L’Espresso
L'Espresso, 11/08/2005
Fini inconfessabili
Se si trattasse di una questione di fisica teorica potrebbero chiamarlo il "paradosso Fini", e ci sarebbero equazioni complicate che descriverebbero un fenomeno semplicissimo quanto indecifrabile. Ma poiché invece si tratta di una questione politica, non ci sono spiegazioni attendibili. Non resta che prenderne atto, come si fa davanti ai grandi misteri: il presidente di Alleanza nazionale, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Gianfranco Fini sarà pure chiacchierato, discusso nelle analisi da bar, spettegolato dai suoi numeri due, le sue qualità politiche contestate; eppure la sua popolarità non ne risulta affatto scalfita. Il destino sembra avere una predilezione strana e singolare per il capo di An: Fini può sbagliare qualsiasi mossa, cannare ogni decisione, infilare errori virtualmente catastrofici, eppure c'è qualche divinità politica, un arcano potere come diceva Walter Matthau in "Prima pagina", che gli tiene una mano santa sul capo. Anche gli ultimi sondaggi infatti mostrano che Fini è l'uomo di governo che gode dell'indice di fiducia più alto, superando di dieci punti il cauto ministro degli Interni Beppe Pisanu e di 13 l'avvenente Stefania Prestigiacomo. Mistero misterioso, per l'appunto. Da quando ha sgarrato rispetto al codice culturale, ideologico e politico di An, annunciando i suoi "sì" al referendum sulla fecondazione assistita, è apparso sintomatico che Fini sta perseguendo un disegno tutto suo, che sembra prescindere largamente dal destino politico di Alleanza nazionale. A ricapitolare le mosse del leader, si deve prendere nota di una serie di choc che hanno squassato un partito tradizionalista come il suo. Ad esempio, il riconoscimento del fascismo autore delle leggi razziali come il male assoluto aveva agitato dolorosamente un partito ancora legatissimo alle proprie radici, quali che siano: eppure si è poi visto che tutti coloro che minacciavano sfracelli, a cominciare da Francesco Storace, e avevano promesso tempeste e burrasche, alla fine hanno prodotto brezze e zefiri. Ogni volta che il presidente di An ha alzato la voce, tutti i colonnelli del partito hanno prima annunciato pronunciamenti e "alzamientos" contro una leadership così personalistica da risultare fastidiosa anche per gente che ha il culto dell'autorità. Dopo di che, i presunti "rebeldes" si sono messi in posizione prona ad aspettare la volontà del capo, «fai di noi ciò che vuoi». Anche quando Fini ha offeso sanguinosamente i suoi numeri due, definendo le correnti «una metastasi», dopo la prima immediata e violenta ribellione essi si sono accontentati delle modeste ragioni elencate dal numero uno nella replica, evitando di approfondire un conflitto che sembrava insanabile. Evidentemente ci dev'essere nel partito un riflesso condizionato che viene dal Novecento, secondo cui "il capo ha sempre ragione". Altrimenti non si capisce come mai un esponente di spicco come Maurizio Gasparri, autore di una legge fondamentale sul sistema televisivo (fondamentale per questo governo, naturalmente) sia stato "ritirato" dal governo Berlusconi-bis, dopo una notte di tregenda e di intrighi, e con quale faccia si sia acconciato ad accettare la ghigliottina di Fini, cominciando subito il comizio per annunciare che la propria destituzione significava il rilancio dell'azione politica del partito. Non si comprende neppure come sia stata accettata la nomina di Giulio Tremonti a vicepremier, dopo che un anno fa Fini aveva chiesto e ottenuto la sua testa con l'accusa e arma "fine-di-mondo" di presentare conti truccati. Invece è facilmente comprensibile che il trio caffettiero dei convitati di Piazza di Pietra (Altero Matteoli, Ignazio La Russa, di nuovo Gasparri) si sia lasciato andare a indispettite chiacchiere da caffè sulla solidità fisica, psicologica e politica del loro presidente: è tipico dei regimi assoluti concedere ai subordinati il diritto alla mormorazione. Anche sotto il fascismo vigeva il "ius murmurandi", come succede alle dittature temperate dalle barzellette. L'importante è non farsi individuare da una spia dell'Ovra o, con maggiore senso dell'attualità, da uno stagista del "Tempo". Ciò che è meno comprensibile è la passività con cui i maggiorenti di An hanno accettato la vendetta-tremenda-vendetta di Fini, che li aveva subito minacciati con voce gelida, «vi farò sputare sangue, ve la farò pagare». Detto fatto: vertici di An annichiliti, cariche azzerate, deleghe ritirate con un gesto imperioso anche quando non erano mai state affidate. In qualsiasi altro partito un simile repulisti avrebbe provocato un'insurrezione. Dentro An ha suscitato una diceria di malumori semiclandestini. Qualcuno si è tolto di mezzo, come il "democristiano" Publio Fiori, suscitando commenti quasi togliattiani tipo «Publio se n'è andato e soli ci ha lassato». Il senatore e professore Domenico Fisichella continua nella sua incessante contestazione della linea politico-culturale del partito, che a suo giudizio è uscito dal solco delle ispirazioni originarie (Fisichella non ha mai potuto digerire la corrività politicante con cui la leadership di An ha accettato di sostenere un progetto costituzionale fondato sulla devolution leghista). L'unica spiegazione ragionevole del "paradosso Fini" è che il presidente di An è lanciato ormai in una corsa propria e personale che ha poco che fare con il suo partito. Ha sistemato, dicono, con un corso intensivo i suoi problemi con l'inglese; assapora le soddisfazioni flautate che gli sono state aperte dal legame con i costituenti europei, Valéry Giscard d'Estaing e Giuliano Amato; cura con attenzione pignola l'abbronzatura e l'acconciatura, coprendo con sapienza i diradamenti; al massimo gli sfugge qualche sconvenienza con le sigarette accese nervosamente in luoghi no smoking. Nella lotta per la successione a Silvio Berlusconi, si è posto ai blocchi di partenza di fianco al cattolicissimo Pier Ferdinando Casini, differenziandosi in chiave laica con la posizione inattesa assunta sui referendum. Ma Fini sa benissimo che come capo di An, nonostante tutte le svolte e le virate degli ultimi mesi, ha bassissime possibilità di ambire alla guida della Casa delle libertà ed eventualmente del governo. Come ha segnalato uno dei migliori esperti della destra italiana, il politologo Piero Ignazi, per uscire dal suo paradosso, l'eclettico Gianfranco ha bisogno «di una mossa del cavallo, di una iniziativa che scombussoli il panorama del centro-destra, che gli tolga definitivamente l'etichetta postfascista e postmissina», e quindi una subalternità implicita. Dato che non può cambiare lui, la sua cultura, i libri che ha letto e quelli che ha evitato, gli amici che ha frequentato e quelli che ha smesso di frequentare, la sola possibilità razionale sembra consistere nel cambiare il contenitore. Cioè fare confluire Alleanza nazionale dentro un soggetto nuovo, il partito nazionale dei moderati. Questo significherebbe il definitivo ridimensionamento della classe dirigente di An, che proviene quasi interamente dal Msi. Per preparare la gerarchia del partito al purgatorio futuro, Fini intanto l'ha spedita all'inferno. Dopo i pettegolezzi romani della Caffetteria, Alleanza nazionale assomiglia a un non-partito, con un leader "legibus solutus" e una classe dirigente fatta di carneadi. I nuovi ufficiali che hanno sostituito il "colonnellume" (definizione del ministro delle comunicazioni Mario Landolfi) non sembrano impersonare una struttura di comando plausibile. I muscolari Marco Martinelli e Roberto Menia (nel cui sito Internet figura la confessione: «Amo i gatti e non dimenticherò mai il mio gatto nero, Lucifero, che non c'è più») non sembrano proporsi per un futuro politico importante; i più "politici" Andrea Ronchi e Donato Lamorte sono ottime terze file. Tutti insieme testimoniano di una condizione emergenziale, che a un certo punto dovrà sciogliersi. Perché sciogliendosi il dilemma di An si scioglierà anche il paradosso di Fini. Un leader cinquantenne, che ha davanti a sé un po' di tempo, ma non tantissimo (un giro di giostra, non di più); diverse opportunità, ma molte di queste chiuse da Casini. E sinora Fini ha dimostrato di saper agire con perfetto cinismo politico dentro An; adesso si tratterebbe di vedere se il poliedrico Gianfranco è capace di lavorare "contro" il suo partito: malgrado il suo pragmatismo radicale, non è detto che a cinquantatré anni, per reinventare se stesso, Fini sia capace di buttare a mare la propria storia, il proprio passato, il proprio partito. Certo, se ce la facesse, l'Italia avrebbe inopinatamente guadagnato un leader.
L'Espresso, 04/08/2005
vasco in molliche
Domenica 17 luglio, alle 22.50, è andato in onda uno "Speciale Tg1" di Vincenzo Mollica, intitolato "Vasco, il provocautore". Mamma, i titoli della Rai, come dice Aldo Grasso. I milioni di fan del Blasco si saranno passati voce. Sarà tale la voglia di Vasco da suscitare amore anche per il Mollicone (quasi tutti pensano che Vincenzone sia il maestro delle interviste al miele e molti non sopportano l'eccesso di zibibbo e giulebbe: in realtà la soavità di Mollica è l'indizio di una cattiveria al cubo, perché con le sue domande da idolatra induce gli intervistati a esporsi in modo pericolosissimo, correndo così rischi mortali. Se fa apposta è talento; se gli viene naturale è una carogna dentro). Comunque, lo speciale era prezioso perché ha permesso di vedere uno dei rari ritratti di Vasco Rossi visibili in tv, e di ascoltare le sue canzoni e la sua filosofia. Da tempo, alcuni gruppi di studio sono al lavoro per cercare di capire le ragioni dello straordinario, forse mostruoso successo del rocker di Zocca: finora non si ha notizia di risultati. Certi critici severissimi di Vasco sostengono che le musiche sono banalotte, e i pezzi migliori tanto per saperlo glieli ha sempre scritti Tullio Ferro, ex chitarrista dei Luti Chroma; quanto alle "lyrics", c'è chi dice sì e c'è chi dice no: i soliti bastardi dicono no. Se poi ci mettiamo anche i video, sempre i carognoni sostengono che l'ultimo video di Vasco, "E..." (in cui un cinquantenne sovrappeso sta sulla spiaggia a contemplare un pulzellina, e nel frattempo scrive su un blocnotes ciò che il cuore gli detta), è una cosa tanto provinciale da fare venire il singulto. Ma ad ascoltarlo quando parla qualcosa si capisce. Vasco è quasi simpatico. Dice frasi un po' disordinate, il cui senso non è sempre chiarissimo, «capìtto?». Sostiene di stare «dalla parte dei vinti, di quelli che hanno avuto una cattiva giornata», cioè degli ultimi, e detto da uno che è sempre primo in classifica fa un certo effetto, come Bruce Springsteen che fa canzoni sugli sfigati d'America, lui trionfatore e star mondiale, per cui i poveri dovrebbero fargli causa per i diritti d'autore. Molto divertente quando parla dei suoi figli (Vasco ha un figlio figlio e due figli naturali, riconosciuti perché sotto sotto è uno che si prende le responsabilità, tanto chi se ne frega). Insomma, Mollica adora, Vasco dice, la musica funziona. Fatecene vedere un altro.
L'Espresso, 28/07/2005
Il Sudoku di Viale Mazzini
Approvata la legge Gasparri, si era capito subito che le nuove procedure per la nomina del consiglio d'amministrazione della Rai avrebbero determinato dilemmi politicamente insolubili. Con l'obiettivo apparente di garantire la maggioranza politica e di assicurare la rappresentanza dell'opposizione, nonché con la necessità di un accordo trasversale fra i poli per l'elezione del presidente, si erano costituite tutte le condizioni per la paralisi. Che è avvenuta puntualmente, in un modo che supera di gran lunga il grottesco. Ma non basta, perché le premesse dichiarate si sono capovolte in conseguenze catastrofiche: vale a dire che l'intento di dare alla Rai un assetto ispirato all'equilibratura politica è diventato nei risultati una super-politicizzazione dell'emittente pubblica. Un capolavoro a rovescio, insomma. Ai tempi della prima Repubblica, se non altro la lottizzazione implicava il pluralismo. Le spartizioni imposte dalla proporzionale e dai rapporti di forza tra i partiti moltiplicavano posti, direzioni, ruoli, ma producevano di fatto una varietà di posizioni che rendevano la Rai un'immagine speculare esatta del sistema politico. Come disse Bettino Craxi, il centralino della Rai ha il numero 643111 (sei posti ai dc, quattro ai comunisti, tre ai socialisti e uno a testa ai laici minori). Che il sistema fosse distorto è del tutto fuori discussione. Ma il nuovo metodo somma ai guasti della lottizzazione la gabbia ferrea del modello bipolare. Adesso la spartizione avviene due volte, a destra e a sinistra. E alla fine di questo infernale Sudoku si aggiunge il patteggiamento estremo, ossia l'elezione di un presidente che funga da quadratura del cerchio. Il risultato è sotto gli occhi del mondo. C'è una Rai blindata politicamente. Detto senza moralismi antipolitici, il servizio pubblico, fintanto che si accetta questa dizione, dovrebbe avere un consiglio di amministrazione in grado, per prestigio e autorevolezza, di orientare scelte e programmi in modo equilibrato e culturalmente plausibile. Ma sono soltanto parole. Nella realtà dei fatti la Rai è considerata con ogni evidenza lo strumento fondamentale per gestire la campagna elettorale di qui al 2006. Ciò significa che quella che è stata la massima agenzia culturale del paese è diventata zona di occupazione. L'elezione del presidente, una tragicommedia, che ha avvilito figure come quella di Claudio Petruccioli, ha strumentalizzato candidature come quella di Andrea Monorchio e Giulio Malgara, innescando a giorni alterni le dicerie sul consigliere anziano più anziano degli altri, ossia il possibile facente funzione del presidente, al posto del sinistro Sandro Curzi. L'ex presidente della commissione di Vigilanza e oggi ministro delle Comunicazioni, Mario Landolfi, ha ipotizzato modifiche alla legge per evitare impasse di questo tipo. Ma toccare un solo tassello del problema Rai significa interferire con un processo che coinvolge la privatizzazione, l'assetto del duopolio, il mercato pubblicitario, la dosatura dell'informazione, gli interessi politici e clientelari più vari. Si rischia di mettere in discussione tutto. Il centro-sinistra non è esente da responsabilità, nel senso che è sceso malamente sul terreno del negoziato politico; adesso tanto vale aspettare, e pensare a una soluzione decorosa da infilare in un programma di governo.
L'Espresso, 28/07/2005
tappabuchi MAGAZINE
Dal 18 luglio va in onda alle 13.30 la rubrica quotidiana "Mistrà". Mezz'ora di attualità e intrattenimento dopo il Tg2. E chi se ne frega, diranno le eccellenze vostre. Peggio per voi. Perché è vero che "Mistrà" è il classico programma tappabuchi fatto da una Rai che è una voragine; ma è anche vero che è un programma curato da Michele Bovi. Per i più informati non è necessario aggiungere che Bovi fu il sassofonista delle Pecore nere, storico "complesso" che scalò la top ten della Grecia; ma per tutti gli altri bisogna specificare che è anche il più formidabile archeologo dell'intrattenimento popolare, con master sulla musica leggera e laurea honoris causa in canzoni e cantanti. In più va aggiunto che Bovi è il pifferaio di una moltitudine di figure singolari, a cominciare da Pasquale Panella (che per colti e incolti è l'ultimo autore delle liriche di Lucio Battisti, cioè di quella quarantina di canzoni che non si ascoltano mai e in cui giacciono una quindicina di capolavori colpevolmente ignorati). Grazie alle sue amicizie, al rispetto per vecchie glorie della musica popolare, per un interesse così accanito da risultare sempre rivelatore, Bovi riesce sempre a scovare un inedito, una preziosità, una reliquia. Volete un clone per l'appunto di Battisti? Eccovi servito Roberto Pambianchi, uno che vi farà venire i brividi, e che difatti fa cento serate l'anno con il pubblico che quando lo sente ammutolisce e piange. Volete un bianco e nero dell'annata 1957 con Sergio Endrigo che canta "Come prima" con un gruppo di jazzisti, insieme a Riccardo Rauchi, in una versione piena di ironia e swing? Ma eccolo lì, imperdibile (e Rauchi, quando lo riscopriranno?). Poi metteteci un filmato mai visto con un Claudio Baglioni ganzo, capelluto e naturalmente tutto biancovestito, che canta "Tu come stai" in francese, o Francesco De Gregori impegnato in una canzone scritta per Patty Pravo, Bobby Solo che insegna come si fanno i gargarismi contro il mal di gola, e il programma è fatto. Ci sono le cinque migliori canzoni e i cinque migliori film. C'è Gene Gnocchi che recita i "lanci poetici" dell'ermetico incendiario Panella. In verità ci si chiede a che cosa servano i "servizi". Vabbè che "Mistrà" è un magazine, e dicono che nei magazine un po' di attualità (le liti nel condominio, il sushi) ci vuole. Ma in attesa di Baglioni e di De Gregori il sushi fa venire il flusso: gusti personali, s'intende.
L'Espresso, 21/07/2005
Le primarie a doppio taglio
Le elezioni primarie dovevano essere una cerimonia per incoronare un leader, Romano Prodi, che non ha alle spalle una forza politica: il "suo" partito, la Margherita, si è via via caratterizzato come una forza post o neodemocristiana; la lista unitaria è stata abbattuta dagli attacchi di Francesco Rutelli; la pace instauratasi in seguito ha consegnato Prodi a un ruolo di sintesi, lasciandolo tuttavia privo di qualsiasi strumento politico. Anche le primarie, che nessuno voleva tranne i prodiani più integrali, fanno parte dello scambio intervenuto per salvare il salvabile, dopo un conflitto interno che avrebbe anche potuto portare l'Unione alla condizione dell'impresentabilità politica. Si è trattato insomma di una soluzione che ha sostituito un disastro con un problema. Resta però da vedere qual è la posta in gioco l'8 e 9 ottobre prossimi. Si sa che i dubbi sulla leadership del Professore sono largamente accademici, nel senso che malgrado tutte le idee più inventive non si è mai trovato un sostituto in grado di fungere da punto di equilibrio nell'arco del centrosinistra, fra laici e cattolici, riformisti e comunisti, moderati e oltranzisti. Quindi la prova delle primarie non dovrà essere la dimostrazione della forza, dell'autorevolezza e della popolarità di Prodi. Sarà qualcosa di molto più insidioso: vale a dire una specie di giudizio di Dio, o meglio del popolo, sull'esistenza dell'Unione. Scartiamo a priori la possibilità di un fallimento di Prodi. Se "Romano" otterrà un risultato scadente, se Fausto Bertinotti lo insidierà troppo da vicino, non sarà il Professore a cadere. Il senzapartito Prodi al massimo è in grado di spostare correnti di opinione pubblica. Non controlla apparati, non ha dietro di sé truppe cammellate. Di conseguenza nell'ottobre prossimo verrà messa ai voti prima di tutto la consistenza del centrosinistra come entità politica. Saranno capaci i partiti di organizzare una consultazione popolare significativa? Di portare i loro simpatizzanti, militanti e quadri nei seggi elettorali? Di tenere vivo il confronto fra i candidati? Sono domande impegnative, e non ci sono risposte precostituite. In una competizione/consultazione tutta inedita come quella a cui assisteremo, le forze del centrosinistra dovranno impegnarsi nella realtà viva della società italiana per confermare una leadership già scelta. Ora, quando si dà la parola al popolo bisogna farlo seriamente. E prendere sul serio ciò che il popolo dirà. La credibilità dell'Unione verrà misurata anzitutto dalla qualità organizzativa che verrà mostrata nell'occasione. Subito dopo, naturalmente, dal tasso di partecipazione dei cittadini. Infine, dal risultato che Prodi otterrà, e da quello dei suoi competitori. L'incertezza è altissima, e gli oppositori più fondamentalisti delle primarie sono ancora convinti che alla fine non se ne farà nulla, che un incidente provvidenziale toglierà di mezzo questo inciampo bizzarro. Ma se invece, come sembra, le primarie si faranno, occorrerà che il centrosinistra le faccia riuscire. Perché se le primarie riescono vorrà dire finalmente che l'Unione non è soltanto uno stato d'animo, una condizione mentale modellata esclusivamente dall'antiberlusconismo. Significherà insomma, o significherebbe, che una parvenza di realtà c'è ancora, nell'Italia del reality postpolitico. Come si vede, la proposizione è ipotetica. Ed è superfluo specificare che i pericoli sono superiori alla opportunità, dato che da troppo tempo il centrosinistra è occupato in esegesi sofisticate sulla propria esistenza per essere in grado di mettere in moto il proprio elettorato. Mancano meno di tre mesi, ci sono di mezzo le vacanze d'agosto, la macchina organizzativa è allo stato fluido. Eppure a questo punto non è consentito sbagliare le primarie. Con una conseguenza imprevedibile, e per certi versi anche paradossale: se il popolo andrà alle urne, vorrà dire che l'Italia di centrosinistra è non uno soltanto, ma diversi passi avanti rispetto ai partiti. Insomma, partiti e uomini di partito devono impegnarsi per dimostrare di essere rimasti indietro rispetto all'opinione pubblica. Complicato. Ma le alternative potrebbero essere tutte peggiori della complicazione.
L'Espresso, 21/07/2005
Buona domenica per caso
La domenica su Raitre, alle 11.30 (ma poi anche tutti i giorni su Rai Utile e Ray Family), va in onda "Un giorno per caso...", un classico programma di tv positiva. Per tutti noi assuefatti ai reality show, al cinismo quotidiano della televisione pessima, ai freak della normale programmazione per teledementi, è un antidoto, come ha detto il direttore di rete Paolo Ruffini. Un medicinale. Quindi usare con cautela. Se compaiono sintomi, rivolgersi alla dott.ssa De Filippi. Sono infatti storie esemplari, realizzate da Simonetta Tugnoli Frabboni e Claudia Amico: famiglie con decine di ragazzi in affido, come nel caso di Germana e Paolo Brizzolari, che in una casa di Cavriana, vicino a Mantova, hanno messo insieme una famiglia di 36 "figli". E poi vicende di ragazze madri, bambini disabili, preti di strada, carceri minorili. Uno spirito perfidino direbbe che è un programma utile per rovinare agli italiani il pranzo domenicale. Viene da piangere, a vedere queste storie, nel senso che ci si commuove, perché il destino dei cinici è quello di essere vaccinati davanti a ogni cinismo (per cui si riesce serenamente a sopportare una puntata di "Music Farm" o di "Cronache marziane"), ma poi si risulta scoperti non appena appare un bimbo con una gamba amputata o una signora bolognese che dal 1959 accoglie ragazze in difficoltà. Ottima l'idea di fare raccontare ogni puntata a un conduttore "per caso", facendo collidere la vita di un/a ragazzo/a della nostra ordinaria società consumista con la sobrietà durissima della vita di comunità. Nella puntata sui 36 figli della famiglia Brizzolari, la conduttrice per caso era Celeste Breschi, bolognese giovanissima e pienotta, che parlava con il classico accento televisivo delle under 20 di oggi (e quindi anche la conduttrice deteneva un contenuto sociologico rilevabile, nel senso che "allora è vero che i ragazzi parlano proprio così"). Meno buono alla lunga il dibattito finale, molto cattoqualcosa, dove ragazze con il piercing e post-adolescenti con la convenzionale faccia da studenti che non studiano si misuravano con l'incommensurabile della solidarietà. Tutti scossi, ma sotto sotto rassicurati dal fatto che al dibattito equo e solidale si dedica una mezz'ora, e poi si ritorna alla nostra cinica vita comune (perché, al contrario di Karl Marx delle Tesi su Feuerbach, noi vogliamo interpretare il mondo, non cambiarlo, siamo mica matti).
L'Espresso, 14/07/2005
Solo all’Auditel non piacciono le quaglie
Sarà che il mondo è guasto, il gusto è corrotto, Dio e Marx sono morti; il fatto è che la puntata in prima serata di "Dove osano le quaglie" (Raitre, giovedì 23 giugno) ha fatto poco più del 6 per cento. Bidonati dunque tutti quelli che pretendono la televisione di qualità, perché Antonello Dose e Marco Presta fanno tv pregiata. Eccoci serviti. Bisognerà ricominciare a distinguere fra intrattenimento di qualità e risultati di nicchia, altrimenti i buoni verranno sempre sconfitti dai cattivi. Comunque, anche se al 93 abbondante per cento dell'Auditel ciò non interessa evidentemente un tubo, la puntata delle "Quaglie" assaggiata nell'occasione era ottima, con punte di eccellenza. Non si può nemmeno attribuire al duo Dose & Presta qualche difetto in più di quelli che hanno: uno dei due pronuncia romanamente "telecàmmera", entrambi fanno le smorfie, sfoggiano antipatia, parlano spessissimo della Rai, con battute su corridoi e dirigenti della Rai (ignari che al resto d'Italia della Rai e dei suoi dirigenti e autori e funzionari e sicofanti non importa niente). Ma intanto hanno presentato un numero di Neri Marcorè da lasciare sbalorditi, tanto l'ex imitatore di Maurizio Gasparri è diventato bravo (il numero era una serie di "entrate" a tema: l'entrata del calciatore nevrotizzato, chewing gum masticato autisticamente e ossessione per i capelli; l'entrata dell'attore dopo un successo straordinario, tutto merito suo; l'entrata dell'attore dopo un flop spaventoso, tutta colpa degli altri, segnalata con occhiate di sbieco che rivelano di chi sia la vera responsabilità...). Imperdibile anche uno sketch fra due carrozzai, interpretati sempre da Dose e Presta, impegnati a martellare opportunamente due sportelli d'auto, che telefonano agli amici per farsi togliere le rispettive multe: uno dei due telefona a un tale Joseph, «vabbé, Benedetto...», per farsi levare la contravvenzione per divieto di sosta in via della Conciliazione. «Ah peccato, per un metro non è in zona tua, ho capito, pazienza, amen». E allora? Allora bisognerà che Dose e Presta si impegnino di più. Restare aggrappati al 6 per cento confermerebbe un fraintendimento. Scendano al 5, al 4, al niente, al sottozero, facciano cultura. Solo allora potremo difenderli. Adesso si limitano a essere divertenti con intelligenza. O eliminano l'intelligenza oppure liquidano il divertimento. Che escano dall'equivoco, finalmente.
L'Espresso, 07/07/2005
Che strambate con il Timoniere Massimo
Non c'è dubbio che imbarcando il barcaiolo Massimo D'Alema a commentare le regate preparatorie della Coppa America a Valencia, La7 ha fatto un colpo mediatico di classe. Figurarsi, il presidente dei Democratici di sinistra, non un politico qualunque. E poi un velista di quelli formidabili: quando il compagno Massimo torna dalle vacanze estive e batte le feste dell'Unità, espone un'abbronzatura di quelle da vero lupo di mare. Sole, salsedine, acqua, vento, un volto invidiabilmente marinaro conciato dagli elementi. Quindi c'era una certa attesa di vederlo insieme con Paolo Cecinelli e lo specialista di vela Luca Bontempelli. Non tanto perché importi niente a nessuno della vela guardata in televisione, delle strambate, del boma, del tangone, dello spinnaker e compagnia bella (ciò che gli italiani medi sanno della vela lo hanno imparato soprattutto da Teo Teocoli nella storica imitazione di Cino Ricci). La curiosità principale riguardava invece proprio l'homo televisivus D'Alema e la sua qualità di commentatore. Con un retropensiero un tantino preoccupato, perché l'eventuale successo di D'Alema poteva essere l'avvio di un'invasione politica nelle cronache sportive. Immaginare Gianfranco Fini che commenta un derby all'Olimpico per Sky, o Walter Veltroni che annota tecnicamente un match della Juventus è a priori inquietante. Noi siamo di quelli che prediligono la tecnica: lo sport è una disciplina fatta di regole, abilità, competenze, gesti specialistici, doti peculiari. Ogni volta che i cronisti di calcio esclamano "incredibile!", e succede ogni tre minuti, ci viene voglia di fracassare il televisore, perché nulla è incredibile, tutto è capacità tecniche, anche quando sembrano o sono invenzioni. Detto questo, D'Alema se l'è cavata. «Al netto», come direbbe lui del solito sussiego, e della tentazione sempre visibile di spiegare a uno skipper come si fa lo skipper, l'uomo di mare Massimo ha dato un contributo qualificato. Però, amici della Sette, non inflazionate. Non inflazionate D'Alema e non inflazionate i politici nello sport e in altri settori dell'intrattenimento. Una buona idea è buona finché non viene logorata dalla ripetizione. Prossimamente il lupo di mare D'Alema dovrà affrontare mari e marosi pericolosi. Lasciamolo quindi alla politica: perché può darsi che alla fine di molte strambate si arrivi davvero all'ultima spiaggia, e ci vogliono skipper con il tangone in regola.
L'Espresso, 30/06/2005
Romano si è fermato a Bruxelles
Quante divisioni ha Prodi? La vecchia e irridente boutade di Stalin sul papa circola con insistenza dentro la Margherita. Perché è vero che Francesco Rutelli è risultato il vincitore quasi totale dell'ultima ordalia dentro il centro-sinistra. Ma si può lasciare incompiuto il lavoro? Rutelli aveva due obiettivi: primo, bloccare il processo di integrazione riformista, la lista unitaria, la Federazione, e mantenere in vita il suo partito come un'entità autonoma e distinta; secondo, silurare la linea politica di Prodi. Se occorreva, se le circostanze lo richiedevano, se c'era l'opportunità, affondare lo stesso Prodi. Non per cattiveria. Semplicemente per convenienza politica. Per un interesse di parte. Se Prodi è la lista unitaria, per la Margherita rutelliana Prodi è il nemico. Sta di fatto che l'assemblea della Margherita in cui era avvenuto il regicidio era stata un colpo di alta teatralità. La cicoria di Rutelli. Un'istrionica performance di Franco Marini, grande attore marsicano. Le strategie di De Mita anagrammi inclusi, "si scrive Ciriaco e si legge Cicoria". La sapienza neodemocristiana dei dirigenti della Margherita si era manifestata con abilità spettacolare nella capacità di affondare la linea politica di Prodi mentre si spergiurava sulla sua leadership. La lista unitaria? Una fissazione, un dettaglio da liquidare. Romano? Diamine, il nostro leader, che nessuno discute. Subito dopo, le convinzioni dei prodiani, da Arturo Parisi a Willer Bordon, da Giulio Santagata al povero Papini maltrattato da De Mita come esempio di prodismo inconsistente, erano state ridotte al rango di ubbie fastidiose. Nel giro di poche ore la stupefacente vittoria alle elezioni regionali era stata sacrificata sull'altare del sacro egoismo di partito. Sublime esempio di autolesionismo? Oppure calcolo cinico da portare in perfetta consapevolezza alle conseguenze estreme, cioè alla liquidazione in saldo della leadership prodiana? Impossibile certificarlo. Di certo, se un partito come la Margherita si incarica del tiro al listone, cioè del maggiore investimento politico di Prodi e dei prodiani, vuol dire che il partito di Rutelli è disposto anche a un sacrificio del re, indifferente all'idea che ciò possa provocare il rovesciamento della scacchiera. Ancora il 26 maggio, all'uscita dall'assemblea generale della Confindustria, Prodi era convinto che i giochi fossero ancora tutti aperti, e soprattutto che Piero Fassino e i Ds lo avrebbero seguito senza esitazioni. Soprattutto che fosse ancora praticabile la strada della "coalizione dei volonterosi", un listino, un Ulivetto, un residuo sufficiente a tenere in vita la prospettiva unitaria e ad assicurargli una base politica. Un passo indietro: Prodi era tornato da Bruxelles atteso come il patrono tutelare del centrosinistra. Aveva dissolto manovre e manovrine, ombre e spettri partitici o neocentristi agitando lo strumento delle primarie. Il successo delle elezioni regionali lo aveva indotto a considerare compiuta la prima fase del lavoro e a rinunciare all'idea dell'investitura dal basso. Ritrovarsi poche settimane dopo nella condizione di problema politico del centrosinistra risultava sbalorditivo, addirittura straniante. Forse in quel momento sfuggiva a Prodi che il colpo di Rutelli, bissato in un secondo tempo con le dichiarazioni finali per l'astensione al referendum sulla fecondazione assistita, costituiva un uppercut micidiale per la sua posizione. Il Professore era tornato in Italia dopo gli anni alla Commissione europea sulla scia di un "heri dicebamus", cioè per riprendere il filo, spezzatosi nella crisi dell'ottobre 1998, di una iniziativa politica sintetizzabile in tre punti: completare razionalmente lo schema bipolare; sviluppare un'esperienza riformista capace di integrare laici e cattolici, superando steccati storici; predisporre le condizioni di un'esperienza di governo esente dai ricatti e dalle defezioni dei partiti dell'alleanza. Tutto questo si è dissolto come una bolla di sapone. Non appena la prospettiva unitaria è stata abbattuta dal fuoco amico, si è capito che la parola tornava ai partiti. Ossia che il centrosinistra esiste nella realtà dei fatti soltanto in quanto alleanza negoziale tra le numerose forze e debolezze politiche della cosiddetta Unione. E che il progetto riformista diventa un'ipotesi esclusivamente teorica e proiettata in un futuro indecifrabile. Di fronte a questa situazione, Prodi aveva alcune soluzioni disponibili. Bombardare il quartier generale, cioè esercitare il ruolo del capo rivoluzionario, che non cede ai compromessi e accetta l'azzardo di sconvolgere il proprio campo. In pratica, assecondare la rottura all'interno della Margherita, "firmare" la scissione dei prodiani, sfidare la certezza della propria caduta in quanto leader dell'Unione e contemplare sovranamente le rovine. Bagno di sangue e attesa della catarsi. In alternativa, il Professore poteva cercare una nuova dura trattativa, trovare una difficile mediazione, in ogni caso fare tutto il possibile, e anche oltre il possibile, per tenere in vita il progetto ulivista: continuare quindi a interpretare se stesso come il portatore di una iniziativa politica unitaria individuando un punto di equilibrio fra Ds e Margherita, fra Rutelli e Fassino. L'esito è stato completamente diverso, al punto da lasciare interdetti anche i più fedeli seguaci di "Romano". Si può rinunciare improvvisamente a una linea politica dopo avere minacciato la guerra, su quella linea? Che cosa ne sarà, dei prodiani? E che cosa rischia, Prodi stesso? Certo, sul momento né la Margherita né i Ds potevano permettersi il lusso di rinunciare a lui e al suo ruolo di sintesi fra culture politiche separate. Così è stato steso un complesso concordato, fondato su uno scambio molto ineguale. Le primarie a Prodi, come momento di reinvestitura politica. L'Ulivo, nello sgabuzzino. E il potere, naturalmente, ai partiti. Il tutto tenuto insieme con un patto di legislatura sul candidato premier che uscirà dalle primarie. Sempre che alle primarie fissate per ottobre si arrivi davvero, dato che non sfugge a nessuno il carattere esclusivamente simbolico di questa soluzione: un confronto fra il Professore e antagonisti come Bertinotti, Pecoraro Scanio, Di Pietro, eventualmente Mastella, forse addirittura il Pannella schifato dal centrodestra astensionista, senza un confronto fra programmi di governo alternativi, assomiglia più a un espediente che a una battaglia vera e legittimante. Chissà, è un espediente che può anche funzionare. Ma in questa vicenda Prodi ha perso metà della propria dote politica. Nel senso che gli è stata sottratta, con studiato e lieve cinismo, la leadership della coalizione. Gli è rimasta la candidatura a premier, in quanto figura di fatto extrapolitica indicata da alcuni partiti dell'Unione. Ci vuole molto a capire che si tratta di una condizione debole? Di qui a ottobre ogni giorno può portare una tensione, un contraccolpo, una crisi. Incombe sul paese il rischio del grippaggio dei conti pubblici, con la necessità di una finanziaria monstre e di conseguenza la tentazione di un governo di garanzia nazionale, prospettiva che scompaginerebbe tutti i giochi. E non è finita: non appena Prodi «dominerà» le primarie, come ha predetto Fassino, nella Casa delle libertà si aprirà la discussione sul candidato da opporgli. Con la tentazione di sostituire il cavallo azzoppato Berlusconi operando un salto generazionale e politico, privando così il centro- sinistra della sua arma più potente, l'antiberlusconismo. Di fronte a questo percorso a ostacoli, a Prodi rimangono soltanto le sue qualità personali e quelle guadagnate sul campo: il prestigio ancora vivo in quei settori dell'opinione pubblica che rimpiangono la carica politica dell'Ulivo, il simbolo della vittoria del 1996; il consenso di pezzi di establishment che hanno sempre apprezzato il Prodi uomo di governo, mentre guardavano con insofferenza crescente l'uomo delle lambiccate strategie pensate con l'ideologo ulivista Parisi. E infine la sua cocciutaggine, la capacità di incassare la testa nelle spalle e di tirare avanti. Sempre che la fatica improba di costruire un centro-sinistra che non si lascia costruire non stanchi alla fine anche il candidato Prodi.
L'Espresso, 30/06/2005
Frizzante come una Gigliola
Dopo il successo bipartisan ottenuto da Gigliola Cinquetti a "Pronto Elisir" (Raitre, prima serata la domenica), con la destra e la sinistra solidali nel giudizio favorevole, viene anche da chiedersi per quale motivo l'ex cantante veronese, ottima intrattenitrice, misurata conduttrice, capace di miscelare serietà e spettacolo, fosse più o meno scomparsa dalle tv nazionali. In realtà, i frequentatori del satellite sapevano benissimo che la Cinquetti era rintracciabile in qualche programma di RaiSat Extra, grazie all'intuito giornalistico di Marco Giudici: l'ultimo è "Sliding Doors", uno schema di interviste incrociate che ha ottenuto il premio degli autori televisivi a Saint Vincent (imperdibile la puntata con Ezio Mauro e Ettore Bernabei, passato e presente, laicità moderna e democristianeria vecchio stile). Per dirla tutta, non deve avere giovato alla Cinquetti, in questi tempi di ordinaria ferocia e maleducazione, la sua storica e dichiarata simpatia politica per il centrosinistra e in particolare per la componente prodiana. Bella donna dotata di una cultura non ovvia, oltretutto vicina alle pericolose sinistre, l'evidentemente insidiosa Gigliola nazionale era stata confinata in programmi di nicchia, quelli dove l'alone vagamente "comunista" ed eversivo che ne circonda il profilo non poteva fare troppi danni. Però, che grande Italia, che magnifico regime, che stupefacente sapienza persuasiva e propagandistica: un sistema che apre e chiude la carriera politica a Ombretta Colli (con tutto il rispetto per la cantante della battiatiana "Cocco fresco, cocco bello") e inibisce la carriera televisiva alla Cinquetti (con tutto il rispetto per la virtuale leader ulivista) ha già detto tutto di sé. Dunque il ritorno di Gigliola in una diretta, con il mitologico dottor Carlo Gargiulo, in cui si parla con levità di abbronzature e con decenza di depressione, è da salutare con una percezione straniante di sollievo. Quaranta minuti domenicali di buon senso. E di domande secche, senza chiacchiericcio, premiate da un ottimo livello di ascolti. Con una conduzione "frizzantina", come l'ha definita un ascoltatore: sicché l'eterna ragazza Cinquetti, ottima padrona di casa tv, riesce a invecchiare senza passaggi in barrique, mantenendo il brio di un Cartizze appena stappato, fresco al punto giusto, insomma un elisir che è, per l'appunto tutta salute. Prosit.
L'Espresso, 23/06/2005
Benvenuti nel passato
Quando le cose vanno male, la prima tentazione è quella resa celebre da Bertolt Brecht: se il popolo non condivide la linea del Partito comunista, si chiedono le dimissioni del popolo. Ma dopo la catastrofe del referendum sulla fecondazione assistita, sarebbe vano prendersela con l'Italia eterna e neghittosa, incapace di avvertire il fascino e di rispondere all'appello delle minoranze virtuose. È vero che con il risultato del 12-13 giugno viene seppellito l'istituto del referendum abrogativo, almeno come strumento istituzionale per forzare situazioni politiche altrimenti non scardinabili. Ed è anche vero che ha vinto un'Italia inerziale, da tempo insofferente delle mobilitazioni, indifferente, anche perché fisiologicamente vecchia, ai temi inerenti alla sfera della maternità e delle paternità. Ma questo dovrebbe anche indurre i promotori dei quattro referendum a una seria analisi sulla loro capacità di ascolto della società italiana. Che evidentemente non è composta di avanguardie metropolitane, ma è fatta anche dalla provincia profonda; e che non reagisce con la rapidità un po' nevrotica e la vitalità effervescente degli abitanti delle città. Dunque, anziché gli esorcismi contro gli italiani brutti sporchi e cattivi, o contro i "nuovi indifferenti" che il berlusconismo ha fatto precipitare nel torpore civico, conviene prendere molto sul serio le ragioni di chi si è astenuto, e nello stesso tempo sarebbe utile riflettere anche sugli escamotage propagandistici con cui si è tentato di curvare il referendum in una specie di plebiscito sulla scienza e la modernità. Molti, come chi scrive, hanno votato quattro sì, sulla scia di un ragionamento il più possibile laico e liberale, con l'intenzione di colpire una legge irrigidita nelle proprie procedure, che sul fronte opposto la gerarchia cattolica considera una specie di male minore, una difficoltà in più frapposta ai bambini in provetta, e non il meglio possibile, dal momento che in linea di principio la Chiesa cattolica rifiuta tanto la fecondazione eterologa quanto la fecondazione omologa. Tuttavia c'era da restare infastiditi dalla mondanità con cui le argomentazioni contro la legge 40 sono state presentate pubblicamente, e dalle forzature propagandistiche con cui un voto sulla fecondazione artificiale è stato presentato come un pronunciamento sulla scientificità del mondo contemporaneo e soprattutto sulla prospettiva di aprire vie nuove alla cura delle malattie più temibili dell'età corrente: diabete, Alzheimer, Parkinson (e il cancro, che fine ha fatto? Non è più una malattia "sociale"? Non è curabile con le staminali dell'embrione?). Dopo di che, si tratterà di vedere quali saranno le conseguenze politiche di questo referendum disgraziato. Si dà il caso infatti che il quorum mancato attragga una quantità di vincitori, compreso l'ammiccante Silvio Berlusconi, che si è ben guardato dall'assumere qualsiasi orientamento esplicito e pubblico, ma lasciando capire che non era il caso che i referendari contassero su di lui. Ma il più vincitore di tutti è naturalmente chi ha gettato nell'arena caotica del centrosinistra la propria scelta astensionista. Cioè Francesco Rutelli, che prima ha liquidato la lista unitaria dell'Ulivo, mettendo di fatto in discussione la leadership di Romano Prodi, e poi ha scavato un solco profondo fra la Margherita e il resto dell'Unione. Si è trattato di un colpo doppio che ha spazzato via dall'orizzonte della politica italiana la prospettiva del "partito riformista", nonché la chance della Federazione ulivista come motore dell'Unione. D'ora in avanti sarà difficile anche solo prendere sul serio l'idea di un centrosinistra che prefiguri lo schema americano del partito democratico. Ha vinto l'idea cossighiana dell'alleanza contrattuale fra il centro e la sinistra, fra i cattolici eredi della sinistra Dc e i socialdemocratici eredi del Pci. Addio alle avventure, alle utopie, ai sogni. Manca soltanto che Silvio Berlusconi dichiari chiusa la sua esperienza politica, e che di conseguenza si rimescoli tutto, a destra e a sinistra. Dopo tutto il dibattito sull'embrione, ne avremmo due di embrioni: un embrione di neo-Dc e un embrione di post-Pci. Ottimo risultato: benvenuti a tutti nel realismo; e forse, benvenuti anche nel passato.
L'Espresso, 23/06/2005
Telecamere in camicia nera
È andata in onda di recente sull'ammiraglia Raiuno la quinta edizione del Premio Giorgio Almirante («Istituito dalla fondazione Marzio Tremaglia e promosso dal ministero degli italiani nel mondo», dice il comunicato), svoltasi a Roma «nella suggestiva cornice» del Teatro Valle. Presentavano la serata, patrocinata da donna Assunta Almirante, Fabrizio Gatta e Clarissa Burt, a suo tempo frequentatrice di "Porta a Porta" con annesso burqa, candidata di Alleanza nazionale, americana nazionalizzata o giù di lì. È vero che talvolta le ammiraglie fanno naufragio, ma a dire la verità lo spettacolo non era più orrido di altre manifestazioni di tipo marchettistico o di promozione turistica, con il contributo della pro loco e dell'azienda locale dei materassi. (Chiariamo subito che fin qui sta parlando un losco comunista, puzza sotto il naso, felicissimo di spregiare qualsiasi manifestazione culturale della destra e insensibile al valore essenziale della popolarità e magari anche del popolo). Ma addentriamoci post-ideologicamente nella trasmissione. Regia velocissima, come se si dovesse contenere in tempi ristretti un numero straordinario di ospiti. Per cui, sul palco ecco un asciuttissimo Raimondo D'Inzeo, olimpionico, a cui i conduttori sono riusciti soltanto a far dire che, ancora oggi, monta a cavallo «tutte le mattine». Applausi scroscianti e smammare il D'Inzeo. E poi via con Al Bano, «una leggenda», con Peppino di Capri, «un mito», eccetera. Tutto di corsa, e con una leggera ansia se l'ospite faceva mostra di trattenersi un momento di troppo. Ma ciò che faceva una certa impressione era il clima un po' triste, malgrado la suggestiva cornice, tipo festa di famiglia con i nostri cari, che non sono proprio fenomeni ma si sa che ogni scarrafone ecc. Non per riaprire il tormento della cultura di destra, e dello spettacolo di destra, e dell'intrattenimento di destra, ma la serata del Premio Almirante sembrava esattamente il ritratto di An sotto l'occhio di Gianfranco Fini. Da una parte il leader ipermoderno, subacqueo, estemporaneo, talmente deideologizzato che domani potrebbe annunciare di darsi alle pubbliche relazioni in una multinazionale (o alla strategia della comunicazione, o al marketing virale), e dall'altra il partito, vecchio, prevedibile, stento, con le solite facce. Solita zuppa, solita destra: non la risolleverà Peppino con la sua triste "Panchina", e neanche Al Bààààààno.
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