L’Espresso
L'Espresso, 05/05/2005
I miracoli del Mago Forest
Ogni anno la critica si chiede se la Gialappa's Band ha chiuso bottega, ossia se il trio è definitivamente sbollito, e se la loro tv è da consegnare agli archivi (o da buttare nel cesso). È un bel dibattito. Questi sono temi, altroché. Vista l'ultima edizione di "Mai dire lunedì" (Italia 1, otto puntate il lunedì in prima serata) viene da pensare che il funerale mediatico di Giorgio Gherarducci, Marco Santin e Carlo Taranto sia da rinviare, almeno per quest'anno. Perché nel deserto dell'intrattenimento tv la creatività del trio è ancora diversi gradini superiore alla media (anzi, "Mai dire lunedì" è una delle poche trasmissioni che si può decidere di vedere, nella tv generalista). Segreti del programma. Da tempo i Gialappa's sfruttano la bravura di Michele Foresta, il Mago Forest, comicità moderna e non ancora del tutto riconosciuta. Cinico, cialtrone, infingardo, autentico "bagalun d'l luster" nell'accezione del professor Franco Cordero, ma fortunatamente superficiale, il Mago Forest impersona alla perfezione lo stile dell'Italia contemporanea, dove i fedeli (di qualsiasi fede) fingono di credere a quasiasi cosa, compresa la politica economica di Berlusconi, nella più completa malafede. Il secondo segreto è Fabio De Luigi, attore, cantante, imitatore, "fantasista". E il segreto definitivo è che "Mai dire lunedì" è un programma molto scritto, con le battute e gli sketch preparati da numerosi bravi autori fra cui spicca il talento ormai classico di Walter Fontana. Poi ce n'è anche un altro, di segreti. Cioè che il programma drena la superficie della tv, ne individua la demenza intrinseca, ci gioca sopra, ma mette sempre a confronto la cacca tv normale con la normale realtà che incombe su di noi. Quando i tre della Gialappa's sfottono il ministro Calderoli, si avverte la sensazione che in quel programma c'è qualcuno che non ignora l'idea che in Italia sono avvenute alcune tragedie: ci si può scherzare sopra, ma pur sempre di tragedie si tratta. Come quando Natalino Balasso, nella parte del ricercatore professor Nerpiolini, con l'espressione scientificamente ineccepibile, autentico morattian-style, dice: «Perché è chiaro che senza risorse la ricerca...», pausa, «va a puttane». Dietro "Mai dire lunedì" c'è la tesi che il paese è andato effettivamente a mignotte, e ci vorrebbe un cuore di pietra per non scoppiare a sghignazzare, anche se sotto sotto fa male.
L'Espresso, 28/04/2005
Sì, Follini fa rima con Casini
Sono due anni che gli ortodossi berlusconiani del centrodestra si chiedono «ma che vuole Follini?». Per gli idolatri di Berlusconi, la presunta irriconoscenza dei neodemocristiani, con l'autentica "ingratitudine" di Marco Follini, è perfettamente incomprensibile. I centristi cattolici dovrebbero limitarsi a manifestare il loro eterno ringraziamento a Silvio Berlusconi, che ha offerto loro riparo, rappresentatività, potere e consenso, e anzi di più, la stessa possibilità di esistere in quanto forza politica. Ma proprio la politica ha ragioni che il cuore non conosce e il mistero doloroso del leader dell'Udc si può spiegare proprio esaminando gli obiettivi politici delle sue scelte. Di obiettivi se ne possono infatti individuare almeno tre: il primo di essi, per usare le parole della retorica berlusconiana, è "alto e nobile"; gli altri due sono bassi e spregevoli, almeno secondo i berluscones più devoti, anche se comprensibili e spiegabilissimi in chiave strategica. La prima finalità Follini l'ha espressa un'infinità di volte: non è possibile che il baricentro della Casa delle libertà oscilli sempre più pericolosamente dalla parte della Lega. Ci vuole un riequilibrio, altrimenti il centrodestra cambia la sua natura, non è più la casa dei moderati ma la casa degli estremisti. Un cattolico come Follini (ma anche come il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini) non può accettare facilmente che la coalizione cui appartiene scivoli via via a destra con una deriva liberista e devolutiva che non appartiene alla cultura della mediazione che da sempre caratterizza la democristianità. Il fatto è che Berlusconi da questo orecchio non ci sente. Il suo disinteresse pratico per le disquisizioni politico-culturali è tale da non capire nemmeno le obiezioni di Follini. Ha gestito a lungo il rapporto con Umberto Bossi con le cene del lunedì sera ad Arcore, «concedendogli tutto ogni volta», come confessò in diverse occasioni Follini, perché concedergli tutto era l'unico modo per evitare il fastidio delle richieste politiche di Bossi e delle sue affabulazioni mitico-magiche. Quindi ha sempre considerato le argomentazioni di Follini come elucubrazioni incomprensibili, fumisterie provenienti dagli ultimi fuochi della prima Repubblica. Naturalmente le considerazioni di Follini erano invece il punto qualificante della polemica interna alla Cdl, soprattutto per i riflessi che la deriva nordista aveva in tema di riforme costituzionali (ma senza trascurare le ripercussioni che ha avuto sulla politica economica del governo, e i contraccolpi che ha avuto nel Centro-sud). Di questo si tratta dunque secondo Follini: di trovare all'interno della Cdl una composizione che sintetizzi le posizioni federal-liberiste e nazional-centraliste presenti nel centrodestra. Per l'empirismo assoluto di Berlusconi, una sofisticheria incomprensibile. Ed è anche per questa incomunicabilità che vengono in luce le altre due finalità di Follini (e Casini), i due obiettivi un po' meno alti e un po' meno nobili, ma politicamente rilevanti. Il primo obiettivo consiste naturalmente nel tenere alta la tensione e quindi intensificare il ruolo politico e la visibilità del suo partito, che non a caso appare in netta crescita nei sondaggi dopo lo scatenamento della crisi di governo. D'altronde, la minaccia berlusconiana di arrivare al voto "espellendo" il partito di Follini sembra un'arma spuntata, dal momento che in termini di potenziale di coalizione nei collegi l'Udc vale quanto la Lega (ossia senza i voti neodemocristiani la Cdl perderebbe le elezioni senza scampo). Ovviamente il capo di Forza Italia minaccia l'Udc di portare via tutti i suoi voti, ma non è detto che si tratti di un'operazione scontata: il Berlusconi del 2005 non è più il Berlusconi del 2001, non è il vincitore per diritto divino. Quindi non è affatto detto che le sue minacce si avverino meccanicamente. Infine, proprio per queste ragioni, l'ultimo obiettivo di Follini & C. è il più rischioso. Consiste nel ridimensionare Berlusconi. Logorarlo. Relativizzarlo. Fare diventare Re Silvio una fra le ipotesi di leadership del centrodestra. Questa per i berlusconiani puri è la finalità più ignobile. Ma la politica è politica, e non prevede la gratitudine come modello comportamentale obbligato. Anzi, dopo le regionali, il risultato più vero è che Berlusconi è sceso dal trono: e Follini, con i suoi ingrati, vede complicarsi il futuro in modo promettente.
L'Espresso, 28/04/2005
Quel Porrà è un bomber di razza
Vista una puntata clamorosa del programma cult di Giorgio Porrà "Lo sciagurato Egidio" (Sky, 8 aprile), dedicata più o meno alle relazioni proprie e improprie fra canzoni popolari e calcio. Dopo un avvio di maniera, con l'Antonello Venditti di "Grazie Roma" e il fisiologico De Gregori sulla paura di tirare il calcio di rigore e teoria metafisica soprastante (non è da queste cose che si giudica un giocatore, continua a dire lui, ma il dubbio rimane), ecco 40 minuti di grande tv documentaria, a partire da un libro, "Un'estate con Chet", di Massimo Basile e Gianluca Monastra: con recensione strepitosa recitata dall'ex centravanti Gianluca Vialli, che esordiva con la confessione straniante «La musica di Chet Baker mi ha sempre dato emozioni violentissime». Sullo sfondo, all'epoca dell'arresto del jazzista in Versilia, immagini della Fiorentina scudettata. E soprattutto sequenze indimenticabili di Baker che accenna con la voce "Almost Blue". Dopo di che, intermezzi pop e momenti di sobria nostalgia, inframezzati da Paolo Conte che allude alla «genialità di uno Schiaffino», e un'intervista a Franco Battiato memore di quando gli toccò di marcare Pietro Anastasi, mentre scorre il bianco e nero della girata brasiliana (che Gianni Brera paragonò allo stile del grandissimo Leonidas del 1938), con cui nell'anno 1968, proprio quello della leva calcistica di De Gregori, il sicilianuzzo fissa il due a zero nella finale contro la Jugoslavia ipotecando il campionato europeo. Mettiamoci ancora Dario Fo e Paolo Rossi, e poi Rita Pavone a ricordare i tempi di Charles e Sivori (con filmati che mostravano come il gallese fosse anche capace nel tocco), quando lei cantava "La partita di pallone" di Rossi-Vianello, perché-perché-la-domenica-mi-lasci-sempre-sola; per finire con il Quartetto Cetra, "Che centrattacco!". Applausi. Un programma di velocità, di allusioni, di documenti, di misura, con una ricerca sofisticata sul corredo musicologico, citando perfino il Battisti semisconosciuto di "Un anno di più" («Io giocavo al pallone, sono il solito scarpone»); gestito al meglio da un Porrà che non legge il gobbo, improvvisa o si è preparato benissmo, sociologizza il giusto, allude un po', spiega ma non rompe, sicché uno dice: ma perché c'è solo "Lo sciagurato Egidio", a fare queste cose?
L'Espresso, 21/04/2005
Trecento giorni da doroteo
Si erano incrociati facendo anticamera in un ministero. Tempi della profonda prima Repubblica. Silvio Berlusconi si era profuso in un peana per i capi dorotei, per la saggezza con cui amministravano il potere, per il realismo con cui concepivano la politica. Marco Follini, detto allora "il giovane Follini", si era schermito: «Purtroppo, dottore, non ci sono più i dorotei di una volta». Ormai Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Toni Bisaglia appartenevano in effetti al passato della Balena bianca. Ma con uno scatto più che atletico Berlusconi balzò in piedi dalla poltrona in cui era sprofondato, indusse il futuro capo dell'Udc ad alzarsi per imitazione e lo abbracciò mostrando una commozione così sfacciata da sembrare vera: «Ma c'è lei, Follini!». Sono passati alcune epoche politiche, ma l'eco di quella lontana conversazione grava sulla politica italiana. Perché dopo il knock down delle elezioni regionali, Berlusconi non ha molte scelte strategiche davanti a sé. Certo, c'è sempre la "exit strategy" suggeritagli dal realismo nichilista di Giuliano Ferrara, giocarsi la partita delle elezioni politiche nella serena accettazione della probabilità di perderle, e nel frattempo preparare razionalmente la successione. Tuttavia questo implicherebbe una qualità politica, e anche ideologica, che Berlusconi non ha mai mostrato. Il Cavaliere è pragmatismo puro. Intuisce che ripresentare il programma di governo per gli ultimi 300 giorni in una chiave ancora liberista e devoluzionista significherebbe andare a sbattere. Quindi procede a tentoni dentro una strettoia al cui termine ci sono alternative diaboliche. Se sposa fino in fondo l'ideologia supply- sider, il taglio delle tasse, la polemica antistatale, cioè l'Ur-Berlusconi, il "subgoverno" An-Udc si mette di traverso. Se invece si sgancia dal programma dell'Asse del Nord, per mitigare l'insofferenza centromeridionale rispetto alla devolution, Umberto Bossi e tutta la Lega minacciano l'Armageddon. In queste condizioni un uomo bramoso di consenso come Berlusconi può anche avvertire un intimo senso di frustrazione. Sono i supplizi della politica. Inutilmente il Cavaliere ha provato a spiegare agli alleati che nel 2006 si può vincere con operazioncine di "politique politicienne" come il recupero di Marco Pannella e Alessandra Mussolini. Mentre i centristi sentono il gradevolissimo odore di emancipazione dal partito-azienda, i leghisti fanno la faccia feroce come sempre, forti del discreto successo alle regionali. Precipitato in poche ore da deus ex machina a problema politico, Berlusconi può intravedere un barlume in fondo al tunnel soltanto con il troncare e sopire di manzoniana e dorotea memoria. Un contentino alla Lega, almeno a parole, una revisione al ribasso del Contratto con gli italiani, un programma dei 300 giorni all'antica, di stampo moderato e democristiano: famiglia, impresa, Mezzogiorno. Trecento giorni di un Cavaliere forlanizzato. Rassicurante, dimesso, quasi pentito anche se il pentimento non è fra le sue propensioni innate. E sempre con il retropensiero, purtroppo per lui, che a fare i dorotei sono più bravi quegli altri, quelli che sono stati battezzati a Santa Dorotea. Sicché quella vecchia esclamazione, «ma c'è lei, Follini!», potrebbe anche diventare l'epitaffio paradossale sulla politica del Cavaliere.
L'Espresso, 21/04/2005
Un messaggino per il papino
Tra i fenomeni singolari avvistati durante l'agonia e i funerali del papa, con i dilemmi sul che fare, "the show must go on" come vorrebbero i Queen, oppure ci si mette in lutto?, una delle soluzioni più curiose è stata quella di Mtv. In sintesi: sospensione della programmazione normale, video di canzoni "tristi", e nel sottopancia gli sms del pubblico giovane (100 mila in meno di una settimana). Si sa che viviamo tempi televisivi, al punto che la folla raccolta in San Pietro, all'annuncio della morte di Karol Wojtyla, applaude. Normale, se è vero il giudizio di Bill Clinton sulla presenza scenica del papa: «Una rockstar». Eppure pregano, a loro modo, i ragazzi che mandano i messaggi a Mtv, e li vedono passare in sovraimpressione durante un video di Moby. Ci sono i figli dell'infantilismo, che dicono «Karol, sarai sempre il nostro papino», e ci sono quelli sformati dal gergo giornalistico e tv: «Un pontefice che ha lasciato un'impronta...», «un impatto fortissimo sul mondo globalizzato...», come se avessero sessant'anni e non 20, perché a 20 nessuno dovrebbe usare le parole pontefice e impatto. Comunque, quei messaggi segnalano che tutto è comunicazione, tutto è televisione possibile e praticabile, anche se alla maniera adolescenziale: «Giovanni Paolo sei stato... grande!...", con il normale abuso di puntini, esclamativi e maiuscole che praticano in questi casi gli adolescenti e Vasco Rossi. Comunque, si capisce che è sempre questione di misura. A Roma il troppo volonteroso capo della Protezione civile Bertolaso voleva sospendere il concerto romano dei Queen, vedi caso. Ignaro, il poveretto, che lo show è lo show, and must go on. Difatti i Queen l'hanno mandato a quel paese. La soluzione-Mtv ha salvato capra e cavoli: intanto le canzoni tristi sono generalmente più gradevoli del pum pum normale, dell'hip hop, del fastidio quotidiano del rap. Se non ricordo male, su Mtv passano raggelanti programmi di "istruzioni per l'uso" sessuale. Il che conferma che tutti ammirano il papa e nessuno segue i suoi moniti in materia morale. Ma in fondo si può capire che nella società scristianizzata il mezzo è il messaggino, la preghiera può diventare elettronica, e dunque non ha tutti i torti chi scrive «Veglia su di noi anke da lassù».
L'Espresso, 14/04/2005
Sua Tele Santità
Fosse stato soltanto un leader della comunicazione, o un talento creativo capace tecnicamente di esaltare le folle, Giovanni Paolo II non sarebbe stato il genio pubblico che è apparso ai popoli di tutti i continenti. Non era una pop star. Non era nemmeno un'icona serializzata alla Andy Warhol e canonizzata dal culto dei papa-boys. Se nel suo caso si fosse trattato solo di una qualità retorica specifica, cioè di una particolare modalità comunicativa, il papa non sarebbe riuscito a scuotere il mondo. Quindi, per capire come Karol Wojtyla sia riuscito ad agitare la storia, occorre sciogliersi dall'idea postmoderna che la voce del pontefice sapesse diffondersi grazie a un tocco carismatico, che gli permetteva di approfittare di ogni strumento e di ogni piega della mediaticità. Non è così, non è stato esclusivamente questo. A mano a mano che i giorni passano, dopo il triduo lunghissimo dell'agonia, mentre le televisioni di tutto il mondo continuano a rimandare le immagini dei suoi viaggi e della sua traiettoria planetaria, bisognerebbe provare a capire che il ruolo di papa Wojtyla tra il finale del Novecento e l'avvio del nuovo millennio è stato innanzitutto una funzione dettata dalla consapevolezza profondissima della propria cultura. La comunicazione viene dopo. È uno strumento. Prima della comunicazione viene la convinzione, la fede, la certezza irriducibile della propria idea. È quella convinzione profonda che lo induce a mobilitare le coscienze dei polacchi, durante il maestoso viaggio nella sua patria "socialista", dal 2 al 10 giugno del 1979, nei giorni in cui l'intero paese comincia a cambiare volto. Il papa polacco, colui che era stato il ragazzo di Wadowice, il poeta e l'operaio, raccoglie folle acclamanti che dopo trent'anni di regime manifestano con l'entusiasmo e la commozione, con il riso e il pianto, una speranza nuova e radicale. Il simbolo più vistoso è la grande croce che campeggia in piazza della Vittoria a Varsavia, il luogo delle truculente celebrazioni comuniste. Ma è lo slogan di Giovanni Paolo II a suggerire a Lech Walesa e a chi è già pronto a insorgere contro il comunismo che il cambiamento è un obbligo morale: «Non abbiate paura». Quelle parole che sono la cifra esclusiva di tutto il suo pontificato, diventano in quel momento «non abbiate paura di cambiare la faccia del mondo». Nelle sue parole di allora c'era evidentemente la sensazione che sarebbe bastato poco, un soffio dello Spirito, a disgregare l'ormai esausto totalitarismo comunista, e che quindi in quel momento, e in quel decennio che avrebbe portato allo sbriciolamento del Muro di Berlino, occorresse prefigurare una visione dell'unità spirituale dell'Europa cristiana: l'Europa delle cattedrali, quell'entità sociale, religiosa e umanistica che si sarebbe manifestata felicemente dieci anni dopo, esemplificata dal bellissimo "Te Deum" di ringraziamento nella cattedrale di Praga, dopo la caduta dei regimi comunisti e l'emancipazione dei popoli dell'Europa centro- orientale. La potenza mediatica, così come il carisma personale, nascono quindi proprio dalla saldezza della propria "memoria" e della propria "identità", i due cardini della sua autobiografia. L'impeto comunicativo di un papa che ha operato nell'era della televisione si è visto nei momenti in cui folle sterminate e colorate si stendevano davanti a lui, masse poverissime reclamavano un suo gesto, e Wojtyla poteva offrire soltanto il suo pastorale, il crocifisso a cui restava avvinto, a cui appoggiava la fronte come per ritrovare forza di fronte alle evidenti iniquità del mondo, e la sua parola antica e nuova. La memoria è la consapevolezza storica che induce a grandi gesti, a chiedere perdono per le ingiustizie e le colpe della Chiesa e per le sofferenze inflitte alle minoranze religiose, a pregare davanti al Muro del pianto, a recarsi nella sinagoga di Roma; così come, sempre in quel primo viaggio da papa in Polonia, a celebrare la messa ad Auschwitz, nel «Golgota del mondo contemporaneo», che lo condurrà a una costante riflessione sulla Shoah. Il dono comunicativo di Giovanni Paolo II era in realtà la forza di una volontà e la certezza della propria antropologia. Una visione dell'uomo che si era già formata prima di ascendere al soglio di Pietro e che per diventare una voce universale aveva bisogno soltanto di un ascolto globale. È ancora in quel viaggio in Polonia, nel discorso epocale rivolto agli operai dei cantieri di Nowa Huta, che prelude alla rivolta civile e politica di Solidarnosc, che Wojtyla parla del lavoro dell'uomo, e di come non possa essere trattato come una variabile o una funzione del processo di produzione economica. Joaquín Navarro-Valls, che gli è stato accanto per più di vent'anni, sostiene che il papa aveva maturato la consapevolezza che il cristianesimo, cioè la tradizione, la memoria, doveva affrontare due sfide culturali ingenti: «Il marxismo, ossia una pratica senza più teoria, e lo strutturalismo, una insidiosa teoria senza pratica». Sotto questa luce, la sintesi di Wojtyla è stata originale. «Quello che apparve dopo il conclave del 1978 sulla scena europea e mondiale», ha detto Navarro-Walls, «era un intellettuale molteplice per cultura: polacco nella poesia e nella storia; tedesco in filosofia, conoscitore di Husserl, Scheler, Heidegger, ma anche attento alla Francia, fino all'esistenzialismo di Sartre». Questa è l'identità: un'identità culturale, un'identità filosofica, un "discorso" continuo sulla persona. Qualcosa che consentì a Giovanni Paolo II di parlare delle «stimmate di morte» contenute nel capitalismo; e nello stesso tempo dei «germi di verità» contenuti addirittura nella concezione marxista. Certo, memoria e identità devono incarnarsi in atti concreti, scendere dal trono pontificale e andare negli stadi e nelle spianate, venire a contatto con la fede dei minatori colombiani o dei campesinos messicani, chiamare a sé gli abitanti delle favelas brasiliane, ma anche ammonire Fidel Castro stringendogli la mano, e trattare i potenti della terra come uomini che sbagliano, richiamandoli ai doveri della pace. Tutto questo ha poco in comune, come sottolineò dopo il primo decennio di pontificato un vaticanista come Domenico Del Rio, con il "Wojtyla Superstar" celebrato dall'America hollywoodiana, e nemmeno con il "Goleador de la Iglesia" entusiasticamente popolare nell'America Latina. Il fascino probabilmente irripetibile di Giovanni Paolo II e la fascinazione totale che ha esercitato sul pubblico mondiale sono una successione impressionante di gesti rituali e di parole tradizionali. Come quelle legate alla recita del rosario, alle preghiere e alle giaculatorie di un cattolicesimo del cuore, che danno voce al potente "Sia lodato Gesù Cristo!" con cui appena eletto si rivolse alla gente di Roma. E accanto a quella tradizionale, una gestualità nuova, un'interpretazione soggettiva e talentuosa della retorica richiesta dalle telecamere nell'era della civiltà elettronica. Elicotteri che si sollevano o atterrano con fenomenali effetti scenici, la terra baciata dopo la discesa da qualsiasi aereo, le mani che si tendono per accarezzare e per essere afferrate, le passeggiate, le discese con gli sci, i tuffi in piscina, i bambini sollevati con la forza del prete maschio e atletico, le parole gridate contro l'ingiustizia o la guerra, i cedimenti deliberati e gioiosi al folklore locale, le liturgie interpretate con doti di grande attore e i protocolli infranti con infallibile senso della scena, le costruzioni scenografiche sapientissime; e ovviamente le immersioni drammatiche nella povertà, nell'Africa dell'Aids e della disperazione o nell'India dei morenti di madre Teresa di Calcutta: per esclamare «Cristo stesso diventi africano!», offrendo all'infelicità e alla povertà estreme un cenno di speranza. Tutto questo è stato Karol Wojtyla. Per qualcuno, un'interpretazione geniale del medioevo più la televisione. In modo forse più appropriato, un genio antico, moderno, postmoderno che ha voluto pregare per gli uomini e con gli uomini, in mondovisione.
L'Espresso, 14/04/2005
La fiction è finita
In un paese che sembrava lievitare nel mondo dei sogni, il 3 e 4 aprile è venuto giù il fondale, il palco e il sipario dell'operetta. La fiction è finita. L'"irreality show" (definizione di Ilvo Diamanti) ha chiuso bottega, e i partecipanti si guardano intorno smarriti, incolleriti, comunque attoniti come dopo l'arrivo di una grandinata fuori stagione. Sembra che nell'anno di grazia 2005, prendendo a volo l'occasione delle elezioni regionali, la società italiana abbia deciso di comunicare, alle autorità competenti della Casa delle libertà, che dopo avere a lungo creduto al sogno, al presidente operaio, al "meno tasse per tutti", al contratto, alla stilografica, al cerone, al riformismo avventuroso e al miracolismo berlusconiano, era l'ora di tornare alla realtà, cioè alla sostanza vera e irriducibile delle cose. Prima c'era quell'Italia che ammirava la spregiudicatezza mediatica e l'immagine esteriore di Silvio Berlusconi: il lifting "leggero", la bandana, il trapianto così riuscito, «faccio tutto quello che facevo a trent'anni, è concessa anche l'interpretazione maliziosa», e giù risate complici. Adesso la realtà riprende il sopravvento. Altro che populismo elettronico, altro che look, altro che delirio di superficie e di apparenza ideologica. Siamo alla dura realtà fenomenica. Alle cose. Alle azioni politiche. Ai fatti. Alla fatica. Non è chiaro dove e quando sia avvenuta la mutazione climatica. Probabili le ragioni economiche, in primo luogo. Tuttavia ci sono almeno due aspetti immateriali da mettere in luce, perché fanno da sintomo di un cambiamento profondo. Il primo indizio è il risultato di Alessandra Mussolini, che nonostante un'esposizione pubblica fuori misura, con tutto il suo populismo trash ha incassato percentuali che la fissano all'irrilevanza. Non può nemmeno dire di avere determinato la sconfitta di Francesco Storace. Il che significa che la visibilità televisiva e le polemiche tipo «ma tu lo sai quanto costano i pannolini?», o «ahò Vespa, quanto ci costi, eh, quanto ci costi, Vespa?», non si trasformano necessariamente in consenso politico, e questo ha il sapore di un rassicurante ritorno alla razionalità. La seconda sorpresa è stata la sostanziale smentita della tesi sulla disattenzione dell'elettorato in seguito alla saturazione dell'informazione per l'agonia e la morte di papa Wojtyla. Benché le televisioni e i giornali siano stati inflazionati dall'effetto-papa, non c'è stata nessuna diserzione dalle urne. «Un sintomo di salute della nostra democrazia, qualcosa di rassicurante per chi ce l'ha a cuore», ha detto Arturo Parisi nella notte del grande terremoto elettorale. Ciò sembra dire che il risultato delle elezioni regionali, quello stellare 11 a 2 che ha lasciato alla Casa delle libertà soltanto il Lombardo-Veneto, covava da tempo come un fuoco sotto la cenere (o forse come una ruggine sotto la vernice berlusconiana). Fine del sogno. Bentornati fra noi, nella realtà aspra e difficile dell'Italia contemporanea. Oh, intendiamoci, il bagno di realtà è anche un monito secco al centrosinistra: perché si dovrebbe capire che i voti ottenuti, e il sorpasso arrembante sulla Cdl, dissolvono anche tutte le dicerie, le leggende, le mitologie, i pettegolezzi sull'Unione e la sua leadership. La folla dei candidati alternativi al "bollito" Romano Prodi, capeggiata secondo i soliti mondani da Walter Veltroni, da Francesco Rutelli o da chiunque altro, arretra come una folla di vampiri davanti a una fiaccola che anticipa il chiarore dell'alba. Il rientro nel soleggiato mondo diurno fa anche capire che tutte le chiacchiere sulla fisionomia e l'anima del centrosinistra appartengono a un'altra epoca, e probabilmente appartiene al passato anche lo strumento delle primarie, che Prodi ha agitato a lungo per chiarire le posizioni interne e per sconfiggere le ombre mediatiche che a loro volta venivano agitate o si agitavano contro di lui. Dovrebbero tornare alla realtà anche tutti coloro, numerosi soprattutto nell'establishment economico, che hanno sempre mantenuto un'equidistanza altezzosa rispetto allo schema bipolare. È il bipolarismo, darling. Uno schema politico che implica ragionamenti semplici fino alla semplificazione. La Cdl non funziona? E allora si prova l'Unione, non si va alla ricerca di una partita "terzista" o neocentrista giocata con carte immaginarie. Se dopo quattro anni di governo del centrodestra si continua a chiedere, come ha fatto e continua a fare Luca Cordero di Montezemolo, di «mettere finalmente l'industria al centro dell'agenda», vuol dire che finora Berlusconi si è fatto gli affaracci suoi, ha sistemato quasi tutte le pendenze giudiziarie, ha legificato a suo uso e consumo con la legge Gasparri, ma dell'economia reale si è disinteressato largamente. Sarà il caso anche di chiedersi come mai Berlusconi non abbia intuito, o abbia intuito solo in parte, il rovescio che stava per capitargli. Perché abbia tentato, con sempre maggiore fiacchezza, la carta dell'anticomunismo, l'ombra di «terrore, miseria, morte» se vince il Male, con il risultato che in Puglia un comunista gay fa fuori il clone berlusconcino. È vero che alla fine, da Bruno Vespa, aveva quasi ammesso che per la Cdl la prova regionale sarebbe stata difficile, «perché l'economia non va bene». Ma evidentemente anche il premier era prigioniero di Mirabilandia, del mondo fantastico e pieno di balocchi illustrato ogni sera dalle soap opera dei tg di regime. Ottenebrato dalla propria costruzione comunicativa. Incapace di rilevare le sacche di rancore che si sono create in questi anni nel corpo della nostra società, con le rivolte dei pendolari, l'impoverimento del lavoro dipendente, l'insofferenza dei ceti depredati dopo essersi rivolti fiduciosamente a Lui per avere qualche briciola del banchetto. Perché se si accetta la logica di Berlusconi, la sconfitta alle regionali è inconcepibile. Come può maturare una batosta del genere mentre antenne e satelliti dipingono l'Italia come il paese del sogno e la caduta dei consumi viene attribuita al fatto che gli italiani si sono messi a dieta? Com'è possibile che la realtà possa permettersi di smentire l'immaginazione, quando la fantasia fiorisce in un giardino mediatico tenuto sotto ferreo controllo proprietario o politico? Un piccolo ma significativo segnale, a volerlo cogliere, era stato anche il fiasco della manifestazione fiorentina organizzata da Maurizio Scelli, con i presunti giovani del nuovo movimento artificiale Italia di nuovo. Altro segnale di sfasatura, la surreale serata di Berlusconi da Bruno Vespa, il giovedì prima delle elezioni, con le scritte in sopvraimpressione che segnalavano "la trasmissione è registrata": sicché mentre su tutti i teleschermi del mondo cominciava l'agonia del papa, Berlusconi raccontava barzellette, veniva mostrato proprio a Firenze da Scelli mentre parlava sul palco con un trentenne corpulento e calvo, a cui celentaneggiando dava consigli tricologici, alludendo alla buona riuscita del proprio trapianto. Per ora Berlusconi incolpa gli alleati, il "subgoverno", i politicanti Fini e Follini, rifugiandosi nell'amara constatazione che soltanto Umberto Bossi e la Lega si sono dimostrati amici fedeli. Già, ma l'Asse del Nord è un'illusione, fomentata inutilmente da Giulio Tremonti. Tanto più che la prima autentica irruzione di realtà nel paese di Lucignolo fu segnalata proprio dallo schianto con cui cadde il ministro dell'Economia, «il nostro uomo migliore», il centravanti della Tremonti- bis, il capo delle partite Iva, il genio della finanza creativa con cui suppliva alle ripetute disillusioni sulla crescita e alle smentite fattuali dei suoi Dpef. L'illusorietà politica dell'Asse del Nord è certificata dai suoi effetti politici e istituzionali. Per restare sottobraccio con la Lega, Berlusconi ha dovuto farsi in quattro per approvare una riforma costituzionale onirica, che non dispiace soltanto a Giovanni Sartori, a Domenico Fisichella, ai giuristi progressisti dell'associazione Astrid, ai "comunisti", ai dossettiani: dispiace a tutti, compresi i suoi alleati dell'Udc e di An, che finora hanno trangugiato, ma domani, visto il disastro, anzi «l'ecatombe», secondo il commento dell'abbattuto neoandreottiano Storace, decideranno che la riforma va messa nel ripostiglio della Casa delle libertà: anche perché si è visto che nel Centro-sud la devolution è diventata una briscola in mano agli avversari. È stato davvero un referendum: su Berlusconi e sul berlusconismo. Hanno votato "contro" molti di coloro che si erano lasciati prendere dall'euforia economica. E che magari erano stati ampiamente delusi dalla riforma delle aliquote fiscali, cioè dalla grande "ricetta" del capo di Forza Italia, ritrovandosi pochi spiccioli in tasca dopo annunci portentosi e dopo l'incontrollata inflazione post-euro. E che attendono ancora le grandi opere, quelle che secondo Pierluigi Bersani vengono inaugurate anche tre volte di fila, per sfruttarle propagandisticamente. Ecco, ci sarà tempo per analisi più approfondite. Ma intanto è bastata una serata per fare passare il Cavaliere dal miracolo alla piatta realtà, dall'euroscetticismo trionfalistico dello sbrego al Patto di stabilità ai richiami pesantissimi del commissario Joaquín Almunia: insomma, dal sogno al disagio del risveglio, gusto amaro in bocca, irritazione con amici e avversari. C'è da scommettere che Berlusconi tenterà di rialzarsi più allegro e dinamico che pria, e si può giurare che l'Unione, nell'anno che viene, farà di tutto per farsi male. Nel frattempo, però, benvenuti tutti nell'Italia vera.
L'Espresso, 14/04/2005
Revisionismo da telenovela
La fiction televisiva serve per fare ascolti, per creare eventi, per uscire dal circuito malefico dei reality show, per smuovere l'etere. Fosse tutto qui, benissimo. Ma da qualche tempo gli sceneggiati, genere in cui svetta Raiuno, sono anche altro. Qualcosa di culturalmente rilevante, e non per la qualità televisiva o narrativa. La qualità è come il coraggio per don Abbondio: che ci sia o non ci sia dipende da fattori imponderabili; chi ce l'ha se la tiene, e chi non ce l'ha non se la può dare. Eppure vorrà dire qualcosa se la Rai ha prodotto, con precisione e puntualità chirurgica, una fiction come "Il cuore nel pozzo", dedicata alle foibe: vuol dire che la televisione di intrattenimento provvede a sottolineare un mutamento nella percezione della storia. Ricostruisce la memoria, asseconda una revisione. Se vogliamo dirlo con una formula, da qualche tempo stiamo assistendo a un processo che prende le mosse da Renzo De Felice (o meglio, il De Felice della nuova vulgata, usato politicamente in chiave "anti-antifascista") e si stende sui programmi di intrattenimento popolare. Non solo. Oltre ai padre Pio che evocavano l'idea di un paese arcaico e miracolistico, e al dignitoso Giovanni XXIII che massimizzava comunque la figura popolare del "papa buono", si sono visti sceneggiati con il repubblichino buono e il partigiano mutrioso, più o meno alla pari nelle ragioni e nei torti, traducendo così per l'auditel il revisionismo corrivo delle ultime stagioni. Dopo di che c'è stato il Meucci, storia da sussidiario, ma capace di trasmettere un'italianità ferita, funzionale all'idea nazionalpopolare che l'Italia deve contare di più. Vedremo la fiction su Cefalonia con Zingaretti, augurandoci che il patriottismo non diventi giulebbe. Assisteremo al prossimo De Gasperi di Raiuno con curiosita ma anche con timore, non tanto dell'interpretazione di Liliana Cavani, ma dei prevedibili tentativi di appropriazione di De Gasperi stesso. Tempo fa, la storia veniva riscritta con lentezza, attraverso lo stratificarsi delle interpretazioni (ne è un esempio il saggio di uno storico di valore, Agostino Giovagnoli, con il suo ultimo lavoro, "Il caso Moro. Una tragedia repubblicana"). Se ora invece la storia la fa la tv, non c'è poi da stupirsi quando qualcuno, fra revisionismo e televisionismo, sostiene pubblicamente la tesi molto "fictional" della lunga dittatura comunista sull'Italia repubblicana.
L'Espresso, 07/04/2005
I RISCHIATUTTO
La resa dei conti è cominciata, e difficilmente uno dei due potrà sopravvivere politicamente. I duellanti sono Prodi e Berlusconi, impegnati in un lunghissimo faccia a faccia. A urne aperte, la sera del 4 aprile, sarà terminato il primo round: e chi rischia di più, nonostante tutti gli esorcismi, è il Cavaliere. Il secondo appuntamento sarà il referendum sulla fecondazione assistita, dominato dalla figura del cardinale Camillo Ruini, il sostenitore dell'impegno- disimpegno: una prova che invece potrebbe essere molto stressante per il centro-sinistra, e mettere in seria difficoltà l'equilibrio finora ricercato e garantito politicamente da Prodi. Inutile aggiungere che il terzo momento dell'ordalia sarà naturalmente quello delle elezioni politiche del 2006, che appaiono come il momento cruciale dell'era Berlusconi. Vincere, e sanzionare il regime, grazie al patto di ferro con Umberto Bossi, la sua riforma della Costituzione, inefficiente sul piano del sistema politico-istituzionale ma efficientissima come macchina di potere, con tanti ringraziamenti al ruolo garantitogli dall'ultima Rai (cda monocolore e presa sicurissima del direttore generale Flavio Cattaneo, nonché "effetto fiction", ossia la rassicurazione quotidiana sulla qualità del governo offerta dal Tg1 e dal Tg2). Oppure perdere, nonostante le posizioni di clamoroso vantaggio, e imboccare la via dell'uscita dalla politica, con tutti i rischi connessi a questa ipotesi, a cominciare dalla possibile disintegrazione della Casa delle libertà. Dunque, le regionali. A quanto si capisce, le tendenze si possono sintetizzare così: c'è un trend di lungo periodo che deprime le aspettative del centro-destra; l'effetto del secondo modulo della riforma fiscale, con il taglio delle aliquote per i ceti medio-alti, ha portato soltanto a un'increspatura delle preferenze. Il consenso alla destra incorporava già da tempo l'aspettativa della riforma, e quindi l'esito sul profilo degli andamenti elettorale non sembra risultare particolarmente significativo. C'è anche da considerare che le elezioni nelle 14 regioni in cui si vota sembrano rivelarsi una specie di prova generale delle elezioni politiche, e in questo senso la dimensione ideologica prevale sui singoli aspetti della campagna elettorale. Silvio Berlusconi lo ha intuito, e quindi alla fine si è buttato nella campagna, nel tentativo di sostenere Francesco Storace, un candidato simbolo del Polo: il Lazio infatti è una delle tre regioni, con Piemonte e Puglia, che potrebbero risultare decisive nel calcolo della vittoria, e una sconfitta di Storace apparirebbe catastrofica, e in quanto tale destinata ad aprire un regolamento di conti nella Casa delle libertà. Storace è in tensione. Il recupero di Alessandra Mussolini infatti rimette in lizza una formazione adatta a rastrellare quel voto di protesta che risente marcatamente della riconoscibilità dei candidati. È vero che in passato Storace è apparso in grado di presidiare con efficacia il consenso di frontiera, incanalando il voto delle borgate, ma è altrettanto vero che la Mussolini sembra la candidata perfetta per sottrarre preferenze di confine. Nello stesso tempo, la campagna del candidato del centro-sinistra, Piero Marrazzo, è apparsa più efficace del previsto, in grado di convincere alla lunga l'elettorato di riferimento ma anche di insinuarsi polemicamente in alcuni punti deboli dell'attività di governo di Storace. Il quale ha lanciato l'allarme: «Se perdiamo il Lazio, il prossimo premier è Prodi». La partita appare molto aperta, ma lo stesso coinvolgimento del premier, con il faccia a faccia indiretto con Prodi, segnala che il risultato nel Lazio è un elemento altamente critico, condizionato dagli eventi dell'ultima ora (è ancora da valutare se l'infortunio dell'"Unità" a proposito del padre di Storace, fortissimamente drammatizzato dal centro-destra, possa avere avuto l'effetto di un involontario soccorso rosso al governatore). L'altra regione che fa da test politico rilevante è il Piemonte. Perché mette in gioco una figura, quella del "forzista di buonsenso" Enzo Ghigo, gradita agli establishment e accettata da una larga generalità di elettorato. Eppure l'aspetto confortevolmente moderato di Ghigo è stato via via sgretolato dal forcing della candidata dell'Unione, Mercedes Bresso. Che ha risalito lentamente le posizioni, guadagnandosi la fama di combattente irriducibile, e che ha compiuto uno sforzo straordinario di convincimento negli ambienti del potere subalpino: fra circoli di professionisti e associazioni di settore, nessuna lobby, nessun gruppo d'interesse e nessun aggregato di potere locale è stato trascurato dalla poderosa Mercedes. Le conseguenze possibili inquietano Berlusconi e la Cdl. Perché perdere un paio di regioni minori è politicamente tollerabile. Ma perdere una grande regione del Nord, no. Al punto che per sostenere Ghigo è sceso in campo addirittura il ministro dell'economia, Domenico Siniscalco, che il martedì dopo Pasquetta si è presentato al Centro Congressi dell'Unione Industriale, classico luogo di ritrovo della borghesia torinese, per offrire il suo appoggio al governatore uscente, sotto la regia del coordinatore locale di Forza Italia, Guido Crosetto: «Ghigo ha governato bene, il Piemonte è un modello». Ora, che un uomo duttile come Siniscalco, sempre attentissimo a sottolineare la sua funzione di tecnico non-partisan, abbia accettato di manifestare il suo "endorsement" per Ghigo, la dice lunga sull'entità della posta in gioco. L'altro aspetto da valutare, ai fini del giudizio degli elettori, concerne la puntata elevatissima, giocata dal governo e dalla maggioranza, sulla riforma costituzionale, con il via libera in prima lettura alla devolution e al premierato. Ma non è detto che ciò possa dare risultati diretti. Le regioni più sensibili al tema devolutivo, vale a dire Lombardia e Veneto, non sembrano a priori contendibili dal centro-sinistra. Il successo ottenuto da Umberto Bossi (e da Giulio Tremonti come coautore dell'Asse del Nord) non sposta significativamente il rapporto di forza, particolarmente sfavorevole al centro-sinistra, nonostante il recente appannamento di Roberto Formigoni e di Giancarlo Galan. Su un piano più generale, c'è da valutare, semmai, il possibile effetto negativo della riforma costituzionale, enfatizzato ad esempio dal durissimo intervento di un commentatore come Ernesto Galli della Loggia, che sul "Corriere della sera", ha parlato di «patria perduta». Il diffondersi di una valutazione estremamente critica sul progetto costituzionale della Cdl (una sorta di inatteso effetto "il re è nudo") è una novità spiacevole per il centro-destra. Quanto alla terza regione in bilico, la Puglia, è un esperimento che metterà a dura prova gli analisti e i leader politici. Soprattutto Prodi qui potrebbe pescare una carta difficile. Fino a questo momento, mentre la tendenza sembra essere incertissima, la performance di Nichi Vendola, «estremista» per autodefinizione, sembra premiare chi sostiene che il centro-sinistra non deve puntare al recupero del voto moderato, bensì alla qualificazione di un profilo forte e riconoscibile. Finora insomma trova soddisfazioni lo schema di Fausto Bertinotti, che ha spostato Rifondazione comunista nell'ambito governativo, ma che sostiene che l'alternativa alla Cdl va portata esplicitamente da sinistra. È un tema, questo, che un'eventuale vittoria di Vendola, con la sua capacità di mobilitare il voto popolare, di immergersi nelle piazze e nelle periferie, porterebbe a una temperatura rovente. Perché finora Prodi ha condotto tutto il suo sforzo per integrare Bertinotti nel perimetro dell'Unione. Ma il leader del centro-sinistra sa benissimo che in diversi ambienti (nell'elettorato delle categorie economiche, in particolare, fra artigiani, commercianti, gruppi professionali) in questo momento l'Unione viene considerata politicamente squilibrata. La Puglia quindi diventa un esame complicato: per i suoi riflessi sulle primarie e sul baricentro dell'alleanza. Anche Prodi si gioca molto. Perché a sinistra c'è l'aspettativa di un successo. E un successo solo parziale verrebbe considerato come una mezza sconfitta. Ma non solo, forse neppure vincere le regionali basterà: occorrerà anche gestire l'eventuale successo, e capire se in proiezione 2006 sarà decisivo accentuare la linea moderata, oppure spingere su una Unione radicalmente alternativa. Un tema su cui Prodi ha messo in gioco la propria immagine politica.
L'Espresso, 07/04/2005
Ricci e il secolo dei lumini
Ogni volta che parla, che esterna, che esecra condanna sancisce approva, Antonio Ricci è imperdibile. Situazionista, dicono le didascalie, confondendolo magari con Carlo Freccero, e senza avere prima controllato l'appena ripubblicato saggio di Mario Perniola ("I situazionisti", Castelvecchi editore). Con tutto ciò, qualsiasi cosa racconti, Ricci è memorabile, a partire dalla sua celebre (almeno per noi aficionados della lezione sulla società dello spettacolo di Guy Debord) dichiarazione sui rapporti sessuali prima del matrimonio: «Sono contrario perché fanno arrivare tardi alla cerimonia». Il meglio, naturalmente, Ricci lo dà non appena si mette a parlare del suo ammirevole mostro, la sirena dei boschi, l'usignolo Paolo Bonolis. Perché verso super-Bonolis, verso l'uomo che tutto "bonolizza", nel senso del banale, del "Banalis" e della banalisi (scienza speciosamente patafisica), il ligure Ricci si sente in grado di interpretare per una volta la parte dell'Illuminismo contro l'Oscurantismo. Lo spirito dell'Ottantanove parigino verso la superstizione e la demagogia dei secoli bui. Genova per noi, con quella faccia un po' così, contro la Roma "de noantri", la società dei magnaccioni, contro "ma che cce freca, ma che cc'emporta". E noi je dimo, e noi je famo. E ha pure ragione, il Riccissimo, dato che le prestazioni di "Banalis" con medium e veggenti risultano alla memoria seriamente inquietanti, facendo molto più secolo dei lumini che secolo dei lumi. Ma nonostante tutta l'ammirazione per uno che nella sua villa rivierasca ha una collezione di cento chitarre, che compongono un paesaggio che vira con euforica nostalgia al beat, sembra francamente impegnativa la sua concezione di "Striscia la notizia". Vabbè, telegiornale alternativo, agenzia della verità contro la tartuferia generale, luogo del disvelamento mediatico, esorcismo popolare ai danni dell'omologazione. Però che dispiacere, pensare che "Striscia" sia l'informazione alternativa. Come se negli exploit di Ricci, da "Drive In" in poi, contasse soprattutto un'intenzione pedagogica, tipo "istruisce e diverte". Chiaro che noi debordiani non vogliamo essere né istruiti né pedagogizzati. Ci piace il Ricci irresponsabile, non il pedagogo di massa. Lasciatelo divertire, se ancora di diverte. Lasciateci divertire, se ci riusciamo. Sulle intenzioni civili, stendiamo un velo. Oppure una vela. O anche una velina.
L'Espresso, 31/03/2005
Nella fattoria degli orrori
La nuova edizione di "Music Farm" non è ancora entrata nel vivo, ma si possono già individuare aspetti interessanti. Certo, la volta scorsa c'era in campo la farfalla impazzita, lo scarto rispetto alla norma, l'eccezione che sconvolge le regole, insomma la Loredana Bertè. Adesso invece manca ancora un eroe. C'è la pupilla di Caterina Caselli, Gerardina Trovato, che sembra reduce da prove esistenzialmente impegnative. Oppure c'è Mietta, quella del trottolino amoroso con Amedeo Minghi, dududù dadadà, che vista in diretta si direbbe molto più spontanea e simpatica del previsto, e quando canticchia si impegna con molta buona volontà. Finora, er mejo è sembrato, musicalmente cantando, Francesco Baccini: look rinnovato, aria di uno a cui sono capitate delle disgrazie e ha deciso di cambiare vita a cominciare dall'acconciatura; eppure basta metterlo davanti a un pianoforte, e lui suona e canta, e "fa" qualsiasi cosa, da Francesco De Gregori a "Guido piano" e "Fiore di maggio" di Fabio Concato. Sulle prime, è sembrato fuori fase Franco Simone, che una volta veniva chiamato "il poeta della canzone", e al momento si esprime in notevoli mutismi mentre gli altri cantano (brava comunque Mietta a cantare Tenco e Ruggeri). E rischiava di essere sfasata anche la potente Iva Zanicchi, che per questioni generazionali e di genere canzonettistico appariva del tutto out. Ma non bisogna mai sottovalutare l'Iva, che com'è noto è un partito, il partito delle partite Iva (testo e musica di Giulio Tremonti). Piano piano, l'Iva ha assunto un ruolo più importante, intrufolandosi da vecchia zia nelle conversazioni, discutendo di gastronomia, moraleggiando biograficamente sul Sanremo vinto con Claudio Villa. Ci si poteva scommettere: l'Iva è un leader. L'Aquila di Ligonchio, l'autrice del classico "Polenta e castagne", la potentissima interprete di "Prendi questa mano... zingara", la signora inappellabile di "Ok il prezzo è giusto", ha un talento formidabile per gestire le situazioni di gruppo. Poi ci si può chiedere se vale la pena di seguire "Music Farm", e la risposta naturalmente è no, siamo mica matti, solo i coatti. Ma siccome è chiaro che ormai la tv si guarda facendo uno zapping incessante sui 3 mila canali del satellite e del digitale, capiterà di fermarsi ogni tanto anche sull'Isola dei Cantanti, contemplando per qualche minuto l'Iva e concludendo: quella sì che è tosta, "boia d'un mond leader".
L'Espresso, 24/03/2005
Promossi & bocciati
Nel peggiore dei casi sarà una tonnara. Nel migliore, un duello infinito. "Neverending Duel", una sceneggiatura serratissima alla Ridley Scott. Dodici, tredici, quattordici mesi di botte, parate, risposte, finte, contrattacchi. I leader in prima fila, agitando lo spadone fra urla belluine; i comprimari al fianco e al seguito, tutti pronti a scannarsi. Tourbillon Italia, la grande mischia: in attesa delle elezioni regionali, e del dibattito sui vincitori effettivi. Poi, il via a un anno di puro terrore, con i protagonisti che sono già schierati, con le armi sguainate. Prepararsi allo spettacolo: il libretto è questo qui sotto. Con personaggi, interpreti e comparse. Sempre i soliti. Sempre nuovi. L'aspirante statista S'ode a destra uno squillo, e naturalmente appare Silvio Berlusconi. Sondaggi bruttini, ma proprio bruttini, per Forza Italia: tuttavia il Cavaliere è riuscito nell'acrobazia di fare diventare un quasi successo bipartisan il colossale pasticcio della liberazione di Giuliana Sgrena, che lui ha sempre chiamato «la signora», perché si sa che i giornalisti sono per l'85 per cento comunisti, e quella è comunista sul serio, quindi conveniva ridurre, ridimensionare, minimizzare. Ecco dunque «la signora». L'economia comunque continua ad ansimare, il decreto sulla produttività è un frittino misto senza risorse economiche e con riforme di portata straordinaria buttate lì sulla carta, nella certezza di rivoluzionare l'Italia con un tratto di penna. Ma se era così facile, perché non sono state fatte prima? «Abbiamo mantenuto tutte le promesse», giura il premier. I dati lo smentiscono, e il sociologo Luca Ricolfi ("Dossier Italia. A che punto è il contratto con gli italiani") è piuttosto scettico, ma lui è fiducioso e intanto ha trovato e ha imposto al paese un nuovo fuoriclasse, ovviamente Gianni Letta. Ma si sa come finiscono i fuoriclasse nella Casa delle libertà: basta chiederlo a Giulio Tremonti, che scrive una lettera fluviale al "Sole 24 ore" per rivendicare di avere fatto un lavoro colossale. Forse avrà lavorato troppo. Anche il presidente del Consiglio ha lavorato molto. Rating: basso ma crescerà (o ricrescerà, come i capelli, che in effetti sono ricresciuti benissimo). Voto: 5. Il Professore "avanti miei Prodi" All'attacco, all'attacco. Contro la dittatura della maggioranza nel nome di Hamilton, Madison e Tocqueville, contro la riforma costituzionale di destra, contro la politica economica del governo. E nello stesso tempo lima le previsioni delle regionali, se ne sta quatto (evidentemente, più che ai sondaggi, crede al buon senso prudenziale di Giulio Santagata, il suo braccio destro inventore della "Fabbrica del programma"): non alziamo troppo le aspettative elettorali, altrimenti un risultato solo discreto verrà preso per una sconfitta. Non piace ai moderati, il Professore di lotta e di governo, non piace la sua alleanza con Fausto Bertinotti, non piacciono i suoi giudizi catastrofici sul governo, sulla perdita di competitività italiana, sulla crescita mancata; non piace che ritrovi all'improvviso il gusto della battuta (a proposito di grandi opere: «Lunardi inaugura anche i chiodi a cui attacca il cappotto»). E però, quando era più istituzionale e pacioso, lo davano per "bollito", mentre se attacca "non è più lui". Ma a giudicare dall'ira funesta e dalla mobilitazione che suscitano a destra le sue dichiarazioni, viene il sospetto naturale che Prodi sia temuto ancora e sempre, e soprattutto dia fastidio che l'Unione abbia adesso un leader che non agisce soltanto di rimessa ma attacca. Giudizio: ah, che bestia cattiva, vuole mordere l'avversario. Voto: 6 più. Diplomaticus Finissimus Finiti grazie al cielo i tempi in cui sembrava un abusivo, come all'epoca dello Tsunami, quando i reduci dalla tragedia, sbarcati a Fiumicino, non lo degnavano di uno sguardo, e lui stava lì con le mani in mano. Adesso Gianfranco Fini è entrato effettivamente nella parte del ministro degli Esteri: anche se non ha avuto un grande ruolo nel caso Sgrena, e anzi probabilmente ha contribuito ad alimentare il mistero, si è calato negli abiti del gran diplomatico: vesto quindi sono. Ha firmato sulla "Stampa", a quattro mani con il perfido albionico e ministro degli Esteri inglese Jack Straw, un articolo in occasione del viaggio nel Regno Unito del presidente Ciampi, in cui si diceva che Italia e Gran Bretagna cantano all'unisono. In sostanza: "Ambassador" ce la fa. Chi ha sostenuto in passato che tutti hanno avuto in classe un ripetente che parlava come Fini (che diceva «la triplice» per parlare dei sindacati, ad esempio), è servito. Piuttosto, cominciano davvero a essere di peso, o almeno stilisticamente inappropriati, i suoi camerati: a Gasparri servirebbe finalmente almeno un corso di dizione, al maschio Francesco Storace un trattamento di buone maniere (altro che polemiche piazzaiole dopo i sondaggi infausti del "Sole 24 ore", «con quel giornale ci ho incartato le uova», e cadute di gusto machiste su Rosy Bindi). Intanto però Diplomaticus dovrebbe benedire donna Alessandra Mussolini, che gli ha portato via il cognome più imbarazzante aprendo nuove opportunità al partito (perché come scrisse Pietrangelo Buttafuoco ai tempi di Fiuggi: «Benito Mussolini è l'unico socialista che non possiamo riciclare in An»). Valutazione: bene Lui, un velo sugli altri. Voto: 6 meno meno. Baffino l'Europeo e i dolori diessini I diagnosti più sofisticati, a cominciare dai riformisti del "Riformista", si stanno chiedendo che fine ha fatto il network di Massimo D'Alema: cioè quella rete generazionale e politica che per un certo periodo sembrava aver messo le mani sull'Italia, che aveva preso il potere per non lasciarlo mai più. Dove sono i "Lothar" dalemiani, dove sono finiti i banchieri dell'unica merchant bank in cui non si parlava inglese? Lui, il leader, dà l'impressione di essere in una condizione incerta. Un po' qui, un po' là. Un po' a Roma, un po' a Strasburgo. «Il nostro uomo migliore» sembra un fuoriclasse che sta giocando solo delle amichevoli: ogni tanto esibisce una giocata delle sue, ma il risultato è accademico, e i critici arricciano il naso: capaci tutti quando non sono in gioco i tre punti. È la condizione essenziale dei Ds: anche il segretario Piero Fassino, dopo il buon risultato del congresso, deve rimettersi in campo. Nel frattempo però la "linea" la detta Prodi, la sindrome del portatore d'acqua è in agguato. E le regionali non promettono granché: se si vince nelle regioni rosse, che ci voleva? Almeno bisognerebbe che Burlando conquistasse la Liguria, e che in Piemonte la Bresso scippasse il posto a Ghigo. Ma ci sono anche gli strascichi delle baruffe veneziane, il match Cacciari-Casson, ogni giorno ha la sua pena. Voto: D'Alema 6 e mezzo, Fassino rivedibile. Highlander e la capitale morale Gran ritorno di Umberto Bossi, il quale ha fatto capire che la Lega vuole sempre l'indipendenza o giù di lì, ma soprattutto che il Carroccio è una questione di famiglia: ecco la moglie senza la quale la Lega non esisterebbe più, ed ecco il figlioletto riccioletto che si sporge dalla finestra della casa di Carlo Cattaneo esclamando «Padania libera» con il pugno teso. Intanto L'Umberto è orgoglioso in quanto ha bloccato l'operazione «neodemocristiana» di Roberto Formigoni, e Berlusconi gliene è grato perché ha tagliato le unghie a un possibile successore. Tuttavia a Milano, cuore del Nord, le cose vanno male, male, male. La vicenda della Scala è diventata una specie di "Prova d'orchestra" felliniana ambientata nel terzo millennio. Il soprintendente, il direttore generale, il direttore d'orchestra, il sindaco, l'assessore alla Cultura e il suo successore, le maestranze, i "Lavoratori" (come scrive il maestro Muti): se un giorno arriverà l'indipendenza, o almeno la devolution, ci vorrà un altro spartito. Pagella: per adesso è sempre la solita musica, e anche un po' peggio del solito. Voto: non classificato. Follini e i suoi dispersi Ormai si vede poco. Marco Follini è rinchiuso dentro Palazzo Chigi, e riappare solo ogni tanto, con il compito di fare la faccia cattiva contro il cattivo Prodi. Ma tutta l'Udc è seminascosta. Desaparecido Rocco Buttiglione, dopo le diatribe culattoniche in Europa e la polemica sulla pedofilia di Cohn-Bendit. Poco appariscente il vestitissimo Baccini (che ha una sola caratteristica davvero riconoscibile, quella di essere il vero format facciale dei candidati dell'Udc: fateci caso, tutti i cartelloni con i volti di neodemocristiani eleggibili alle regionali recano la foto di gente uguale a Baccini). Semiscomparso anche Bruno Tabacci, che è una persona seria e sembrava un osso duro, ma che dopo l'esito della legge sul risparmio ormai sembra il colonnello Aureliano Buendía di Gabriel García Márquez, quello che «promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte». Vabbè, finché c'è vita c'è speranza. Ma siccome anche Pier Ferdinando Casini di questi tempi non brilla per presenzialismo, l'immagine dell'Udc è opaca. Rating in ribasso, seppure senza crolli. Voto: 5. Rifondare il possibile Fausto Bertinotti sta rifondando non solo Rifondazione ma anche se stesso. La svolta "governista" lascia con il mal di pancia la minoranza del partito, i trotzkisti, i comunisti veri: ma Fausto non è mai stato un comunista autentico, anche se al congresso di Venezia ha esclamato che un giorno vorrà essere ricordato come tale. Bertinotti è un socialista anarchico che sta diventando un socialista umanista. E forse per questo, mentre tutti i moderati guardano con spavento (o piuttosto dicono di guardare con spavento) alla liaison politico- governativa con Prodi, immaginando l'incubo di imposte patrimoniali e l'orario a 35 ore, Bertinotti cita Pietro Nenni e la stanza dei bottoni, ricorda Raniero Panzieri, dedica un pensiero a Riccardo Lombardi, rivelando così la sua vera e inconfessata speranza: nell'impossibilità di rifare il Psi, dato che se l'è preso Gianni De Michelis, si potrebbe provare a rifare il Psiup. Voto: dal 6 al 7, come le percentuali di voto.
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