L’Espresso
L'Espresso, 06/01/2005
Prendi il satellite e scappa
Zapping, zapping, zapping. Ma con l'etere, il satellite, il digitale terrestre, e senza dimenticare le opportunità della banda larga, lo zapping potrebbe diventare una semplice ginnastica manuale, una diteggiatura fine a se stessa, come un massaggino shiatzu. Ottimo. Così la televisione si relativizza, si ridimensiona alla condizione naturale di elettrodomestico. Nessuno ormai chiede «che cosa c'è per televisione stasera?». Si accende la tv ed è "lei" che ci guarda, che fruga nei salotti e nei tinelli che ingoia la nostra privacy. Il rovesciamento è abbastanza straordinario. Tutto questo mentre il trentottesimo Rapporto Censis dice che il 42 per cento del pubblico, se si accorge che la serata televisiva butta male, semplicemente spegne l'apparecchio, e si dedica ad altro. Magari dorme, ma rifiuta di farsi scrutare dalla tv, di farsi indagare dall'occhio indagatore del Grande Fratello. Già, sono i partecipanti all'Isola dei Famosi, sono i protagonisti del Gf, sono i "reality heroes" che invadono le nostre case e ci mettono sotto osservazione. Noi crediamo di osservare una discussione cazzona, lo psicologismo demenziale delle conversazioni fra il tatuato e la bonona, fra il modello basco e il presunto quasi-gay israeliano, e invece sono loro che ci hanno invaso e ci controllano. L'Auditel parla di noi, non di loro. E il pollice sul tasto del telecomando è un antidoto solo parziale. Chi ha capito tutto è ancora una volta il mago delle televisioni, ossia il docente di comunicazione totale Silvio Berlusconi: quello che ancora una volta, alla presentazione dell'ultimo libro di Bruno Vespa, ha ripetuto che il pubblico «che ci guarda» non è proprio quel che si dice qualificato, anzi, cultura da «seconda media, neanche nei primi banchi». Con il che, viene da chiedersi come facciano, questi di seconda media, ad accettare di essere trattati come merdine, pura massa amorfa, che si lascia guidare dal pifferaio di Hamelin con il suo sorriso perenne, forse indice della soddisfazione infinita di togliere soldi ai poveri per darli ai ricchi, a quelli delle medie per darli a quelli del liceo. Eh sì, finora ha funzionato, il grande scambio. Platee immense inebetite dagli show televisivi Mediaset, «implose nella privacy», secondo la definizione del filosofo Carlo Galli, e successivamente disponibili a votare in massa, qualcuno anche con entusiasmo, l'euforia degli abissi, per il Grande seduttore. Zap, zap. Ragazzi, ci siamo cascati tutti. Siamo cascati nella trappola Lecciso, nella trappola trash, nella trappola "cult", pronuncia "cùlt", all'italiana, secondo la lezione di Marco Giusti. Ormai dovrebbe essere chiaro il fatto che il trash è una faccenda da intellettuali, tutti orgogliosi di avere la bacchetta magica per trasformare il kitsch in "camp" e il "rubbish" in trash. Ma pattume era e resta immondizia, e viceversa. Senza sottolineare che c'è una sottile vena reazionaria, nella teorizzazione del trash, riconoscibile dal fatto che si può indurre il popolo a trangugiare qualsiasi schifezza, e anzi lo si incoraggia nei suoi gusti da seconda media o da quinta elementare, con la soddisfazione di avere imposto un trend (e loro, poveri diavoli, magari ci credono, eccome se ci credono: e le povere diavole difatti si vestono da coatte della moda, con le pance di fuori, i rotoli di ciccia sull'orlo dei jeans, la mutanda in vista, già logora per un paio di lavaggi di troppo). Ma no, no. Dopo un po' il trash stufa. Stufano anche i brutti sporchi e cattivi dovunque siano raccolti, nell'isola o nella vecchia fattoria. Stufano le soap storiche incredibili tipo Rivombrosa. Vogliamo il glamour, chiedono gli happy few, al momento tristissimi per la verità, dateci la cultura, il "never complain never explain" ripetuto da Arbasino, le prose complicate, gli spettacoli esclusivi, i libri difficili, al diavolo "Il codice Da Vinci", "Angeli e demoni" e tutta la produzione di Dan Brown. E quando si presenteranno Dolce e Gabbana a spiegarci che la loro pubblicità scorreggiona, o scorreggina, non deve scandalizzare perché il petomani c'erano anche nelle corti dell'ancien régime, gli si spiegherà che appunto si è fatta la Rivoluzione francese proprio per non sentire più i peti dell'aristocrazia, e si sono tagliate le teste perché non se ne poteva più di pidocchi e parrucche. Chiaro? (E poi, com'è che siamo tutti intelligenti, quando si parla del trash, quasi che si fosse creato un nuovo ceto, la "smart class", di cui tutti si sentono membri: ma dai, anche fra di noi, anche fra di voi ci sono gli idioti!). Se no, uno si lascia trascinare dall'inerzia, e passa un sabato sera in compagnia di Giorgio Panariello, e assiste a un mega-show privo di qualità, privo di sceneggiatura, di script, di storia, di redazione, con gli ospiti Aldo, Giovanni e Giacomo che sono venuti a presentare il loro ultimo film e che non hanno preparato niente, neanche una gag piccolina, uno scherzo, uno skeccettino, niente. Tanto è la tv. Perché fare il minimo sforzo? Tanto è il pubblico della tv, ragazzi, seconda media, ultimi banchi. Pensionate meridionali ultrasessantacinquenni e di bassa scolarità, recitano le categorie del marketing, con il realismo brutale con cui si identificano i target. Non vale la pena di investire talento, non serve a niente. D'altronde, che cosa si cerca nel tubo catodico o nello schermo al plasma? Informazione? Lotta fra titani, fra Charlie Rossella e Clemente Mimun, con ciprie e nuvole rosa, gossip e boatos sulla nuda cronaca, e un acquiescenza politica senza troppa dedizione: ma non c'interesserà mica il contenuto dei tg, vero? Ci importa soltanto del duello eventuale fra i due direttori, se si odiano, se si amano, se sono e restano amici, ancorché magari «di merda» secondo la notevole espressione di Michela Rocco di Torrepadula portavoce del ripudiato Mentana. E se Rossella farà il sorpasso, e se Mimun, nel caso, si farà venire l'esaurimento. L'approfondimento? Volete l'approfondimento? Ma non vi basta "Porta a Porta"? Non vi basta "Ballarò"? Ne volete dell'altro? Innanzitutto bisognerebbe sapere se l'esuberante professor Brunetta è un agente dell'approfondimento e se approfondire significa urlare in venessiàn sulla voce degli altri (in questo caso, Brunetta è approfondito e approfonditore). Zap. Per chi proprio vuole, ci sono le due isole serie, "L'infedele" e "Otto e mezzo". Che hanno dati d'ascolto risibili, intorno al 2 per cento, sul piano generale, ma siccome ciascuno di noi vive in comunità molto intellettuali, devono avere picchi altissimi di ascolto in alcuni settori specifici, intorno all'80 per cento di share fra i professori universitari. In realtà, anche Giuliano Ferrara e Gad Lerner sono soggetti alla legge dello zapping: qualcuno li incrocia sempre, scanalando e si sofferma qualche istante. Ma poi anche i professori universitari riprendono l'esercitazione con il pollice sui tasti, e addio cari, adieu. Non fa neanche male, lo zapping esasperato, lo scanalamento estremo, perché insegna che la vita televisiva è effettivamente blob, spezzettamento della realtà e della virtualità in frammenti montati in modo talmente casuale da sembrare necessario. Alla fine, comunque, qualcosa resterà da vedere, su Raisat, su Cult Network, su qualche canalino semiclandestino. Vedremo "Lo sciagurato Egidio" di Giorgio Porrà, vedremo David Letterman di tanto in tanto, vedremo qualche mezzo film, qualche mezza partita di calcio. E ci renderemo conto, grazie al cielo, che il problema del controllo televisivo è tutto una questione di pluralismo e di mercato: cioè bisognerebbe convincere le pensionate a mettere su parabole e decoder, i condomini a centralizzare il padellone, cablare tutto, e poi sia quel che sia. Sapendo già che inserito nel vortice di uno zapping infinito, Berlusconi si riduce a comparsa mediatica. Si può puntare cinicamente il telecomando all'altezza di Silvio, schiacciare il tasto, e premere ancora, freddamente, con ferocia, impedendogli di guardarci in casa e di criticare la nostra preparazione culturale: finché di quell'uomo non rimarrà che una traccia leggerissima o comunque leggera, mentre si fa tarda la sera.
L'Espresso, 19.05.2005
Floris è meglio di Masotti
Che differenza c'è fra due programmi di approfondimento come "Ballarò" e "Punto e a capo"? Vabbé, è chiaro che il programma di Giovanni Floris è un manifesto della sinistra modernizzante e un po' trendy, mentre il talk show di Giovanni Masotti è un programma marcatamente di destra e un po' folk. Ma per capire qualcosa di più, sono state utili due puntate di "Menabò", un programma di inside redazional-giornalistico su Raisat Extra (autori Marco Giudici, Nino Pirito, Lupo Tomasin). Naturalmente la trasmissione risulta curiosa perché è curiosa: fa vedere come viene fabbricato un giornale o un programma tv. Di "Ballarò" si capisce tutto subito, perché Floris espone l'ideologia del prodotto: «Ragazzi, le puntate politiche sono tutte parole, quindi più ospiti ci sono meglio è». Significa che non si può vivere di sola chiacchiera: il talk show ha bisogno di essere innervato di notizie, di contributi concreti, «vi ricordate Nando Pagnoncelli, la sua analisi dava forza al programma». In altre occasioni "Menabò" era stato divertente perché mostrava una redazione gestita dalla sapienza del direttore (formidabile una puntata dedicata al "Magazine" del "Corriere della Sera", con Maria Luisa Agnese al suo meglio). Floris a sua volta è il capofila di un giornalismo moderno, come aveva mostrato anche in un libro di un anno fa, "Una cosa di (centro) sinistra", attento a riempire di fatti la sequenza prevedibile del talk show. Masotti invece è più tradizionale. Cravatta allentata da giornalista vero, dubbi profondi sull'impianto della puntata: crisi di governo, elezione del papa, doping, non si sa che cosa scegliere. Clima convenzionale, da giornalismo più manifestamente cinicone, tipo «sempre meglio che lavorare», anche se poi quando in redazione guardano l'annuncio dell'elezione di Benedetto XVI qualcuno esulta facendo i pugni come allo stadio (e Masotti commenta con aria ammiccante una vignetta di Giorgio Forattini che unisce il nuovo papa a un missile in partenza: «Avete capito, Ratzinger, il razzo»). Inutile chiedere se è meglio Floris o Masotti. Noi non siamo gente credibile essendo di quelli che «vomitano bile» sul centrodestra. Ma anche da "Menabò" viene fuori che il programma di Raitre sembra più fresco, più pensato con l'occhio rivolto al pubblico anziché alla politica.
L'Espresso, 11.08.2005
Bjorn Larsson
D La vita di Inga Andersonn, ricercatrice di criminologia, nasconde un segreto. Da una parte braccati da Echelon, l'orecchio che ascolta le nostre conversazioni ovunque, dall'altra sedotti da Scientology, la setta americana che promette di farci evolvere verso la felicità. Bjorn Larsonn (che il pubblico italiano ha amato per "La vera storia del pirata Long John Silver") ne "Il segreto di Inga" (Iperborea) al gusto per il thriller unisce profondità esistenziale. Chi sono i suoi personaggi? E come si arriva alla verità? R I miei sono personaggi senza radici, non hanno un'identità fissa, famiglia, nazionalità. Per quel che riguarda la verità ci si può arrivare con l'immaginazione e con la scienza. Ma lo scrittore non può fare concorrenza al giornalista. D Nel suo romanzo lei cita Echelon. Ma anche le sette. Cosa hanno in comune? R Il fatto che non si sappia bene chi le controlla. Dietro c'è sempre un segreto. E questo segreto è fondamentale per la loro sopravvivenza. Peccato che limiti la nostra libertà. L'alternativa è la trasparenza, la fiducia. Ma non è possibile nel caso del potere. Che deve mantenere un nocciolo duro di struttura segreta per poter difendersi. Antonella Fiori
L'Espresso, 02.12.2005
Eterna promessa Pier
Alla fine Pier Ferdinando rimpiangerà il gemello Marco. Perché Casini aveva una chance fintanto che Follini teneva aperta un'ipotesi che andasse "oltre" il Polo, oltre la Casa, oltre la destra. Perché erano le spine folliniane nel fianco di Berlusconi a segnalare la diversità democristiana. Tolto di mezzo l'ex allievo di Toni Bisaglia, il "moro-doroteo" Follini, l'Udc si ingarbuglia in una ragnatela di tessere: l'alternativa a Berlusconi appare una finzione, un altro di quegli illusionismi che Casini all'Eur ha rimproverato a chissà chi, non certo al Cavaliere orgoglioso di avere governato per cinque anni «nonostante Follini e compagnia bella» (quando si dice la bontà e l'eleganza). Un peccato, perché senza il suo alter ego calvo e occhialuto il presidente della Camera risulta essere semplicemente il capo di un partitino che ha tenuto il sacco a Berlusconi, votando le leggi-canaglia e contribuendo alla riforma-accozzaglia della Costituzione. Stanno portando a casa, gli Udc, una legge elettorale da fritto misto, che comunque poteva essere l'occasione per "smarcarsi", come dicono loro, e lanciare la corsa alla premiership, se Casini possedesse la fulminea capacità di approfittare delle opportunità, il senso sulfureo della perfetta ingratitudine con cui si salutano crudelmente i vecchi campioni al tramonto. Invece Casini ha come dote principale la pazienza, somma qualità dorotea ma dote irrilevante allorché si tratta di curvare la storia e di esercitare il carisma, o almeno di spingere dentro la palla gol. Come dicevano i vecchi aficionados del Comunale di Bologna, è «brào ma lento»: ha accettato l'attacco a tre punte, Gianfranco, Pierferdy, Silvio, ma con l'idea che ciò che conta è la tessitura a centrocampo, passaggi laterali, senza lamentarsi se ci sarà da arretrare in un'oscura fatica, come diceva il mediano Forlani, di "raccordo". Come risultato, dopo quattro anni e mezzo di allure istituzionale il capo dell'Udc si è rimesso la maglietta di capitano. Solo che alla prima promettente ripartenza sulla fascia («Non ho detto che avrei governato meglio, l'ho solo pensato»), gli è arrivato sulle tibie il takle del Padrone, e Casini è ripiegato prudenzialmente a centrocampo. Sarà per un'altra volta. Per adesso coltiva l'orticello di un rapporto privilegiato con la gerarchia vaticana, dove i Ruini e i Sodano lo trattano con l'affetto per i vecchi ragazzi di sagrestia, e guardano all'Udc come a un'utile cinghietta di trasmissione della Chiesa. Sullo sfondo, miraggi elettorali freddamente smentiti da Berlusconi («l'Udc è sotto il 4 per cento»), ipotesi quirinalizie sottoposte ai calcoli del Cavaliere, la fiducia che il vantaggio generazionale si farà sentire al momento buono. Ma nell'ora del ricambio ci vorrà la perfidia tenace del «carognitt de l'oratori», come lo chiamava con sarcasmo Umberto Bossi, e chissà se Pier Ferdinando ce l'ha ancora: il suo rivale Fini svolazza nei cieli della politica estera, spesso non capendoci niente ma con grande autorevolezza al cospetto delle nonne; Casini sembra pensare che, come per la Dc, l'eternità sia il destino dell'Udc. Ma di partiti neo-dc ce ne sono già troppi, quindi quell'eternità va divisa perlomeno in quattro: e il tempo passa, scivolano via le legislature, e anche Pier Ferdinando rischia fatalmente di passare, eterna promessa, eterna incompiuta.
L'Espresso, 12/02/2004
Risiko Confindustria
Lo scandalo Parmalat (Argentina, Cirio, Finmatica e dintorni) è qualcosa di esplosivo non soltanto per la folla anonima dei risparmiatori. Nel film del "mercato che fallisce" per fisiologia economica o illegalità distruttiva, non c'è una comoda distinzione fra buoni e cattivi. Va messa a fuoco piuttosto una fortissima responsabilità dell'establishment economico e istituzionale, chiamato a dare una prova di credibilità. Ciò significa che i vertici delle istituzioni economiche e di controllo sono chiamati a una scommessa pesante, su cui si gioca gran parte del futuro italiano. Finora l'orizzonte si delinea problematico, se è vero che è stato dominato dallo scontro inusitato fra Banca d'Italia e ministero dell'Economia. Il settore bancario deve dimostrare di essere capace di stare sul mercato, facendo dimenticare l'euforia pasticciona con cui gli sportelli hanno indotto i risparmiatori a giocarsi il gruzzolo. I vertici dell'imprenditoria devono dare una dimostrazione di affidabilità, dato che malgrado le rassicurazioni il caso Parmalat getta inevitabilmente una luce sinistra sulla governance societaria all'italiana. In queste condizioni, anche la corsa per la presidenza della Confindustria cambia segno: non è più infatti un gioco di potere, un risiko politicamente stressato e spettacolare come non mai. Può diventare un'ordalia per due candidati il cui profilo non è comparabile, Montezemolo e Tognana, ma i cui sostenitori sono divisi da un'avversione teologica e talora da una propensione entusiastica alla compilazione di dossier. Mentre la posta in gioco, meno plateale ma molto sostanziale, è il ruolo pubblico di un intero ceto che in questi ultimi anni si è autodipinto come avanguardia sociale e politica, e che oggi, di fronte allo sbandamento generale post-Parmalat, deve rifarsi il look: e magari trasmettere l'idea di un'imprenditorialità un po' meno sbrigativa, un po' meno saccente, anche un po' più prudente rispetto al mito della crescita pagata dai soliti altri.
L'Espresso, 29/01/2004
Aspettando il Salvatore
Ma il re taumaturgo dov'è, che fa, che cosa progetta? Il popolo di Berlusconia è ansioso, perché nonostante i venghino-signori-venghino dei banditori («Abbiamo fatto migliaia di leggi!», «Il governo è in grande anticipo sul programma!») la legislatura del centro-destra sembra una nemesi dorotea. E quindi ci vuole la grande rentrée del Capo: per il momento va bene la cerimonia per l'anniversario di Forza Italia all'Eur. Ma dopo la celebrazione dell'Evento, con gli animi corroborati, l'Italia forzista ha bisogno di nuove iniezioni di entusiasmo e di rabbia, di combattività e di rancore. Certo, anche di rancore. È il caso di ritrovare un nemico. Negli ultimi tempi l'emotività forzista si è appiattita. Si sa, stare al governo è più faticoso che fare opposizione. La polemica contro "le sinistre" è stata delegata ai gregari Bondi e Schifani, tanto che anche il pueblo azzurro sente odore di scontato. L'attacco contro Antonio Fazio è una iniziativa estemporanea, oltretutto rivolta all'uomo che aveva acclamato il miracolo dietro l'angolo. Prodi se ne sta a Bruxelles, dopo avere assistito senza batter ciglio all'incedere del premier verso il fiasco europeo. L'establishment tradizionalista induce i suoi commentatori a scrivere sul "Corriere" che ormai il governo è fuori tempo massimo. Occorrono i nemici altrimenti il popolo forzista si deprime. Aveva sperato nell'abbattimento delle tasse e ora deve accontentarsi, deglutendo amaro, che «non le abbiamo aumentate». Doveva vedere alzarsi i cantieri delle grandi opere, ma Lunardi arranca. Quanto alla ripresa, stendiamo un velo. Si sono visti show neoclassici a Pratica di Mare, summit internazionali nei weekend sardi, ma agli elettori medi di Forza Italia della politica estera non importa nulla. La borghesia chiamata a raccolta dieci anni fa ha bisogno che Berlusconi trasformi davvero l'Italia in una fiera del consumo. Altro che oboli ai pensionati, con l'occhio liquido di commozione per i nuovi poveri: ci vuole un'economia furibonda, la crescita ruggente, i soldi che viaggiano, le briciole che cadono. Altrimenti, che gusto c'è? Le riforme costituzionali sono fisime di Palazzo, che la sciura e il ragioniere, il commercialista e il promotore considerano faccende da azzeccagarbugli. Se il problema fosse tutto lì, meglio Bossi, allora. Secessione senza tante balle. E il Sud se lo prenda Fini. Quindi l'elettorato di Forza Italia guarda al Cavaliere sperando ansiosamente che Lui riesca in un'invenzione fulminea, un gesto imperiale che trasformi la stagflazione in una crescita squillante, che spazzi via il grigiore invernale e apra un fantastico squarcio di azzurro nei cieli della Patria. E se alla fine si capisse che neanche Berlusconi ha il dono dell'onnipotenza? Che si può fare il lifting alle palpebre, ma intanto il paese ha fatto la liposuzione in vita, e deve tenere stretta la cintura? Eccolo qui il problema teologico dell'Italia di Forza Italia: fino a quando si può continuare a credere alla divinità del Salvatore, in assenza di miracoli? L'Italia berlusconizzata dalla tv deve scommettere se il re taumaturgo riuscirà davvero a guarire il paese scrofoloso. Ma se il miracolo latita, il popolo di fede berlusconiana non comincerà a sentire un accenno di languore dentro di sé, uno struggimento infastidito, l'indizio ancora inconfessato del cattivo umore politico? Ma no, via i brutti pensieri: il ritorno del sovrano sarà come un soffio d'aria fresca. Parlerà della libertà, di dieci anni di battaglie, della sua, e loro, impresa storica. Accidenti, anche per gli adoratori di Berlusconi sono passati dieci anni. Si invecchia, purtroppo. Il Cavaliere si tira gli occhi. Il suo popolo proverà a credergli ancora una volta, rifacendosi a sua volta gli occhi con lo spettacolo azzurro: e cercando di superare ancora una volta lo scetticismo portato da quella malattia così poco politica che è l'età.
L'Espresso, 22/01/2004
I giorni neri del Cavaliere
Si prenda la sentenza con cui la Corte costituzionale ha rigettato il lodo Schifani, si aggiunga la decisione con cui Carlo Azeglio Ciampi ha rinviato alle Camere la legge Gasparri sul sistema televisivo, e la conclusione è chiara e lineare: con questi due atti svapora il populismo Italian Style. Sono giorni neri per Silvio Berlusconi, reduce dalla lunga vacanza in Sardegna. Non solo per la realtà di fatto, con quei due pilastri della sua politica personale e patrimoniale abbattuti dal Quirinale e dalla Consulta. Ma perché queste due decisioni hanno fatto fuori un metodo, uno stile, un atteggiamento politico. Hanno dimostrato che le istituzioni possiedono una coerenza interna, una logica implicita, che non è deformabile a piacimento. Fanno barriera. E su questa barriera Berlusconi è caduto, vedendosi franare addosso gli architravi della sua politica. La tecnica populista aveva tentato di manipolare in profondità l'assetto istituzionale. Per giustificare la legge Gasparri, occorreva dimostrare al popolo che il pluralismo è qualcosa non di formalistico ma di sostanziale, affidato all'autonomia intatta delle redazioni televisive e alla personalità dei giornalisti, non all'astrattezza punitiva delle regole anti-monopolio. Per questo il ministro delle Comunicazioni aveva potuto proporre una farragine di legge, presentandola come un radicale riordino «di sistema». L'incongruità del dispositivo aveva come retroterra l'idea che la precisione delle norme è un'ubbia para-sovietica. Altro che monopolio dell'informazione: secondo le boutade di Berlusconi l'anomalia era data eventualmente da una corporazione giornalistica «all'85 per cento di sinistra». La libertà di informazione semmai era garantita dalla generosità garantista e masochista del Cavaliere, destinato sempre a soffrire per la malevolenza altrui. Il rinvio deciso da Carlo Azeglio Ciampi, tutto centrato su circostanziate questioni giuridiche, ha fatto piazza pulita di queste dissimulazioni esistenzial-paternalistiche. Sotto il profilo costituzionale, i berlusconiani avevano scritto una legge beffa; il Quirinale ha fatto sul serio. Quanto alla Corte, ha incenerito l'altro caposaldo della politica del patron di Forza Italia, per l'appunto il lodo, mostrando che un conto sono le fondamenta dell'eguaglianza fra i cittadini, e un altro sono le trovate appiccicose per impedire un processo. Basterebbero questi due eventi giuridici, garantiti dalla tenuta delle istituzioni, per sgretolare gran parte dell'impianto populista del berlusconismo. Ovvero ciò che è stato proposto all'opinione pubblica come una verità inoppugnabile: il giacobinismo della magistratura "comunista", con il vincitore delle elezioni sottoposto all'attacco giustizialista e assolto invece per verdetto del popolo dal conflitto d'interessi e dalle imputazioni penali. Il fatto è che si può cercare di modellare l'intelaiatura istituzionale a proprio uso e consumo, ma neppure l'ottimismo berlusconiano poteva pensare che le istituzioni fossero e restassero materia inerte. Anzi, è lo stesso sistema delle garanzie che contiene gli anticorpi alle effrazioni. La legge sulle rogatorie non è riuscita nel suo intento primario, vale a dire a bloccare le rogatorie stesse. La legge Cirami sul legittimo sospetto non è riuscita nell'intento di togliere al tribunale di Milano il processo a Cesare Previti. Tanto che a suo tempo, di fronte a una pronuncia della Cassazione diametralmente opposta alle aspettative previtiane, non mancarono gli attacchi contro una giustizia politicizzata anche ai massimi livelli (per qualche giorno, la Corte di cassazione, prima dipinta come culla del diritto, divenne un covo di nemici della democrazia liberale). Giorni neri, dunque, e clima fosco. In primo luogo perché la doppietta del Quirinale e della Consulta fa precipitare a zero la qualità tecnica della legislazione del centro-destra. Ma subito dopo perché sembra difficile che la Casa delle libertà possa innescare in nome del popolo una polemica distruttiva contro la Corte costituzionale. Certo, erano state durissime le valutazioni formulate dal quotidiano di Giuliano Ferrara il giorno prima della sentenza, quasi a esorcizzare preventivamente un responso negativo. Secondo "il Foglio", la bocciatura del lodo sarebbe stata l'esito nefasto di una Corte «scalfarizzata» (nel senso di Oscar Luigi Scalfaro); in caso di rigetto, «la vera crisi... investirebbe l'autorevolezza e la credibilità dei poteri neutri, del massimo tra di essi», fino a coinvolgere nello smacco anche Ciampi, che il lodo lo aveva firmato. Si vedrà se questa è la linea ufficiale. Ma per aggredire la Corte costituzionale, ancorché "scalfarizzata", e magari per procedere poi a una riforma unilaterale della giustizia ci vorrebbe una coalizione intimamente coesa e solidale. Mentre oggi Berlusconi, reduce dal fiasco del semestre europeo, fronteggia un'alleanza in tensione, con Gianfranco Fini che insiste sulla verifica, l'Udc che vuole il riequilibrio, Bossi che addita il «tradimento» antifederalista di Fini, Maroni che riscopre il baratto come forma moderna di transazione politica subordinando la riforma delle pensioni all'approvazione del federalismo. Sullo sfondo, tensioni sociali, scioperi nei servizi pubblici, inflazione incontrollata, economia stagnante, e il caso Parmalat che fa da spauracchio ai risparmiatori. Senza dire di un ciclo elettorale lunghissimo, a partire dalle europee, capace di ridurre all'inconcludenza anche governi più incisivi del governo Berlusconi. In queste condizioni, tentare un nuovo sfondamento populista sembra un'ipotesi altamente problematica. Simmetricamente, da parte del centro-sinistra non è più tempo neanche di derive "giustizialiste". Berlusconi farà tutti gli ostruzionismi possibili al suo nuovo processo, ma intanto la legislatura cambia fase. Alla fine il Cavaliere sarà obbligato a chiedere agli elettori un giudizio sui risultati del suo governo. Niente più trucchi istituzionali. Niente leggi ad personam vendute per civiltà europea. Pochi sogni e promesse di miracoli. Per il Berlusconi dei giorni neri, dopo quasi tre anni di interessi privati in forma di leggi si avvicina insidiosamente l'ora della politica. E la politica ha ragioni che il populismo non sempre conosce.
L'Espresso, 26/12/2004
Italia c’è posta per te
La forza di Enzo Biagi consiste nell'avere in dotazione alcuni principi di fondo, pochi, semplici, espliciti, e con quelli giudicare l'esperienza del mondo. Gli strumenti sono limitati, e riguardano concetti come il buon senso, l'onestà, la capacità di apprendere dagli errori, il non dimenticare la storia e le radici. In questo suo ultimo libro, "L'Italia domanda (con qualche risposta)", appena pubblicato da Rizzoli (330 pagine, 17 euro), Biagi ha raccolto una selezione delle lettere inviategli dai lettori a partire dal 1988. Alcune lettere per ogni anno, con una cronologia degli avvenimenti principali e un inserto d'autore, che può riguardare il personaggio o il fatto dell'anno. Non solo i protagonisti politici, ma anche i personaggi a loro modo minori. Ad esempio, il 1988 è segnato dalla presenza di Adriano Celentano, il «cretino di talento» che aveva incendiato di polemiche la sua conduzione a "Fantastico". La tecnica di Biagi consiste nel non attribuire caratteristiche epocali a personaggi locali. Quanto al Celentano dilagante, «si faccia spiegare la battuta di una sua collega che figura nella storia del cinema, Arletty, indirizzata ai francesi che esaltavano De Gaulle: "C'è differenza tra gli uomini grandi e i grandi uomini". Lui per me sta nella media». In questa capacità e volontà continua di riportare ogni figura alle sue dimensioni più appropriate c'è probabilmente la sfiducia di Biagi per i "fasso tuto mi", per gli uomini del destino e della Provvidenza, sia nelle forme dello spettacolo sia nei modi della politica come show. Non si fida del successo improvviso e vistoso, sa che il tempo è galantuomo, che «questo paese perdona tutto tranne il successo». E sa anche che non c'è soltanto l'Italia della moda, della televisione, del glamour vero o falso, dell'apparire e dell'esserci: c'è anche un paese profondo ancora inquieto per questioni apparentemente superate come la concessione della "prova d'amore". È un'Italia che i frenetici metropolitani ignorano, fatta di gente che si chiede, e chiede a Biagi, se sia consentito farsi giustizia da soli, quando la giustizia fallisce il suo compito, oppure se non sia meglio imparare a perdonare. Problemi psicologici e questioni morali, privato e pubblico si inseguono nelle lettere. E forse queste pagine in certi casi risultano più utili di un'indagine sociologica. Biagi infatti è il Censis dell'intuizione giornalistica: "vede" un problema, lo iscrive in una sua percezione, offre una morale che non è mai una lezioncina, ma semmai il richiamo a un principio. I suoi nemici (perché ne ha di nemici, e non soltanto fra i politici) lo trattano talvolta come un passatista. Qualche tempo fa sul "Foglio" ci fu una specie di campagna contro di lui, l'uomo che sarebbe stato poi cacciato dalla Rai normalizzata, all'insegna dell'epiteto di «re della serie B». Ma a 84 anni, il bolognese di Giustizia e libertà, antifascista e anticomunista, ma rispettoso della qualità civile di molti comunisti, così come era rispettoso della qualità morale di alcuni fascisti, conduce ancora i suoi di?scorsi improntati a un galateo civico, appoggiandosi a una citazione, a un ricordo, alle persone che ha conosciuto. C'è ancora spazio, nell'Italia delle Lecciso, per le considerazioni di Biagi, ispirate al senso comune, determinate dal libro esercizio della propria facoltà d'opinione? Alla fine, il metodo- Biagi è utile perché ridimensiona, relativizza, riporta alla normalità. È a suo modo un antidoto all'esasperazione dell'attualità. Fa scomparire l'Italia estrema del berlusconismo nella normale continuità della nostra storia. La rende anche più mediocre, se è per questo, la fa più banale. Ma alla fine le dimensioni sono rispettate, le proporzioni non risultano assurde. Chi è stato vaccinato dalle manie di grandezza del Duce, per dire, non si fa impressionare dalla volontà di potenza del Cavaliere. Perché l'unico stile che Biagi conosce fino in fondo è quello del giornalista. Che è un modo per passare forse alla storia, ammesso che i giornalisti passino alla storia, facendo la cronaca.
L'Espresso, 26/12/2004
Anatomia in sala regia
La settimana scorsa Raisat Extra ha ripetutamente mandato in onda la registrazione di una "Lezione di anatomia (televisiva)" tenuta al Policlinico Gemelli di Roma, rivolta agli studenti di medicina dell'Università cattolica. I due docenti erano il critico e storico televisivo Aldo Grasso ed Ettore Bernabei, direttore della Rai nel periodo 1961-1975 (il programma era curato di Luca Martera e Luca Nannini, ospite in cattedra il rettore della Cattolica, Lorenzo Ornaghi). La prima sensazione che si ha sentendo parlare il fanfaniano Bernabei, l'uomo a cui è attribuita l'espressione «gli italiani sono cinquanta milioni di teste di c...» è che il paese fosse allora, inizi degli anni Sessanta, ancora molto civile: «A quel tempo si rispettavano le minoranze», dice in apertura di lezione Bernabei, con l'aria di sottolineare che oggi invece no, forse meno, e comunque senza che sia l'intento di fondo. Questo approccio, unito all'idea che sempre allora ciò che contava erano «i diritti dei cittadini», tanto che l'Italia nella tv pubblica «fu il primo paese che diede diritto di accesso all'opposizione, con le tribune politiche», induce a riflessioni piuttosto sconsolate chiunque abbia ascoltato il discorso tenuto a Mestre da Silvio Berlusconi contro la par condicio, con un paragone pazzesco tra la vita di un partito e la politica pubblicitaria della Coca-Cola (ormai Berlusconi è ossessionato da 33 per cento, quota derivante «dal diritto naturale», limite a cui si colloca secondo lui il massimo di prelievo fiscale e la quota di mercato della bibita gassata, oltre che augurabilmente il voto a Forza Italia). Aldo Grasso è riuscito a dare una sintesi della storia televisiva italiana, spiegando che l'unificazione culturale non è stata realizzata dai programmi esplicitamente pedagogici (ad esempio "Non è mai troppo tardi"), bensì dalle grandi trasmissioni di intrattenimento tipo "Studio Uno". Mentre il clou della lezione è stato raggiunto da Bernabei quando ha spiegato che oggi la tv è «atea» sempre, «anche quando riprende una messa del papa». In questa concezione del nichilismo televisivo contemporaneo c'è una intuizione fortissima, che descrive l'essenza stessa della tv, il suo essere un blob indifferenziato, senza ormai nessuna gradazione di qualità intrinseca. La tv è amorale, cinica, trash: tutta. Se lo dice una democristiano tutto roseo e ancora intellettualmente arzillo, c'è da credergli.
L'Espresso, 16/12/2004
Il 27 gennaio è il giorno della verità per Silvio
Almeno adesso le cose sono più chiare. Sono finite le finzioni dorotee, la retorica furbesca del Termidoro, il Berlusconi che evoca l'apologo del "buon padre di famiglia" che deve fare i conti di casa limando le spese e cercando faticosamente di aumentare le entrate. Tutte storielle. Il capo di Forza Italia è uno squalo, non poteva rassegnarsi a essere un tonno. Si sa la fine che fanno i tonni. Ed ecco allora che il Cavaliere ha cambiato marcia di nuovo. Si era trovato invischiato nella ragnatela di Antonio Fazio e di Luca Cordero di Montezemolo, aveva dovuto accettare a malincuore i suggerimenti del suo ministro dell'Economia, Domenico Siniscalco, sull'opportunità di rinviare il taglio delle tasse. Ma era quello il Berlusconi vero, il Berlusconi "ridens", l'uomo dei blitzkrieg, il leader capace di mandare in deliquio i suoi fan? No, quello era una pallida imitazione. Un fantasma che aveva preso il posto del corpo reale. Era il Cavaliere allettato, nel senso di Gianni Letta, andreottian-style. C'è voluta tutta la forza di persuasione di Giuliano Ferrara, oltre un quintale e mezzo di determinazione intellettuale, ma alla fine il centrodestra ci è riuscito. Adesso il governo Berlusconi è il governo più estremista che l'Italia abbia avuto nella storia della Repubblica. Complimenti. Il radicalismo berlusconiano non è una novità. Il capo di Forza Italia aveva sempre nutrito certe voglie reaganiane e thatcheriane. Ma erano sempre sembrate inclinazioni un po' dilettantesche, tipiche del neofita della scienza economica. Invece adesso il Cavaliere si è convinto. Ha preso sul serio uno dei comandamenti di Giuliano Ferrara, e cioè che la strada della crescita verrebbe spianata dalla scelta di governare in deficit. Non si è minimamente curato delle smentite feroci che gli ha mandato in proposito dalle colonne del "Corriere della Sera" un economista prestigioso, Francesco Giavazzi. Adesso Berlusconi non è più un Berlusconi qualunque: è un Berlusconi ferrarizzato, trasferito sulle sponde dell'ideologia. Gassatissimo, superfrizzante, convinto della formula magica iper-neo- conservatrice secondo cui il taglio delle tasse è la premessa e il contenuto della rivoluzione antistatalista. In verità sembra piuttosto un ragionamento da bar, una tipica soluzione formidabilmente semplice a un problema infinitamente complesso. Nei bar se ne sentono spesso, di ricette simili. Si tagliano le tasse e, se proprio si devono tagliare le spese, tanto meglio. Meno spese e meno tasse vogliono dire un'amministrazione più efficiente, più libertà economica e meno burocrazia, imprese nazionali di nuovo dinamiche, investimenti stranieri attratti dal paese di Bengodi, in una meravigliosa catena di effetti spettacolari. Che si tratti di una visione o di un miraggio lo scopriremo presto. Certo, per adesso abbiamo di fronte una situazione diversa. Un taglio delle tasse risicato («È il primo passo», dicono a destra; risposta: crederemo che si tratti del primo passo quando avremo visto il secondo). Una copertura problematica. Una ideologizzazione estrema della Casa delle libertà, vicina alla "voo- doo economics" criticata a suo tempo da Paul Samuelson. I soldi che sbucano "by magic", direbbe Beniamino Andreatta. E nello stesso tempo il recupero di Giulio Tremonti, il superministro incredibilmente lasciato cadere da Berlusconi, uno scalpo offerto alla verifica e alla coppia allora insidiosa Fini-Follini. Nessuno sa qual è l'ideologia di Tremonti, salvo il fatto che è l'esponente più ideologico del centrodestra. Il suo ritorno, come uomo televisivo, comunicatore, vice di Berlusconi, è un marchio di garanzia. Sulla Casa delle libertà si imprimerà un marchio legaiol-populista, e anche colbertian-liberista. Una miscela da new economy del Terzo millennio, con la contraddizione incorporata, chissà quanto omogeneo con la visione semplicemente neoconservatrice di Berlusconi e del suo guru Ferrara. Funzionerà il fritto misto del nuovo Berlusconi? Prima di dire alcunché e al di là della sentenza del Tribunale di Milano, converrà aspettare il 27 gennaio 2005, quando negli stipendi si vedranno i primi effetti della riforma-simbolo del Cavaliere. Perché solo allora si potrà capire se i lavoratori dipendenti italiani avranno visto effettivamente un aumento dei soldi in busta paga. Può darsi di sì, e allora Berlusconi confermerà il recupero osservato nei sondaggi. Ma può darsi anche che non si veda praticamente niente, che l'aumento sia impercettibile. E allora anche tutta l'ideologia del Cavaliere si rileverà un bluff. E com'è noto i bluff scoperti e annullati possono diventare dei colossali boomerang.
L'Espresso, 16/12/2004
Uno psichiatra in famiglia
Ci sarà un motivo se "Un medico in famiglia", giunto alla fine della quarta serie, ha continuato imperterrito ad accumulare audience, battendo in souplesse "l'Isola" e "il Grande Fratello". Anzi: i motivi sono molti. Consideriamo che questa soap ha perso i protagonisti carismatici, Giulio Scarpati e Claudia Pandolfi, alcune centinaia di puntate fa, e quindi la curiosità diffusa di vedere se il medico e la cognata finalmente riuscivano a infilarsi insieme sotto le lenzuola era svanita da un pezzo. In assenza del medico, che non era più in famiglia (salvo riapparizione finale col botto, in una puntata dal formidabile titolo "Itaca"), rimane certamente la bravura nazionalpopolare di Lino Banfi, e lo charme da zia borghese di Milena Vukotic; ma c'è anche da considerare che gli autori dovevano essere esausti, e per tenersi svegli hanno dovuto complicare la storia, come succede spesso agli sceneggiatori, che per noia cominciano a inventare avventure incredibili, tanto per movimentare una trama altrimenti sempre uguale: la villetta, la bimbetta, la ragazzetta, gli altri. Per cui gli spettatori avrebbero avuto tutto il diritto di incacchiarsi, perché una soap non deve diventare un film d'avventura. Detto questo, e dopo avere preso nota che nel film, per ragioni note soltanto agli iniziati, Banfi e la Vukotic si sono sposati (sentito un dialogo, in casa: «Ma il matrimonio è vero o è finto?». «Boh»), e la Asl sperimentale è stata chiusa, le ragioni del successo non declinante di Nonno Libero possono essere di sostanza sociologica: la storia è congruente con la vita media degli italiani; accendere la televisione e guardare il "Medico" assomiglia ad aprire una finestra sul cortile. Non vi piace la sociologia? Fatti vostri, noi insistiamo. "Il medico" è perfettamente adatto al target medio della tv generalista: le famose pensionate meridionali ultrasessantacinquenni a bassa scolarità, secondo i cinici, con il contorno delle loro famiglie. Ma anche il pubblico "alto", che la domenica sera aspetta "Controcampo" per ingaglioffirsi, o che non ha molta voglia di vedere la solita partita epocale su Sky Sport. Praticamente tutta l'Italia che non si identifica più nella vicenda, non spera e non soffre, ma si trastulla con le figurine della soap. Dopo di che, si può anche spezzare una lancia, già proprio spezzarla, per Francesco Salvi, che sarebbe più bravo di Depardieu, se qualcuno volesse accorgersene.
L'Espresso, 09/12/2004
Più Frank Sinatra che idolo rock
Credibile o no, re Silvio, come icona dei venti-trentenni, sovrano assoluto del "partito dei giovani"? Il look non deporrebbe a suo favore, ma bisogna distinguere l'abito istituzionale, ossia il doppiopetto con i suoi complicati bottoni interni da aggiustare con palpeggiamenti sapienti e virili, e il cachemire o il giubbottino di renna delle giornate libere. Dal giorno della "scesa in campo" nel 1994, si susseguono i peana per la meravigliosa forma fisica del Cavaliere, che «non ha le gambette rinsecchite dei vecchi», come giurava il suo personal trainer, descrivendo il jogging nei vialetti di Arcore. Adesso chi lo conosce nel profondo, come il suo medico forzista Umberto Scapagnini, assicura che la sua bocca è da ventenne e il suo equilibrio biochimico da quarantenne. Si attendono ancora i risultati del trapianto dei capelli, dopo che il lifting non è stato così spettacolare negli esiti come sperato o temuto. Ma il punto critico fondamentale non è tanto nell'aspetto fisico, visto che Berlusconi è un quasi settantenne molto pimpante, bensì piuttosto nel suo universo mentale. Eh sì, il materiale lo conosciamo, ma qual è invece l'immaginario di Berlusconi? D'accordo che Silvio è pericolosamente simpatico, per chi ama le cortesie profuse con volteggi e caschè, le barzellette a gogò, battutacce sulle malefemmine e mimica da tombeur: tuttavia basta qualche cronaca delle vacanze a villa Certosa, con i vecchi ragazzi resistibili Emilio Fede e Fedele Confalonieri, per assistere allo show di un clan vecchiotto, goliardico negli scherzi proprio come "andava" nel grigiore lontano degli anni Cinquanta, e finire la giornata alla napoletana cantando "'A gelusia" con Mariano Apicella alla chitarra. Uno stile del genere poveri ma belli che hanno fatto i soldi, vitelloni che si sono inventati un lavoro alla "sempre meglio che lavorare": comunque si tratta di sequenze molto in bianco e nero, commedia all'italiana, altri tempi. E allora perché uno dovrebbe strillare "Forza Silvio" se conosce le preferenze mica tanto segrete del Cavaliere, vale a dire roba da chansonnier, da Chevallier, Trenet, Becaud, e al massimo, per un colpo di vita, Sacha Distel? Anche per una questione generazionale, Silvio non è stato investito dall'ondata del rock, del beat, del pop, del rap. Ancora adesso, quando parla nelle convention di Forza Italia, muove il microfono come un vecchio crooner, un Frank Sinatra, un Dean Martin. Molto più "giovane giovane giovane" sembrerebbe semmai Umberto Bossi, di cui qualcuno dice di ricordare una partecipazione al Festival delle voci nuove di Castrocaro con lo pseudonimo di "Donato" e una canzone choc, "Col Caterpillar": «Noi siam venuti dall'Italy / abbiamo un piano per far la lira / Entriamo in banca col Caterpillar / e ci prendiamo il grano». Eccoli, i quattrini: probabilmente la sola risorsa di Berlusconi autenticamente transgenerazionale, che lo rende irresistibilmente simile a uno zio ricco, forse un po' rintronato per via delle troppe cifre, "ricette" e formule per risanare l'Italia. Sicché "Forza Silvio" non funziona, e potrebbe sembrare un coretto ironico; mentre "Silvio, dacci i soldi" potrebbe avere una sua rozza giovanile efficacia.
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