza bizzarra che il candidato dell'Unione, Romano Prodi, non avrebbe un partito con cui candidarsi. Siamo evidentemente nelle ipotesi sulle ipotesi. Ma tutto questo rimescolamento possibile, ed esecrabile, non dovrebbe far dimenticare che alcuni colpi al sistema maggioritario, e alla logica sottostante, sono stati inferti anche da chi non ha voluto la presenza della lista unitaria dell'Ulivo nella quota proporzionale. Ragion per cui non è detto che le proteste del centrosinistra risultino tutte convincenti: ed è anche per questo che l'eventualità di un colpo di mano sulla legge elettorale lascia l'opinione pubblica sostanzialmente indifferente. In questa condizione di inerzia, di derive possibili, conviene prepararsi bene a tutte le possibilità: compreso il trucco della "safety reform".
L'Espresso, 07/10/2005
Quel Toro sembra un vitello
Il successo della fiction di Raiuno "Il grande Torino" (oltre nove milioni di spettatori) è stato funestato da un ukase del ministro Mario Landolfi, che si è scagliato contro la mini-serie di Claudio Bonivento (e anche contro il Montalbano pro-noglobal): per l'esponente di An, i film di Raiuno «trasudano comunismo». Si potevano rivolgere molte critiche al "Grande Torino": ci sono troppi violini in colonna sonora, i meridionali sono troppo meridionali, certi giri di sceneggiatura sono troppo bruschi, e soprattutto il grande Torino non si vede mai. Difatti, quando toccano il pallone, i caratteristi un po' in età che impersonano i giocatori della squadra granata rivelano chiaramente la loro desuetudine agonistica, e quindi la regia glissa (anche se Giuseppe Fiorello, che interpreta Valentino Mazzola, fisicamente se la cavicchia). Ma per parlare di comunismo ci vuole proprio della buona volontà. L'unico paracomunista del film è il fratello del protagonista, che si dà alla politica ma poi inclina al furto, forse per lo choc quarantottesco. Il messaggio sarebbe che i comunisti sono ladri? Valentino Mazzola è tutto squadra e cuore, nonostante il "coming out" nello spogliatoio sulla propria bigamia. Il giovane calciatore Angelo Di Girolamo (Ciro Esposito da giovane e Michele Placido da vecchio), su cui ruota tutto il lungo flashback del film, è un personaggio deamicisiano: ma se lui è Garrone, il fratello è ovviamente Franti, sovversivo ante litteram (come scrisse Umberto Eco). Ci vuole in ogni caso una seria quanto anacronistica inclinazione allo zdanovismo per concepire la fiction contemporanea come prodotto o riflesso obbligato di un'egemonia. La fiction deve rispecchiare il clima politico dominante! Guai ai vinti! Ma allora quando cambierà il vento torneremo all'epica proletaria? Chissà se il ministro Landolfi si è accorto di essere il vessillifero di una visione sovietica. Per lo spettatore comune, "Il grande Torino" era debole sul piano dell'emozione: anziché un epos calcistico, con la saga dei Castigliano, Loik, Gabetto, inscenava un epicedio lacrimoso. Tanta società povera, molti buoni sentimenti, ma pochi palloni nel sacco. Buona la ricostruzione d'epoca, ottima, quando si riusciva a vederla, la «sfera di cuoio» con la cucitura. Sarebbe stato un film ad alto tasso di commozione, se alla fine la trama non avesse prevaricato sul mito. E Landolfi sulla trama.
L'Espresso, 06/10/2005
Quella coppia di barbe finte
Il ritorno di "Otto e mezzo" sarebbe la dimostrazione che un'altra tv è possibile? Andiamoci con molta calma. Può essere che Gad Lerner sia convinto di fare informazione di classe, e lo si vede dal modo in cui parla, dalla lentezza precisa con cui articola i concetti, puntiglioso nell'indicazione delle fonti e delle notizie. Ma Giuliano Ferrara è di un'altra razza. Nonostante la fede dei suoi adoratori, l'Elefantino è un messia dell'infotainment. Lo ha detto spesso sulle pagine del "Foglio", nella sua rubrica di posta celebre: «Questo giornale è fatto per un terzo di goliardia». Quindi, che parli delle coppie di fatto, della "Grosse Koalition" in Germania, o delle dimissioni di Domenico Siniscalco, Ferrara non transige dal suo schema. Intrattenimento. Politica. Informazione. Cazzeggio. Sornionerie. Capziosità. Sullo sfondo, intanto, annaspano gli accademici. Gli specialisti. Le persone serie. E in studio si svolge il duello permanente ed effettivo fra "Gad" e "Giuliano". Fra il cultore del dubbio e l'assertore delle certezze. Fra il magro e il grasso, tra El Flaco e El Gordo. Ci guardiamo bene dal citare Stan Laurel e Oliver Hardy perché insomma, ma ci siamo capiti. Comiche. Politica slapstick. Mancano le torte in faccia, ma si provvederà. Eppure è probabilmente l'unica televisione intelligente, in attesa dell'"Infedele". Sempre sul confine fra lo sbracamento e l'allure accademica. Giornalisticamente puntuale. Vabbé, basta così, troppi complimenti. Per equilibrare le cose, diciamo che Ferrara è un grandissimo rovesciatore di frittate, uno che ha eletto a proprio feticcio Silvio Berlusconi proprio per poter parlare di lui sparlandone. "Giuliano" è un capopopolo, colui che si buttò a capofitto nella battaglia del Mugello contro Antonio Di Pietro, così come si è buttato sull'embrione e sta buttandosi sulle coppie di fatto. Mentre Gad Lerner è Aramis, il moschettiere sofisticato, che duella con un grande armeggiare di tecniche. Qualche stagione fa, l'Elefante schiacciò il moschettiere, con la forza della sua improntitudine. Adesso Lerner ha recuperato sicurezza, si è messo alla pari, insieme faranno un ottimo lavoro: tutto relativo e relativista, visto da destra e da sinistra. P. S. Questa rubrica è stata scritta con lo scopo di evitare di parlare della barba di "Gad". Visto che il risultato è stato conseguito, adesso lo possiamo dire: ammazza che roba, la barba di Lerner.
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