L’Espresso
L'Espresso, 24/03/2005
Anche gli spot sono affari loro
Un servizio del "Sole 24 Ore" (pubblicato l'8 marzo ) ha messo in mostra la classifica delle star televisive. Cioè il loro valore di mercato, misurato dal livello di quotazione di uno spot (30 secondi) durante un loro programma. Al primo posto naturalmente si colloca Paolo Bonolis, e te pareva. Grazie al successo e alle scatole di "Affari tuoi" il sovrano di Sanremo vale la bazzecola di 115 mila euro (dal che si capisce che la Fiat deve puntare effettivamente molto sulla nuova Croma, se l'ha promossa durante il Festival; e deve credere anche nel SuperPaolo, se è vero che lo spottone era creativamente mediocre, e la ragazza affiancata a Pigmalione Bonolis parlava con un pesante accento regionale). Misteri. La pubblicità è una scienza, e quindi è possibile che perfino i difetti vengano commisurati appropriatamente al target. Ciò che colpisce, comunque, è che il mercato non sbaglia praticamente mai, e al vertice della classifica, subito dopo il Vitaminico Superenergetico, si colloca la Energetica Supermaterialona, ossia Simona Ventura, 85 mila euri secchi nonostante lo sboom delle "Tre scimmiette". Ecco. La graduatoria prosegue con Maria De Filippi (53 mila ottimi euro), mentre un programma di nicchia come "Alle falde del Kilimangiaro" fissa lo standing di Licia Colò a meno di 9 mila euro, però sono tutti soddisfatti, anche gli spettatori, che apprezzano. Ciò che colpisce è che Emilio Fede è fermo a 6.700 euro, pur essendo considerato da sponsor e pubblico il vero volto di Retequattro. Sarà una questione di specializzazioni, anche se per molti il cabaret politico di Fede è sempre stato al di sopra delle battute folk di Bonolis. Da tutto ciò si capisce che Ventura e Bonolis farebbero bene a lasciar perdere le avventure (per Paolino le avventure mediasettiche e per La Supersimoniaca le disavventure sentimentali), e mettersi insieme. Un grande matrimonio di interessi, che meraviglia, un'operazione ipermediatica, metatelevisiva, ultraculturale: e che il mercato, anzi il super-mercato trionfi. Quanto valgono insieme Bonolis e Ventura? Cifre da vertigini: tali da giustificare non soltanto un matrimonio economico ma anche una unione coniugale e possibilmente un figlio o due. I figli della coppia catodica, bambini bionici, capaci di portarsi a casa fin da piccoli le loro paccate di soldi. Salute, e figli maschi. E che vivano felici e contenti, come morale della parabola.
L'Espresso, 17/03/2005
Azienda Lega a conduzione familiare
Cinquecento persone. Forse mille. Accorse a Lugano davanti alla casa dell'esilio di Carlo Cattaneo per rivedere l'Umberto. È stato un rientro importante, quello di Bossi, anche se le sue condizioni rivelano la gravità della malattia che lo ha colpito e mostrano che il suo futuro politico è ancora problematico. È una rentrée significativa perché senza il leader, il capopopolo, il "guerriero ferito", senza il corpo e l'immagine del capo assoluto, la Lega non sarà finita, esaurita, defunta, ma sarebbe come minimo un'altra cosa. Difatti i militanti, nell'emozione del momento, tendono a mischiare i piani della politica e della mitologia. Al punto che la pasionaria Rosi Mauro esclama: «Bossi è immortale, è un Highlander!». A metà fra l'esaltazione e una fantasia, si tocca un punto cruciale. Il Carroccio non esiste senza il carisma di Bossi e senza le leggende che lo avvolgono. La Lega per mobilitare ed emozionare i suoi militanti deve poter ricorrere ai parafernalia nordisti, alle memorie celtiche, a Braveheart, all'"invenzione della tradizione" (secondo lo schema di Eric Hobsbawm) che consente di accedere a un repertorio, ancorché storicamente problematico, di simboli. Sotto questa luce celtica, conta poco la politica romana. E a riascoltare Bossi si direbbe che anche la "devolution" è robetta, una derivata giuridico-burocratica. Nonché il risultato delle mediazioni dentro l'alleanza di centrodestra. Un federalismo che verrà, con i tempi lenti della trasformazione istituzionale. Ma nel frattempo incalzano i tempi della politica effettuale, le elezioni regionali, le politiche del 2006. Bossi sa che la Lega non è mobilitabile sulla proposta o sul programma, bensì sull'identità. Per tenere alto il morale della base, in questo momento è necessario esibire ancora e sempre le ragioni profonde del leghismo. Quali siano queste ispirazioni profonde è presto detto. L'anima autentica del Carroccio è legata intimamente all'idea della secessione. La Lega è secessionista nella sua essenza. È vero che l'utopia politica del Grande Nord che saluta "los italianos" e se ne va a raggiungere paesi e regioni felicemente alpini come la Svizzera e la Baviera non è più all'ordine del giorno dell'azione politica: fra i numeri due, Roberto Maroni si muove su territori come le pensioni e il mercato del lavoro, Roberto Calderoli si aggira dentro i commi della riforma costituzionale, l'Asse del Nord con il fratello di sangue Giulio Tremonti è una nozione sostanzialmente nostalgica, un "idem sentire" messo sullo sfondo dalle urgenze del governo. Eppure la psicologia della Lega è intimamente legata a quei momenti così accorati in cui a Lugano Bossi chiede un applauso per i Serenissimi, quelli che conquistarono il campanile di san Marco, e più ancora alle parole squisite con cui il capo allude alla radice vera e struggente del Nord: «La Padania e la Svizzera insieme sarebbero davvero lo stato più bello d'Europa». Da un lato si assiste così a una scena in cui il Carroccio appare come un'azienda a conduzione familiare, con la moglie Manuela e il figlio nella veste di custodi del patrimonio leghista. Dall'altro, lascia impressionati l'atmosfera crepuscolare in cui una élite politica continua, se non ad agitare, perlomeno ad alludere a progetti esorbitanti. Ilvo Diamanti ha definito la Lega come il partito "degli uomini spaventati": intimoriti dalla globalizzazione, dai processi immigratori, dalla concorrenza internazionale, dalla crisi dell'apparato industriale. Probabilmente si aggiunge a tutto ciò il lungo spavento della malattia di Bossi, e la paura che la Lega possa rivelarsi una entità residuale, un subaffitto folk della Casa delle libertà. In queste condizioni, la riapparizione di Bossi dovrebbe equivalere a una rinascita. Riparte l'avventura, ricomincia il film di "sword and sorcery" di cui il capo dei celti era stato il protagonista. Spadoni vichinghi e stregonerie lombarde, elmi e corna, favole e dietrologie, governi e parlamenti padani, e soprattutto politica a man salva. Purtroppo per lui, il guerriero è l'ombra di se stesso, Braveheart è lontano, e la Lega è l'alleato comodo di Silvio Berlusconi. E il movimentismo leghista, di fronte alla "Lega di governo" sembra soprattutto un ricordo dei tempi andati.
L'Espresso, 17/03/2005
Errore Massimo
Le baruffe veneziane sono l'incidente che rivela un deficit di politica nell'Unione, come dice Massimo Cacciari? «Il centro-sinistra doveva capire che non può più concedersi il lusso di un'immagine schiacciata sulla magistratura», ha detto filosoficamente l'ex sindaco, dopo essersi ricandidato alla guida della città lagunare, in esplicita opposizione alla scelta «rossoverde» di Felice Casson. Certo, Casson non è un magistrato qualsiasi. Per la destra è la classica "toga rossa". È il pubblico ministero politicamente impegnativo del caso Gladio, delle indagini sull'eversione nera nel Triveneto, sulla strage di Peteano. È il pm della requisitoria sugli omicidi bianchi al Petrolchimico di Porto Marghera. L'autore delle inchieste ambientali sull'elettrosmog dell'Enel. Ma in ogni caso un magistrato che spacca di nuovo la politica. Solo quella veneziana? Oppure il caso Casson è un sintomo più profondo di una tensione dentro l'Unione, e in particolare nella federazione ulivista? Lo abbiamo chiesto a Antonio Di Pietro, il più famoso degli ex magistrati in politica. Massimo Cacciari ha detto che «non si è mai visto un pm che in due giorni si dà alla politica». «Devo richiamare un presupposto. Io sono fra quelli convinti che ci vuole una distinzione chiarissima, una separazione nettissima fra chi è in magistratura e fra chi fa politica. E vorrei segnalare che Casson si è dimesso dalla magistratura». Ma sempre Cacciari ha segnalato che sono passate «quarantott'ore» fra le dimissioni e l'annuncio della candidatura. «Però il distacco è avvenuto, non ci sono rischi di sovrapposizione, non c'è confusione di ruoli, non c'è ricatto psicologico sugli elettori. Si tratta di un uomo che ha tagliato il cordone ombelicale con il suo ruolo precedente. E quindi le considerazioni di opportunità sono fuori luogo. Ne parlo a ragion veduta, perché io mi sono dimesso dalla magistratura, e detto per inciso non è vero che l'ho fatto perché volevo entrare in politica: mi sono dimesso per fare l'imputato. Ma questa è un'altra storia». Quindi secondo lei la soluzione Casson è una soluzione adeguata, dopo il fallimento della candidatura dell'ex assessore Alessio Vianello. «Senta. Non vorremo mettere in discussione il diritto costituzionale di un cittadino di candidarsi, vero? E allora bisogna affrontare il significato politico di ciò che si è scatenato attorno a Casson. Stiamo parlando di una persona capace, competente, che conosce il territorio e i suoi problemi. Vogliamo discutere il fatto che un uomo come Casson utilizza in politica il credito guadagnato nel campo della giustizia? Ma questo succede ai protagonisti della televisione, ai docenti universitari, agli esponenti di molte professioni, agli avvocati, ai medici. Chi decide di entrare nell'arena politica capitalizza la notorietà e la stima guadagnata nell'attività precedente, e non mi sembra di avere assistito a molte esecrazioni in proposito. Quindi l'opposizione a Casson va giudicata da un altro punto di vista». Non perché è un ex magistrato. «No. Bisogna vedere piuttosto se c'è qualcuno che teme l'effetto Casson. Perché sicuramente lo teme il centro-destra. È una personalità che si è spesa nel territorio, e questa, a Dio piacendo, non è una colpa, è un merito. Ha acquisito una conoscenza approfondita, è competente, ha una sua visione anche particolareggiata delle cose: e quindi è un candidato altamente competitivo, che può vincere. Ipotesi che naturalmente alla Casa delle libertà non piace affatto». E allora perché Cacciari decide di ributtarsi nella mischia, creando questo dualismo imbarazzante nella Fed e nell'Unione? «Dentro il centro-sinistra i problemi derivano soprattutto da questioni di bottega. Il cosiddetto dualismo fra Cacciari e Casson non c'entra e non spiega nulla. Casson era un punto di sintesi che i partiti non riuscivano a trovare». Se non è dualismo, se non è scontro fra personalità, di che cosa si tratta allora? «Con Cacciari ho un'amicizia fraterna, un grandissimo affetto personale; ma questa volta devo dire, se mi permette un'espressione popolaresca, che l'ha fatta fuori dal vaso. Cioè ha perso di vista l'obiettivo. Perché l'obiettivo primario è battere la destra. Questo è sempre stato un punto fermo nel Cacciari-pensiero, lui ha sempre sostenuto la necessità di rafforzare ed estendere l'alleanza proprio in vista di questo scopo. E allora nonostante tutte le interviste e le dichiarazioni non si capisce bene la decisione che ha assunto». Magari c'è un male oscuro nel centro-sinistra. «Intanto bisogna dire che sul piano politico non c'è un diritto di primogenitura della Margherita nella scelta dei candidati. La scelta dei candidati non è una riserva di partito, e di un solo partito nella fattispecie. E se per un momento vogliamo restare sul piano personale, sottolineo che la storia politica di Cacciari è tutta iscritta nella logica del maggioritario. Mi ha sempre ripetuto che le ragioni parziali devono passare in secondo piano rispetto alla logica generale. E io ho accettato questa logica, pagando i prezzi dovuti, a costo di passare, agli occhi della destra, per "comunista". Comunista io! Per cui non è molto chiaro qual è la ragione che lo ha indotto a una decisione che divide». Proviamo a chiarirci le idee. «Ho l'impressione che Cacciari si sia fatto condizionare da un assetto dei poteri forti veneziani, da ambienti che non vedono di buon occhio un sindaco di sinistra. Per quanto mi riguarda, vorrei dirgli, con tutto l'affetto possibile, che preferivo il Cacciari unitario. Quando lo incontrerò, lo abbraccerò e gli dirò: Massimo, il vaso è più in là». Eppure lei è un moderato. L'Italia dei valori non è un partito di sinistra. Le eventuali preoccupazioni di Cacciari verso un sindaco troppo caratterizzato a sinistra potevano essere anche le vostre. «C'è un errore che mi sembra grave, da parte di Cacciari, che consiste nell'avere accettato la stretta logica di partito. Così fra l'altro ha messo in difficoltà anche me, proprio in quanto presidente di un partito come l'Italia dei valori. Ma come: io, rappresentando il mio partito, vado dal notaio a costituire l'Unione, superando differenze e sensibilità che inducevano alcuni dei nostri a restare fuori, mi spendo politicamente in chiave unionista, e lui decide in questo modo, determinando una spaccatura così vistosa? Noi sosteniamo Casson in nome della logica unitaria, e lui decide di candidarsi contro Casson? Quando è stato il caso, noi ci siamo comportati diversamente. Sul rifinanziamento della missione in Iraq, i nostri senatori avrebbero preferito l'astensione, ma in aula hanno votato secondo la decisione della maggioranza. Con il risultato che ora ci troviamo davanti a un paradosso che ha dell'incredibile: chi è fuori dalla Federazione è bipolarista, ragiona e agisce per irrobustire l'alleanza nel suo insieme; e chi è dentro la Fed induce divisioni». Romano Prodi ha parlato di un'«anarchia veneziana». Baruffe locali. È un giudizio riduttivo? «È un caso locale e nazionale. Perché a Venezia c'è sempre stato un ingente conflitto interno nell'élite politica ed economica. Per esempio ho avvertito questo conflitto quando ero ministro: indimenticabili gli scontri sulla variante di Mestre, chi la voleva così, chi più sopra, chi più sotto, chi non la voleva per niente. Fortissime lotte di potere nelle pieghe di una classe dirigente chiusa in se stessa. Con i risultati che poi si vedono». E fuori di Venezia, sul piano nazionale? «È un caso anche nazionale perché è il sintomo del cambiamento dei partiti. Che non sono più quelli di una volta. Il federalismo è intervenuto anche nella loro struttura, e qualche volta il centro conta poco rispetto alle realtà territoriali. Ma il federalismo è buono solo quando non è anarchico. Cioè se i partiti e le coalizioni non sono acefali. Altrimenti intervengono le soluzioni pilatesche, che non risolvono niente. E allora ci vuole una struttura dirigente centrale in grado di dire dei sì e dei no. In questo senso il mio invito a Prodi è di non considerarsi l'arbitro, ma il protagonista, l'uomo che prende le decisioni». Ma non è possibile che sotto sotto ci sia la vecchia discriminante anticomunista? Che fra Margherita e Ds problemi di questo genere siano destinati a covare sotto la cenere per divampare al momento meno opportuno? «Il nostro sistema politico è ancora in fase di assestamento, anche se non credo affatto che nell'azione di Cacciari sia riscontrabile un atteggiamento anticomunista. Sono però convinto che se, come tutti noi ci auguriamo, nel 2006 riusciamo a mandare a casa la destra, e specialmente Berlusconi, che è stato il federatore della destra e colui che ha determinato lo schema bipolare, assisteremo a una grande scomposizione e ricomposizione dei poli. Con Berlusconi sconfitto la destra non sta insieme. E a quel punto il rimescolamento potrebbe essere generale. Non vedo come, per dirne una, Clemente Mastella possa restare a sinistra, se la destra cambia formato e leadership». E dove resterebbe Antonio Di Pietro? «Prima vinciamo, poi parliamo».
L'Espresso, 17/03/2005
Bonolis a corpo sciolto
Dibattito: qual è stato il momento più basso, e quindi televisivamente più alto, del Festival di Sanremo? Pareri discordi. Quando accanto a Mike Tyson si profila la seminuda Federica Felini (anche il suo nome è un refuso, come disse Enzo Biagi di Storace), e l'intero share di Raiuno si augura qualcosa di irreparabile, che 'o animale si metta a sudare ancora di più, oppure un'erezione inopinata e tremenda del pugile. Oppure il momento in cui la suddetta Felini si mette a parlare, con la vocetta da pupazza, provocando un immediato e generale crollo della libido, Tyson compreso. E se fosse invece la scena, spesso replicata, in cui la povera Clerici, eletta lady Ciccia da Paolo Bonolis, si tira su le gonne da uovo di Pasqua per poter scendere la scalinata, mostrando le cavigliotte? Ma c'è anche il momento in cui sempre Bonolis fa calare le luci e annuncia i cantanti bocciati dalle giurie, davanti a una poltrona vuota, che fa tanto "percorzo del dolore". Eppure, fatti i conti, vince a mani basse l'intervista di Bonolis a Tyson. Non perché sia un bello spettacolo: il pugile è impresentabile, non sa parlare, non sa cantare, il suo "Volare" è stonato, il suo rap è un barrito. Tuttavia c'è un picco, una cuspide, un istante straordinario nel faccia a faccia. Cioè quando Bonolis chiede a Tyson qual è il suo rapporto con il danaro. E Tyson, evidentemente preparato, risponde: «C'è chi ha il dono di trasformare la cacca in oro». Dice «cacca» in italiano, sublime: «Mentre io faccio l'operazione opposta». A questo punto Bonolis non lo tiene nessuno. La cacca lo sollecita, lo aizza. Quasi tocca la pancia del colosso pugilatore, e lo ammonisce: «Se deve magnà de meno, così se ne fa de meno!». Di cacca, evidentemente. Allo sguardo attonito di Tyson che rotea gli occhi dicendo «What?», Bonolis conclude «Lassàmo perde». Ecco: si invita Tyson, che già non c'entra niente e forse è un residuo non rifiutabile della gestione di Tony Renis, e gli si pone di fronte Bonolis, l'uomo che parla un italiano speciale, altro che aulico più popolare, è puro Renato Zero. E si manda tutto in cacca. In più, il vitaminizzato conduttore di Sanremo pende dallo sguardo del condannato per stupro, quasi gli si bagna il ciglio, potrebbe spezzarglisi la voce. E alla fine conclude che Tyson è «una bella persona». Noi ci limitiamo a proporre l'esilio per chi ha usato, usa e userà l'espressione di cacca «una bella persona».
L'Espresso, 10/03/2005
Fermate l’Italia ho lo stress
Ci sono milioni di motivi per essere stressati. La mancanza di tempo, la sensazione di essere infilati dentro automatismi pazzeschi, il senso che la vita "l'è malada" per un parcheggio introvabile, la percezione quotidiana che lavorare stanca e i colleghi sono odiosi. Eppure c'è una forma di stress che sintetizza tutte le altre, è uno stress quintessenziale, un distillato alchemico dell'Italia ansiogena: infatti, 400 mila individui, l'1 per cento del corpo elettorale, sono stressati dalla sola presenza di Silvio Berlusconi. Altro che grazie di esistere. Il premier per loro è una polarità malefica, un accumulatore di negatività, un contatore elettrico del male quotidiano. Ma a sua volta Berlusconi deve avere 400 mila cause di stress. Una per ogni per capello trapiantato, e non soltanto perché la caduta di uno solo dei nuovi capelli è un colpo al cuore. E poi tutto il resto, una folla di agenti del logorio: quel permaloso del presidente della Repubblica che se la prende, i giornalisti che all'85 per cento sono di sinistra, le leggi che si sa come entrano in Parlamento e non si sa come ne escono, i magistrati che mettono le mani nelle scartoffie dell'azienda, Gianfranco Fini che «non mi viene dietro» e si rifiuta di assecondarlo nelle battute, Carletto Ancelotti con la resistenza vischiosa alle sue disposizioni tattiche sul Milan a due punte... In confronto, per stare sul lato calcistico dello stress, Massimo Moratti è placido e beato. D'accordo che il suo stress si chiama Adriano, lo statuario centravanti brasiliano che si è prosciugato, svuotato, sgonfiato, ma il patron dell'Inter è ormai abituato da anni alle spese pazze senza risultati visibili, alla tensione domenicale, alla fatica di pareggi senza volto (come diceva lo scrittore Nick Hornby, «la vera condizione del tifoso è un'amara delusione» e allora chi è più tifoso e più stressato di Moratti?). Stress, sindrome interclassista. Cambiano evidentemente i ruoli e le funzioni sociali, Perché Montezemolo e Marchionne hanno pensieri diversi da quelli del pubblico impiego, e Yaki e Lapo possono trovare soluzioni esistenziali e di intrattenimento più brillanti di quelle dei loro coetanei (perché un conto è uscire con una collega e un conto con Martina Stella), ma alla fine i meccanismi del disagio sono identici al vertice così come nella pancia della collettività. È la convivenza che genera stress: Romano Prodi che deve convivere con Fausto Bertinotti, e soprattutto con coloro che gli rimproverano l'alleanza con Bertinotti; mentre quest'ultimo ha il suo daffare per controllare la tensione procuratagli dai suoi compagni trotzkisti, e da tutti quelli che lo criticano perché ha perso di vista "il concetto di imperialismo". Dice la ricerca presentata in queste pagine che una delle origini dello stress perdurante è la frustrazione determinata dalla mancata soddisfazione nel lavoro, anche se si stratta di una professione in sé prestigiosa e, a detta degli altri, gratificante. E allora non c'è rimedio. Se il sesso prestazionale genera angoscia, il lavoro domestico è una condanna supplementare per le donne, se ogni risveglio mattutino è lo starter di un oscuro malessere, addio alle illusioni: l'esistenza in sé è una fonte di dolore, l'inferno siamo noi e sono gli altri, il mondo è una cupa cospirazione ai danni di tutti. Cerchiamo di difenderci restando sempre connessi, "wired", con il cellulare acceso, l'e-mail aperta, il satellite e il digitale collegati, nella vaga speranza che essere connessi depotenzi l'angoscia, e che l'arrivo di un sms porti una risposta. Tutto inutile. Ogni decisione è una pena, ogni apertura si richiude: Marco Pannella stressa i cattolici e i cattolici stressano i radicali, i riformisti sono, o erano, stressati da Furio Colombo e dal girotondismo. Siamo nei pressi del "bellum omnium contra omnes", tutti sono nemici di tutti. Giovanni Masotti stressa Daniela Vergara, Milly Carlucci ha stressato perfino il compassato Renzo Arbore. Ce lo ricordiamo, l'inno dei disincantati, dei distaccati, dei rilassati, di quelli delle ore tarde: "Che stress, che stress, che stress di giorno... Ma la notte no!". Vero niente: nel tempo dello stress totale, anche la notte stressa.
L'Espresso, 10/03/2005
Garage band Ligabue
Luciano Ligabue è entrato nel suo studio di registrazione, e ha cominciato a lavorare al nuovo disco. Questa è la notizia. Il resto è vita di paese incrociata con il mondo. E con lo show business, ma sullo sfondo, lontano. Qui, il solito giro, come sempre. Non ha mai messo su casa a Milano, come raccontavano dopo la separazione dalla moglie: c'è suo fratello Marco, dieci anni meno di lui, oltre al manager e amico da decenni Claudio Maioli, colui che per tutti è "il grande venditore". Ligabue ha messo insieme un repertorio potenziale di una ventina di canzoni nuove, per pubblicarne dieci. L'album uscirà a settembre, e non ha ancora un titolo. Forse verrà lanciato con un grande concerto qui nella pianura, in una di quelle notti. Si aspettano da queste parti, fra il torrente Crostolo e il Tresinaro, «fra cosce e zanzare», folle oceaniche. Il tam tam è già cominciato. Nel frattempo, vita buona, qui in mezzo all'Emilia, per una star che fra poco più di una settimana compie 45 anni. La casa appena fuori dal paese, in un ex convento rimesso a nuovo. Corse nei viottoli di campagna per tenersi in forma; una sambuca dopo il pranzo al ristorante dell'Hotel dei Medaglioni; due passi nel centro storico di tipico impianto medievale. La compagna nuova, Barbara, una biellese portata in questo pezzo di Emilia; il piacere dei bambini, Lenny che compirà sette anni a maggio, la piccolissima Linda che ha solo cinque mesi. Come sarà il nuovo disco? Musica alla mia maniera, dice il "Liga", come lo chiamano gli affezionati. Oppure "Bue", come voleva chiamarlo Adriano Celentano nel suo penultimo programma: «Posso chiamarti Bue?» Be', se non se ne può fare a meno. E allora vai, Liga. Che cosa ci aspetta, dopo "Fuori come va?", mezzo milione di copie, e un tour che riempiva gli stadi con raduni di massa? Perlomeno si sa che questa è terra buona per la musica popolare: a poca distanza c'è Novellara, dove è sepolto Augusto Daolio, la voce dei Nomadi, e la sua tomba è ancora la meta di un pellegrinaggio, dove i visitatori lasciano un regalino, un biglietto, un ricordo. Allora, rock. Rock esplicito, rock programmatico. «Oggi la musica si ascolta distrattamente, ci arriva addosso mentre siamo in altri contesti». E quindi è necessario mantenere uno stile, un registro, una tonalità. Perché Luciano Ligabue non è un rocker qualsiasi. Sa che cos'è la gavetta. Si è sbattuto. Non se la tira. Conserva riconoscenza per chi gli ha dato una mano nei tempi duri, come il povero Pierangelo Bertoli. Poi c'è il lato tecnico, si dà il caso che sia un baritono, un caso raro in un mondo, quello della musica rock e pop, di tutti tenori; quindi con una voce particolare, scura, che arriva al massimo al sol naturale: però riconoscibile, inconfondibile, la sua. E lui è convinto che il dono divino della musica popolare risieda nella semplicità di cui è portatore il rock, «una canzone è straordinaria quando la fischietta il muratore, o magari l'intellettuale di nascosto». Non esistono geni incompresi. «Ed è commovente vedere come una canzone diventa patrimonio di tutti». Fuori nevica, sul cotto rosato del Palazzo dei Principi, ed è una nevicata di fine febbraio, un autentico fuori stagione anche per la Bassa. Sembra una citazione dal suo romanzo "La neve se ne frega", 150 mila copie vendute, un libro con cui il Liga si è messo in testa di rivaleggiare con Aldous Huxley o George Orwell, un'anti-utopia, un libro ambizioso. Ma adesso tutta l'energia è concentrata sulla musica. Quale rock, Liga? «Il rock'n'roll, quello classico, fatto con le chitarre, con quel suono particolare, con quel riff d'attacco che rende riconoscibile tutto». Chiaro: il rock è la chitarra a cinque corde di Keith Richards, il sound degli Stones, le note basse e distorte di "Satisfaction". Se si lascia andare, è capace di raccontare la sua visione olistica del corpo e della mente, di come secondo lui tutto è reso vitale da un'energia di fondo, e il palcoscenico costituisce un'esperienza in cui il fare musica sintetizza una forza vitale che viene dal pubblico, rimbalza nella band, rifluisce nelle platee. Sicché gli è venuto naturale, durante il suo "Giro d'Italia", una tournée semiacustica nei teatri, esibirsi anche in alcuni reading di Charles Bukowski, mentre Mauro Pagani contrappuntava la lettura con il violino. Molto intellettuale. «No, molto popolare». Perché lui è convinto che per essere davvero popolari ci vuole la capacità di mettere le mani nel materiale, nella musica, nelle parole, nei suoni. «Prendi Lucio Battisti, il musicista popolare per antonomasia: è quello che ha lavorato più sodo, ha costruito i suoi grandi brani togliendo invece di aggiungere, "La canzone del sole" è fatta con tre accordi. E i critici dicevano che era un cattivo cantante... Altro che cattivo cantante, era un grande interprete». Quello che gli piace di Battisti è il lavoro accanito, il suo metodo, «provi e riprovi e non ti fermi mai, e intanto aggiungi, tagli e sintetizzi...» (come da autodichiarazione battistiana in "E già"). Il prendere una tradizione e superarla, perché «prendi uno come Picasso, prima di stravolgere la forma era un grandissimo ritrattista». E popolari non si nasce, popolari si diventa. Per questo Ligabue lavora tutti i giorni, a modo suo: «Prendo la chitarra, cerco uno spunto, lo sviluppo canticchiando in uno pseudo-inglese, e registro tutto». Quanto alle parole, «aspetto che nasca un concetto, un'idea», ma i versi vengono sempre alla fine, sulla musica (con una sola eccezione, "Angelo della nebbia", un'allegoria padana come i quarantatré racconti compresi in "Fuori e dentro il borgo", il libro da cui è nato "Radiofreccia", un'autobiografia di tutti noi immersi nel fluido dell'esistenza, «scelti da chissà che mano per essere buttati in mezzo alla nebbia»). Ascolta musica un po' eccentrica, Liga, come un tipo che si chiama James Blunt, il quale fa un soul-rock-pop «molto crossover»: però con gli amici si diverte a suonare in casa facendo una serata-Battisti o una serata-d'autore: «Perché io sono affezionato soprattutto ai cantautori, e specialmente a Francesco De Gregori», e difatti la sua canzone a cui forse è più affezionato si chiama "Metti in circolo il tuo amore", una voce alla De Andrè combinata con un fingerpicking favolosamente degregoriano o dylaniano: «Già, ho un'ammirazione anche per Bob Dylan, perché ha rifiutato di diventare un monumento, e ha continuato a mettere le mani nella sua musica, a cambiarla, senza accontentarsi di rifare se stesso». Qualcuno si diverte a montare una sua rivalità con Vasco Rossi, concerto contro concerto, stadio contro stadio, pienone contro pienone. «Ma Vasco è uno autentico». C'è da credergli, se lo dice uno che è un figlio del popolo, con il padre Giovanni che negli anni Settanta gestiva una balera, il Tropical, e che ogni giorno ripeteva che i musicisti sono tutta gente che fa la fame, ma che alla fine, senza dire una parola, gli portò a casa la prima chitarra: «Quando dico "credo nei riff di Keith Richards", come nel monologo di Stefano Accorsi in "Radiofreccia", mi si può credere: cioè si può credere a uno che ha cominciato a suonare con il prontuario per gli accordi da autodidatta, e con le tablature pubblicate da "Ciao 2001"». C'è anche da credere a un tipo che con le canzoni ha avuto un rapporto quasi diaristico, come sfogo e confessione quotidiana: la prima canzone si intitolava "Cento lampioni" ed era la storia del riscatto morale di una prostituta, un "topos" di tutti gli autori principianti. Adesso invece la musica è professione, «non ci sono più alibi, sono un professionista fino in fondo». Primo concerto nel febbraio 1987, «ero introverso, chiuso, teso, mentre adesso sul palco mi sento a casa mia». Non sa ancora bene che cosa verrà fuori dal lavoro dei prossimi mesi, «mi piacerebbe un suono da garage band», ma comunque sarà un tentativo aperto a tutti gli esiti possibili, determinato soprattutto dalla voglia, dall'ispirazione, dalla tecnica dei musicisti coinvolti nel progetto. Lavoro, lavoro e ancora lavoro perché entro giugno, al massimo luglio l'album deve esser pronto. È "una vita da mediano", come la canzone che ha segnato la nuova stagione del centrosinistra. Gliel'aveva chiesta Piero Fassino in persona, poi hanno insistito Gad Lerner e Michele Santoro, lui ha acconsentito, «ed è la mia canzone più fraintesa, perché molti l'hanno presa come una ostentazione di falsa modestia». È vero, molti dicono che non si può fare la star e poi ritrarsi nel ruolo di centrocampista di fatica: «Non è così, io sono uno che fa musica di mainstream per poter fare altre cose molto meno ovvie». Il cinema, per esempio, «che è una fregatura, perché c'è una mediazione troppo forte fra l'idea e il risultato, eppure sono riuscito a fare un film, "Da zero a dieci", che raccontava la storia di alcune persone che morivano». La scrittura, con il gusto di cambiare genere, di cercare strade anche ambiziose. E la musica. Per essere oggi capace a modo suo di parlare come De Gregori, di illustrare la vita come De Andrè, e di fare risuonare il cuore dei ragazzi che lo amano con una musica nuova e antica, come Battisti: «Be', io ci provo».
L'Espresso, 10/03/2005
È mezzanotte e non tutto va bene
Il problema non è se vi piace o non vi piace Teo Mammucari. Questi sono fatti vostri. Ogni scarrafone è bello a mamma sua. La questione è se vi piace o non vi piace la televisione fatta alla maniera di Teo Mammucari. Il quale, lo sapete, è un ex Iena, un tipo con una faccia non troppo raccomandabile, facciamo da impunito, dotato di un talento naturale non dissimile da quello di Fiorello (vabbé, Fiorello è inarrivabile, ma ci siamo capiti), che fa una televisione che i dirigenti tv, i programmisti, gli autori considerano "moderna". Se non sapete o non ricordate che cos'è la modernità, per un ripasso è sufficiente guardare "Mio fratello è pachistano" (Canale 5, il martedì sera alle 23.40). Programma indefinibile, perché tutto giocato sulla personalità del protagonista Mammucari. Ma programma nel solco della tv di seconda serata di maggiore successo (dicono), sul genere dell'altro programma più o meno di culto, "Cronache marziane" (tutto è di culto ormai). Là, lustrini, drag queen, coriandoli, luci, clima gay; qui soprattutto freak di periferia indotti a giocare, cioè a prendere la televisione come gioco, a diventare protagonisti, a "fare" il programma sotto la guida del provocatore Mammucari. Per divertirsi occorre essere dell'umore adatto, e non sempre ciò accade mentre la palpebra si abbassa insidiosamente. Bisogna apprezzare che un poveretto di tipica ascendenza pasoliniana, una reincarnazione tardiva di Ninetto Davoli senza ricci, o di uno dei fratelli Citti, venga fatto ballare un lento con Heather Parisi. Anvedi come balla Nando. Ciò consente di apprezzare di nuovo la celebre risata cavallina della Parisi e il suo schiaffetto fra il divertito e l'indignato quando il coatto le si avvicina al viso per fare nasin nasello. Oppure vedere altra gente del popolo, anzi, del sottoproletariato, scaraventata sulla scena televisiva a fare l'impossibile: ad esempio, telefonare in inglese a un albergo. Divertente? Ba, be bi bo bu, direbbe Renzo Arbore citando Ernesto Bonino. Se dobbiamo divertirci con queste cose, se siamo obbligati, lo diciamo: giuro, mi diverto. Apprezziamo i maltrattati, gli sradicati del suburbio resi protagonisti. Ridiamo tutti, fingendo che tutto questo para-situazionismo sia divertente. Siamo dei simulatori sociali. E mentre al culmine del divertimento la palpebra precipita, una voce dal subcosciente sussurra: non sarà il caso che ci ridiano Fiorello?
L'Espresso, 03/03/2005
Saremo sempre Sanremo
Da quando abbiamo riconosciuto, grazie soprattutto a critici di professione gramsciana come Gianni Borgna, che Sanremo non è semplicemente uno spettacolo, ma un'autobiografia del paese, non si sa più come guardarlo, il Festival, e neanche perché. Da quando poi, oltre che una scheggia di identità nazionale e uno specchio del costume isole comprese, è diventato un fenomeno politico di occupazione dell'immaginario, ad esempio con la direzione artistica del socialista e berlusconiano Tony Renis, oppure con le minacce ovaiole di Giuliano Ferrara contro Roberto Benigni, il suo palcoscenico si è fatto incandescente. Ma della gara, o delle canzoni, a chi interessa più? Adesso gli esperti di tv dicono che il cantante abbassa lo share. Eppure per decenni il Festival è stato una parola magica. Sanremo è un imprinting senza scampo dal 29 gennaio del 1951, allorché la radio mandò in onda il primo Festival della canzone dal Salone delle feste del Casinò. La prima edizione si svolse in un'Italia già divisa in due dalla guerra fredda e dal 18 aprile 1948. Fu vinta da "Grazie dei fiori", celebre per l'interpretazione di Nilla Pizzi, che sarebbe stata attorniata per anni, in quanto "regina" dalle figure nostalgiche del divismo musicale e canoro di allora, il direttore d'orchestra Cinico Angelini, il presentatore Nunzio Filogamo, i cantanti Achille Togliani e il duo Fasano, Gino Latilla e Giorgio Consolini. Alcuni versi d'epoca sono indiziari della retorica sentimentale e del tono provinciale: «Dio del ciel se fossi una colomba». «Campanaro della Valpadana, per chi suoni la campana». «Tamburino del reggimento che suonavi alle cinque in punto». «Vecchia villa comunale, sei rimasta tale e quale». Trattasi di rime da catasto. Oppure di moralismi, bigotterie, trombonate, vecchie scarponate. Benché fin dal 1953, terza edizione, ci fossero oltre 60 inviati a seguire il Festival, se dovessimo giudicare l'età degasperiana dalle parole delle canzoni i Cinquanta apparirebbero soprattutto piagnoni, donne che pregano, mamme che imbiancano, barche che tornano sole; e valutando la dilagante nostalgia pelosa della sana povertà del passato, il giudizio sul regime democristiano sarebbe impietoso. Ma anche dopo, dopo gli anni grigi della prima ricostruzione e i gesti bianchi di Pio duodecimo, il Festival è elusivo. Non è rimasta traccia, per dire, né della Cinquecento né della Vespa, nel lessico di Sanremo: non c'è insomma una canzone che abbia fissato in forma autenticamente popolare i simboli della mobilità degli italiani, le utilitarie che hanno consentito di andare in fabbrica e di soddisfare l'aspirazione al weekend. (Per essere obiettivi fino in fondo, il Festival, mentre tutto cambiava, è riuscito anche a planare inconsapevole nella Seconda Repubblica, a dispetto di Tangentopoli e restando indenne dal maggioritario). È scienza comune che per trovare l'eco della modernizzazione, il chiasso festoso del boom, bisogna arrivare a quel 1958 in cui Modugno deflagra con "Nel blu dipinto di blu", che diventa orgasmicamente "Volare", braccia spalancate nel decollo, un tuffo in un quadro di Chagall nonché, metaforicamente, nel miracolo economico. Ma sarà vero? È sarà vero che il Festival ha modellato gusti, atteggiamenti e comportamenti degli italiani, di tutti i figli di Bubba, in tutta la terra dei cachi? Certo li ha registrati, intensificati e rimessi in circolazione, facendoli diventare di massa. Ha celebrato il mammismo, il giovanilismo, la protesta, la contestazione, «ci sarà la rivoluzione, nemmeno un cannone però sparerà» (Mogol), il riflusso, l'edonismo, le vacche grasse e magre, «sugli sugli, bane bane, tu miscugli le banane» e «buongiorno Italia con gli spaghetti al dente, e un partigiano come presidente» (Toto Cutugno, of course). All'inizio degli anni Sessanta, quando a fare il reportage per l'"Europeo" ci andava Oriana Fallaci, Sanremo ha lanciato gli "urlatori", e soprattutto Mina e Celentano, che rappresentavano l'immagine anche fisica di una clamorosa innovazione di voci e di gesti, che importava un'America teppista. Può darsi che allora, quando i Sixties erano ancora ben lontani dall'essere "fab", l'ex Baby Gate e l'insolente Adriano fossero effettivamente gli emblemi di un paese giovane, che si liberava a strattoni dai codici. Una generazione cresciuta fra l'hula-hoop, lo scubidù, il twist, e il fantasma del sesso. Difatti, quando Mina canta "Tua", una canzone del repertorio di Tonina Torrielli e di Jula De Palma, vengono fuori inclinazioni erotiche esplicite. Ha spiegato Gianfranco Manfredi, cantautore e scrittore, che per la Torrielli era la dichiarazione d'amore coniugale di una donna onesta, modesta, virtuosa, fedele; la De Palma ne fece una cosa spaventosamente sexy, terrorizzando la tv democristiana e giocandosi la carriera; Mina, la "teddy girl" irridente di «bllll... le mille bolle blu», ne ricava una cosa tutta superficiale, niente di importante, una scopatina da considerare con un'alzata di spalle. Dopo di loro, ci sarebbe ancora stato spazio per alcune rivincite della tradizione, ma poche: ad esempio nel 1964, allorché la sedicenne Gigliola Cinquetti spopolò con "Non ho l'età", «lascia ch'io viva un amore romantico», tipico caso di revanscismo della morale sessuale tradizionale dopo che fin dal 1963 si erano consumati guancia a guancia galeotti sulle note brividose di Sapore di sale («che hai sulla pelle, che hai sulle labbra...»). Vabbè, Sanremo è una macchina onnivora. Qualunque fenomeno sia registrabile, il Festival ne diviene il catalogo. Ci sono i cantautori, è emersa la "scuola di Genova"? Occasione sontuosa per le famiglie incattivite, che tifano per il reuccio Claudio Villa e/o per Luciano Tajoli contro tutti gli altri, di massacrare il sofisticato "valzer musette" di Bruno Lauzi e il gregoriano sepolcrale di Gino Paoli, occhiali scuri e «ieri ho incontrato mia madre, ed era in pena perché». Desiderano lorsignori un'atmosfera nazional-popolare? Quel che ci vuole è Peppino Gagliardi che canta con il rosario fra le mani. O preferiscono forse il côté internazionale? Ecco Paul Anka, Gene Pitney, Petula Clark, Françoise Hardy, Dionne Warwick, Timi Yuro, i Minstrels, i Surfs. Dunque non si poteva mancare nemmeno l'appuntamento con l'era "beat", allorché esplodono i Beatles, le ginocchia delle ragazze avvertono l'eccitante brezzolina sollevata da Mary Quant, e nel 1966 sulla Riviera sbarcano gli Yardbirds, i Renegades, ad affiancare l'Equipe 84 e Caterina Caselli, con Mike Bongiorno che rilascia esclamazioni di sbalordimento borghese, forse sincere, di fronte ai «gallinacci» e ai capelloni inglesi e italiani. Al Festival si è visto e sentito di tutto, dalla tragedia del suicidio impenetrabile di Luigi Tenco, un gesto che «va al di là di ogni sdrucciolevole simbolismo beat» (secondo l'enigmatica sentenza di Salvatore Quasimodo) agli show di Benigni su «Wojtylaccio», dal saltello di Joe Sentieri ai piedi scalzi di Sandie Shaw, dallo ye-ye al wo-wo, dal beat emiliano della Caselli alle trasgressioni di Patty Pravo e agli esordi più o meno punk di Anna Oxa. Si sono visti da un lato fenomeni nazional-familiari come frate Cionfoli e la coppia Al Bano & Romina, dall'altro le spericolatezze padane di Vasco Rossi e la provocazione bizzarra di una Loredana Bertè con il pancione finto, prima prova trash di gravidanza istrionica. Però ci passano tutti, Gaber, Morandi, Arbore, Tozzi, Ruggeri, Ramazzotti, Dalla, Vecchioni, Zucchero. Non si nega quasi nessuno, a parte i soliti intellettuali, De Gregori, De Andrè. Una volta, nel '69, c'è passato anche l'inafferrabile, il misterioso e timidissimo Lucio Battisti: nei filmati in bianco e nero lo si vede che prende a roteare animosamente il braccio non appena parte il ritornello di "Un'avventura", e fa un po' ridere (e un po' commuove, altroché). E allora come si può interpretare il Festival? Ci sono due scuole: una dice che è proprio lo specchio della nazione; l'altra che è una vetrina che rispecchia solo la merce che mostra. Sta di fatto che quando Celentano nel '66 cantò "Il ragazzo della via Gluck" (bocciata al primo turno) riuscì a vedere i problemi dell'urbanizzazione, ma anche l'anomia metropolitana, la desolazione di «case su case, catrame e cemento». Ciò che per Adriano in seguito sarebbe diventato una fissazione, in quel momento festivaliero era un'intuizione. Ma lo stesso Celentano, che quattro anni più tardi canta con Claudia Mori la temibile "Chi non lavora non fa l'amore", in cui il sesso coniugale è moneta di scambio e strumento di ricatto, reagisce all'autunno caldo con tutta la sua psicologia da maggioranza silenziosa, da incallito estremista di centro. Ormai lo abbiamo capito, Sanremo non è un frammento che rispecchia prodigiosamente tutta la nostra società. Però resiste a tutto, a un premio Nobel come Renato Dulbecco chiamato a fare il presentatore, al declino dei dati Auditel, alla sparizione di Pippo Baudo. Resisterà anche a Paolo Bonolis, perché è il "mondo di Sanremo", che esiste solo per alcuni giorni ogni anno: assomiglia alla vita reale ma non è la vita reale, riflette la società ma la deforma secondo canoni particolari, appare troppo finto per essere del tutto finto e troppo vero per essere realistico. Per questo il Festival è immortale (era immortale anche quando morì, negli anni del penoso oscuramento inflittogli dalla Rai): sopporta le ingiurie della realtà grazie al suo codice genetico di finzione, non crolla sulle sue finzioni perché incorpora, seppure stralunati, molti pezzi di realtà. Non è né di destra né di sinistra, né conservatore né progressista: è un mondo a parte, che una volta l'anno incrocia il nostro. Lo guardiamo come si guarda una stella cadente, sapendo che comunque non cadrà mai: perché l'Italia è un paese caotico e pieno di difetti, e invece il mondo di Sanremo, nel suo genere, sarebbe la perfezione, se valesse ancora quel vecchio detto, canta che ti passa.
L'Espresso, 03/03/2005
La velina dà solo baci accademici
Per capire la televisione non bisogna credere alla televisione, alle dichiarazioni sulla qualità, alle intenzioni dichiarate. Conviene guardare i programmi di connettivo, della mattina, del primo pomeriggio, del preserale. Solo così, nelle trasmissioni di intrattenimento sfigatone, che naturalmente comprende anche i divi della tv diurna (i Cucuzza, le Clerici, ma anche le Venier e i Giletti), è possibile capire la massima di David Letterman «tv is shit». In un qualsiasi studio mattutino o pomeridiano sfilano i protagonisti della cacca televisiva contemporanea, capeggiati dai professionisti e dalle professioniste dell'ospitata, quelli che come Alessia Merz hanno capito che non serve sapere fare qualcosa, l'importante è «saper stare in televisione». In un programma come "Verissimo", qualche settimana fa si è visto un servizio sul mestiere della velina come opportunità per le giovani italiane di oggi. Tutto questo detto seriamente, come se effettivamente potesse essere previsto un corso, uno stage, un esame di Stato, e realisticamente uno "sbocco" professionale. Anzi, forse qualcuno dell'entourage psico-pedo della ministra Moratti ci avrà pensato: ottimo, ecco la formazione professionale del Terzo Millennio, nel postindustriale estremo, diventa velina, ce la puoi fare (nota a margine: ricordarsi di controllare se ne parla il pamphlet utilmente reazionario di Paola Mastrocola "La scuola raccontata al mio cane"). Ma per restare alla tv, bisogna mettere a fuoco che l'universo semantico è quello intercettato con i suoi gesti situazionisti da Carlo Freccero, l'uomo che spedì Flavia Vento sotto una tavola, perfetta donna oggetto; ma che forse non avrebbe previsto, nemmeno lui che la Vento suddetta si sarebbe messa in testa idee politiche e la voglia di ventilarle. Grave errore. Il destino del freak è di diventare televisivamente un superfreak, e poi di togliere il disturbo o rintanarsi nelle nicchie (vedi Chiambretti, vedi lo stesso Arbore). Ma i freak se si illudono di poter "stare in televisione" anche in programmi tematici, specialistici, sono dolori. Ogni volta che appare sulla poltroncina di "Controcampo", Elisabetta Canalis, starlet spaziale e inidonea al professionismo, induce tutti a chiedersi se la crisi di Bobo dipendesse dal sinusoide della loro relazione. Ma se la svippata e anche lo svippato reclamano una loro "professionalità", tranquilli che tutto finisce in vacca, absit iniuria.
L'Espresso, 24/02/2005
Il tallone di Prodi
La forza di Romano Prodi è la debolezza delle macchinazioni altrui. Fino al congresso dei Ds, Mortadella era un "bollito". Dietro la sua figura data per cadente si affollavano pretendenti veri e finti, candidati alternativi a iosa, sostenuti dai corridoi romani, dal chiacchiericcio tiberino, dai salotti, dai retrobottega della Capitale. Bella, la politica virtuale. Eccitante, l'idea di poter cambiare il leader ogni due o tre settimane. "Divertente", come si dice in gergo, la possibilità del totocandidati, una festa per il partito degli intelligenti, dei dietrologi, di quelli che non la bevono, che ne sanno sempre una in più degli altri. Poi il presunto bollito Romano è andato al Congresso, ha fatto la sua prudente demagogia («Care compagne e cari compagni»), che è un ossimoro come la dissimulazione onesta dei gesuiti nel Seicento, e ha tirato giù una visione da leader, mettendo in mostra, come ha segnalato Giampaolo Pansa, «le risorse immateriali» di chi è stato alla guida della Commissione europea, e che ha dunque uno sguardo strategico. Dopo l'intervento al Palalottomatica, Massimo D'Alema ammetteva a labbro tirato e baffo arricciato che «Romano ha fatto il discorso della vita». Così, all'improvviso, con una virata spettacolare del sentimento, tutte le fumisterie degli ultimi mesi si sono dissolte. È sbocciata la primavera, è nata l'Unione, si è aperta la Fabbrica. Negli stessi corridoi dove prima si sogghignava si è smesso di ridere: anzi, in certi sancta sanctorum del potere annunciato come la Rai è cominciato il pellegrinaggio, il contatto per interposta persona, con le relative dichiarazioni di inalterabile amicizia e «dite a Romano che può sempre contare su di me». Quanto ai poteri forti, ormai è assodata la convinzione che l'esperienza di Berlusconi quel poco che poteva dare l'ha dato, e siamo agli sgoccioli. Per qualche tempo dentro i palazzi dell'economia si è cullata l'illusione di certe invenzioni neocentriste, ma adesso fra il mondo delle imprese e l'Unione c'è di mezzo forse soltanto l'antica diffidenza per il Prodi cattolico, quindi solidarista (arriveranno a rimpiangere con lacrime di coccodrillo il realismo di D'Alema), oltre all'esecrazione per l'alleato anomalo, il sempiterno Fausto Bertinotti. Tuttavia lo sanno anche loro che gli eventuali futuri ministri unionisti sono più professionali. Letta (Enrico), Bersani, Amato, D'Alema, De Castro, Giarda, insieme a qualche new entry, rappresentano una squadra super-garantita. Quindi la debolezza di Prodi è di altro tipo. Politica, perché sui temi a maggiore tasso di conflittualità (bioetica, Iraq) il centro-sinistra è "tot capita tot sententiae", con un effetto-casino spesso deprimente. E nella comunicazione, dato che nonostante gli spergiuri di Berlusconi, il controllo da destra sulla televisione è ferreo (anzi, talvolta sfiora il grottesco, come quando a Prodi, citato magari solo per iscritto, risponde Schifani, ripreso nella sua scultorea bellezza). L'altro rischio effettivo è che lo staff prodiano si illuda di poter replicare le modalità della campagna 1995-96. Allora l'ingenuità era un valore, significava immediatezza, freschezza, prossimità ai cittadini; oggi apparirebbe improvvisazione, estemporaneità, dilettantismo. Per battere Berlusconi, in una campagna che diventerà una drammatica guerra ideologica, non ci sarà spazio né per gli errori né per le approssimazioni.
L'Espresso, 24/02/2005
Voglio una vita random
Gli ultimi due decenni del Ventesimo secolo sono stati il regno della certezza, della prevedibilità, del calcolo. Il fordismo si rimaterializzava nel toyotismo. Come spiegò Jeremy Rifkin nel bestseller "La fine del lavoro", nelle fabbriche giapponesi il ciclo del montaggio veniva stressato nei punti critici, per mettere in tensione il sistema e trovare soluzioni in grado di incrementare la produttività. Stavamo entrando nel mondo "alla McDonald's", dove un panino può essere preso come unità di misura universale, del tenore di vita e dell'apporto calorico consigliabile, e in cui la programmazione totale del "Truman Show" era un modello incombente di struttura narrativa praticabile. Sta cambiando tutto. Il criterio, il dogma, il modulo. L'uomo a una dimensione è un residuo del Novecento, Herbert Marcuse un freak filosofico che ha sognato il passato, come un mutante di Ridley Scott. Già, "Life is random", dice la Apple nella sua pubblicità. La vita è a caso. È stato Luca Sofri, sul "Foglio" del 14 gennaio, a rilevare la tendenza: e cioè che la nuova versione dell'iPod, il riproduttore del formato mp3, contiene soltanto la funzione "random", ovvero "shuffle": «Quella che permette di ascoltare le canzoni in un ordine casuale inventato dall'apparecchio e sconosciuto all'ascoltatore». Dicono i sociologi che l'apparente irrazionalità del nuovo iPod è invece perfettamente allineata alla condizione (giovanile) contemporanea. Alle sue aspettative, e alle sue non-aspettative. Abituati all'ordine casuale della musica nelle discoteche, sempre meno vincolati al copyright, abituati a lasciarsi intercettare nel web da un link sconosciuto, i ragazzi del nuovo millennio non hanno l'abitudine mentale a rispettare le costruzioni standardizzate. Rispetto alle opportunità offerte dalle comunità estemporanee e infinitamente mutevoli di "file sharing", la rigidità di un normale cd risulta una fonte di insofferenza: il downloading possibile è infinitamente più eccitante della riproduzione codificata dal disco stampato da una multinazionale. La gioventù di oggi non è neppure un aggregato sociale: sembra piuttosto una somma di individualismi, in cui ogni soggetto agisce da solo come membro preterintenzionale della folla solitaria. L'atteggiamento quotidiano è "streetwise", guardingo come uno scout che legge e interpreta indizi metropolitani, «attento a camminare per strada guardando intorno a chi si incontra e a che cosa succede di momento in momento». In questo scenario in cui non ci sono né generazioni né "movimenti", e nel quale i complessi di norme si destrutturano. il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato di una società «adiaforica», che sconnette le scelte dall'etica riducendole a questioni tecniche, e resta indifferente davanti alle gerarchie di valore, anzi le tratta come una dimensione "less than zero". La funzione "random", ossia la fornitura casuale di sensazioni, completa il processo e azzera anche il dilemma tecnico. Rassicura, conferma, sorprende, gratifica. Il software è stato ridotto al minimo, così come non esiste la possibilità di intervenire sulla sequenza. C'è solo un fluire assimilabile alla «modernità liquida» sempre di Bauman, in cui c'è «la libertà di trattare l'intera vita come un unico protratto tripudio di shopping», con brevi gratificazioni a ogni acquisto e a ogni esperienza. Tutto ciò si riflette su tutte le dimensioni della vita: il teorizzatore della "Terza via", Anthony Giddens, specificava che il passaggio dall'esperienza erotica casuale e frammentaria, il «sesso di plastica», all'«amore confluente» e alle «relazioni pure» rappresentava il transito verso il progetto di una nuova stabilità affettiva e a una forma ulteriore di felicità. Ma tutto ciò appare ottimistico. Oggi gli individui vivono nel «mondo a rischio» descritto dal tedesco Ulrich Beck, nella "Risiko Gesellschaft", una società priva di certezze, insicura, indefinita, in cui le identità vengono modellate da incessanti giochi di ruolo. Ognuno recita una commedia in cui il casting è fenomenologia pura, "attualità" permanente, invenzione continua di performance sociali, casuali faccia a faccia che producono un senso sempre mutevole. Insomma: nei non-luoghi descritti da Marc Augé con le loro rovine, merci e macerie, nei riti collettivi registrabili in qualsiasi ipermercato, come scrive Davide Sparti in un recentissimo libro ("Suoni inauditi. L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana", Il Mulino), «il vivere stesso è un esercizio di improvvisazione, e la nostra identità, più che un nucleo fisso interno all'individuo, destinato ad accompagnarlo fino alla morte, evoca una presenza mobile». Per interpretare questa «traiettoria imprevedibile», nella ricerca di una «coerenza narrativa» apparentemente impossibile da conseguire, per stabilizzare l'uomo "flessibile" di Richard Sennett disgregato nella sua soggettività dal nuovo capitalismo, occorre una creatività che non può fondarsi solo sulle routine. La tradizione e il passato suggerirebbero di ricorrere alle forme politiche della modernità, alla creazione logica di consenso attraverso i partiti e le contrapposizioni razionali fra interessi. Ma tutto questo, nell'universo frammentario, non funziona più. Non reggono neppure gli algoritmi che presiedono a un film come "Sliding Doors", dove l'alternativa iniziale determina tutte le altre. Se tutto scorre, il mondo è così capriccioso, argomentabile da un pensiero tanto debole che alla fine si può eliminare il pensiero e lasciare esclusivamente la debolezza. Resta la citazione, la memoria erratica come in un libro diventato rapidamente di culto, "L'originale miscellanea di Schott" (Sonzogno), raccolta imperscrutabile di conoscenze sclerotizzate, catalogo di ricordi mummificati, manuale per censire i nomi dei pianeti, le regole di un duello, i nomi dei sette nani. Se poi l'impianto del racconto di vita è un reality show come il "Grande Fratello", dove tutte le strategie narrative sono aperte, la sola interpretazione praticabile è quella momento per momento, come un navigatore satellitare che "ricalcola" di continuo la mappa comportamentale. In questa selezione problematica, viene di nuovo la tentazione di ricorrere ai visionari filosofi sostenitori delle teorie "contro il metodo", quelli che spopolarono, come Paul K. Feyerabend, nel segno di una «teoria anarchica della conoscenza»: anche se adesso si tratta invece, più verosimilmente, di una pratica casuale dell'esistenza.
L'Espresso, 24/02/2005
Anche Minoli ha fatto un miracolo
Se non altro si può dire che Giovanni Minoli è uno a cui piacciono le partite difficili. Ad esempio sfidare il canonico Bruno Vespa della seconda serata con i filmati di "La storia siamo noi". Visto l'instant movie "Quella parte di anima chiamata corpo: il calvario di Karol Wojtyla", di Stefano Rizzelli (Raidue, 7 febbraio) ed eccone una valutazione sommaria. Produzione di difficoltà micidiale, sesto grado superiore della tv contemporanea, triplo avvitamento carpiato. 1. Perché il calvario del papa è ovvio, sotto gli occhi di tutti. 2. Perché a parlare di anima che è corpo e viceversa c'è il rischio di sfiorare i territori new o post age di Gabriele La Porta. 3. E anche perché il potenziale emotivo garantito dalla personalità di Giovanni Paolo II è stato sfruttato in ogni modo, con tutte le immagini e con tutte le parole possibili. Quindi è difficile essere originali e convincenti insieme. Minoli ha fatto un mezzo miracolo, con tecniche borderline. Ha preso le immagini più suggestive, le espressioni più clamorose, l'affettuosa confessione di Wojtyla «ecco qui un papa un po' deficiente», le escursioni in elicottero, i bambini nascosti per gioco sotto la veste rossa, i baci sui capelli delle donne, gli abbracci ai minatori sudamericani, l'ammonimento ai preti nicaraguegni, la sofferenza quotidiana mostruosa, il dolore e il Parkinson, e ha costruito una "testo" credibile e narrativamente compiuto. Sotto, ci ha messo qui una musica heavy metal, là qualche coro che assomiglia ai "Carmina Burana" di Carl Orff, talvolta la chitarra di The Edge, insomma la musica velocissima degli U2; e dentro ci ha piazzato un montaggio che qualche volta assomiglia alla "Passione" di Mel Gibson. Come risultato, un effetto choc continuo, visivo ed emozionale. Ora Wojtyla sembra una rockstar, ora un uomo percosso mortalmente dal dolore, ora un sacerdote che attende il suo destino incommensurabile. Insomma, un tentativo piuttosto efficace di essere colto e popolare, scomodando insieme la teologia del cardinale Ratzinger e le aspettative dell'audience. (E forse è anche uno dei possibili modelli di come si possa fare una tv rapida, veloce, puntuale, sostanzialmente moderna con le invenzioni del postmoderno: in fondo, Michael Moore ha insegnato qualcosa a tutti, anche a Minoli e ai suoi. Non è un peccato: Dio non ha imposto a nessuno di essere noioso, neppure alla tv di qualità).
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