L’Espresso
L'Espresso, 23/09/2005
Vespa c’è ma non si vede
Il popolo e gli opinion leader fanno tavole rotonde e discutono animatamente sul perché Bruno Vespa faccia più ascolti di Enrico Mentana. Potrebbe essere una questione di rodaggio. No, "Matrix" le prenderà sempre, da "Porta a Porta". Il fatto è che il programma di Vespa è un prodotto praticamente perfetto, mentre quello di Mentana è ancora in via di aggiustamento. Già, a "Porta a Porta" si respira un'aria conosciuta, sembra di stare in famiglia. Mentre a "Matrix" le cose appaiono ancora vagamente provvisorie: gli arredi, il publico. Anche gli argomenti. Perfino gli ospiti, a volte. Ma no, la verità è che Vespa è diventato "Porta a Porta", si è identificato con la trasmissione, è un pezzo dell'arredamento. Mentre Mentana è ancora Mentana. Fisicamente Vespa si insinua fra gli ospiti, si curva, parla poco, solo di rado diventa decisionista, intima, chiede dati alla redazione; quasi sempre si rannicchia e sta quatto, aspetta che passi la buriana, che spiova, che finisca il temporale. Invece Mentana è il protagonista, e si vede che è convinto di esserlo: si staglia, si erge. Vespa non si preoccupa se "Porta a Porta" risulta lento. Sono trasmissioni notturne, ai confini del regno di Morfeo: chi se ne frega se ci si addormenta su un discorso ovvio di Gianfranco Fini, per dire. Mentana invece è atterrito dal rischio della palpebra calante, ossessionato dal ritmo. Quindi interviene, interviene e parla, parla. Probabilmente il "Porta a Porta" perfetto, secondo Vespa, è una puntata in cui Vespa non parla, e tutto fluisce senza bisogno di interventi vespistici: anzi, lui Vespa potrebbe andarsene in bagno o a fumare una sigaretta e tornare senza pregiudicare l'andamento lento. Tutto il contrario Mentana, che ha bisogno di vedersi, sentirsi, ascoltarsi. A volte sembra più preoccupato di lanciare una battuta che non di far funzionare il programma. Per Mentana dev'essere la sindrome dell'assenza dal tg. La lontananza dal video gli detta la voglia di apparire e di esserci, continuamente, con urgenza. Mentre Vespa, eh, Vespa!, la sa lunga: sa, ad esempio, che "Porta a Porta" esisterà oggi e domani, che non deve considerare l'ultimo share come un verdetto, che la vita insomma continua, e anche la tv. E che in ogni caso per ogni porta che si chiude ce n'è un'altra che si apre. Quanto a Mentana, dovrebbe solo diventare meno Mentana. Sempre ammesso che glielo concedano i suoi cromosomi.
L'Espresso, 22/09/2005
E dopo Matrix arrivano i vampiri
Il pensiero stupendo che nasce un poco strisciando è che come Renato Zangheri «mente sapendo di mentina» (secondo gli indiani metropolitani, 1977), Enrico il Matrix mente sapendo di Mentana. Ha fatto parlare il Belpaese intero di "metainformazione", di cazzeggio sublimato nella politica, di politica tradotta tanto direttamente nell'intrattenimento da rivelare che tutta la politica in televisione è entertainment. I critici hanno naturalmente ragione, perché Mentana è diabolico, e sa che a tarda serata è arduo mettere insieme un dibattito persuasivo. Ecco allora lo zoom su Michela, con l'ovvio effetto family, e alla fine il bacio alla suddetta, con l'effetto reality. Nel mezzo, Ricucci, Falchi, D'Alessio. Ma tutti coloro che hanno alzato il sopracciglio perché non ha chiesto a Giulio Tremonti come mai il Governatore, e neppure a Pier Luigi Bersani perché Consorte, sono gente che finge di ignorare due emergenze reali: primo, che in quell'ora così tarda, il sopracciglio non si alza, eventualmente si abbassa; secondo che essendo Mentana un uomo molto disincantato, ha già capito da un pezzo che non è vero, o è vero solo a metà, che l'informazione politica in tv sarebbe puro intrattenimento. L'altra metà del vero, è che la politica tout court è intrattenimento. Mentana lo sa, e ha avuto la faccia tosta di mostrarlo a tutti. Ma ci siamo dimenticati che il sottile professor Amato si esibì da Vespa in un paio di palleggi a tennis, con il suo rovescio sghimbescio (un backspin premoderno, da pongista sopravvissuto all'evoluzione tecnica)? Vogliamo ricordare ancora una volta il risotto di Massimo D'Alema? Mentana ha capito che la politica, esattamente come la televisione, è fatta da personaggi che interpretano se stessi, e molti la propria parodia. Se volete l'Antipatico bleso, eccolo servito. Se occorre l'Emiliano competente, voilà. Necessitano, signori, leghisti incazzosi? Centristi diplomatici? Ex fascisti con diploma serale di liberaldemocrazia? Post-interventisti diventati neoliberisti? Mentana li ha tutti. Non è colpa sua se il losco connubio fra politica e tv ha prodotto questi ibridi. Poi, con il tempo, Mentana distinguerà quando serve la commedia dell'arte e quando l'arte della politica. (Il problema, comunque, è che anche "Matrix" finisce all'ora dei vampiri: e a quell'ora si diventa tolleranti anche con i peggiori imam, con i politici più ridicoli, con tutti: e buonanotte).
L'Espresso, 15/09/2005
Fazio-Siniscalco finale di partita
È infantile considerare il caso Fazio come la storia già scritta dell'uomo solo che si chiude nel fortino e aspetta un prodigio che lo salvi. Alla fine, la vicenda del governatore della Banca d'Italia si è rivelata lo specchio del fallimento del governo di centrodestra, e più precisamente dell'incapacità del presidente del Consiglio di gestire decentemente qualsiasi crisi. Si scrive Fazio, ma in filigrana si legge Berlusconi. Di fronte a uno sbandamento istituzionale gravissimo, il capo del governo non è riuscito a prendere una posizione seria. Nel momento di maggiore tensione, dopo avere varato una mezza riforma su Bankitalia, Berlusconi è riuscito soltanto ad autoincensarsi, proclamando «san Silvio ha fatto il miracolo». Purtroppo non era vero. Di fronte a una sequenza di eventi tale da demolire la credibilità delle nostre istituzioni monetarie, il premier ha adottato la tattica pilatesca che è solito usare quando la tensione sale. Silenzi. Mezze frasi. Atteggiamenti indecifrabili. Aveva usato lo stesso metodo quattordici mesi fa, cioè nel momento in cui l'Udc e soprattutto Alleanza nazionale avevano portato l'affondo contro l'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Per salvare se stesso, il proprio dicastero, il record di durata del governo, Berlusconi aveva lasciato cadere il pilastro della sua politica economica. Con rassegnazione cinica aveva consentito che Gianfranco Fini accusasse Tremonti di avere presentato conti truccati, e infine aveva permesso che «il nostro uomo migliore», il protagonista dei condoni, delle cartolarizzazioni, della finanza creativa venisse abbattuto. Proprio questa irresolutezza del Cavaliere, la sua indecisione di fronte alle lotte politiche che attraversano la Cdl, la sostanziale incapacità di comprendere le ragioni di fondo che ispirano le mosse conflittuali dei suoi alleati, sono gli atteggiamenti che si sono manifestati nuovamente nella crisi che ha investito il vertice della Banca d'Italia. Si è capito fin dal primo istante che Berlusconi era indifferente alle sorti di Fazio. La sua preoccupazione maggiore derivava dal fatto che il destino del governatore impattava pesantemente il centrodestra. È fatto così, Berlusconi: se la Lega sostiene Fazio, il governatore va sostenuto, o perlomeno tollerato. A dispetto degli altri alleati, di Giorgio La Malfa, di Fini, di Tabacci, a dispetto della ragionevolezza. Ciò che ha rotto l'equilibrio è stato il pronunciamento a Cernobbio di Domenico Siniscalco. Il successore di Tremonti sarà criticabile quanto si vuole, ma non è un provinciale. È una figura che ha sempre frequentato ambienti internazionali, è di casa a Davos, si trova perfettamente a suo agio nei vertici economici. Si è accorto rapidamente che le parzialità della Banca d'Italia nelle scalate bancarie stavano demolendo la credibilità del nostro paese. Siniscalco non è un politico: è un grand commis che ha lavorato con i governi di Giuliano Amato e di Carlo Azeglio Ciampi, e che ha fatto parte del comitato di consulenza del governo D'Alema; da professore di economia, si sente un componente della comunità intellettuale. Quando un collega prestigioso e ascoltatissimo come Francesco Giavazzi, sul "Corriere della Sera", lo ha definito «un accademico senza spina dorsale», il ministro "tecnico" ha capito che non c'erano più spazi per le dissimulazioni politiche, e quindi ha rivolto il suo pollice verso al governatore. La posizione di Siniscalco è più che scomoda. Basta registrare il sadismo soave con cui a Cernobbio Romano Prodi ha lasciato cadere: «Vedremo i conti che ci lascerà il nostro Domenico». Una frase che richiama Siniscalco alla sua serietà di studioso, ma che nello stesso tempo allude anche alla notoria simpatia del ministro per posizioni politiche, a sfondo riformista-ambientalista, che non sono certamente di destra. In sostanza: Siniscalco ha fatto benissimo a chiedere le dimissioni di Fazio, se è convinto che lo richiede l'affidabilità europea del nostro paese. A differenza di Giavazzi, chi scrive pensa che Siniscalco abbia carattere: e l'intuito sufficiente a capire che anche la sua uscita di scena potrebbe essere più seria di una permanenza accademicamente insignificante in un governo fallito. In sostanza prima della fine della legislatura e a caso Bankitalia chiuso, Siniscalco dovrà dimostrare se è conveniente per il paese insistere nella finzione dell'incarico tecnico o accettare tutte le responsabilità della politica.
L'Espresso, 15/09/2005
Papa Luciani ha fatto un miracolo
Lunedì 5 settembre, in prima serata è andato in onda su Raitre, sotto l'etichetta "La grande storia", il documentario di Luigi Bizzarri "Giovanni Paolo I. Il papa del sorriso" (con la consulenza storica di Alberto Melloni). Si è trattato di un piccolo, ma non tanto piccolo, capolavoro, televisivo e non solo televisivo. Perché è facile ricostruire una vita quando i documenti abbondano. Ma come si fa a raccontare una storia per immagini quando le immagini non ci sono, o sono rarissime? Chi ha visto o rivisto il film di Bizzarri su papa Pacelli (riproposto di recente) avrà apprezzato l'equilibrio ideologico del programma, in cui il "silenzio" di Pio XII sulla Shoah veniva discusso con eccezionale competenza e finezza. Ma il documentario pacelliano aveva il pregio di una straordinaria documentazione filmata, per cui si capisce facilmente il buon successo di pubblico che ha ottenuto. Mentre raccontare la vita e la carriera di Albino Luciani rappresentava una "mission impossible", dal momento che il protagonista ha cercato per tutta la vita di proteggersi dalle apparizioni pubbliche. Bizzarri (e Melloni) sono riusciti nell'impresa. L'autore del programma ha perfino messo annunci a pagamento sui giornali veneti, per cercare di recuperare qualche filmato domestico. Nonostante la penuria di documenti visivi, la prima parte del film costituisce un esercizio stilistico e tecnico di rara bravura, in cui il commento gioca con le immagini d'archivio, offrendo un continuo contrappunto tra filmati, fotografie e testo. La sapienza storiografica di Melloni è riuscita a documentare alcune curiosità strepitose (ad esempio, il fatto che il padre del futuro papa abbia visto nascere e morire tre piccoli Albini, prima dell'Albino finale: indizio di una povertà disperata, di storie di immigrazione e fame, di malattie e privazioni tipiche di un mondo premoderno). Il documentario assume una cadenza serrata a partire dal conclave che elegge Luciani, e nelle sequenze del suo brevissimo pontificato. Con la capacità continuamente avvertibile di unire la riflessione storica e politica con l'intenzione divulgativa. Sfiorando il gossip "noir" (Marcinkus, lo Ior, gli avvertimenti di "Op", la rivista di Mino Pecorelli), ma attenendosi con scrupolo ai fatti. Una meraviglia. O la dimostrazione che se c'è da fare il famoso servizio pubblico lo si faccia: "quelli che il papa" può battere anche Bonolis.
L'Espresso, 08/09/2005
C’è voglia di Unione
Quando vedrà i dati del sondaggio che "L'espresso" pubblica in queste pagine, probabilmente Romano Prodi tirerà un piccolo sospiro di sollievo. Già, le primarie sono un'incognita assoluta. Per la politica italiana e per lui personalmente. Senza una forza politica alle spalle, privo di un vero apparato organizzativo proprio, supportato da uno staff volonteroso quanto privo di mezzi, Prodi è ancora reduce dalla brutta avventura, l'autentico "bad day" della lista unitaria, silurata dalla Margherita. Qualche cicatrice è rimasta. Di fronte al "niet" di Francesco Rutelli, il Professore aveva reagito male: «È un suicidio». Poi si era collocato su una linea di onesta resistenza, sostenuto dai suoi fautori e facendo affidamento sulla tenuta dei Ds. Infine, allorché il progetto era stato definitivamente affossato, aveva fatto di necessità virtù: «Un passo alla volta», aveva confidato ai suoi sostenitori: «La lista unitaria era un grande progetto di razionalizzazione del sistema politico, ma non si può continuare a combattere una partita che è già stata giocata». Il che significa: si gioca con le carte che ci sono, senza illusioni, cercando di fare di necessità virtù. Certo, il colpo era stato pesante. Uno degli analisti più attenti, e non sospettabile di antipatia per il centro-sinistra e l'Ulivo, aveva concluso su "la Repubblica" che Prodi era stato ridimensionato da leader effettivo dell'alleanza al ruolo di amministratore di condominio. Una specie di consulente arruolato come mediatore di una coalizione divisa. La scelta di scommettere ancora sulle primarie di coalizione era stata l'ultima chance, rivendicata con il puntiglio di chi ha visto svanire una proposta politica, per chiedere all'Unione una legittimazione della propria figura e del proprio ruolo. Senza nascondersi le difficoltà che avrebbe incontrato nella piccola ma ardua traversata del deserto fino al 16 ottobre, il Professore e il suo nucleo di amici e fautori si erano convinti infatti che a quel punto il voto popolare, dal basso, sarebbe stato l'antidoto al potere che i partiti avevano riconquistato. Almeno fino a quella data fatale, sarebbero passate in secondo piano tutte le diffidenze, le dietrologie, l'idea di possibili macchinazioni per cambiare cavallo (che nel chiacchiericcio politico romano hanno sempre occupato un certo spazio). E la competizione fra i candidati, autentica o rappresentativa, era comunque un modo per sottrarsi alle logiche della lottizzazione partitica (che ad esempio erano emerse sfacciatamente nella spartizione del cda della Rai). Ma ancora adesso nessuno ha ben chiaro quale sarà il risultato reale delle primarie. Si tratterà di vedere innanzitutto se i partiti dell'Unione avranno la capacità organizzativa per determinare un risultato significativo. Portare nei "seggi" un milione di cittadini-elettori potrebbe essere considerato un risultato appena sopra la modestia. Due milioni, una soglia di ottima qualità. Quindi nei prossimi 45 giorni ci vorrà una mobilitazione consistente. E occorrerà anche valutare come si svolgerà il confronto con gli altri candidati in lizza. A osservare i numeri del sondaggio Swg, il primo elemento di rassicurazione è il dato alto ma non stratosferico che ottiene Fausto Bertinotti, un 16 per cento sul totale dei simpatizzanti dell'Unione. «Bertinotti è un termometro importante del confronto nelle primarie», dice lo staff prodiano: questo perché per molti aspetti le "priorità" del capo di Rifondazione comunista rappresentano il lato "duro" dell'alleanza. «Fausto solleva problemi, come la tassazione della rendita. Poi toccherà a Romano trovare una sintesi che metta insieme l'attacco alle posizioni di privilegio con una politica di modernizzazione». L'altro aspetto da valutare è che il giorno delle primarie non voterà il "popolo dell'Unione", ma presumibilmente un segmento particolarmente politicizzato, consapevole della posta in gioco, probabilmente sensibilizzato e orientato dai partiti: e dunque le preferenze dei votanti potrebbero addensarsi in modo netto sul candidato Prodi. Il quale in ogni caso vede con misurato favore l'affollarsi di competitori: di qui alla primavera del 2006 il centro-sinistra dovrà fare uno sforzo importante per tenere alto il grado di coinvolgimento e di interesse degli elettori, in modo da non disperdere il vantaggio accumulato finora sulla Casa delle libertà: dunque la presenza nella campagna dei leader dei partiti minori sembra essere un valore aggiunto, in ogni caso la dimostrazione che le primarie non sono soltanto un esercizio che misura lo stato dei rapporti fra Ds e Margherita. Intanto, a mano a mano che passano i giorni il clima nel centro-sinistra sembra rasserenarsi. Con molti mal di pancia residui, la "questione morale" sollevata da Arturo Parisi è stata sterilizzata. Non senza danni, dal momento che in certe frange diessine aveva fatto breccia la domanda provocatoria lanciata da Emanuele Macaluso sul "Riformista": «A questo punto perché i Ds dovrebbero votare Prodi alle primarie?". La pace è una pace fredda, riscaldata semmai dai dati delle rilevazioni demoscopiche, che continuano a segnalare i quasi dieci punti virtuali di superiorità dell'Unione sulla Cdl. Sono dati matematicamente affidabili? Politicamente credibili? La maggior parte dei sondaggisti, pur facendo ampi gesti di scongiuro statistico, tende a considerare i numeri attuali come il risultato di un assestamento di lungo periodo, quindi difficilmente scalfibile. L'analista Parisi lo dice ormai da tempo: «Considero la possibilità della vittoria della Cdl un risultato residuale». Tuttavia il cammino di Prodi è ancora accidentato. Lo si è visto durante il mese di agosto, quando all'ex commissario europeo Mario Monti è bastato il combinato disposto di una frase in un editoriale sul "Corriere della Sera" e successivamente un'intervista alla "Stampa" per scatenare il dibattito sul fallimento del bipolarismo e la rinascita del Centro come entità capace di interpretare la cultura di mercato. Argomenti su cui Prodi è stato rapidissimo a intervenire, dato che tutta la sua esperienza politica diretta è segnata dalla scelta dello schema bipolare e che i fantasmi centristi sono sempre stati visti da lui come la minaccia più pericolosa per il suo futuro politico. Anche Giulio Santagata, uno degli uomini che gli sono più vicini, lo ha detto con chiarezza: «Qui si confonde il fallimento del bipolarismo con il fallimento della coalizione di centro-destra». E in effetti, a guardare i dati del sondaggio Swg, colpisce il fatto che Silvio Berlusconi, creatore e dominus della Casa delle libertà, appare particolamente basso, demoscopicamente parlando: se soltanto il 25 per cento degli elettori della Cdl si pronunciano a suo favore, nelle "primarie virtuali" del centro-destra, ciò significa che la carriera politica del premier attuale è a un punto di svolta. A margine del suo incontro russo con Vladimir Putin, Berlusconi si è prodotto in uno dei suoi show più plateali, garantendo che la sua ricandidatura alla guida del paese è un sacrificio «enorme, enorme, enorme», e che dunque non si ricandiderà per piacer suo ma per il bene della Cdl e del paese. Ma se anche gli elettori di centro-destra stanno mostrando il pollice verso, ciò vuol dire che il giudizio sull'esperienza politica di Berlusconi è ormai assestato. Non si spiegherebbe altrimenti il risultato ancora molto alto che ottiene nelle preferenze del campione Gianfranco Fini, un 39 per cento che sembra esprimere la radicalità di una valutazione: il vicepremier e ministro degli Esteri è reduce dall'esito catastrofico del referendum sulla fecondazione assistita, dal conflitto micidiale con i capicorrente del suo partito, dal gossip micidiale di piazza di Pietra, dall'etichetta sostanziale di inaffidabilità politica affibbiatogli dai suoi colonnelli, eppure sembra avere sostituito Berlusconi come oggetto simbolico e mediatico del centrodestra. Fini può sbagliare tempi, metodi, scelte, giocarsi il mondo cattolico senza acquistare una caratura laica, eppure agli occhi dell'elettorato della Cdl (ma anche dell'Unione) rappresenta ancora una leadership credibile, almeno finché si resta sul piano dei sondaggi. Dentro il centro-sinistra guardano con attenzione alle sue mosse: «In questo momento non rappresenta un'alternativa. Ma se in coincidenza con le primarie decidesse di dare uno scrollone pesante, ad esempio liquidando la devolution, Fini comincerebbe ad apparire un leader con tratti nuovi, non solo quelli di un postfascista particolarmente eclettico e abile nella dialettica». Nonostante le rassicurazioni e le rivendicazioni di Berlusconi, «basta con queste storie, il candidato sono io», i conti cominceranno a diventare più precisi e urgenti dopo le primarie dell'Unione. Una volta valutata con qualche certezza la posizione di Prodi, l'intero centro-destra comincerà una seduta di autocoscienza politica potenzialmente drammatica. Negli ultimi mesi, fino a qusti giorni, l'Udc ha tenuto una linea di notevole coerenza. Pier Ferdinando Casini ha aperto una fase di esternazioni sul tema della "discontinuità" nel centro-destra, e i dati del sondaggio lo premiano con un discreto 16 per cento come candidato alla leadership; Marco Follini non ha mai ceduto di un passo dalla sua impostazione: alla domanda irritata su "che cosa vuole Follini?", è facile rispondere che il leader dell'Udc vuole esattamente ciò che dice, ossia il varo di una fase politica nuova; la "spina nel fianco" Tabacci insiste a dire tutto il male possibile della suocera, il bipolarismo, perché nuora intenda (cioè Berlusconi si faccia più in là). È chiaro che in queste condizioni complessive sono possibili anche scenari catastrofici (nessuno può escludere a priori ipotesi disastrose come il "melt down" delle due coalizioni). Ma oggi agli occhi dei responsabili del centro-sinistra sembra più probabile un consolidarsi tendenziale dei due poli. L'incubo della fusione degli schieramenti sembra allontanarsi. Alle primarie di ottobre, candidati marginali politicamente come il manager Ivan Scalfarotto e Vittorio Sgarbi sembrano funzionali soprattutto a una spettacolarizzazione del confronto. Il confronto con Bertinotti potrà esplicarsi positivamente soprattutto nell'analisi critica della legge finanziaria. Prodi continua a ripetere che bisogna uscire una volta per tutte dalla sindrome del "facciamoci del male", in cui la sinistra vanta una specializzazione formidabile. Ma, per l'appunto, un sospiro, piccolo piccolo, lo si può tirare.
L'Espresso, 08/09/2005
È gay il maschio perfetto
Dal 6 settembre La 7 manderà in onda una nuova edizione dei "Fantastici cinque", in cui la solita équipe di gay cercherà di ridurre alla normalità o pressappoco un vip o presunto tale. Intanto però, durante tutto il mese d'agosto sono andate in onda le repliche delle puntate precedenti, quelle in cui a essere oggetto delle attenzioni di coloro che qualche ministro particolarmente avanzato ha chiamato "culattoni" sono maschi qualunque, che accettano di essere manipolati gaiamente per sorprendere la morosa o la famiglia. Ora, può essere che a qualcuno i gay non piacciano. All'epoca del Gay Pride di Roma, un importante commentatore del "Corriere della Sera" definì i cortei come gruppi di "dervisci urlanti". Ultimamente, secondo le cronache, Giulio Andreotti ha riesumato il termine "invertiti". Negli ambienti clerico-machisti si è diffusa la leggenda che il mancato commissario europeo Rocco Buttiglione sia rimasto vittima di una cospirazione dei gay di portata continentale. I gay del programma messo in onda da La 7 sono un campione statistico limitato ma significativo. C'è il gay effeminato e mignottone, il gay virile e simpatico, il timido, l'esuberante, il mondano. Insomma, gente normale, attraente o repellente come il resto della popolazione. Hanno buon gioco perché i maschi eterosessuali presi come protagonisti del programma sono quasi sempre una catastrofe. Ciccioni, cadenti, pelosi, pelati, probabilmente sudati e puzzolenti, vestiti con tute e felpe di periferia, barbuti e con i punti neri, sono caricature perfette della "normalità" etero. Quindi risultano soggetti adeguatissimi per essere "trattati" dai gay, che li depilano, li pettinano, li truccano, gli rifanno l'appartamento e il guardaroba. Naturalmente, alla fine del programma il povero protagonista sembra un altro: quello che voleva fare il cantante assomiglia davvero a un cantante (e la famiglia si commuove alle prime note di "Perdere l'amore"), quell'altro che voleva chiedere alla fidanzata di sposarlo appare come un vero uomo convinto di sé, e lei gli dice di sì cadendo nella trappola gay con lo sguardo trasognato. Sicché viene da chiedersi perché i suddetti maschi eterosessuali non si trattino meglio anche senza l'intervento dei fantastici cinque: perché non si sbarbano, perché non si lavano, perché non usano il dentifricio? Molte sono le risposte possibili, ma l'unica giusta è di Billy Wilder: nessuno è perfetto.
L'Espresso, 01/09/2005
Tutti i gol dalla A alla Z
Comincia il campionato. Ecco una guida alfabetica, inattendibile ma attesissima: una serie di tiri mancini per orientarsi nei meandri del campionato più demenziale del mondo. ABBIATI Riassunto delle puntate precedenti: in precampionato il milanista Kakà svelle un braccio e scardina una spalla al nazionale juventino Gigi Buffon, sicché il generoso patron del Milan (vedi alla lettera B) concede in prestito la brava riserva di Dida che fra i rossoneri non gioca mai e si deprime. Quasi tutti dicono, ah che generoso, che sportivo il Cavalier B, che risarcisce la società avversaria. Gli irriducibili antiberlusconiani, cioè gli ultras di sinistra, comunisti, livornesi, guevaristi, eccetera, toghe rosse comprese, sogghignano e insinuano che il Milan si è liberato di uno stipendio. Ultrasinistri ancora più maligni si augurano che nel prossimo scontro al vertice in campionato Ibrahimovic o chi per lui stronchi una caviglia a Dida: dopodiché al Cavaliere gli diamo uno a scelta, magari Del Piero. BERLUSCONI Non è che il suo allenatore Ancelotti sia un estremista di sinistra come il povero Zaccheroni (vedi alla Z), e anzi ci sembra di ricordare che in famiglia oscillino verso Forza Italia, soprattutto la moglie (se non è vero, signora, ci perdoni: non volevamo offenderla). Ma il Cavaliere non gliene lascia passare una: e una volta lo critica perché gioca con una punta sola, «mentre il Milan deve giocare sempre con due punte», come faceva lui, il Grande Silvio, quando allenava l'Edilnord; e adesso lo pungola, lo critica, lo intimidisce, gli rompe i santissimi perché non valorizza appieno un grande organico: «Un sarto distratto a volte può rovinare anche la stoffa migliore». Il povero Ancelotti, che già a Torino ebbe le sue grane («Un maiale non può allenare», lo insultarono gli ultras juventini), raccoglie le confidenze dei senatori, quelli dello spogliatoio, non quelli di Pera, che gli consigliano amichevolmente di andarsene. Ma lui resiste. Consigli alla consorte: signora, ci metta una buona parola lei. COLLINA L'arbitro più bravo del mondo, uno che non penserebbe mai di trapiantarsi un ciuffo sulla pelata, si è fatto sponsorizzare dalla General Motors, che con il marchio Opel da 12 anni è lo sponsor del Milan. E poi dicono il conflitto di interessi: storie, gli interessi qui convergono sempre con precisione inesorabile. Come finirà nessuno lo sa, perché sembra chiaro che a Collina avevano dato il via libera ai piani alti della Federazione, tanto chissenefrega, due lire. Ma nessuno tocchi Collina, perché la situazione arbitrale è un pasticcio, e quella dei guardalinee è peggio: ogni volta annullano gol validi perché non sanno giudicare il fuorigioco. E poi, cari tutti, abbiamo sopportato Tremonti, ci stiamo abituando a Monti, volete che non tolleriamo Collina? DEL PIERO Ah che piacere, che gusto, che soddisfaziòn! È ricominciato il tormentone. La bandiera della Juve che fa la riserva, che si avvilisce in panchina. Il mascellone Capello che lo umilia, lo tratta come uno scartino. Lui, l'abilissimo Alex, non dice una parola, resiste muto anche alla concorrenza di Mutu. Si sa come andrà a finire: andrà in campo a spizzichi, ma poiché è fortunato e ha mestiere, infilerà qualche golletto, farà mezzo dribbling, un tiro a rientrare che colpirà il palo, un rigore piazzato con destrezza, e tutti diranno che è risorto. Appunto: se è risorto mandiamolo in cielo, nell'azzurrità, rifiliamolo al Cavaliere, che così imporrà ad Ancelotti di giocare con quattro o cinque punte. Ma ci sono i fondamentalisti, quelli che dicono che non si cedono le bandiere, i fanatici di Alex, coloro che hanno apprezzato anche la telenovela pubblicitaria dell'uccellino. E allora, consiglio a Moggi (vedi alla lettera L): fategli un contratto da dirigente, e la formazione fatela decidere a lui. ESTERO SU ESTERO Piccola domanda perfida a quelli che credono che il campionato italiano di serie A sia il più bello o il più difficile del mondo: ma com'è che tutti i giocatori italiani che vanno all'estero rimediano figure generalmente barbine (eccetto Zola, s'intende: ma Zola non è semplicemente italiano, Zola è sardo)? Attaccanti celebrati come Di Vaio o Corradi, centrocampisti come Fiore, promesse come Maccarone, vanno tutti via lanciando proclami, conquisterò l'Europa o roba simile, e scompaiono miseramente, oppure tornano con le pive nel sacco. Se la cavano i portieri, come Cudicini e Roma; ma per gli altri l'Europa è un purgatorio, e anche il ct della Nazionale Lippi se li dimentica subito, appena varcati i confini. Il fatto è che qui si è profeti solo in patria. FIGO Il calcio estivo è divertente perché è tutto "palabratico", come diceva Gianni Brera (dallo spagnolo "palabras", parole). Quindi nell'estate parolaia "ci sta", come invece dicono i telecronisti euforizzati alla Piccinini, che un'ala destra vecchiotta e dribblomane come il portoghese Figo venga presentata come un grande colpo di mercato dell'Inter. Storie: il pettinatissimo e mesciato Mancini consentirà a Figo qualche apparizione precaria e inutile, e al decimo dribbling fallito allargherà le braccia, si rivolgerà sconsolato alla tribuna e farà capire ciò che tutti avevano capito da soli: ovvero che la prerogativa migliore del vissutissimo Figo è la famiglia, moglie scandinava e top model (faccela vedè, faccela toccà, cantano già gli estremisti di pallone & sesso, quelli delle brigate "kamasultras"), nonché bambini da spot pubblicitario. Ma se questo è lo schema, se deve vincere il glamour, wow!, l'anno prossimo Moratti (vedi alla M) metterà sotto contratto Beckham e la Spice Victoria. GILARDINO Siamo tutti qui che facciamo gli scongiuri, perché il nuovo Paolo Rossi, il formidabile goleador giovane, l'attaccante che mancava alla Nazionale, quello che segna anche solo a prendere il pallone a sputi, è stato ingaggiato dal Milan "all star". E allora il rischio è il solito: che il giovane gioca sì e gioca no, gioca un po', non ha mai occasione di far vedere le doti, e dopo un anno tutti dicono che non ha mantenuto le promesse. Gilardino non è Cassano (vedi alla lettera Q), anche se ultimamente deve avere ceduto anche lui al trend mesciato, perché un campione deve piacere innanzitutto alle parrucchiere: è affidabile e ha carattere. Ma se diventerà uno fra le decine di attaccanti rossoneri, nonostante gli imperativi berlusconiani sul gioco a due punte, si rischia di non dargli continuità: un centravanti deve poter segnare al primo minuto, ma anche all'ottantanovesimo. Se non lo si fa entrare, o lo si toglie a metà partita, salvate il soldato Gilardino. HOTEL QUARK In questo albergo milanese si accendono gli ultimi fuochi di campagna acquisti dal 29 al 31 agosto. Lontani i tempi del Gallia, allorché i "ricchi scemi" si scambiavano patacche a suon di milioni se non miliardi, e i meno fessi accendevano il mercato ed entusiasmavano gli ultras vendendo un cane da dieci miliardi per due gatti da cinque. Adesso tutti aspettano il botto, il colpo conclusivo, un'invenzione di Berlusconi e Galliani. Ma non dimentichiamo l'immortale motto di Schopenhauer, filosofo del pessimismo: «Solo gli stupidi aspettano da un momento all'altro la notizia decisiva» (noi siamo ancora peggio: aspettiamo il commento). Comunque, se vendono Del Piero, Cassano, o anche Miccoli, fateci un fischio, magari filosofico. IBRAHIMOVIC Sono passati i tempi in cui era il ragazzo terribile dell'Aiax, quello che entrò nello spogliatoio, guardò con insolenza i senatori (non quelli di Pera, dobbiamo ripeterlo?) e disse: «Salve, io Sono Zlatan. E voi chi cazzo siete?». Adesso ha maturato uno stile juventino, ha perfino sistemato l'acconciatura, non pare che si sia fatto fare tatuaggi, come fanno gli imbecilli (se li ha fatti, lo perdoniamo). Le uniche eccentricità le manifesta nel gioco, quando fa il giocoliere, "flips & tricks", giochetti, trucchetti, finte, irrisioni, il povero difensore interista Samuel ridotto con gli occhi in croce nella Supercoppa, tanto che non c'è da stupirsi che poi voglia sputare per terra e sputi invece nella schiena di Nedved. L'unico pericolo è che Del Piero (vedi alla D) gli faccia un vudù con bamboline e spilloni; oppure che un difensore si ricordi di quello che accadde tanti decenni fa al centravanti Stabile, che fu chiamato "el Filtrador", finché non gli spezzarono una gamba all'ingresso dell'area, così imparava a filtrare. LUCKY LUCIANO Come si sa è il soprannome che i malevoli hanno appioppato a Luciano Moggi, general manager della Juventus. Ora è vero che SuperMoggi di recente ha qualche traversia giudiziaria, ma noi che siamo garantisti sappiamo che nel nostro civile ordinamento giuridico nessuno è colpevole almeno finché non è arrivato al terzo grado di giudizio, al giudizio universale, o al trentesimo campionato rubato. Come ogni anno, Moggi ha costruito una Juve fortissima, che vincerà a mani basse il torneo. Se non lo vincerà, è colpa di Capello, che avrà sbagliato la tinta dei capelli, o di Del Piero, che avrà perso la carica agonistica in quanto, pieno di grazia francescana, e non avendo un tubo da fare in panchina, continuerà a parlare agli uccellini. Quanto ai rapporti al vertice, relazioni francescane anche con Berlusconi: "Abbiati Fede". Ovviamente, Lucky sottolinea Abbiati, Lui sottolinea Fede. MORATTI Le ultime stime del Fondo monetario internazionale sostengono che nella sua carriera di patron dell'Inter il presidentissimo Massimo ha speso una cifra superiore al Pil del Belgio e potrebbe lanciare un'opa sul Canton Ticino. Il ministro Siniscalco ha promesso vigilanza, la Banca d'Italia no. Intanto Moratti si è innamorato dell'ultima sfumatura frontale dei capelli di Mancini, un'autentica onda anomala. Si sostiene negli ambienti meglio informati che la rivalità acerrima fra l'ex trequartista Mancini e l'ex centrocampista Capello, che fa impallidire il conflitto Hunziker-Ramazzotti, dipenda soprattutto da una questione di acconciatura. Sconfitto inopinatamente dall'Inter nella Supercoppa, dopo che i bianconeri avevano sprecato sette palle gol, Capello ha minacciato di farsi tatuare sull'abbondante basletta il profilo di Ibrahimovic, oppure quello di Eros Ramazzotti. Escaléscion is escaléscion, caro Mancini, caro Moratti. NEDVED L'ex pallone d'oro ha perso la patina. Le sue corse sono meno veloci, i suoi tiri sono più telefonati, le sue cadute sono meno caprioleggianti, perfino la sua acconciatura è meno spettacolare. Ma cos'è questa crisi? Solo l'invecchiamento, quei 33 anni che sono l'età di Cristo e l'età di Figo, e risultano quasi sempre pesanti da portare, un'autentica croce? I maligni hanno altre interpretazioni, che lasciamo alla loro malignità. C'è da dire che alla Juventus attuale manca soltanto la rabbia e l'orgoglio del ceco. Se non riesce a recuperare la forma fisica, il mai fallace Moggi (vedi alla lettera L) ha pensato a una exit strategy che coinvolge come centrocampista il presidente del Senato Marcello Pera. Sempre che l'insigne popperiano non giudichi troppo meticcia la squadra bianconera (Gesummaria, tutti quei neroni, magari musulmani!). ODDO Non c'è nessuna ragione se non quella rigidamente alfabetica per classificare sotto la "o" l'esterno della Lazio. Soltanto il fatto che a ogni campagna acquisti Oddo viene dato in predicato di passare alla Juve, a questa squadra, a quella, e poi non passa o non predica mai. Si spera in qualche sorpresa negli ultimi giorni di mercato, all'Hotel Quark (vedi alla lettera H). Se neanche Quark funziona, prendetevela con Piero e Alberto Angela. Oddo è come il tifoso lazial-bolognese Gianfranco Fini, che parla, parla e non conclude mai. PIZARRO Per molti aspetti vale per il neo-acquisto dell'Inter ciò che si è detto per Gilardino (vedi alla G). Il centrocampista venuto dall'Udinese è stato descritto così da Spalletti, ora nuovo allenatore della Roma (vedi alla Q): "Pizarro gioca arretrato, ma ha una tecnica e un dribbling da trequartista. Se non lo marcano, lancia come un dio. Se lo marcano, comincia a dribblare e nasconde la palla per tutta la partita». Solo che anche il centrocampo dell'Inter è affollatissimo, e Pizarro sarà pure il migliore playmaker del mondo, ma se gioca Veron questo non si nota. Quindi salvate anche il soldato Pizarro. QUARTA FORZA Aperto il dibattito su quale sia. Boban sulla "Gazzetta dello Sport" sostiene che la quarta forza è la Roma, se risolve il problema Cassano, il ragazzo della Bari Vecchia che ha sterminato Prandelli, Voeller e Del Neri. Il nuovo allenatore Spalletti è sveglio, ha la testa lucida, ma Cassano può ridurre alla disperazione anche caratteri più forti di lui. Quindi tanto vale eleggere come quarta forza la Fiorentina: lo facciamo unicamente come atto di adorazione verso il presidente Diego Della Valle ("Lo scarparo", secondo Anna Falchi), a patto che non costringa i giocatori a scendere in campo con le suole a pallini, e valorizzi adeguatamente il centravanti Luca Toni, nuovo sex-symbol secondo uno "special committee" comprendente Alessia Merz, Simona Ventura, Emilio Fede e Gianfranco Fini (che nell'ultima votazione si è astenuto). RETROCESSIONI Dolorosissima quella del Bologna, come ha detto Romano Prodi in una conversazione privata con Pier Ferdinando Casini, anche perché Giuseppe Gazzoni Frascara ha messo in svendita la società rossoblù, con il risultato che la Bologna cofferatiana, prodiana, casiniana "e quant'altro", come dice l'autorevole professor Panebianco nei suoi editoriali anticentristi, annasperà in serie B. Drammatica quella del Genoa, appena promosso in A e immediatamente retrocesso in C, con contorno di sommosse popolari tipo "Boia chi molla" che hanno suscitato le giuste osservazioni critiche del professor Ilvo Diamanti, secondo cui il problema italiano è che «tutti vogliono viaggiare in prima» anche se non hanno fatto il biglietto. Si unisce alla tesi anche il professor Luciano Ligabue, università di Correggio. SHEVCHENKO Avrà pure conquistato il pallone d'oro, ma adesso ci sono problemi. La presenza di Gilardino (vedi alla G) lo obbliga a partire da lontano, sulla fascia. La presenza del tatuatissimo Bobo Vieri lo costringe a farsi un tatuaggio hawaiiano, per non essere da meno e non sfigurare (su questo argomento l'attaccante ucraino ha chiesto consigli al Cavaliere, in una visita privata a Villa Certosa; Berlusconi lo ha consigliato di rinunciare ai tatuaggi ed eventualmente di mesciarsi). Comunque si capisce fin d'ora che l'attacco del Milan è una specie di Cortina nell'ora dello struscio, dove tutti dicono: fatti più in là. TELEVISIONE Dopo la straordinaria performance liberista e di mercato con l'offerta di cento euro della Rai, e con il milanista e federalista (nel senso della Federazione) Galliani che si comprava e si vendeva da sé, bisognerebbe sapere se qualcuno è finito in galera. Nessuno? Vabbè, aspettiamo. Aspettiamo Paolo Bonolis alle prese con il campionato. Noi statalisti risponderemo con Pupo, che ha già ritoccato il colore del toupet (dicono i maliziosi). Oppure chiederemo al direttore generale della Rai, l'incompatibile Meocci, di tatuarsi il simbolo dell'Udc sulla spalla. Quale spalla? Quella di centro. UDINESE Non ha più Pizarro (vedi alla P), ma ha ancora Iaquinta. Spalletti diceva che in potenza Iaquinta è il più forte centravanti del mondo, ma purtroppo è emotivo, sente le partite, si nevrotizza e grande e grosso com'è perde la parola e il tiro in porta. Speriamo nella maturazione. Poi, se il nuovo allenatore Serse Cosmi riesce a motivare la squadra, l'Udinese sarà la quarta forza (vedi alla lettera Q), perché ha un attacco tecnicissimo, con Di Michele e Di Natale (manca solo Di Pietro, ma i valori per l'Italia sono altissimi): con grave dispetto di Roma e Fiorentina. VIERI Finito, almeno per ora, il tormentone Canalis, che valeva quasi quanto la guerra dei Roses fra la Hunz e Ramazz, Bobo è dimagrito e appare in grande forma, una ventina di chili in meno di quando era all'Inter. Solo che come si è detto e ridetto, l'attacco milanista è affollatissimo. Soluzione: consigliare a Berlusconi di imporre alla vittima Ancelotti un attacco a sette punte. ZACCHERONI Ottimo allenatore, di?soccupato, di sinistra, detestato da Berlusconi perché giocava con sei punte ma votava per Fausto Bertinotti. Come Zeman, che fa del bel gioco con qualunque squadra abbia per le mani, compreso l'anno scorso a Lecce, gioca con sei punte, un centrocampista d'attacco e tre difensori con spiccate attitudini offensive. Magari prende sei gol: ma in fondo, che importanza ha?
L'Espresso, 01/09/2005
Era davvero il massimo
In una placida nottata d'agosto, mentre splende la luna e si riesce perfino a vedere quel minestrone di stelle che è la via Lattea, uno si chiede: com'è che non fanno uno speciale su Massimo Troisi? Puntuale a smentire l'incredulità dei più, mercoledì 17 agosto su Raitre è arrivata un'edizione di "Off Hollywood 2005" dedicata per l'appunto a isso. Vabbè, era l'una di notte, e quindi dal punto di vista cronologico era già giovedì 18. Ma insomma, ci siamo capiti. Il programma comprendeva uno speciale di "Mixer" del '96, e l'occasione era offerta dal decennale del "Postino", l'ultimo film dell'attore napoletano. Confessiamo che quel film ci riporta a sentimenti contrastanti, perché Troisi vi appariva già malato, pallidissimo, scavato, mamma mia che impressione. Eppure, a rivederlo, se si supera l'emozione di vedere un ragazzo non meridionale, bensì meridiano, evidentemente caro agli dei, e quindi sottratto anzitempo agli umani complice un cuore fallace, si ha di nuovo la sensazione che il Massino napoletano fosse un attore straordinario, capace di estrarre comicità da spunti modestissimi, da giochi di linguaggio e di lessico culturale assolutamente ordinari: come quando in un certo filmetto con Benigni, che forse poteva chiamarsi "Non ci resta che piangere", si avvicina alla desiata Amanda Sandrelli fingendosi autore di canzoni e madrigali, e improvvisa "Yesterday" spacciandola per una sua creazione estemporanea. E canticchia «Yesterday, na na», sottolineando alla pulzella l'importanza di quei due accordi, "na na", o "la la", di Paul McCartney, ricevendone un apprezzamento incondizionato (qui si cita a memoria, quindi non sono gradite precisazioni). Oppure si può ricordare Troisi nella veste di telefonatore misterioso nel secondo programma televisivo cult di Renzo Arbore, "Indietro tutta". Insomma, ricordiamoci quello che vogliamo, a scelta: resta il fatto che a distanza di anni, nonostante il sopravvalutato "Ricomincio da tre", si potrebbe anche sostenere che il partenopeo e il partenapoletano era il meglio di tutti, e se allora non ci piaceva ci piace adesso, perché siamo fatti così. Ossia, quando appare una stella, diciamo che il presepio non ci piace. Ma poi, quando la stella cade, e si vede il firmamento residuo, si recupera la razionalità di giudizio, e si conviene per l'appunto che Troisi era eccetera. Programma condotto da Pascal Vicedomini, che in certe occasioni non disturba.
L'Espresso, 25/08/2005
Taglierò le tasse sul lavoro
I Prodi-boys, anche i più attempati, lavorano tutti, durante questo agosto variabile, clima estivo mutevole, atmosfera politica surriscaldata: si telefonano, si scambiano e-mail sui palmari, discutono, dissentono, convergono. In questi giorni gli uomini della tribù prodiana sono disseminati per l'Italia: il leader "Romano" ha abbandonato l'Appennino reggiano, la banda dei 101 fratelli, parenti, nipoti e pronipoti, e le escursioni sulla mongolfiera più grande d'Italia, per discendere la Penisola sulla sua nuova Croma, con la decalcomania, anzi emilianamente il "patacchino" dell'orgoglio automobilistico nazionale, "Io viaggio italiano": giù con "la Flavia" fino a Castiglione della Pescaia, sotto Punta Ala, dove lo aspetta il soldato Andrea Papini (il milite che ha resistito nella trincea della lista unitaria, fino al sacrificio estremo, alle bordate anti- uliviste di Ciriaco De Mita). All'uscita del casello di Firenze Certosa uno degli addetti lo ha riconosciuto e mentre incassava il pedaggio ha esclamato: «Professore, speriamo di vincere, questa volta!». Prodi lo ha preso come un buon augurio, una specie di indice di popolarità misurato "on the road". Il consigliere più sofisticato, Arturo Parisi, batte invece la costa della Sardegna fra Sassari e Alghero, respingendo a forza di dialettica i siluri dei Ds che l'hanno accusato di avere riesumato in modo pretestuoso la "questione morale". Eppure, commenta lui, se si rilegge la sua intervista al "Corriere della Sera" è piuttosto difficile trovare accuse dirette ai Ds. Si parlava piuttosto di un ambiente generale, in cui interessi molteplici potevano incrociarsi in chiave di scambio trasversale, mischiando le carte del confronto politico. E del rischio di raccogliere «una domanda di alternativa con una risposta di alternanza». Noi al posto degli altri. L'altro factotum di Prodi, Giulio Santagata, è laggiù nelle Puglie, vicino alla dalemiana Gallipoli, a preparare fra un bagno e l'altro schede per il programma, e a pensare al look del Tir giallo in preparazione per la campagna delle primarie. Eppure, solo a nominare il programma, "Romano" si infastidisce: «L'ho già detto e ripetuto, non c'è paese al mondo in cui si presenta un programma di governo dieci mesi prima delle elezioni. La realtà politica, economica, sociale va monitorata continuamente, il messaggio ai cittadini va tenuto ancorato alla realtà dei fatti. Altrimenti si fa della poesia». Ma allora alle primarie di che cosa si parlerà, su quali basi si svolgerà il confronto con gli altri candidati, e in particolare con l'oltranzista Fausto Bertinotti, quello che dice «lo Stato sociale non si tocca»? «Presenteremo le nostre linee guida, le nostre priorità, che saranno messaggi diretti per la società italiana, la sintesi del nostro atteggiamento rispetto ai problemi del Paese, cercando di far capire ai cittadini la nostra linea alternativa rispetto alla Casa delle libertà». Dal suo eremo pugliese, fra mattinate neghittose, pranzi molto lenti a base di fragranti grigliate di pesce, e durante tardi pomeriggi di puro attivismo, Santagata commenta: «Romano è concentratissimo sul problema della crescita, sa benissimo che questo è il primo punto di qualsiasi programma di centro-sinistra, perché siamo keynesiani anche noi, mica solo Siniscalco; in secondo luogo, sappiamo benissimo che oggi ci troviamo di fronte anche a un problema redistributivo rilevante, ossia a uno squilibrio creatosi fra il lavoro e la rendita: una situazione che in questa estate si potrebbe sintetizzare con lo schema "ombrelloni vuoti e posti barca pieni". Se si impoverisce il turismo di massa ed esplode il consumo di élite, ci sarà qualcosa che non va. O no?». L'argomento della crescita si rivela cruciale soprattutto se lo si mette a confronto con l'andamento generale dell'economia: prima la bocciatura dell'agenzia internazionale Standard & Poor's, che vede ombre sull'intera politica italiana, non soltanto sulla destra, poi gli attacchi arcigni dell'"Economist", che liquida senza mercè il governatore Fazio, mette in maschera da Arlecchino l'Italia delle "commedie finanziarie" e infine tratta con freddezza lo stesso Prodi, perché «non è un leader». Senza poi contare il "rimbalzino" del Pil, quello zero virgola 7 per cento di crescita nel secondo trimestre che ha riportato a pelo d'acqua l'economia: secondo Berlusconi «ha smentito le Cassandre della sinistra» e prontamente i telegiornali hanno salutato l'evento statistico con un tipico entusiasmo di regime, parlando dell'Italia come della «locomotiva d'Europa, almeno nel breve periodo». Sugli ultimi dati macroeconomici il Professore non si scompone: «L'avevo detto qualche tempo fa che il fondo era stato toccato. Se c'è un rialzo, è un bene per il Paese, perché non si può stare in apnea troppo a lungo. Adesso si tratta di vedere se siamo capaci di acciuffare la ripresa tedesca: dobbiamo fare tutto il possibile in questa direzione». E il risanamento dei conti pubblici? «Ho sempre sostenuto che i conti dello Stato sono il riflesso di andamenti reali, del funzionamento complessivo di un'economia. Se il debito cresce, se l'avanzo primario cade, non è solo questione di numeri. Per questo ripeto e sottolineo il mio no alla politica dei due tempi. Bonifica dei conti pubblici e rilancio economico devono andare insieme. Questo è il nostro programma. Se qualcuno vorrà dipingerci come quelli che vogliono strangolare il Paese sbaglia indirizzo. Il grande freddo, lo zero virgola zero in crescita lo ha provocato la politica economica del centrodestra». Non sarà facile riprendere alla svelta il sentiero positivo. Anche il ministro dell'economia, Domenico Siniscalco, va dicendo che l'unico rimedio è la crescita. Lo sosteneva Giulio Tremonti. Lo annunciava Berlusconi. Secondo il governatore Fazio il miracolo era «dietro l'angolo». Di fronte alle magie annunciate da destra l'ex presidente della Confindustria Antonio D'Amato aveva esclamato tutto fiducioso «e adesso, turbo». Prodi non vuole fare promesse sensazionali, dato che «i conti vanno fatti prima di tutto con la realtà». Ma nelle sue priorità, quelle su cui si misurerà in settembre con gli altri candidati alle primarie, ce n'è una su cui lo staff sta lavorando da tempo: «L'obiettivo principale è quello che abbiamo segnalato, la riduzione del cuneo fiscale sul reddito da lavoro dipendente. Ciò implica un vantaggio doppio e simmetrico: per le imprese, in termini di costo del lavoro, e quindi di competitività, e per i lavoratori, come recupero di potere d'acquisto. Le modalità di questo taglio le esporremo compiutamente nel programma, ma l'obiettivo è di determinare una riduzione del carico fiscale fra il 5 e il 10 per cento delle retribuzioni lorde». Basterà? «Questo è solo un aspetto, anche se uno dei più immediatamente visibili», aggiunge Santagata: «Sullo sfondo c'è tutto il discorso sulle liberalizzazioni, che il governo di centrodestra ha riposto nello scantinato di Palazzo Chigi, e che investe un ampio versante di posizioni, dalle professioni all'energia. Il tema delle liberalizzazioni può apparire astratto, ma bisogna chiedere agli imprenditori, di qualsiasi settore, se sono contenti di pagare la bolletta elettrica più cara d'Europa, grazie a un settore così gravato da vincoli». «Stiamo lavorando sul programma», aggiunge Prodi, «in modo empirico, pezzo per pezzo, cercando di individuare gli aspetti che investono gli interessi dei cittadini». Qual è allora il punto chiave per rispondere alle esigenze diffuse? «In primo luogo il recupero del potere d'acquisto. Noi abbiamo assistito a una speculazione brutale sull'euro, e adesso bisogna bloccare la tendenza, possibilmente invertirla in certi comparti di spesa. È difficile, lo so, è come rimettere il dentifricio nel tubetto. Ma non possiamo limitarci ad assistere a questo fenomeno patologico. Ci sono settori, come il turismo, in cui si sono raggiunti limiti impressionanti, non europei: dopo tre anni di euro si continua a discutere sul passato, ma senza fare niente sul presente». Questo andamento dell'inflazione ha determinato una sorta di processo all'euro come causa di tutti i mali: il costo della vita, la perdita di competitività, l'impossibilità delle svalutazioni competitive. «Fosse per me», dice Parisi, «visto che la Casa delle libertà farà campagna contro "l'euro di Prodi", sarebbe il caso che Romano si presentasse come il protagonista dell'euro, rovesciando provocatoriamente l'approccio. Dove saremmo senza la moneta unica, con il costo del denaro tre volte più alto, i mutui che sarebbero già diventati insostenibili per le famiglie, e con le conseguenze del discredito provocato dai casi Parmalat e Cirio, con gli attacchi della stampa straniera, con il petrolio a questi livelli? Bisogna presentarsi come gli uomini della stabilità e del governo contro le proposte caotiche dell'avventurismo». Tuttavia, aggiunge Santagata, non si può dimenticare che è improprio parlare genericamente di "ceti medi impoveriti": «L'impoverimento, quando c'è stato, è avvenuto a senso unico, ai danni del lavoro dipendente. Qualcuno si è impoverito e qualcun altro invece si è arricchito. È come se all'elettorato di Forza Italia fosse stato consentito il grande furto con destrezza contro l'elettorato di centro-sinistra, gli impiegati, i lavoratori, i pensionati». Vero, commenta Prodi: «Senza demonizzare nessuno, occorre ricordare che l'inflazione è sempre un tiro alla fune sociale: c'è chi ci perde, e i poveri ci perdono più vistosamente, e chi invece ci guadagna. E pensare che sarebbe stato sufficiente applicare il piano di controllo che il ministro del tesoro Ciampi aveva predisposto, seguendo le raccomandazioni dell'Unione europea, per mitigare in ogni caso gli effetti del cambio di unità monetaria. Niente, non è stato fatto niente, non si è controllato nulla, non è stato fatto ciò che hanno fatto gli altri paesi, ispezioni, verifica sui mercati. Non lo dico perché sia malato di dirigismo, lo so benissimo che non siamo negli anni Settanta, il mercato va per i fatti suoi e non si possono reintrodurre pratiche come il paniere dei prezzi amministrati: si trattava di praticare forme di persuasione, esercitando una pressione intelligente sui comportamenti. Com'è che in Austria queste misure di semplice buon senso hanno funzionato e qui le abbiamo lasciate inutilizzate?». Ma il conflitto politico non sarà soltanto sull'economia. Anche se in questo momento il dibattito è silente, la riforma costituzionale della Cdl determinerà una guerra politica. Prodi su questo è categorico: «Come ha detto spesso nei nostri incontri un giurista del valore di Franco Pizzetti, noi non possiamo rinunciare al nostro impulso riformatore: questo vuol dire che siamo intransigenti nella difesa dei principi fondamentali della Costituzione del '48, ma anche contrari a un principio di immutabilità sacra degli strumenti applicativi della Carta. Detto questo, non perderemo nessuna opportunità per manifestare la nostra opposizione sia alla devolution sia al disequilibrio fra i poteri fondamentali. Ma soprattutto manifesteremo la nostra contrarietà a un sistema complessivo, con un bicameralismo contraddittorio, che sembra una bicicletta con una ruota rotonda e una ruota quadrata». Nel frattempo stiamo osservando una formidabile lotta di potere, che si gioca sul terreno della finanza, con intrecci talvolta imbarazzanti. Per dissolvere gli equivoci, Parisi invita a rileggere la sua ormai celebre intervista sulla questione morale: «Ho messo in rilievo che di fronte alle intese trasversali fra soggetti economici e politici, ci può essere una ripercussione pesante nell'opinione pubblica: cioè un contraccolpo che può manifestarsi come revival giustizialista, oppure come un'ondata di cinismo di massa, all'insegna della conclusione secondo cui tutti sono uguali». Santagata ridimensiona: di fronte alle richieste di adottare un codice etico, come richiedono Paolo Sylos Labini e altri esponenti della società civile, richiama il criterio per cui l'etica è una precondizione, uno sfondo: «Di solito si mettono nelle cartelle per la stampa i codici etici quando l'azienda è sull'orlo del fallimento oppure quando l'etica è svaporata...». Tuttavia non sfuggirà al Professore che è in corso una partita importante: Antonveneta, Bnl, "Corriere della Sera", e chissà che cos'altro. «È una partita grossa, che rivela la rottura di regole, convenzioni, abitudini consolidate...». Ma che cosa c'è in ballo, un establishment che cerca di scalzarne un altro? «Intanto c'è gente che ci mette un sacco di soldi, e io sono sempre stato colpito da quel che mi diceva Helmut Kohl». E che cosa diceva il Cancelliere? «Che non si può essere ricchi e fare politica». E allora, di fronte a queste ricchezze che passano di mano, alle mosconate in Borsa, al contesto in cui politica e affari si incrociano, che cosa occorre fare? «Intanto abbiamo messo a punto un programma di razionalizzazione delle authority, molto importante come segmento del futuro programma: si tratta di un segno forte di riorganizzazione dello Stato e delle garanzie di equilibrio fra soggetti e poteri: nel bipolarismo le autorità neutrali diventano essenziali. Se abbiamo in mente uno Stato moderno, efficace, non possiamo rinunciare a metterci le mani, a farlo funzionare meglio. Anche questo, se permettete, è riformismo».
L'Espresso, 25/08/2005
Meglio pupi che bonolis
Siccome noi non crediamo nel giornalismo presunto anglosassone, quello dei fischi separati dai fiaschi, mettiamo subito in chiaro il point-of-view. Il punto di vista sarebbe il seguente: noi stiamo con Pupo. Per tanti motivi. Primo: fin dalla prima puntata del programma "Il malloppo", in questa comunità di villeggianti si è scatenato un dibattito intenso: i capelli di Pupo, in arte Enzo Ghinazzi, sono più veri o meno veri di quelli di Silvio Berlusconi? La domanda è rimasta intonsa perché c'è un partito femminile che sostiene la versione toupet. Capelli artificiali, ben realizzati ma falsi. C'è una componente maschile, suggestionata dalla virilità del cantante, che giura invece sulla naturalità: la virilità sarebbe certificata dal fatto che vive da vent'anni con moglie e morosa. Secondo questa corrente d'opinione, la testa di Pupo appare così perché è così: ci mancherebbe anche che fosse calvo, dovremmo aggiornare il catalogo dei nani pelati (anche se notoriamente i nani pelati si sottopongono a sevizie per aumentare il tacco e lo stacco, nonché per infoltire i capelli sul cranio). Secondo motivo dell'"endorsement" a Pupo: ma insomma, sarà poi peggio di Paolo Bonolis? Quello del vecchio conio? Colui il quale esso lui che parla mezzo aulico e mezzo coatto, e per questo piace alle professoresse in pensione, che non capiscono che parla uguale a Renato Zero, il quale a sua volta, ahò, parla uguale a Stefano Ricucci (già, anche il marito di Anna Falchi è una vittima di Ground Zero, nel senso che fa di tutto per assomigliare a Renatino; in certe foto sembra un suo parente stretto, vedi l'effetto infallibile della "cuginanza" di Sergio Romano). No che non è peggio di Bonolis, Pupo. Oltretutto costerà un sessantaquattresimo di Bonolis. Quanto al gioco in sé, "Il malloppo" è una cretinata uguale agli altri giochi di quella fascia, dove invitano i poveri con il miraggio di arricchirli, e quindi facendoli passare per scemi quando si giocano il malloppo, così a casa tutti pensano di essere più intelligenti. Logico che poi "Avvenire" faccia critiche criticone. Ma uno normale guarda il programma solo per controllare la prestazione di Pupo. Perché ricordiamo tutti il momento magico in cui il cinico Gianni Boncompagni lo definì «la risposta italiana a Sting». Lui, Ghinazzi, l'ha ricordato nella prima puntata del gioco: è stato l'unico "sopra le righe" di una performance senza sbreghi.
L'Espresso, 18/08/2005
Come obbedisce bene: promuoviamolo
A proposito della designazione di Alfredo Meocci alla direzione della Rai, non si è sottolineato bene che il suddetto non ha mai diretto niente. Ora, nominare alla guida della massima agenzia culturale del paese un uomo che ha raggiunto più o meno il ruolo di caposervizio al tg, e che poi ha fatto carriera in organismi pubblici per linee interne, grazie alla sua fede dorotea e alla sua passione per Mariano Rumor, costituisce una delle più cospicue eccentricità del sistema italiano contemporaneo. Questo detto benevolmente. Ancora con benevolenza si aggiunga che c'è una norma per cui chi ha avuto posizioni in un'autorità di controllo, prima di quattro anni non può, dicesi non può, andare a fare il controllato. Se insigni giuristi, come il professor Malinconico di Udine, sostengono che Meocci può, dicesi può, ciò significa una sola cosa: che il prof. Malinconico ignora la differenza fra un caposervizio e un direttore generale. Nessuno eccepirebbe se il giornalista Meocci ritornasse al suo onesto desk al tg. Ciò che non si capisce è per quale ragione la maggioranza abbia voluto imporlo alla direzione della Rai. Su "Avvenire" i titoli hanno fatto balenare l'idea di uno scambio colossale e miserabile: "Alla Rai Petruccioli, a Mediaset la serie A". In questo schema, Meocci sarebbe un comma aggiuntivo: la scelta di una personalità minore dettata dalla certezza della sua malleabilità. Per gli strateghi del centrodestra Meocci è l'immagine del dirigente obbediente: promoveatur. (Come promoveatur "l'ing." Claudio Regis, detto "el Valvola", che ha fatto fuori dall'Enea il premio Nobel Carlo Rubbia, anche se il "Corriere della Sera" non ha capito dove e come si sia laureato, secondo un memorabile articolo di Gian Antonio Stella del 2 agosto). Ora, si sa che esiste la grazia di Stato, e che papi di transizione possono diventare papi d'epoca. Quindi a Meocci non è precluso a priori alcun obiettivo. Ma intanto viene da chiedersi quanto sia autolesionista il paese che ha bisogno di manager finti, che rispondono solo alla ragione politica. Verrebbe voglia di chiederlo ai grandi imprenditori che onorano l'Italia industriale, agli industriali che combattono la dura partita della concorrenza, ai commis che si sbattono nonostante tutto: qualcuno di loro designerebbe come amministratore delegato un impiegato? Montezemolo nominerebbe mai al posto di Jean Todt un giornalista di media qualità, o un consigliere comunale del Ccd? Diego Della Valle metterebbe al vertice delle Tod's un collaboratore del periodico diocesano "Verona fedele"? E il ministro Domenico Siniscalco sistemerebbe alla direzione del Tesoro uno dell'ufficio stampa? A proposito, sempre per toccare temi cari ai piani alti della Confindustria: la pagliacciata dell'asta sul calcio in chiaro, con i cento miserandi euro di offerta, è un successo del mercato o una mosconata della consociazione? E le dichiarazioni secondo cui l'asta è stata un successo perché la Rai ha conquistato la Coppa Italia, come andranno prese, come la certezza che i cittadini sono diventati talmente ottusi che ingoieranno anche questa? Sono naturalmente domande retoriche. Il punto è che quattro anni di Cdl sono stati sufficienti per corrodere il tessuto delle regole, non solo, delle convenzioni, delle formalità, del galateo. Ci sarà un motivo se il governatore della Banca d'Italia e membri della sua famiglia parlano in romanesco, o in ciociaro, con la compagnia del concerto. Ci saranno ragioni essenziali se la Banca centrale è diventata un pertugio in cui si entra "dal retro", con doppi sensi ed effetti comici degni del migliore Totò. Dice Arturo Parisi, suscitando un mezzo scandalo, che sta tornando la questione morale. Chissà. Sta prendendo il sopravvento su un'Italia mitridatizzata, un'Italia totalmente spregiudicata, che ha capito come trattare i veleni, che considera normale l'illegalità e manipolabili le norme secondo interesse. Insomma, una situazione manzoniana, si direbbe, fra gride e Azzeccagarbugli; ma prima di ricorrere ai "Promessi sposi", va messo a fuoco che il pettinatissimo presidente del Consiglio ha accampato una faringite per evitare di prendere una posizione su Fazio, con l'atteggiamento del "troncare e sopire" tipico del conte-zio, e che il vicepremier Tremonti ha salutato la relazione del collega Domenico Siniscalco sulla Banca d'Italia come "il ruggito di don Abbondio". Tanto per restare in ambito manzoniano, non resterebbe che aspettare una bella pioggia, che porti via la peste.
L'Espresso, 18/08/2005
Con il caldo c’è Totò
Per capire quando comincia l'estate vacanziera, non servono indagini sofisticate: basta accendere la tv nel pomeriggio, mentre parte l'abbiocco, e verificare se appaiono i titoli di testa del film di Camillo Mastrocinque "La banda degli onesti", con Totò e Peppino. Quest'anno è successo su Raiuno martedì 2 agosto, con otto giorni di anticipo sulle lacrime di San Lorenzo: nelle case i nonni hanno avvertito i bimbi, che hanno chiamato i genitori, che hanno spostato i divani davanti al teleschermo, e dopo qualche minuto tutti facevano i cori insieme al principe De Curtis che storpiava il cognome di Peppino: «Caro Lo Sturzo...». Lo Turco! Appunto. Dio solo sa come avviene la programmazione rituale di questo film. Secondo alcune leggende, pare che un consesso di programmisti Rai controlli il barometro, chieda conferma ai colonnelli delle previsioni, dopo di che un santone, un Meocci, un uomo sapiente viene interpellato e dà il responso. «Il momento è venuto». A quel punto si rivolgono generali ringraziamenti a Manitù (si sa che nello stesso momento nelle sale del "decision making" di Mediaset stanno per rispolverare la preziosa copia di "L'amante indiana", conservata in un sacrario controllato direttamente da Piersilvio). Vecchi film, vecchi doppiaggi, vecchi colori in cinemascope, vecchi bianchi e nero Ferrania. Si possono guardare dieci o 20 minuti e poi addormentarsi placidamente. D'altronde, di che dovremmo occuparci: delle placche in gola di Berlusconi? Del parere pro veritate del professor Malinconico sulla nominabilità di Meocci (Gesummaria, che malinconia)? Dei numeri telefonici della signora Fazio e delle intercettazioni di tutti quei simpaticoni? Della polemica fra Costanzo e Rondolino su "Walter e Giada"? Non scherziamo: accendiamo la tv e guardiamo "Le Olimpiadi dei mariti", con Tognazzi e Vianello, "La cambiale" con Totò e Peppino, "Nel segno di Venere" del maestro Dino Risi; ma anche "Un giorno per caso" con George Clooney e Michelle Pfeiffer. E, se si vuole esagerare, "L'insegnante va in collegio", con Edwige Fenech dell'infallibile Mariano Laurenti, regista di "Quel gran pezzo dell'Ubalda".
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