L’Espresso
L'Espresso, 23/06/2005
Italian Pop Graffiti
E allora che cosa accadrà di musicale nell'estate che arriva? "Senti l'estate che torna", cantavano le Orme un millennio fa. L'estate 2005 potrebbe essere pronta a un tormentone di culto, con il "Feel Good Inc." dei Gorillaz. Troppo sofisticato? Volete il divertissement di Simone Cristicchi, quello di "Vorrei cantare come Biagio", nel senso di Antonacci? Oppure il pop ricercato del "Maggese" di Cesare Cremonini? Magari i più viziosi possono anche dedicarsi al vintage di Alberto Fortis, "Fiori sullo schermo futuro", per sentire di nuovo una voce che di tanto in tanto esce ancora dalle radio e dagli anni Ottanta con le vecchie e irresistibili note di "Settembre". Se prima di darsi alle musiche e musichette estive si vuole approfondire la "filosofia" della musica dell'estate, è d'obbligo uno sguardo al libro di Enzo Gentile "Legata a un granello di sabbia", pubblicato in questi giorni dall'editore milanese Melampo (182 pagine, 10 euro). Gentile è un talento eclettico. "hendrixiano militante" per autocertificazione, lo si potrebbe definire un agitatore culturale: perché oltre che giornalista e musicofilo, la sua è una biografia di scrittore, collezionista, curatore di mostre, direttore artistico di rassegne e di eventi come il Mantova Musica Festival, collaboratore della "Repubblica" e altri giornali, radio, iniziative editoriali. Il suo libro porta come sottotitolo "Storie e amori, costume e società nelle canzoni italiane dell'estate", e questo potrebbe assomigliare a una dichiarazione programmatica. Nella sua prefazione, infatti, Gianni Mura scrive: «Cantagiro, Disco per l'Estate, Festivalbar ci dicono che un tempo in Italia c'erano i dischi e c'erano i bar (ci sono anche adesso ma sono diversi). C'era, aggiungerei, una visione della musica (leggera, si capisce, è quella che pesa meno) che portava a un ascolto condiviso. Mangiadischi, juke box, di questo si parla». Ma a dispetto delle apparenze, fortunatamente Gentile non sociologizza, preferisce una ricognizione quasi materiale di quegli oggetti d'epoca chiamati canzoni. Anzi, se si vuole una prima impressione del suo libro, un'idea visiva, conviene aprirlo nella sezione che raccoglie 80 copertine a colori di 45 giri "estatici", alcuni celebri, molti altri ormai dimenticati. Si può trovare un'immagine quasi softcore, dati i tempi, di "Sei diventata nera", uno dei terribili hit di Edoardo Vianello, nell'esecuzione dei Marcellos Ferial, quelli che avevano tradotto anche "Cuando calienta el sol". Geniale la canzone perfettamente estiva "Appuntamento sulla neve" di Piero Focaccia, ambientata su una barca con remo e salvagente. Indimenticabile "Imparerò a nuotare" di Carmen Villani, ma anche i peccati canzonettari della grande Mina, roba tipo "Un buco nella sabbia" o "La ragazza dell'ombrellone". A leggere le storie di Gentile, con le testimonianze di Ricky Gianco e di Shel Shapiro, di Mino Reitano, o dei Dik Dik e dei New Trolls, ci si accorge che la musica di allora qualcosina del clima dell'epoca lo raccoglieva, lo traduceva in consapevolezza di massa. Ma se invece non si vuole nessuna contaminazione sociologica, conviene usare il libro di Gentile come un catalogo, un repertorio (nel senso che è anche un'enciclopedia di reperti, se non di reliquie, da "St. Tropez Twist" fino a "Supercafone"). Con alcune preziosità filologiche come quella che racconta la storia di "Speedy Gonzales", importata da Peppino Di Capri dopo che era stata condotta al successo da Pat Boone: «Costui ha ascoltato quel brano, in cui compare la voce del cartone animato, nel 1961 da un cantante americano, David Dante, che ne ha fatto un hit nelle Filippine. Questo il tortuoso, ma vincente percorso di un'allegra scampagnata in musica...».
L'Espresso, 16/06/2005
Ma ora trattatelo come un giocatore
Come per "Alex" Del Piero con gli uccellini e la fidanzata Sonia, e come in passato per gli "abatini" Mazzola e Rivera, a Francesco Totti è capitata la disgrazia di diventare un personaggio. Vabbè, disgrazia. Facciamo un problema calcistico. È stato subito il Pupone, essenza anche fisiognomica della romanità, quando ancora giovanissimo sembrava in grado di proporsi come un fuoriclasse assoluto: e lo era, per come verticalizzava a intuito, quasi a occhi chiusi, medianicamente, liberando il compagno al gol; per la forza fisica, il tiro, il dribbling, la classe. Tutte caratteristiche inessenziali nel calcio contemporaneo, che vive soprattutto di espressioni di idolatria mediatica, come quelle che circondano il calciatore "cool" per eccellenza, il galactico David Beckham, che cambia look con facilità maggiore di quella con cui cambia ritmo in partita. Sicché dire che cosa sia oggi Totti è una serie di ipotesi. Il prossimo marito di Ilary Blasi, forse. Ma anche l'atleta innervosito fino al collasso nervoso dalle scorrettezze avversarie e martoriato perciò da squalifiche monstre, e l'atleta immaturo che sputa al danese Poulsen durante i campionati europei in Portogallo, guadagnandosi fior di sms che ironizzano sull'"hijo de sputa". Oppure il bravo ragazzo dotato di consapevolezza sociale che riceve i complimenti e l'amicizia di Walter Veltroni per le non pubblicizzate attività umanitarie svolte insieme. E magari anche il divetto provinciale che accetta di scendere dal piedistallo, o di uscire dal set, firmando quello stravenduto libro di barzellette che lo ha miracolato restituendolo alla stirpe degli individui pensanti, dopo la micidiale epopea popolare del gerundio (quando tutta l'Italia evoluta sghignazzava "'a vendo": la Ferrari gialla, per chi ricorda la barzelletta). Con il risultato che di Totti si parla come immagine di Roma e della Roma, quasi un congiunto della famiglia Sensi, il tutor di Cassano e delle cassanate, l'adultero presunto, ma quasi mai, e non nel campionato appena finito, come trequartista, punta o comunque giocatore di calcio. Per uno che poteva essere Cruijff, o come minimo il più bravo calciatore italiano del decennio, è un destino che suona falso, nell'attesa infinita, sulla soglia dei trent'anni, che il campione si riveli finalmente come campione, senza altre specificazioni. E siccome è sveglio, un po' impicciato nel lessico e nel savoir faire ma intelligente, lui lo ha capito benissimo. Tanto che nel disgraziato torneo 2004-2005 in diverse partite si è visto in campo uno strano giocatore che tentava con sforzi erculei di prendersi sulle spalle la Roma, in difesa, a centrocampo, all'attacco, giocando come giocano i fenomeni negli oratori, con addosso una specie di disperazione: «Totti corre, forca, impicca», avrebbe scritto Gianni Brera. Proprio da quella furia solipsistica si doveva intuire che il giocatore Totti sente su di sé lo scorrere irreparabile del tempo: e a volergli bene, sarebbe ora il caso di trattarlo non come un "fijo de Roma" ma come un fuoriclasse a cui concedere l'occasione vera di rivelarsi. Con un finale di carriera magari accanto a Beckham, oppure nel Milan, alla Juventus, o in qualsiasi grande squadra che lo tratti come un giocatore e non come una bandiera o, peggio, un simbolo.
L'Espresso, 16/06/2005
Bandiere rosse per la borghesia
Se uno vuole conoscere la "cool Britannia" di Tony Blair può leggere "The Boy" di Andrea Romano (Mondadori), un'interpretazione molto politica del New Labour, oppure gli articoli e i saggi di Roberto Bertinetti, un'analisi più culturalista. Se si vuole esplorare a caldo il miracolo della Cina, va bene il nuovo libro di Federico Rampini, "Il secolo cinese. Storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del mondo". Ma se invece si vuole vedere la nuova Cina socialcapitalista, ecco la serie in cinque puntate "Buongiorno Cina. Storie del secolo cinese", realizzato per Movie Movie da Francesco Conversano e Nene Grignaffini (il mercoledì sera alle 23.30 su Raitre). Si vede una Pechino ultramoderna, con uno skyline di fantastici grattacieli post-novecenteschi, una metropoli che il grande balzo in avanti lo ha compiuto grazie all'economia di mercato. La puntata del 1° giugno era dedicata ai festeggiamenti dell'ottobre scorso per il cinquantacinquesimo anniversario della nascita della Repubblica popolare. Ciò che colpisce, per chi ha negli occhi la Cina omologata dal maoismo, è la folla che invade la capitale. Una moltitudine non diversa da quella delle grandi città occidentali: yuppies, giovani trendy, tranquilli borghesi, gente che viene dalle campagne. Lo choc aumenta ogni volta che il montaggio alterna scene di vita contemporanea, interviste agli scrittori e gli artisti, con sequenze che riportano al bianco e nero della Rivoluzione culturale. Vedendo il film, sembra di capire qualcosa in più della prodigiosa modernizzazione cinese. Si sente l'orgoglio nazionale e patriottico della gente comune, e perfino il ruolo del Partito comunista non sembra più così anacronistico. Forse per governare i grandi territori ci vogliono invenzioni politiche ad hoc. Il federalismo americano di Madison e Hamilton. O il pragmatismo imperiale di Deng Xiaoping. Ma può essere che i grandi imperi siano refrattari al potere politico; e la bellezza di questi film consiste proprio nel mostrare la braudeliana lentezza con cui si evolvono civiltà e imperi dell'Estremo Oriente, mentre le bandiere rosse sembrano un segnale estetico, più che un vessillo della nuova rivoluzione.
L'Espresso, 09/06/2005
Il cerino di Fassino
Quindici giorni di spavento. Due settimane sull'ottovolante. O si chiude con questa tempistica risicata oppure la situazione si complica, e allora può accadere di tutto. Può succedere perfino che un partito dalla buona tenuta psicologica venga preso da una crisi di nervi. Ci si mettono difatti in troppi a complicare la vita ai Ds, non soltanto Rutelli, De Mita e Marini. C'è l'affaire Petruccioli: se la Rai è lo specchio della politica, auguri. Ecco l'intima soddisfazione di Bertinotti per la vittoria del "No" al referendum francese sulla Costituzione europea: «Sono stati sconfitti Amato, Prodi, Fassino e Rutelli». Ci mancava l'intervento del papa "astensionista" a proposito del referendum nostro. Mettiamoci allora anche il risultato del referendum stesso, con i suoi prevedibili strascichi, e gli auguri si fanno ancora più ironici. Ogni giorno ha la sua pena. Candidati e manovre si susseguono. Avanti un altro, Veltroni, Fassino, uno ics due, siamo alle schedine del totocandidato. Ciò che resta del Correntone appoggerebbe Giuliano Amato come candidato premier per bloccare proprio Veltroni, accompagnando persuasivamente Prodi al Quirinale. Che occorra prima vincere le elezioni è un dettaglio. «Il rischio è alto», sospira esausto Pier Luigi Bersani, che non nasconde l'inquietudine; ma dalle parole di molti esponenti della Quercia, non solo di quelli destinati al governo, si ha la sensazione che tutti abbiano una paura fottuta che la situazione collassi, che l'Unione precipiti nella disunione. E che alla fine ci si ritrovi nel mezzo della palude, senza la forza di uscirne: cioè senza una leadership, senza una soluzione, senza niente. Quindi parola d'ordine: Romano è insostituibile. Non ci sono alternative. O meglio, ci sarebbero se fossimo nella normalità. E invece è evidente che la situazione è del tutto anormale. Anche a fare un esercizio "togliattiano" di fredda analisi, esaminate tutte le possibili alternative ci si accorge così con un effetto disarmante che ogni ipotesi diversa da Prodi apre un conflitto nuovo. Sicché per il momento le discussioni sulle alternative vengono bloccate alla stregua di un diversivo irrealistico. Massimo D'Alema ha detto e ripetuto che dopo Prodi c'è Prodi, ma ha aggiunto: se la Margherita non lo vuole più, lo dica. Secondo i boatos, Piero Fassino ha respinto tutti gli ambasciatori che gli promettevano la testa del Professore offrendo la sua sostituzione con un Ds. E anche Veltroni ha fatto il possibile per smorzare i toni, «dobbiamo stringerci intorno a Romano». Tuttavia, nessuno dentro la Quercia rinuncia a sottolineare le condizioni a cui Prodi deve sottostare. Prima condizione: deve stare nel mezzo. Non squilibrare l'alleanza. Anche il richiamo alle primarie sarebbe percepito come un principio di divisione. Se poi fa una lista propria, se i suoi fedeli escono dalla Margherita, il centro-sinistra può esplodere. Già abbiamo visto, si dice al Botteghino, Rutelli colpire la lista unitaria, paradossalmente nel nome di una unità politica superiore; se adesso i prodiani, per una unità ancora più alta e nobile, spaccano il secondo partito della coalizione, «vorrà dire che andiamo a finire direttamente in bocca a Berlusconi», come ammette sconsolato Bersani: perché nessuno riesce a capire quale sia la credibilità di un'alleanza politica che contiene al suo interno la chimica della dissoluzione. E anche altre ipotesi, come la scelta della coalizione dei "willing", la lista unitaria senza la Margherita, sarebbe a questo punto una mossa avventata, destinata a produrre spaccature. «Ai miei occhi, ma anche agli occhi di una parte significativa dell'opinione pubblica», continua Bersani, «Prodi non è soltanto un candidato: è il federatore del centro-sinistra, il portatore e il protagonista di un'idea»; e quindi se si lavora contro questo assunto «si lavora per il re di Prussia». Ma allora perché Rutelli e i vecchi dc hanno affondato la lista unitaria? Questa non l'ha capita nessuno. Un'interpretazione possibile che circola in casa Ds è la seguente: nella Margherita ci sono quelli del "lo spezzo o lo piego". Spiegazione: magari quelli come Marini e De Mita puntavano a indebolire Prodi per piegarlo, cioè per costringerlo a compromessi, a una posizione che non coinvolgesse la Margherita in un processo unitario e spersonalizzante; mentre forse Rutelli ha portato il colpo per spezzarlo, con l'intenzione di liquidare una leadership che si reggeva soltanto sull'assenso, o sull'inerzia, di tutti. Frattanto, la demolizione dell'Ulivo e di Prodi richiama dietrologie irresistibili: «E largamente inutili», si innervosiscono i parlamentari del tradizionale "centro" diessino, che cercano di continuare a ragionare politicamente, all'antica. Il ragionamento si conclude più o meno così: Prodi faccia il piacere di mettersi a fare politica, sul serio, faccia a faccia, piantandola con i diktat. Se ci sono manovre, le affronti a viso aperto. Come sostiene uno dei migliori conoscitori dell'ambiente ds, il politologo Piero Ignazi, «Prodi non deve dare l'impressione che ogni critica o ogni scarto rispetto alle sue posizioni sia un attacco alla sua leadership». Detto in modo ancora più esplicito, nei prossimi giorni il Professore farà bene a non considerare il proprio primato come un'investitura per diritto divino: «Altrimenti prenderà le critiche come un delitto di lesa maestà, e i suoi nemici gliele rivolgeranno con l'intenzione di rivelare che il re è nudo». Finora Prodi e i suoi fedeli si sono difesi ricorrendo a tre argomentazioni generali. In primo luogo facendo riferimento a un consenso ulivista e prodiano che sarebbe ancora diffuso nel paese. In via accessoria, sostenendo che la Margherita non è schierata come un sol uomo sulle posizioni antiunitarie del vertice del partito (secondo questa interpretazione, ci sarebbero due Margherite: una del Nord, riformista e unitaria, e una del Sud, ovvero una specie di grande Udeur, una rete notabilare specializzabile nella pesca dei "transumanti" dalla Casa delle libertà all'Unione). Infine, terzo elemento, Prodi si è detto «sicuro» dell'appoggio dei Ds. «Ma qui bisogna ragionare», dice Elena Montecchi, una delle parlamentari di punta sulle tematiche sociali e femminili (immigrazione, coppie di fatto, divorzio "rapido"): «Perché non è possibile che questa crisi, incomprensibile per l'opinione pubblica e anche per il nostro elettorato, lasci il cerino in mano ai Ds. Oltretutto, Prodi non può pensare di essere il candidato di un solo partito, perché in questo caso fallirebbe il suo progetto». In effetti nella crisi del centro-sinistra i Ds sono sostanzialmente innocenti. Probabilmente «c'è stata una forzatura», riconoscono alcuni, allorché Fassino ha premuto su Rutelli annunciando che la lista unitaria poteva andare avanti anche senza la Margherita. Ma la gravità della crisi induce il partito a riflettere anche sulle questioni di scenario, fuori dal recinto del cortile domestico. «Vogliamo renderci conto che c'è un'élite in crisi nei maggiori paesi dell'Unione, e che qui da noi dovremo combattere per ridare un senso anche alla semplice parola Europa?». Il timore è che da destra muova un attacco populista all'Unione, al Patto di stabilità, all'euro, «ai massoni e ai tecnocrati» di Bruxelles che «hanno fatto l'Europa contro il popolo» (Umberto Bossi), in nome del protezionismo anti-cinese e delle svalutazioni competitive, e che un centro- sinistra disgregato non sappia nemmeno rispondere a questo assalto. Prodi doveva rappresentare proprio la garanzia di una dimensione europea, non meschinamente provinciale e "stracciona". La crisi del socialdemocratico Schröder, il radicalismo giacobino di Zapatero, l'estraneità genetica di Blair rispetto alle identità della sinistra continentale mettono in luce l'assenza di una politica riformista riconoscibile e comune; inoltre il fallimento di Chirac sul referendum francese espone le tensioni drammatiche a cui è soggetto il processo di integrazione. A Prodi spetterebbe il compito duramente impegnativo di costruire qui in Italia questa sinistra europea. Dovrebbe sporcarsi le mani, usare gli strumenti della "petite politique" casalinga, produrre mediazioni in vista di un obiettivo più alto. Ma ne ha ancora voglia? «Deve dirlo lui», è la risposta dei Ds. E deve dirlo presto. Perché due settimane non sono ancora un ultimatum; ma sono un appuntamento per una verifica senza indulgenze.
L'Espresso, 09/06/2005
In cucina con donna Rachele
Ancora due parole su "Edda", la fiction in due puntate trasmessa di recente da Raiuno. Dato che non è piaciuta per niente a molti fascistoni e post-fascistoni, e soprattutto non è piaciuta ad Alessandra Mussolini, sarà il caso di anticipare che né la storia né la fiction devono essere lasciate ai parenti. Non appena qualcuno dice "la zia non era così", e "il nonno non era cosà", la risposta è: chi se ne frega. Trattasi di sceneggiati, naturalmente. E soprattutto in questo caso. Perché c'è una linea alla Rai, quella perseguita da Pino Corrias, che privilegia un rapporto quasi febbrile con la storia (vedi "La meglio gioventù" di Giordana e il "De Gasperi" della Cavani), esponendosi a un'analisi filologia e critica; e un'altra linea invece che persegue un tratto "fictional", più fotoromanzato e folk. "Edda" aveva dalla sua una story fantastica, che nessuna sceneggiatura può rovinare. Non è il caso di precisare che un Mussolini quarantacinquenne all'epoca del Concordato dimostrava settant'anni, e che il ferrarese bleso Italo Balbo (memorabile nell'imitazione che ne faceva Montanelli biascicando di traverso la esse) pronunciava romanamente "i diriggenti". Bastava la bellezza di Alessandra Martines a tenere in piedi la storia, con molte sigarette moderniste, accese per sprezzo e spente con rabbia. E si poteva accettare Massimo Ghini nella parte impomatata di Ciano, anche se ogni tanto gli sfuggiva qualche manierismo alla Sordi nella parte del marito adultero che fa le scene madri alla moglie. Ciò che non si riesce a sopportare è quando i protagonisti dicono le frasi storiche. Va bene che le dicano, che so, alla fine della riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. In quei casi Mussolini ha detto ai gerarchi: «Signori, voi avete affossato il regime», o giù di lì, e quindi è giusto che lo dica anche la sceneggiatura. Meno ragionevole è che le frasi storiche vengano dette nella cucina di Villa Torlonia, in conversazioni fra il Duce e donna Rachele, con l'intervento geopolitico di Edda Ciano; oppure che il conte Ciano vada a dormire con la moglie sproloquiando della Germania e della Francia. Perché quando la fiction arriva all'alta strategia in salotto,«ci sono un tedesco, un francese e un inglese», ci si plafona al livello delle barzellette, e fa un po' ridere.
L'Espresso, 02/06/2005
Eddy Guerrero spettacolo vero
Contrariamente alle aspettative, il wrestling è un esercizio mentale. Non per chi lo pratica, ma per chi lo guarda. Provateci anche voi: basta non avere un tubo da fare, accendere la tv e cercare qualche combattimento, cronache di Giacomo "Ciccio" Valenti e Christian Recalcati, oppure su Sportitalia, e anche sul satellite, Gxt, canale 702 del bouquet Sky. Dopo di che ci sono alcune possibilità: 1. Siete un intellettuale, o credete di esserlo, e quindi scappate via perché vi fa schifo quell'americanata; 2. Siete una donna, e le donne sono lealmente ancorate al principio di realtà, sicché a loro la lotta finta non piace; 3. Siete un bambino, e allora vi godete lo spettacolo. Noi apparteniamo alla categoria "bambini", e quindi quando incrociamo un match non riusciamo a staccarcene. È tutto falso? Una recita? Un "récit?", un plot, uno script, un film, una sòla? E chi se ne frega. Quando salgono sul ring i fantastici eredi di Mazinga, cioè John Cena, Ray Mysterio o Eddy Guerrero ci sono due possibilità ulteriori. 1. Vi godete il massacro, le botte, i voli d'angelo dalle corde, i tradimenti, gli insulti, le vendette; 2. Chiamate in causa Propp e Barthes. Noi facciamo entrambe le cose. Ma prima di tutto ci incacchiamo con quelli che dicono che è cacca americana: baby, tutto è cacca americana! Non c'è una cacca buona e una cacca cattiva! C'è la cacca bella e la cacca brutta. Quella che ti piace e quella che no. Altrimenti non dovrebbero piacerti neanche le "Desperate Housewives", che piacciono tanto a quelli che se la tirano. Si sa come va il trend: ci sono quelli che sostengono che il capolavoro della stagione è "Con le peggiori intenzioni" (Mondadori) di quel tale Piperno, e quegli altri invece che si appassionano alla biografia di Michael Schumacher di Leo Turrini (Mondadori anche lui), giurando che è il migliore romanzo del semestre, e difficilmente verrà battuto nel semestre successivo anche se sbucassero altri Piperni. Noi stiamo naturalmente con Schumacher, perché ci piace il popolo. Mentre non ci piacciono quelli che dicono che il wrestling è diseducativo: come se i bambini non sapessero la differenza fra realtà e finzione o (più precisamente) fra reality e fiction. Sostiene qualcuno che i bambini sono transitati dai supereroi, cioè dai cartoni animati giapponesi, ai cartoni animati in (molta) carne e (molte) ossa. Mica male, come ipotesi sul wrestling.
L'Espresso, 26/05/2005
Il sogno Berlusconi ha generato un incubo
C'è qualcosa di disperante nella parabola del governo, e non solo per la vicenda personale e politica del suo leader. Per ciò che riguarda il cavalier Silvio Berlusconi non ci sono troppe parole da spendere, tanto è stata rapida e chiara la sua caduta. Potrà forse sorprendere la gioia intima con cui molti fra gli alleati si sono dedicati al tiro al piccione, ma ciò ha messo in chiaro che il ruolo del "conducator", apparentemente indiscusso, era in realtà una finzione accettata formalmente dai soci della Casa delle libertà, che tuttavia si sentivano pronti a stracciarla non appena se ne fosse presentata l'occasione. L'aspetto più preoccupante della crisi deflagrata con le elezioni regionali è tuttavia legata all'economia. Una legislatura cominciata sotto i sorrisi che annunciavano il miracolo si chiude sotto previsioni fosche, con i conti pubblici presumibilmente fuori controllo, e con l'economia reale in recessione. Il sogno ha generato l'incubo. Vale ancora la pena di ripetere che il mandato di Berlusconi era fallito agli inizi del luglio 2004, allorché Fini e Follini ottennero la testa del superministro dell'Economia Giulio Tremonti. Stop, la legislatura finisce lì, con un fallimento accertato e sanzionato politicamente. Il resto sono scampoli. C'è solo da sperare che la violenza della crisi politica ed economica non induca i protagonisti del centrodestra a tentare vie d'uscita avventuristiche. Succede spesso nella storia che uomini che hanno avuto troppo potere, di fronte al proprio fallimento, se la prendano con i propri concittadini. Oppure che cerchino soluzioni disperate, affidandosi agli ultimi lampi di fantasia. Difatti se ne sono sentite tante, negli ultimi tempi. A cominciare dal presidente del Consiglio, che continua a prendersela con l'euro come causa di tutti i mali; per poi individuare una via di rilancio in un gran colpo finale di governo in deficit, lacerando le ultime convenzioni europee. Mentre il ministro per le riforme, Roberto Calderoli, «parlando da leghista e non da ministro», lancia l'idea di uscire dalla moneta unica e del ritorno alla lira. Ai rischi gravi e reali, alle tensioni che hanno investito l'economia del nostro paese, agli shock settoriali che la nostra industria comincia a riscontrare, alla perdita di competitività e alla concorrenza asiatica, si aggiungono quindi i pericoli di un governo che studia strategie economiche da ridotto in Valtellina. Apparentemente disposto, nelle sue frange estreme ed estremiste, anche a tentare colpi suicidi, e a vagheggiare strappi europei che ci ridurrebbero a una condizione sudamericana. Certo, esistono ancora alcune barriere all'estremismo scamiciato di questa destra pronta a giocarsi il paese con le tre tavolette. C'è il Quirinale, con un uomo come Carlo Azeglio Ciampi, "padre" della presenza europea dell'Italia, che non accetterebbe mai sbreghi colossali e bizzarri dettati dalla fantasia politica dei desperados. E sicuramente il ministro Domenico Siniscalco non accetterà di giocarsi il suo prestigio nella comunità degli economisti, e la sua credibilità in Europa, mettendo la firma sulle intimazioni eventuali di Berlusconi. Dopo di che, occorrerà trovare il modo di mettere la parola fine a questa esperienza catastrofica, al governo della Cdl: non perché qualcuno possieda la bacchetta magica per risolvere i problemi d'incanto, ma per cominciare a mettere realisticamente in sesto l'agenda, a guardare in faccia i problemi, a fronteggiare la durezza della realtà. Non si approssimano tempi facili per nessuno. Chiunque riprenderà in mano il governo del paese avrà il compito di dire verità sgradevoli. Ma intanto non è nemmeno il tempo delle polemiche: la verità ormai la si conosce, e il verdetto è già stato emesso. Bisogna esporre all'opinione pubblica un programma semplice, espresso con parole sincere e con sangue freddo. Perché oggi il compito principale consiste nel tornare alla verità, nel tornare alla realtà. Non è un'esperienza politica entusiasmante, ma è l'unica strada da percorrere, e conviene farsela piacere.
L'Espresso, 26/05/2005
La sposa del ’43
Talvolta si ha l'impressione che un libro si possa riassumere in una frase. Basta pensarci un momento: «Jolanda compì ventun anni il 14 dicembre 1941, tre giorni dopo che Mussolini, affacciato al solito balcone di Piazza Venezia, aveva annunciato la guerra all'America». Jolanda è la giovane madre di Adele Grisendi, che ha appena pubblicato con Sperling & Kupfer un nuovo libro ancora una volta molto padano, "Baciami piccina" (272 pagine, 15 euro). La storia è quella di due famiglie contadine nel profondo della provincia di Reggio Emilia: «La piccola patria di tutta questa gente era Montecchio, un paese cresciuto sulla sponda reggiana dell'Enza, il torrente che segna il confine a ovest tra le province di Reggio e di Parma...». Ma la suggestione del libro nasce proprio dalla collisione fra le piccole storie famigliari e la grande storia del mondo. Che cosa succede quando il "mondo piccolo", che nella memoria siamo abituati ad associare al presepio emiliano di Giovanni Guareschi, ma che in questo caso è fatto dalla miseria di «sei biolche di terra, quattro vacche da latte e due manze», viene investito dalla furia della guerra, dell'occupazione, della paura? Per capirlo bisogna pensare alla vita in quel modesto paese, alla fatica, alle vicende delle famiglie in quel paio di decenni in cui la storia d'Italia sembra quasi immutabile, comunque sospesa. In cui i mezzadri conducevano la loro vita aspra, i rapporti fra i mariti e le spose, fra gli uomini e le donne erano di una durezza oggi inconcepibile, anche se non di rado temperati da un affetto trattenuto e silenzioso. Si risentono, in questo libro, i sapori, gli odori e i ricordi di "Bellezze in bicicletta", il libro in cui l'autrice aveva raccontato le quattro stagioni della campagna emiliana. Ci sono le serate nella stalla, nel calore umoroso delle mucche di razza "reggiana frumentina", con le donne che chiacchierano e gli uomini che giocano a carte. C'è anche, ed è naturale, quella vita così pesante, quel lavoro talmente duro, a cui allora soggiacevano uomini e donne, che oggi risulta quasi inconcepibile. E anche i rari momenti di riposo e di felicità, la messa la domenica, il fidanzamento, una gita a Bologna a raggiungere lo sposo giovane, lei "sposa del '43", qualche casto bacio a spasso per via Indipendenza, un gelato sui gradini di San Petronio: «Immancabilmente, dai caffè affacciati sulla piazza li raggiungeva la musica trasmessa da qualche apparecchio radio. Jolanda ascoltava in silenzio, invece il marito fischiettava. A piacergli più di tutti era Alberto Rabagliati, quando cantava "Baciami piccina"». Ciò che rende incantevole il libro di Adele Grisendi è il modo esplicito e insieme pieno di pudore in cui racconta la storia della sua famiglia e di sua madre. Lei lo dichiara nella prima pagina di questo suo lessico famigliare: ripensando ai suoi genitori, si pente di avere ascoltato spesso di?strattamente i loro racconti, e dunque di avere dissipato memoria, smarrito ricordi. Così, non c'è concessione all'elegia, lo stile è sempre trattenuto sulla soglia della commozione perfino quando viene ricordato l'abito da sposa della madre, oppure quando in quella famiglia così "antica" entra, dopo la nascita di una figlia «bella come una mela», una malattia così moderna e disperata come la depressione. Il libro si apre e si chiude con due incontri, in cui durante o dopo la malattia la madre ritrova la figlia. Ma già le prime parole del primo capitolo sembrano dette apposta per raccontare in modo quasi epico, come in una favola ambientata in Emilia, una storia vissuta con una scansione ineluttabile: «Da due giorni e due notti Jolanda parlava ininterrottamente. Senza avvertire la sete, parlava, parlava, parlava». In questa cornice narrativa, avviene una storia italiana raccontata con schiettezza: senza enfasi, senza indulgere al colore, con uno stile semplice. Perché in quel piccolo pezzo di Emilia, in «quell'ultimo centro della pianura che lascia il posto alle prime colline e poi all'Appennino», c'è posto per i ricordi e per la sincerità della memoria, non per la retorica.
L'Espresso, 26/05/2005
Invasioni poco barbariche
Se uno fa un programma che si chiama "Le invasioni barbariche", vuole dire che da qualche parte ci dovrà essere l'Impero. Sarà il duopolio, questo Impero? Sarà "Porta a Porta"? Ci sarà qualcuno, nella gibboniana Rai, "decline and fall of", ovvero nella potente Mediaset, che avrà nominato conduttore un cavallo? Comunque del programma di Daria Bignardi hanno parlato male praticamente tutti, sicché la tentazione di uscire dal coretto è inevitabile. A tutto sappiamo resistere, fuorché alle "Invasioni". Primo perché essa Bignardi è cambiata: chi guarda la sua trasmissione su La7 per ritrovare la conduttrice del "Grande Fratello" rimane ovviamente deluso, almeno se sperava di trovare la sorellastra cattiva, o la precettrice da beati anni del castigo, da immaginare in clamorose tenute bdsm. Macché, queste sono fantasie impraticabili, perché il nuovo programma è decente. Cose più, cose meno. Funzionano meno le interviste tipo roba da Mtv, come una fiacca e pretenziosa conversazione continuamente interrotta con il cantante Biagio Antonacci (figurarsi, uno che rompe la coppia che componeva con figlia di noto eterno ragazzo e intanto pubblica un disco intitolato: "Convivendo"). Ma ciò che invece funziona di più, nelle "Invasioni", è il tono. L'idea è naturalmente quella di tutti i facitori di programmi e di giornali, l'alto mischiato con il basso e il crudo con il cotto, secondo le migliori ricette degli antropologi, ma nel programma della Bignardi, l'asset è la Bignardi. Gli altri altobassisti non ce l'hanno una conduttrice capace di mettere insieme oggi un'intervista alla zia Rosy Bindi e domani un incontro con Alessandro Piperno, quello delle "Peggiori intenzioni" (che oltretutto si rivela subito di impressionante simpatia, o capacità mediatica, fate voi). Oppure, oppure, la migliore intervista che sia capitato di vedere negli ultimi tempi, quella a Laura Dolci, vedova del funzionario dell'Onu Jean Selim Kanaan, morto in un attentato a Baghdad, e capace di produrre una rara prestazione di ragione umana e consapevolezza civile e culturale. Mitigato il look, la Bignardi tiene la misura, non invade, non eccede, non straripa. Sembra sempre sul punto di dire qualcosa di tremendo e invece poi "rientra", non derapa: alla fine, lei e il programma hanno una buona tenuta.
L'Espresso, 12/05/2005
Non possiamo non dirci casinisti
Se il centrodestra del futuro è un puzzle, bisognerà vedere se il tassello più piccolo riuscirà a completare l'immagine. Cioè se Pier Ferdinando Casini diventerà il leader della Casa o dell'Alleanza delle libertà. Prima risposta: se non lui, chi? Se Silvio Berlusconi, sulla soglia dei settant'anni, dovesse effettivamente cedere il comando, c'è qualcun altro che potrebbe contendergli la candidatura a premier? I pretendenti non sono troppi, e nemmeno troppo qualificati. A parte il fatto di essere collocato nominalmente all'estremità della coalizione, Gianfranco Fini ha lo svantaggio di avere sbagliato finora tutte le mosse decisive: ogni volta, nelle crisi e nelle soluzioni delle crisi, il presidente di An si ritrova nella condizione dell'uomo che non deve chiedere mai, altrimenti gli dicono di no. Tant'è vero che nel Berlusconi bis si è ritrovato al proprio fianco come vicepremier Giulio Tremonti, ossia l'uomo di cui aveva chiesto e ottenuto la testa meno di un anno fa. Lo stesso Tremonti, allora? Ma Tremonti è un atipico, il creatore del forzaleghismo, l'uomo delle soluzioni troppo creative (altro che Berlusconi bis, ha scritto il "Financial Times", si tratta del "Tremonti beach", proprio nel senso delle spiagge). Un concorrente autorevole sarebbe Beppe Pisanu, ex sinistra dc, uno della "banda dei quattro" di zaccagniniana memoria: ma il ministro degli Interni non ha appeal fisico né carisma personale, mentre Pier Ferdinando, allievo dei dorotei Toni Bisaglia e Arnaldo Forlani, ha un look giovanilistico ma persuasivo, molto più adatto agli stilemi della seconda Repubblica. Al di là delle questioni di immagine, il punto centrale è che Casini sembra il leader appropriato per la ricostruzione politica e culturale del centrodestra. Ha una vocazione schiettamente bipolare, fin da quando, nel 1994, scelse di schierare la piccola vela del Ccd sotto il vento di Forza Italia. Anche allora manifestava una chiara impronta europeista, risalente alla sua tradizione, talvolta scontrandosi con l'ala euroscettica del Polo e della Lega. E ha anche la credibilità istituzionale assicuratagli da un'interpretazione morbida della presidenza di Montecitorio. Le ragioni politiche della "soluzione Casini" non finiscono qui. La legislatura attuale infatti ha mostrato il fallimento delle velleità berlusconiane di schierare il centrodestra in chiave liberista, dal momento che anche le timide realizzazioni "supply side" di Berlusconi, come il taglio delle tasse, si sono rivelate politicamente irrisorie. Dunque, se è fallito il tentativo di rifare una destra in formato simil-thatcheriano, ci devono essere motivi precisi e un'alternativa praticabile. I motivi sono che la Casa delle libertà non ha risolto la propria contraddizione interna (quella che risale al 1994, la contraddizione fra il Polo delle libertà e il Polo del buongoverno, cioè fra la componente federal-liberista e quella nazional-centralista, fra l'asse del Nord e il partito del Sud). Quanto all'alternativa occorrerà trovare un impasto politico-culturale diverso, più consono alla tradizione italiana. L'accento si sposta presumibilmente verso una coalizione popolar-conservatrice, non stressata ideologicamente e non ostile ai processi di modernizzazione: un'alleanza "cugina" della Cdu-Csu tedesca, saldamente radicata nel solco della politica nazionale e di un sostanziale interclassismo. Berlusconi era lo choc, Casini è la rassicurazione. A dispetto di altre velleità presenti nel centrodestra, il presidente della Camera non sembra avere rivali molto plausibili. Grazie alla sua funzione istituzionale è riuscito a mantenere un'immagine non faziosa (che a Bologna ha dato luogo a quell'area politico-economica che viene detta ironicamente "Prodi-Casini"). Se gli toccherà davvero ridare un'identità alla Casa delle libertà, Casini ha tutte le caratteristiche per configurare una coalizione che non punta esplicitamente sul conflitto, e che piuttosto modera i termini della competizione politica. Tutt'al più, si dovrà verificare se la prospettiva moderata sarà accettabile per gli estremisti del moderatismo che abitano la Casa.
L'Espresso, 12/05/2005
C’è un’altra Chicago
Fra le programmazioni più sofisticate, merita uno sguardo il ciclo di Cultnetwork "Chicago, il seme dell'impero", otto puntate il lunedì alle 22 (canale 142 del bouquet Sky). È un'indagine sull'America condotta da Francesco Bonami, ex direttore della Biennale di Venezia (ora al Museo d'arte contemporanea di Chicago), ideata e realizzata dallo stesso Bonami con Stefano Pistolini. È un'America tutt'altro che ovvia, quella che viene fuori dalle interviste e dagli incontri. Nella puntata del 25 aprile, il corpo fondamentale del programma era costituito da un ritratto di Barack Obama, la stella nera democratica, l'unico senatore afroamericano, «un Denzel Washington con la determinazione di Martin Luther King» secondo la definizione di Bonami. In poche battute veniva fuori un "carattere" politico: un tanto di populismo, qualche residuo di pulsione utopica, il realismo a cui la politica costringe i leader, nonché una fisicità controllatissima e già "presidential". A fare da contraltare a Obama c'era poi, oltre al più noto scrittore di legal thriller, Scott Turow, anche una brillante mini-indagine nel mondo accademico, dedicata agli influssi di Leo Strauss, il filosofo eletto a paradigma dai neoconservatori. La qualità degli autori è visibile nel loro modo di far parlare quell'America che non è soltanto New York o Los Angeles, e neppure le autostrade e le praterie, lasciando spazio all'argomentazione, cioè senza comprimerla nei tempi sincopati della tv. Con il risultato di comunicare un senso di ricchezza e di complessità, perfino quando si incontra un docente di storia delle religioni che sembra catapultato nell'età contemporanea dall'epoca del "flower power". Mentre le puntate successive si annunciano dedicate al tentativo di intercettare indizi culturali, storie, parole, fisionomie antropiche, sembra promettente l'intenzione di "scrivere" un saggio televisivo sugli Stati Uniti, sulle loro società, sulle loro culture. Un saggio al plurale concentrato in una sola città. Utile quindi la passione di Pistolini per i dettagli narrativi, e la capacità di Bonami di individuare nelle "stories" urbane un senso coerente, facendo parlare le persone, gli oggetti e i ritmi stessi di una città, esercizio di sintesi di due fra le molte Americhe d'oggi.
L'Espresso, 05/05/2005
Quante trappole per il nuovo governo
Il Berlusconi 3 si trova con la pesante eredità lasciata dal Berlusconi 2. La riforma costituzionale voluta dalla Lega, prima di tutto. E poi la riforma della giustizia, il decreto sulla competitività, il Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria), la legge Finanziaria 2006. Un percorso di guerra, pieno di trappole per il nuovo governo. Vediamo. Riforma costituzionale Dopo il via libera del Senato la devolution torna alla Camera per la seconda lettura (che deve essere identica alla prima). Si voterà in autunno: buona parte della Cdl punta a tenere il referendum confermativo dopo le politiche del 2006. Un gruppo di deputati An, in dissenso da Gianfranco Fini, ha chiesto che il referendum si faccia prima del voto. L'udc Bruno Tabacci ha annunciato che metterà in piedi un comitato del No alla riforma Bossi-Calderoli. Riforma della giustizia Dopo il rinvio alle Camere da parte del presidente Carlo Azeglio Ciampi, la riforma Castelli è al Senato, procede in modo accidentato, tra strappi e polemiche. Legge Cirielli Meglio conosciuta come salva-Previti, la legge che dimezza i tempi di prescrizione dei reati è ferma al Senato. Michele Vietti, sottosegretario alla Giustizia uscente dell'Udc, ha consigliato di metterla da parte. Risposta dura di un altro sottosegretario, il previtiano Luigi Vitali: «Ma Vietti dov'è stato finora?». Dpef e legge Finanziaria Il Documento di programmazione dovrà essere presentato dal governo entro giugno e poi approvato dal Parlamento. La Finanziaria andrà alle Camere entro il 20 settembre. Scontro nella maggioranza su Sud, abolizione dell'Irap, riduzione fiscale. Legge elettorale La proposta di Vincenzo Nespoli (An), il "Nespolum", è depositata alla Camera. Forza Italia aveva chiesto la procedura d'urgenza. Dopo le regionali, però, si è tutto bloccato. Giudici Consulta Il Parlamento deve eleggere due giudici al posto di Carlo Mezzanotte e Valerio Onida. Già sette votazioni delle Camere riunite in seduta comune sono andate a vuoto. Competitività Il decreto è al Senato. Il governo ha presentato 40 emendamenti che cambiano radicalmente il testo. Risparmio Il disegno di legge è all'esame del Senato. La Camera l'ha approvato eliminando il mandato a termine del governatore della Banca d'Italia e mantenendo a Palazzo Koch la vigilanza sulla concorrenza bancaria. Ma ora sono nel governo Giorgio La Malfa e soprattutto Giulio Tremonti: avversari di Antonio Fazio. Libertà religiosa Apre la strada al riconoscimento giuridico dell'Islam. La Lega farà le barricate: già presentati emendamenti soppressivi a ogni articolo. Rai La commissione parlamentare di vigilanza deve eleggere sette consiglieri di amministrazione e votare sul nome del presidente di viale Mazzini, che passa se ottiene i due terzi dei commissari, con un accordo tra maggioranza e opposizione. Previsti tempi lunghi. E grande travaglio.
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