L’Espresso
L'Espresso, 17/02/2005
Sarebbe bello avere dei treni
Con una delle sue battute in tipico stile emiliano, Pier Luigi Bersani è intervenuto al convegno romano della Fondazione Rodolfo De Benedetti ("Oltre il declino", 3 febbraio) spiegando che la carenza vistosa di investimenti in settori strategici della realtà nazionale costituisce e costituirà un problema di eccezionale rilievo nei prossimi anni. Allorché il potenziale di trasporto delle ferrovie raddoppierà nelle tratte principali grazie all'alta velocità, ha detto Bersani, «qualcuno dovrà ammetterlo: sarebbe bello avere dei treni». Lo spirito dell'ex ministro piacentino è utile per indurre a guardare con più attenzione ciò che sta avvenendo nell'Italia di oggi. Nell'Italia? Diciamo nelle Italie. Perché c'è un paese virtuale, quello del Contratto con gli italiani e della propaganda berlusconiana, in cui sarebbero avvenute delle meraviglie, "l'infrastrutturazione", come la chiamano i tecnici e in particolare il ministro Lunardi, procede a tappeto, i progetti si susseguono, si posano prime pietre a raffica, le inaugurazioni si susseguono, con tagli di nastro e promesse di efficienza. E poi c'è invece il paese reale, dove la situazione non è proprio in linea con gli annunci e le fantasmagorie del Terzo Millennio e del Secondo Governo di Silvio Berlusconi. Lo ha rilevato con nitidezza Aldo Bonomi sul "Sole 24 ore" del 6 febbraio, commentando le nuove ipotesi relative al MiTo, la messa in rete di Milano e Torino, e rilevando che passando in treno si costeggia appena fuori la metropoli lombarda la nuova grande fiera, con «la vela di Fuksas come simbolo», «un polo di rappresentazione del capitalismo italiano in Europa e nel mondo», luogo di eventi anche immateriali e non più solo «vetrina delle merci». Ottimo. Alla moda. Irresistibile. Tuttavia Bonomi, discepolo di un osservatore minuzioso della realtà reale come Giuseppe De Rita, non si limita a contemplare il sogno. Si guarda attorno e le sue osservazioni sono disarmanti: «Intanto gli Eurostar si bloccano per ore. I pendolari sono in rivolta... La mobilità è peggiorata... Chi arriva in autostrada da Torino a Milano deve fare un po' di coda al casello. Quasi sempre. L'orario di punta ormai è continuato. Chi guarda con attenzione lungo la scarpata vedrà uno strano insediamento. Non è un orto per gli anziani offerto dal Comune. È una delle tante baraccopoli sorte fuori città, nelle cascine occupate, a ridosso dei canali e delle massicciate ferroviarie e nelle fabbriche dismesse... Sono invisibili: immigrati senza casa». Sembra la descrizione di una favela, povertà estrema, disagio feroce accanto alla retorica delle "tre i", e del mondo immaginario, del terziario evoluto, dei consumi vistosi. Ma potrebbe essere l'Italia normale che tutti abbiamo sotto gli occhi. Non si fa del disfattismo viscerale dicendo che una parte consistente dell'opinione pubblica sta facendo i conti con il confronto fra il Sogno e l'Incubo. Grandi opere, nel sogno, il Ponte sullo Stretto, l'"efficientamento" del territorio, il decisionismo sbrigativo della legge-obiettivo contro le lentezze bradisismiche delle Regioni e degli enti locali. Nell'incubo quotidiano, oltre ai pendolari in rivolta, con il responsabile delle Fs Elio Catania che si attira improperi promettendo soluzioni entro i prossimi due o tre anni («Ma noi andiamo a lavorare domattina, altro che due anni!»), sarà bene registrare anche il colossale pasticcio combinato dalle forze stradali riunite con i quattro giorni di blocco sull'A3 per una nevicata "vasta e imponente", ma con il consueto ministro Lunardi che non ha trovato di meglio che dare la colpa ai camionisti privi di catene. La sostanza è che la dimensione ipnotica del berlusconismo sta cedendo il passo all'apertura degli occhi sulla realtà. Il vicepremier Marco Follini riconosce con un fastidio che la polemica pedissequa contro il comunismo produttore di "miseria, terrore e morte" è un disco rotto, ma evidentemente, pur sbandierando sondaggi rassicuranti, Berlusconi è in difficoltà sensibile. Deve ritrovare il nemico. Ma nella società italiana ci sono riserve di rancore, sacche di risentimento tutt'altro che mitigato (anzi, forse accresciuto) dal taglio selettivo delle tasse e dalla perdita di reddito negli ultimi due anni, e dal disfunzionamento generale. Può darsi che alla fine Berlusconi abbia effettivamente trovato il suo nemico. Ma anziché le classiche tre narici e la bandiera con la falce e martello, potrebbe avere l'immagine sconsolata di un italiano qualunque.
L'Espresso, 17/02/2005
Luciana la iena disumana
Era un'occasione sontuosa, il rientro televisivo della Littizzetto, per vedere se la Luciana è effettivamente un crac, come si dice in gergo ippico, ossia una campionessa in grado di vitalizzare ogni programma, con la robustezza del suo humour mezzo colto e mezzo volgare, in parte prevedibile e in parte inesorabile. Dopo averla vista nelle "Iene", il giudizio è sospeso. E non solo perché, come dice il galvanico critico della "Stampa" Alessandra Comazzi, è difficile sostituire la ragazza Alessia Marcuzzi, rassicurante e «odorosa di femmina». Ma perché la Littizzetto è portatrice di sarcasmo, di umorismo irsuto, di scabrosità lessicali, di riferimenti alle miserie femminili, alle puzze maschili, alle flatulenze della convivenza. Insomma, un umorismo non depilato. Non è detto che tutto questo universo del rapporto maschio-femminile resista impunemente in un programma da televisione generalista. Perché l'aggressività della Littizzetto, e la sua capacità di giocare con i temi della convivenza e della femminilità, funzionano molto bene nei suoi libri (anche il terzo capitolo della sua opera omnia, "Col cavolo", ormai in bilico fra la "Recherche" proustiana e la solita rifrittura di ritagli, strappa comunque qualche sorriso per l'acidità delle battute, per l'autocommiserazione buttata in vacca, per il femminismo cialtrone e vissutissimo, logoro, consunto fino alla verità della vita). Ma la Littizzetto ha bisogno di un contesto, di un format, di una cornice. Va da sé poi che questa cornice lei la distruggerà. Le "Iene" però non sono il suo contesto. Sono invece un programma volutamente destabilizzante, fin dai tempi della Simona Ventura. E quindi la madamin Luciana aggiunge tensione a tensione, sprigiona ondate di disagio, emana sfasature, squilibri, di?sassamenti, perdite di fase. Tanto più che nella prima puntata aveva a fianco, oltre ai due boys, la maestra di ballo Heather Parisi. La quale è l'immagine di un equilibrio rassicurante e convenzionale, produce ondate di rassicurazione borghese, guardi lei e vedi i suoi figli (direbbe Mogol). Mentre la Littizzetto, verso la quale continuiamo a toglierci tanto di cappello, è lo scarto rispetto alla norma, quella che dice "culo" alla festa di famiglia (e poi magari il culo te lo tocca davvero, e ci ride sopra). Forse la trasgressione non si addice alla tv generalista, e quindi alla Luciana converrà andarci piano, con le trasgressioni.
L'Espresso, 10/02/2005
Mezzanotte in Arboristeria
Anche dopo la seconda puntata l'effetto Arbore si è fatto sentire, quantunque si abbia l'impressione che "Speciale per me" non sia proprio un programma d'attacco. Sabato 29 gennaio Raiuno è riuscita anche a penalizzare la nuova trasmissione, lasciando che Milly Carlucci trascinasse il suo show cretinetti con i ballerini dilettanti mezz'ora dopo il timing previsto. Poi c'è stato il telegiornale, quindi la pubblicità: e la sigla di Arbore è partita a mezzanotte e 20, con 35 minuti di ritardo. Forse in questo modo il nicchiatore Arbore sarà stato contento, nel senso che alcune centinaia di migliaia di telespettatori potenziali si saranno addormentati, adattandosi così perfettamente al sottotitolo della trasmissione, "Meno siamo meglio stiamo". Resta tuttavia un mistero perché Raiuno non abbia protetto gelosamente quell'oasi di pace televisiva che è l'ultimo frutto della Premiata Arboristeria. Pura casualità, diranno i dirigenti supremi della rete. Magari tutto dipende dal fatto che le danze dell'atletico Igor Cassina e del funambolico Gianni Ippoliti sono durate più del previsto in quanto i danzatori improvvisati si sono fatti prendere dalla passione per il ballo (comunque il programma del sabato sera di Raiuno, "Ballando con le stelle", benevolmente definito da Sebastiano Messina su "la Repubblica" «un reality show senza il corollario di volgarità tipico del genere», sembra perfettamente intonato al pubblico tv di riferimento soprattutto quando i protagonisti recitano a soggetto, e la coatta che balla con Ippoliti può esibirsi nel canonico «Io gli imparo a ballare...»). In sostanza, conviene rinviare il giudizio su Arbore alla fine del ciclo. Ma nel frattempo mettiamo agli atti che l'interesse della rete per il grande ritorno non dev'essere straordinario. Evidentemente il popolo notturno interessa fino a un certo punto, richiama poca pubblicità, e niente sponsor se non il Cacao Meravigliao. E poi Arbore non si è sforzato moltissimo, non ha messo insieme nuove idee adeguate alla tv sentimentale e feroce dei nostri tempi avventurati. Fa le sue solite cose, quelle che piacciono al suo pubblico di nottambuli, gente tollerante e civile. E che magari si addormenta, perché è bello lasciarsi andare, verso le due di notte, quando siamo ancora un paio di milioni, con tanti saluti all'Auditel (tanto l'apparecchio resta acceso, e quindi resta accesa la testimonianza).
L'Espresso, 03/02/2005
Lady Guastalla
Il primo bar vicino all'azienda è La luna blu. L'altro è La tazza d'oro. Lei entra e tutti la salutano dicendo semplicemente: «Ciao, Anna Maria». Per tutti gli altri, per i giornali e la politica, è "la" Artoni. Qui è una di loro. Se si vuole avere un'idea di quella specialità locale che è l'azienda familiare, un concetto dell'impresa emiliana, del capitalismo di territorio, insomma di tutte quelle cose che messe insieme hanno fatto il social-capitalismo "pinker than red", più rosa che rosso, è utile una visita qui a Guastalla, profonda bassa padana, Emilia di confine. Una giornata di nebbia che smentisce le ironiche nostalgie di Luca Cordero di Montezemolo, quando dice che «non ci sono più le nebbie di una volta«. Storie: nel cuore amministrativo dell'impresa di trasporti Artoni, negli uffici dell'ex cantina sociale di questo paesone ultrapadano di 17 mila abitanti, la nebbia è nebbia, la comunità è la comunità, il lavoro è il lavoro. A lasciarla parlare, Anna Maria Artoni, classe 1967, «quasi 38 anni, ma dico ancora 37, speculo sui mesi», single, presidente dei giovani industriali, volto glamour della giovane Confindustria montezemolista, snocciola senza un'esitazione la sua genealogia. Scorre nei quadri d'epoca la figura del bisnonno Cirillo, carrettiere, cappello con la piuma e frusta in mano, un artista dello schiocco: mestiere proletario, trasportare derrate alimentari, e richiamare i clienti facendo risuonare in aria lo scudiscio; e poi il nonno Paride, il modernizzatore, quello che compra il primo camion e fonda l'azienda, nel 1933. Quattro figli, e un camion a testa: ecco nata l'impresa di trasporti Artoni, con il logo a cinque strisce che simboleggiano i figli e il padre. «Bene, l'azienda va bene», dice la Artoni. Nel 2004 ha raggiunto i 148 milioni di euro di fatturato, 18 per cento in più dell'anno precedente, mentre il settore è cresciuto soltanto dell'8 per cento. Trecentosettanta dipendenti, oltre mille collaboratori, circa 30 milioni di colli movimentati, investimenti nell'attrezzatura e nell'informatica. È una società a controllo ferreo, Luigi Artoni, settantenne di micidiale efficienza, presidente e amministratore delegato, Anna Maria Artoni vicepresidente (e direttore amministrativo fino al 2002, quando lascia l'incarico operativo per sopraggiunta carriera confindustriale): «La proprietà è famigliare, ma il modello organizzativo è manageriale. Il salto l'abbiamo fatto negli anni Ottanta, quando mio padre ha rilevato la quota dei fratelli e ha trasformato l'azienda, inserendo un gruppo di dirigenti, professionalizzando l'impresa in modo moderno». Qualcuno ogni tanto la sfotte: per il sito gossiparo Dagospia è Ulivella, la leader implicita della criptosinistra imprenditoriale; oppure, con uno sguardo critico al look, «ecco s'avanza la Artoni, occhialini da segretaria d'azienda gattomortista». Negli ultimi convegni dell'establishment confindustriale l'ala ideologica di destra ha storto il naso: «Troppo di sinistra, la Artoni». Troppo progressista, troppo sociale, troppo poco berlusconiana. E si potrebbe anche capire, dal momento che ha respirato la cultura socio-politica dell'Emilia rossa, che ha un buon rapporto con Romano Prodi, che una delle sue amiche è la deputata diesse Elena Montecchi. Al convegno della Margherita organizzato a Fiesole da Ermete Realacci, tutti pazzi per Mary Ann, e qualcuno l'ha inserita nel governo ombra del centro-sinistra. Altri parlano di una sua possibile candidatura nelle file prodiane nel 2006. È un'ipotesi realistica? «Adesso non ci sono le condizioni». E domani? «Neanche domani», risponde, con un sorriso forse traditore. Carriera che si impenna, in ogni caso, per una ragazzona dal viso spirituale e dal corpo materiale, cresciuta in una famiglia profondamente inserita nella comunità, con la madre Lilia, fama di grandissima cuoca, che conserva tutte le amicizie nella natia Correggio. Scuole pubbliche a partire dalle elementari Edmondo De Amicis, senza fisime aristocratiche, al riparo da esclusività finto-borghesi, fino al diploma di ragioneria. Amicizie quasi tutte nella parrocchia della Madonna della Porta, qualche tentazione extra-aziendale come dj proprio nell'emittente parrocchiale Radio Dimensione, nei primi anni Ottanta. Un po' di pallavolo, «ma non ho mai pensato a prendere sul serio lo sport, anche perché sono riuscita a rompermi sei volte la caviglia sinistra» (adesso non pratica niente, per tenersi in forma si concede una settimana in una beauty farm due volte l'anno). Ci dev'essere un dato genetico emiliano e popolare, a pensarci, se una rampolla del padronato vecchio stampo non si iscrive neppure all'università: «Oppure semplicemente la voglia di cominciare subito a lavorare in azienda. Quando ho capito che mi serviva una preparazione più approfondita ho seguito un master sperimentale di Profingest, a Bologna, con un'aziendalista come Gianni Lorenzoni, e un economista come Luigi Golzio, durissimo». E deve esserci anche una specie di etica del lavoro, per una ragazza che ancora giovanissima passava le vacanze estive in azienda, a fare lavoretti, le lettere di vettura, la sistemazione dell'archivio. Un po' controvoglia («Ma perché non continui a studiare?»), suo padre la assume a 19 anni, nel 1986, con un contratto di formazione e lavoro: forse è la precaria più ricca d'Italia, e lei ci si mette d'impegno, nell'area amministrativa, in appoggio a un'impiegata che le fa da pigmaliona: e ci mette nove anni a diventare dirigente, anche se si iscrive subito al gruppo dei giovani imprenditori di Reggio Emilia, dove fa amicizia con i giovani Ruggerini (motori), Lombardini (idem), e soprattutto con Barbara Morini (calcestruzzi), che la guida nella realtà del movimento imprenditoriale e la introduce a ciò che loro chiamano partecipazione. «Tutto dev'essere nato con un convegno dei giovani a Capri, nel 1987, quando era presidente Antonio D'Amato». Lei diventa presidente dei giovani a Reggio Emilia, e vicepresidente regionale. Fino a quando, un po' per caso e un po' per necessità, nasce la candidatura alla presidenza nazionale. Adesso, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, in aprile, Anna Maria Artoni si diverte a ricordare quella campagna elettorale con la nonchalance dei vincitori. Ma allora fu una battaglia durissima. Contro di lei, candidata delle regioni soprattutto del Nord, era schierato Vincenzo Boccia, salernitano, ex vicepresidente di Edoardo Garrone, che da due anni si stava preparando al balzo. «Campagna elettorale durissima», sorride. Sessanta giorni ventre a terra, con la sua lanciatissima squadra: Matteo Colaninno, Giannetto Marchettini, Annibale Chiriaco, Cristina Bonetti, Michela Marguati. Successo al ballottaggio, sul filo di lana, per sei voti. «È bello vincere le elezioni. Ma dopo ti senti il vuoto nello stomaco e ti chiedi: e ora che faccio?». Già, che si fa? «Ci siamo chiusi per tre giorni in un buen retiro a Castel San Pietro Terme, a due passi da Bologna, per fare brain storming». Poi una rete di relazioni, a Roma con l'Arel ed Enrico Letta, a Londra con la London School of Economics. Ma soprattutto, dice lei, la ricerca di un filo conduttore, nel tentativo deliberato di riprendere l'esperienza di un suo predecessore, Aldo Fumagalli: «Ho detto che occorreva tornare a fare politica, con l'iniziale maiuscola, nel senso della passione civile». Per questo il suo primo convegno come presidente dei Giovani, a Santa Margherita, è stato dedicato all'immigrazione: «Per mettere a fuoco le modalità e soprattutto le opportunità dell'inclusione, a tutti i livelli». Prevedibile che di conseguenza la chiamino Ulivella. Un altro convegno sulla democrazia economica, a Capri, sostenendo che la politica ha bisogno di consenso e quindi chi è obbligato a ricercare il consenso non fa le riforme, sicché Silvio Berlusconi stringe i denti, stira le labbra e commenta: «Questa volta la Artoni poteva stare zitta». Ulivella? Il fatto è che oggi vige il principio evangelico, ma interpretato poco evangelicamente, chi non è con me è contro di me. «Valeva anche con D'Amato, che pure era stato una scelta netta, di innovazione. Mentre io non credo nelle rivoluzioni, nelle rotture, nello scontro permanente. La politica implica la composizione». Finché non arriva l'era Montezemolo. E basta che pronunci il nome Luca perché all'Artoni si accendano gli occhi, dietro le lenti gattamortiste: «Perché Luca ci ha restituito un sogno». Vediamolo, il sogno. Una società, dice, in cui va rovesciata la piramide sociale: adesso le risorse sono largamente rivolte alla comunità che invecchia, quasi nulla sugli ammortizzatori sociali per i giovani nel mercato del lavoro flessibile. Un programma di sinistra, anche se lei si sottrae: «Ma davvero non è possibile esporre le proprie idee senza essere catalogati in uno schieramento?». Dipende. La presidente dei giovani imprenditori Anna Maria Artoni ha in mente un capitalismo basato sulla trasparenza, un mercato presidiato dalle regole, una competitività fondata sull'innovazione e la qualità dei prodotti; mentre nel mondo imprenditoriale, rispetto a queste ubbie giovanili, si sentono continuamente sospiri di nostalgia al pensiero dei bei tempi delle svalutazioni competitive, e si conta su una politica che consenta l'elusione fiscale, la prossimità al sommerso, la mano libera. A parlare di un capitalismo moderno si può passare per comunisti. Ed è per questo che la carriera della Artoni è a un bivio. L'ambiente dice che è la candidata principale, se non unica, alla successione di Massimo Bucci, il presidente della Confindustria dell'Emilia-Romagna. Ma intanto amici e nemici continuano a immaginarla in politica. Anche se non ci sono le condizioni. E se le condizioni si creassero? «No comment». Fuori la nebbia è sempre fitta. L'Emilia è sempre l'Emilia. Non si schiererà, non si farà candidare. Ma se davvero qualcuno le offrisse un incarico, un ruolo, facciamo un ministero, forse anche la storia degli Artoni famiglia di carrettieri, corrieri, trasportisti, potrebbe registrare novità mai viste da queste parti.
L'Espresso, 03/02/2005
Per favore non parliamo di ricatti
Le persone normali sanno che "Report", il programma di Milena Gabanelli, è una scheggia di realtà dentro il paesaggio azzurrino e flou dell'informazione televisiva pubblica e privata. La puntata del 15 gennaio sulla mafia era effettivamente fastidiosa, perché faceva sentire la voce degli estorsori (a "Report" li chiamavano estortori, ma ci siamo capiti: distorcere distorsore, estorcere estorsore), e la voce del ricatto, ancorché telefonica, non era per nulla piacevole: anzi, faceva impressione. Forse per questo il presidente della Regione Sicilia, il giocondo Totò Cuffaro, si è molto lamentato, chiedendo un programma di riparazione. Adesso si è perso il conto, e pare che il programma riparatore non s'abbia da fare. Queste cose dispiacciono, fanno male. Anche perché non si era capito bene come si potesse riparare. Forse con una trasmissione in cui si sarebbe sostenuto che la mafia non esiste, o è fatta da gentiluomini vecchio stampo che amministrano l'ordine. Oppure mostrando dei ricattatori pentiti che restituivano il pizzo piangendo, convertiti sulla via di Saxa Rubra dal direttore di Raidue Massimo Ferrario. Oppure ancora bruciando la Gabanelli sul lungomare di Mondello. Già, perché la riparazione ai danni inferti alla patria dalla tremenda Gabanelli sarebbe stata prodotta, a quanto pare, a quanto dicono, a quanto si sussurra, dal programma di approfondimento "Punto e a capo", condotto dalla coppia composta da Daniela Vergara e Giovanni Masotti. E qui ci vogliono le pinzette chirurgiche, per districare le responsabilità. In quanto la Vergara è un'icona sexy, l'unica giornalista televisiva in grado di rivaleggiare con l'Alda D'Eusanio (ma con un tocco più umano, più accogliente, più insomma ci siamo capiti). Mentre Masotti, eh, Masotti! Masotti è il buonsenso forzista messo in un contenitore bonone, è il bell'uomo Masotti che deve rassicurare le famiglie inquiete per la mafia. Programma riparatore? «Io non sono un carrozziere». Bene. «Però se faremo un'altra puntata sulla mafia sarà equilibrata». Bravo. «Avrà spazio anche la parte sana della Sicilia». Grazie. «Ci sono le ombre, ma anche le luci». Eccolo, più bello e più grande che pria, Masotti. Si consiglia un programma sulla parte sana della mafia, con le luci, ma delicate, morbide. I panni sporchi laviamoli in famiglia. E alla Gabanelli, che fa vedere solo le ombre, mandiamole un esorcista. Chiamate Masotti, il tecnico delle luci.
L'Espresso, 27/01/2005
Meglio un pacco che due scatole
L'energetico, il galvanico Paolo Bonolis si trova in un momento particolare della sua carriera, lì che tira un bilancio dopo il successo di "Affari tuoi" e in attesa di quel giudizio di Dio e del popolo che è il Festival di Sanremo. Il suo programma con i pacchi e le scatole è stato un successo debordante, basato com'è su uno schema da fiera paesana, cioè su un "format" che gli italiani conoscono da sempre, e che è sempre irresistibile nonostante sia diventato un format internazionale. Insomma, siamo sempre al punto che il concorrente deve scegliere fra una scatola che può contenere una paccata di euri oppure un peperone. Suspense, suspense. Di suo, il Bonolis ci mette alcuni tratti particolari, ossia la solita conduzione muscolare, vitaminizzata, a voce stentorea; il solito lessico da coatto ripulito, che dice in modo finto-aulico le parole della quotidianità. Tanto che ha continuato a ripetere fino all'ultimo «Mezzo miliardo del vecchio conio», espressione, vecchio conio, improbabile: l'avesse detta una volta ogni tanto, passi; invece la diceva sempre, sempre, traducendo gli euri in lire. Ma insomma, le lire non ci sono più, se non nella memoria, e le lire del vecchio conio a cui si riferisce Bonolis costituiscono un esempio vistoso di paternalismo, una discesa cinica al livello del pubblico generalista. Questo "change over" a ritroso è il prodotto chissà quanto involontario dell'euroscetticismo popolare italiano: anziché chiamare le cose con il loro nome si nominano i fantasmi. Adesso aspettiamolo all'appuntamento della vita, cioè a Sanremo. Da ciò che si è saputo, ma poi vedremo che cosa avverrà effettivamente sul palco, Bonolis e l'organizzazione trasformeranno il Festival in un kolossal televisivo, una "Super Domenica In", oppure in una iper-edizione di "Votate la canzone della vostra vita: vi piace di più la maglietta fina o l'acqua azzurra?". Inseguiranno ospiti stranieri e italiani che forse verranno o forse no, ma chi se ne frega, perché quando a Sanremo arriva l'ospite canoro, il cantante o il gruppo, il pubblico generalista o si addormenta o mette mano al telecomando: «No, il cantante no!». E allora qual è una soluzione, un Sanremo senza cantanti? Be', l'idea non è peregrina, e forse l'unico a poterla realizzare è Bonolis. Che presenti, che canti, che balli, che faccia la valletta. Sarebbe un festival-pacco? Chi se ne frega, meglio un pacco che due scatole.
L'Espresso, 20/01/2005
È fallito Berlusconi ma non il paese
Molte dichiarazioni pubbliche degli esponenti del centrosinistra hanno per oggetto non tanto il fallimento del governo Berlusconi, bensì un fallimento presuntivo dell'intero paese, in seguito alle politiche o non-politiche berlusconiane. Lo stesso Romano Prodi, in una recente intervista alla rivista cattolica "Il Regno", lo ha specificato con chiarezza: «Chi ci governa porta pesanti responsabilità: declino economico, disgregazione sociale, ferite inferte alla legalità, stravolgimento della Costituzione, degrado dell'etica pubblica. L'Italia, Berlusconi non se lo può più permettere». Ma non è detto che puntare sull'idea della catastrofe socio-economica procurata dalla Casa delle libertà possa essere un'idea davvero fruttuosa. È vero che l'economia italiana sta attraversando un periodo di trasformazione profonda, forse radicale, ed è possibile che in futuro gli squilibri determinati dalle delocalizzazioni produttive e dalle crisi settoriali possano aggravarsi, con effetti imprevedibili in termini di compatibilità sociale. Tuttavia non è detto che al momento la retorica dell'impoverimento complessivo della società italiana sia di per sé vantaggiosa per il centrosinistra. Declino e povertà sono termini generici. Psicologicamente depressivi. Contraddetti, come di questi tempi ricorda spesso lo storico Giuseppe Berta, da alcuni grandi indicatori che occhieggiano nei titoli dei giornali. È vero o non è vero che la Borsa di Milano è cresciuta del 15 per cento nel 2004, figurando come il migliore mercato mobiliare europeo? Ed è vero o no che l'Italia, secondo i dati esposti da Adolfo Urso, è in Europa il secondo paese esportatore verso la Cina, dopo la Germania? Mettiamoci anche i conti ottenuti nel 2004 dal ministro dell'economia Siniscalco, con un buon risultato sul deficit e una leggera discesa del debito pubblico, e si otterrà una serie di segnali, di spie, di indicatori su cui sarebbe opportuno riflettere. Il primo elemento da mettere a fuoco è che l'impoverimento andrebbe valutato come un fenomeno redistributivo, non come una tendenza permanente dell'economia italiana: si sono impoveriti alcuni ceti, il lavoro dipendente e i pensionati; mentre altre categorie economiche, che hanno potuto capitalizzare il cambio con l'euro, hanno come minimo ricostituito i margini di profitto. Ciò ha almeno due implicazioni. In primo luogo una politica di centrosinistra dovrebbe individuare con chiarezza il messaggio da rivolgere alla società, e in particolare a quegli elettori che sono stati sedotti dalle sirene dell'"enrichissez-vous" berlusconiano e che ora si ritrovano cornuti e mazziati: sotto questo profilo, la polemica più o meno brillante sul "centro" politico come fattore strategico per la vittoria elettorale va ancorata ad alcuni contenuti, altrimenti è pura astrazione. Subito dopo, seconda implicazione, si ha la sensazione che nonostante tutto l'Italia contemporanea sia un paese ricco. Forse di una ricchezza nascosta e improduttiva, come nella concezione di Eugenio Scalfari, il quale auspica misure per rimetterla nel circuito economico. Ma al di là dei provvedimenti necessari a questo scopo, come la patrimoniale, che sarebbero possibili soltanto se intesi come una leva straordinaria per lo sviluppo del paese, cioè in presenza di un progetto credibile di modernizzazione integrale, va elaborata una politica relativa al paese vero, non a un paese immaginario. Il paese vero è sottoposto a tensioni, soggetto a crisi più o meno estese, ma soprattutto aspetta una proposta. E la proposta politica non può limitarsi alla deprecazione. Certo la costernazione rispetto alla pratica del governo Berlusconi, e la retorica del paese mortificato dalla destra, è un mastice ancora efficace per il centrosinistra, ma sarebbe il caso di non perdere di vista le condizioni reali dell'economia e della società italiana. Sono tre anni che personalità credibili come Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta segnalano la non credibilità dei conti pubblici, e l'aleatorietà delle leggi finanziarie: ma per ora la catastrofe non è avvenuta. Semplici manipolazioni contabili? Puri espedienti finanziari? Può darsi. Ma intanto, in attesa della catastrofe che certamente verrà, sarebbe il caso di fare i conti con la realtà autentica del nostro paese. Altrimenti si sa che cosa succede, nel gridare troppe volte al lupo.
L'Espresso, 20/01/2005
Top Banana reality show
Per entrare con le carte in regola nel nuovo romanzo di Mauro Covacich, "Fiona", che esce in questi giorni da Einaudi, non si deve avere la cultura di un critico letterario. Anzi, forse un esercizio critico convenzionale sul libro di questo italiano di frontiera, che fa muovere anche i suoi personaggi nel suo territorio, fra Pordenone e Trieste, risulterebbe deludente. Con questo libro, Covacich continua i suoi esperimenti letterari e soprattutto "etologici": dove l'etologia costituisce lo strumento per seguire le sue maschere, per definirle, per tracciarne i movimenti. Ci sono almeno quattro storie maggiori, oltre ad alcune minori, dentro la trama di "Fiona". Sempre ammesso che di storie si tratti, e non piuttosto di strutture, e di fenomenologie. C'è la vicenda di Sandro, alias Top Banana, produttore di reality show, il deus ex machina di una specie di "Grande Fratello" ribattezzato "Habitat", che con i suoi autori-freak lascia scorrere nella Casa un esperimento di convivenza via via più hard. «Avete fatto un casting perfetto. Questa è un'edizione grandiosa, complimenti. Il paraplegico poi è un vero pezzo di bravura». Si tratta di un reality che tende ad assomigliare più a una reinterpretazione del "Truman Show", con i protagonisti teleguidati dalla regia intellettuale e spettacolare del programma, che non a uno show di intrattenimento. Dove l'esasperazione dei comportamenti individuali o di branco viene favorita, manipolata, giustificata culturalmente da Diesel, Cane Morto, Telepass e Rosita (i creativi del Network, una specie di iper-Mediaset, gente descrivibile in base agli eccitanti che assume e al corredo oggettuale di cui è dotata («il piercing di Diesel è opaco, sembra un seme d'uva espulso dalla pelle del mento»), con le opportune citazioni di Baudrillard scolpite nel testo e rivelate nel paratesto del romanzo, evidentemente per dire che i presunti alieni sono già fra noi da un pezzo. C'è poi la storia privata del protagonista, una traiettoria normale e stralunata, con la moglie, una fumatrice compulsiva che insegna storia bizantina e insegue sogni professionali implausibili; una figlia adottiva, per l'appunto Fiona, una piccola haitiana autistica, che rappresenta la polarità fisica, naturale, del romanzo, una scheggia irriducibile di realtà conficcata nelle molteplici finzioni e rifrazioni del racconto. Vittima di psicologhe e di maestre la cui capacità di astrazione costituisce la principale risorsa per rassicurare i genitori minimizzando le condizioni della bambina, Fiona è il centro non designato ma ineluttabile delle interazioni famigliari, la personalità impenetrabile che fa da fulcro ai rapporti tra le famiglie dei coniugi. E in distanza la presenza imprendibile di una donna, la madre mancata di Fiona, la donna che in precedenza l'ha rifiutata, che diventa per il televisivo Top Banana un'ossessione erotica ed esistenziale. Ma naturalmente la parte più scenografica e socialmente rivelatrice del racconto è lo svolgersi del reality show: cioè il luogo dove la ragion cinica prende il sopravvento. Il micro-mondo di "Habitat" è costellato da una sequenza di trasgressioni: alla decenza, alla tolleranza, al rispetto, alla morale, se ancora può esistere una morale. Ma l'aspetto più interessante nel commento implicito di Covacich è che anche gli spettatori più tradizionali, le mamme, potremmo dire le casalinghe ultrasessantenni che sono il target semiufficiale della televisione generalista contemporanea, si stanno adeguando al lessico e alle regole del reality show, e lasciano precipitare nel silenzio anziché nello scandalo, in un non detto che significa già accettazione, le lacerazioni più vistose alla normativa etica consuetudinaria. Sotto questo profilo, una fellatio al disabile recluso nella Casa e mostrata al pubblico televisivo diventa un passo in avanti del linguaggio televisivo piuttosto che uno sbrego alle norme morali e ai codici collettivi. È vero però che Covacich, come aveva fatto nei romanzi precedenti (l'ultimo, "A perdifiato", è uscito nel 2003, e prendeva l'avvio dalla storia abbastanza autobiografica di un atleta giunto quarto alla maratona di New York, primo bianco dopo tre neri) non ha molte ambizioni di critico della cultura o della società: eventualmente ha lo scopo di registrare le strategie individuali nelle comunità culturali, l'esercizio delle leadership, il prevalere talora per inerzia degli esemplari alpha, l'acquiescenza dei gregari. Scrittore di corsa, quindi esente dal rispetto di decaloghi o di buoni sentimenti, Covacich è uno dei non molti autori italiani che non sbrodola moralismi, che non fa sentire il suo commento, che non si sovrappone al racconto con la sua voce. Scrive con piena oggettività, per incidere nel testo la meta-realtà che vede, in filigrana, dentro la nostra normale realtà quotidiana. Alla fine risulta naturale che tutti gli elementi del racconto esplodano in una specie di dialettica impazzita, per quanto tutta decifrabile. Nella casa di "Habitat" un surplus ad un tempo assurdo e strettamente logico di violenza rivela il sovraccarico emozionale di ogni convivenza coatta. E il privato del protagonista viene messo in luce come la faccia nascosta e non programmabile dell'assoluta esteriorità del reality: mentre manovra o lascia manovrare i reclusi di "Habitat", un suo alter ego prende le sembianze di Unabomber, cioè "Minemaker", vale a dire un altro decisore occulto irrazionale, un sabotatore casuale di vite altrui. Nella storia postmoderna di Covacich non c'è ombra della consolazione che si trova nel sostanziale "happy ending" di un altro romanzo a sfondo antropologico-televisivo, "Le dodici domande" dell'indiano Vikas Swarup (vedi box ). Covacich non concede niente. Fa collidere tutti gli elementi in gioco come se fossero atomi in un acceleratore nucleare, ne scatena la forza intrinseca, ne osserva la carica che si dispiega e i suoi effetti. Fiona, la bimba afasica, si rivela effettivamente il centro di tutto l'universo del romanzo. Imbottita di esplosivi, entra con il padre nel mondo a parte del Grande fratello televisivo, portando con sé la minaccia implicita di un'esplosione che dissolva il mondo finto e ultravero del reality show insieme con il mondo vero e artefatto della sua famiglia. La propensione fenomenologica dell'autore lo induce a negare a chi legge l'acme narrativo finale. Il botto, il climax materiale. Covacich spegne la narrazione, semplicemente, come con un tasto del telecomando; fa implodere il romanzo, disintegrandone la negatività con un comando a distanza. Rilascia intorno al racconto un alone "cult", e magari la consapevolezza di avere scritto uno dei pochi libri capaci di catalizzare l'epoca: o perlomeno il trend, il trash, l'estraneità assoluta, la morte delle psicologie e delle cose nel mondo della funzionalità pura.
L'Espresso, 20/01/2005
Neorealismo hardcore
Se vi piace la tv del conforto, non guardate la televisione di Riccardo Iacona. Uno della squadra di Michele Santoro. Marxista-leninista, o giù di lì. Un tipo che un paio di stagioni fa ha realizzato un programma effettivamente della madonna sugli sfigati-guardoni che vanno a vedere vip e semi-vip, star e starlette, parassiti e squinzie a Poltu Quatu e a Porto Cervo, sperando di incrociare Briatore o almeno Smaila e Alessia Merz. Programma "epocale", come amano dire gli sfigati di oggi. Adesso il marx-leninista ne ha combinato un altro, di programmi, dal titolo sarcastico "W il mercato" (è andato in onda il 3 gennaio in prima serata su Raitre). Reportage durissimo, hardcore giornalistico, roba da stare male e da rovinare psicologicamente l'anno appena incominciato. Storia di un pomodorino seguito nel suo percorso di ricarichi, a partire dal prezzo irrisorio alla produzione fino allo squillante prezzo finale. I coltivatori del Ragusano strozzinati dai ras, quelli che "fanno" il mercato, che minaccianno di delocalizzare gli acquisti nel Maghreb. Chi ha del mercato un'idea accademica, quella che insegnano all'università, sarà rimasto infastidito dalle urla e dalla disperazione delle donne siciliane, o dalla rabbia urlata e rassegnata degli "imprenditori agricoli" proletarizzati. Certo, la radicalità di Iacona nasce da un'idea secondo cui il mercato capitalistico è una fonte di ingiustizia. Una concezione deliberatamente vetero, tanto da risultare oggi anticonformista. Eppure nel programma la linea dell'ideologia arretra di fronte alla persistenza ostinata dei fatti. Su "la Repubblica", Sebastiano Messina ha definito un «affascinante racconto neorealista» l'inchiesta di Raitre. Ottima definizione, se si aggiunge che quel fascino deriva dal rilievo dato all'asprezza dell'economia, all'individuazione della violenza nei rapporti "di classe". Sullo sfondo, un'altra faccia dello squilibrio sociale, i milanesi impoveriti che vanno al mercato dell'ortofrutta a comprare cassette invendute a un euro, 18 chili di arance per due soldi. «Che me ne faccio di 18 chili?», si chiede un acquirente, con l'aria di ricordarsi dell'elefante comprato nel suk perché era in offerta speciale. Irrazionalità del mercato, razionalità della televisione pubblica. Buoni ascolti, per questa tv indigeribile, cattiva, "brutta". Televisione d'altri tempi, possibile tv dei tempi nuovi.
L'Espresso, 13/01/2005
La politica del cavalletto
Cibo, medicine, tende. Ma anche ospedali da campo, potabilizzatori, aerei e orfanotrofi da realizzare sul posto. Le prime a muoversi sono state le organizzazioni non governative (Ong) forti di una presenza consolidata nell'area devastata dal maremoto di Natale. Mentre la raccolta dei fondi sta coinvolgendo tutto il Paese, dai consigli comunali alle banche, dalle squadre di calcio ai sindacati e alle imprese, anche il governo sta facendo la sua parte attraverso i suoi tradizionali strumenti operativi per le emergenze umanitarie: Protezione civile e Croce rossa italiana. Insomma, l'Italia della solidarietà si è mobilitata per soccorrere le popolazioni del Sud- est asiatico. Ecco un quadro dei soggetti in campo e delle loro prime iniziative. Governo Il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Gianfranco Fini rivendica l'attivismo dell'esecutivo: «Ci siamo mossi con grande tempestività, dando risposte concrete ai bisogni immediati delle popolazioni colpite». Alla Farnesina si lavora per portare soccorsi, ma soprattutto per coordinare le offerte di aiuto, finanziario, ma non solo, che arrivano da tutto il Paese. C'è l'unità di crisi che lavora per aiutare i connazionali ancora presenti nell'area e per tenere la contabilità delle perdite umane. Ma c'è soprattutto il Comitato di coordinamento nazionale per gli aiuti che cerca di mettere a punto le iniziative più adeguate ed evitare sovrapposizioni e sprechi. Ne fanno parte i rappresentanti delle regioni, delle province e dei comuni, dei sindacati, delle università, delle Ong e delle tante sigle impegnate nel volontariato. Aiuti immediati il ministero degli Esteri li ha già portati appena 24 ore dopo il maremoto: due aerei decollati dall'Italia alla volta dello Sri Lanka, per esempio, con un carico di 80 tonnellate di materiali di pronto soccorso. Ma il grosso deve ancora partire. Si tratta di attrezzature e medicinali destinati alla prevenzione di epidemie, compresi i depuratori per l'acqua. E personale medico. Protezione civile È l'organismo governativo che si è mosso per primo. Attraverso l'istituzione di una cabina di regia in grado di gestire le operazioni di soccorso. Ne fanno parte rappresentanti di Enac, Alitalia e Forze armate. Poi, con l'invio di aiuti concreti: tre team composti da specialisti dell'emergenza e medici spediti in Sri Lanka a Colombo e in Thailandia; due idrovolanti Canadair, partiti da Roma l'ultimo dell'anno. E ancora: 150 tende a Colombo per oltre 1.500 persone; 10 mila chili di farmaci e attrezzature mediche per arginare il rischio epidemie; sei tende sanitarie per la predisposizione di altrettanti posti medici avanzati; tre gruppi elettrogeni. Croce rossa Gli aiuti sinora portati sotto la sua bandiera sono opera essenzialmente della Federazione Internazionale, che ha lanciato un appello per raccogliere oltre 53 milioni di dollari, destinati a finanziare soccorsi a circa 2 milioni di persone su un arco di 6-8 mesi. È stato anche inviato in Sri Lanka materiale sanitario per 120 mila persone e team di specialisti per allestire 66 campi. Quanto alla Croce Rossa Italiana, due ore dopo la catastrofe, ha messo sul tavolo 300 mila euro per i soccorsi immediati. Poi ha avviato una raccolta straordinaria di fondi mobilitando tutti i suoi volontari. Lanciato anche un "Programma di igiene nei gruppi familiari" grazie al quale, ogni mese, saranno distribuiti in Indonesia e Sri Lanka oltre 40 mila pacchi contenenti saponi e shampoo. Infine, il fronte medico-ospedaliero: il commissario straordinario Maurizio Scelli programma l'allestimento di due campi medici con potabilizzatori delle acque (speso un milione di dollari) in zone ancora da individuare. Ong e privati Sono 23 le organizzazioni non governative italiane che stanno prestando assistenza in loco. Secondo gli ultimi dati forniti dall'Associazione delle Ong italiane, in India operano 13 organismi; in Sri Lanka 12; in Indonesia tre; in Myanmar due e uno in Thailandia. Presenti tutte le sigle storiche come Caritas, Cesvi, Mani Tese, Movimondo, Alisei, Coopi, Intersos e Focsiv. Il grosso degl'interventi s'indirizza verso l'assistenza nei campi degli sfollati, il supporto idrico-sanitario e la cura dei minori. Ma i progetti già operativi spaziano dalla ricostruzione dei villaggi alla riabilitazione, dai sostegni agricoli alla scolarizzazione. Come spiega Giangi Milesi, direttore della raccolta fondi del Cesvi, «non serve mandare roba a casaccio, tipo vestiti o generi alimentari, perché a quelli pensa già abbastanza bene la rete di solidarietà locale, anche se in Europa se ne parla poco». Molto più importante l'impegno su fronti più tecnologici, come i dispositivi per rendere l'acqua potabile. Anche Sergio Marelli, presidente delle Ong italiane, invita gli italiani a guardare più nel proprio portafogli che in soffitte e cantine, e sconsiglia inutili partenze di volontari. «In quelle zone c'è troppa confusione e noi stessi preferiamo affidarci ai partner locali», racconta Marelli. Non a caso, nelle zone colpite dalla catastrofe sono presenti solo una trentina di italiani e gran parte del lavoro è svolto con personale del posto. Tantissime anche le iniziative dal mondo economico e finanziario. Solo per fare qualche esempio, Sma e Auchan hanno offerto viveri alle principali Ong. San Paolo-Imi ha stanziato 250 mila euro, mentre Unicredito ha avviato una raccolta di fondi che il 4 gennaio aveva toccato il milione di euro. Ma la lista delle iniziative benefiche è sterminata, si va dalla Lega delle cooperative ai commercianti, fino ai calciatori dilettanti, la cui Lega si è impegnata a raccogliere 500 mila euro tra i tesserati. Finanziamenti Come verranno finanziate tutte le attività di soccorso "made in Italy"? Per quanto riguarda gli aiuti governativi, a parte i 4 milioni di euro spesi subito per inviare i primi aiuti, la voce più sostanziosa è poco più che una partita di giro. La Farnesina pensa di attingere alla voce dei debiti con l'Italia contratti da alcuni paesi dell'area colpita, ovvero 9,4 milioni di dollari per lo Sri Lanka e altri 30 milioni per l'Indonesia. Per arrivare ai 70 milioni di euro preannunciati da Fini si punta soprattutto sulle donazioni che arrivano via sms dai cittadini (22 milioni di euro al 4 gennaio). E proprio sulla gestione di questa montagna di offerte è scoppiata la bagarre tra Croce rossa e Protezione civile. Dopo 48 ore di polemiche, è dovuto intervenire lo stesso vicepremier per affidarli ufficialmente agli uomini di Bertolaso. Sul fronte privato, invece, basta navigare su internet. Tutte le Ong hanno siti facilmente accessibili (un sistema è accedervi da "www.vita.it", il portale dell'omonimo settimanale del Terzo settore), dove si illustrano i singoli progetti e le modalità di donazione. Nei primi dieci giorni, la raccolta ha già fruttato diversi milioni di euro. Cifre precise sono ancora impossibili da ottenere, ma per farsi un'idea del ritmo delle donazioni basta prendere il caso del Cesvi che in una settimana ha raccolto oltre 110 mila euro dalle carte di credito. Se si tiene presente che di solito attraverso questo strumento arriva appena un decimo delle offerte complessive (il grosso arriva per posta), si può intuire quanto il ritmo delle donazioni sia impetuoso. n
L'Espresso, 13/01/2005
Si è pentito l’antifazista
Ma insomma, sdoganatelo. Non potete lasciarlo tutta la vita a "Che tempo che fa", a produrre i suoi piccoli prodigi metatelevisivi. Forse si gode la ricca liquidazione, forse gli piacerà fare la tv di nicchia, forse si sentirà meno stressato senza l'obbligo di misurarsi nevroticamente l'indice con gli altri, forse forse forse. Eppure l'ora è giunta da un pezzo. Liberate Fabio Fazio, ridategli il prime time, un megashow, qualsiasi cosa. E lo diciamo anche a lui: torna, caro Fabio, tutto è dimenticato, tutto è perdonato, su tutto è steso un velo. Dato che saremmo disposti anche a sopportare il ritorno di Claudio Baglioni in versione metallizzata e aliena, e il suo eventuale remix di "Anima mia", vale la pena di specificare perché tutti coloro che pure erano stati scettici sugli ultimi anni di SuperFazio si sono amaramente pentiti e si cospargono il capo di cenere. Tutti quanti: chi aveva fondato un partito "antifazista", chi si proclamava antifazioso, chi aveva cominciato a detestare il fazismo, ossia l'atteggiarsi complice, la citazione ammiccante, il culto del "garbage" anni Ottanta (che era un po' meno del trash, e un po' a lato), lo sdilinquimento per i Cugini di campagna. Anche chi rimpiangeva addirittura i tempi del Fazio cabarettista e comico, dell'imitatore che rifaceva un incazzatissimo Cossiga in pieno trip giuridico, «Ma lei l'ha dato diritto costituzionale uno?». Si sono pentiti del peccato antifazista semplicemente perché magari accendono la televisione e vedono il fortissimo investimento di Raiuno sul reality show "Il Ristorante", con Antonella Clerici, quella che non può vivere senza il calcio, passata dal mezzogiorno di cuoco alla prima serata svippata e mangereccia. E si chiedono dove sia il fortissimo investimento, magari rispondendosi che consisterà nella cravatta shocking di Luca Giurato e nella cravatta gemella di Fabrizio Del Noce, ospite della prima puntata. E uno si dice: sarà questo il servizio pubblico. Cioè Giucas Casella, Pamela Prati, Edoardo Vianello. Per poi virare fuori dal moralismo: se spettacolo dev'essere, che spettacolo sia, ma come Dio comanda. Abbiamo visto brutture di ogni tipo, e adesso ci è venuta voglia di parlare ancora male di Fazio. Ridatecelo. Ne parleremo subito orribilmente. Lo criticheremo aspramente. Se ci va lo stroncheremo. Ma rimettetelo all'onore dell'audience, per favore. Perché in fondo ci siamo stufati di dire male di Panariello.
L'Espresso, 06/01/2005
Il leader è nudo
Dentro una crisi nera, nel cuore di una notte fonda, i membri del club prodiano si fanno forza a vicenda. Hanno capito, forse tardi, che la partita è molto impegnativa, coinvolge poteri più o meno forti che pianificano scenari o intercettano opportunità estemporanee. Sullo sfondo della défaillance del centro-sinistra, dopo il fallimento della lista unitaria alle regionali, ci sono spinte che possono alterare il formato stesso della competizione bipolare. Il re è nudo. L'uomo senza vestiti è Romano Prodi. Era tornato da Bruxelles accompagnato da una scia di consenso. Convinto di poter modellare il centro-sinistra come un'alleanza larga, in cui la presenza dei partiti fosse un elemento supplementare, non il fattore fondativo. Qualcosa sta andando storto. Questa crisi viene da lontano. Appartiene alla storia di forze politiche stravolte dalla grande tragedia antipolitica degli anni Novanta. Nell'emergenza, molti avevano pensato che il progetto ulivista potesse surrogare il ruolo dei partiti, sostituendo con la progettualità riformatrice culture politiche che erano state triturate da Tangentopoli. Non era o, meglio, non è così. A dispetto della post-politica, la crisi del centro-sinistra è una crisi politicamente profondissima. Prodi si presenta come una personalità e un principio di sintesi che tiene insieme centro e sinistra, ossia una cultura riformista non socialista e il gradualismo postcomunista. Ma non appena sono riemerse le identità, sono riapparse anche le pregiudiziali. Secondo l'entourage prodiano, Rutelli e Fassino costituiscono una morsa micidiale, l'uno che coltiva la Margherita come soggetto distintivo, l'altro che intende attribuire ai soli Ds lo slogan "l'Ulivo siamo noi". Singolare parola, pregiudiziali. Figlia di un lessico da prima Repubblica. Tuttavia chi dimentica il passato è condannato a replicare in commediola ciò che fu dato in tragedia. E oggi, dietro il modesto cabotaggio delle candidature, fa sentire il suo effetto la "radiazione fossile" della discriminante anticomunista. Prodi (con i suoi consiglieri, a cominciare da Arturo Parisi) è convinto che le divisioni del passato possono essere superate soltanto attraverso una mobilitazione collettiva dell'elettorato e dell'opinione pubblica. Ma non appena i naturali egoismi di partito riemergono, affiorano anche le incompatibilità del passato, le antipatie culturali, le idiosincrasie. Immaginare oggi un percorso che porti alle elezioni politiche del 2006 attraverso una mediazione continua, una trattativa perdurante, un negoziato estenuante equivarrebbe ad accettare l'idea di una sconfitta per forza d'inerzia. Tocca a Prodi trovare la via d'uscita. Tocca a lui dimostrare la qualità di una leader?ship. Che, proprio in quanto non è una investitura celeste, deve misurarsi anche con le miserie dei corridoi politici. Ci vuole l'umiltà di riconoscere ruolo e sostanza delle strutture di partito. Occorre il realismo necessario per accettare che gli spezzoni di classe politica facciano sentire il loro peso. Ma è urgente anche la definizione di un sentiero che porti l'intera coalizione a un confronto competitivo con la Casa delle libertà. In questo senso, c'è una sola strada per il Professore. Drammatizzare. Accettare il fatto sacrilego che la sua leadership sia a rischio. Approfondire il conflitto, scegliendo il terreno dove il conflitto va praticato. Eventualmente giocare la carta brutale del "partito di Prodi". E con questo cambia tutto. Non c'è una discesa comoda, una stradicciola senza ostacoli che conduce alla vittoria elettorale agevolata dalla cattiva prestazione del governo Berlusconi. La risorsa essenziale di Prodi è che nessuno può permettersi di sostituirlo? Benissimo: e allora tanto vale mettere a frutto la crisi. Rilanciare. Da una parte c'è un centro-sinistra invischiato nelle trappole che si crea da solo; dall'altra un progetto di medio periodo che accetta la crisi per superarla. Non sono tempi normali. Se la leadership ulivista non riesce a cogliere l'aspra opportunità di questa crisi, avremo un Ulivo normale, amorfo, ameboide. Cioè inutile. Tanto vale provare a essere vivi.
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