L’Espresso
L'Espresso, 09/12/2004
La noblesse delle pop news
Ma il principe Carlo può dedicare un servizio al principe Carlo? Certo che può, se Carlo I si chiama Rossella e Carlo II è il principe di Galles. Quest'ultimo è l'eterno erede al trono del Regno Unito, mentre Charlie Rossella era l'eterno pretendente al Tg5. Così, una delle principali eredità del mondo contemporaneo è stata assegnata. Gli altri possono attendere. Noblesse oblige. Diffuse inquietudini attendono colui che è stato definito "l'Ansaldo degli anni Duemila", ossia un giornalista schierato quanto brillante, amante dell'aristocraticità (più che degli aristocratici), sostenitore sfrontato di Silvio Berlusconi senza nemmeno essere di destra. Fosse arrivato un servo scemo, il Tg5 sarebbe diventato un altro esempio di accanimento terapeutico sul governicolo del Cavaliere. Mentre Carlo I è un professionista di fascia alta: se la lookologa di Silvio gli chiede di mettere i capelli al padrone, lui fa ripassare la copertina al computer, ma dentro di sé forse rabbrividisce. Le sue specialità sono altre: cioè le mitologie metropolitane, le "urban legend", le principesse giapponesi, il tango, gli alberghi di Miami, i terremoti all'edizione delle otto con inviato trafelato; oppure il presidente della Mercedes a cui rubano la Mercedes, e la spiritualità, eh sì, di Al Bano paragonata alla corporeità, ahi ahi, di Loredana Lecciso. Insomma il gossip, trattato con la leggerezza cinica di chi non ama la volgarità ma sa che il pubblico invece sì. Attenzione quindi, perché è scattata una competizione virtualmente fratricida fra due specialisti, Rossella e Clemente Mimun. Se Mimun è popolare, Rossella è pop. Ama quelli che può considerare i propri personaggi, i portatori insani del glamour, i freak dell'attualità "cafonal", Platinette e Cristiano Malgioglio, ma anche Barbara Palombelli e l'ombra di Oriana Fallaci, o di Condoleezza Rice. Con l'ausilio della principessa Cesara, il principe Carlo prepara un tg soffice come una nuvola rosa sull'inflazione, la stupidità del patto, la ripresa mancata, le tasse persistenti, i neo-post-dc, i pre-post-fascisti, i meta-culattoni. È lui l'avversario più insidioso, perché è un amico-nemico, è una somma di personalità, è i fratelli Rossella, come lo chiamò Vittorio Feltri. Sarà lui a diffondere il clima del nuovo berlusconismo, l'infotainment del centrodestra: che poi Berlusconi ci sia o non ci sia, questo è puro accidente, anche per il principe Carlo.
L'Espresso, 02/12/2004
Fortino Quirinale
Quattordici, 'o Mbriaco. Ventitré, 'o Scemo. Ventotto, 'e Zizze. Trenta, 'e Ppalle d'o Tenente. Poi, se si vuole proseguire nella consultazione della Smorfia napoletana, si trova il Quarantasette, 'o Muorto, e il Quarantotto, 'o Muorto che pparla. A piacere vostro. Il catalogo dei numeri al Lotto e dell'interpretazione dei sogni è ricco di figure suggestive. Ma l'incubo del governo, il sogno cattivo, la commare secca che incombe sui conti, sulla Finanziaria, sul taglio delle tasse, è il Cinquantatré, 'o Viecchio, il grande ritardatario sulla ruota di Venezia. Perché è stato calcolato che l'uscita di questo numero prima di Capodanno, dopo oltre centosessanta settimane di assenza, ha un costo potenziale per il Tesoro di un miliardo e 350 milioni di euro. Come ha contabilizzato sulla "Stampa" Roberto Giovannini, «la metà dei tagli Irpef su cui in queste ore Silvio Berlusconi vorrebbe il via libera della Cdl e del Tesoro». Occhio ai numeri, allora. L'idea di un governo impiccato alle estrazioni del Lotto è l'immagine irresistibile di un'esperienza politica che finisce nei bussolotti. D'altronde, le ultime ore del governo, con la rincorsa trafelata della copertura del deficit per poter tagliare le tasse, assomiglia davvero a una lotteria. Spinto dai suoi suggeritori, in primis Giuliano Ferrara, dopo avere visto l'abisso dei sondaggi Silvio Berlusconi ha deciso di assestare il colpo. Tagliare, tagliare. Costi quello che costi. Anche la bancarotta del paese. Ma l'ultima edizione del "giù le tasse" è il frutto di una decisione estemporanea, non di un progetto strategico. Si tratta di una virata in seguito al micidiale contraccolpo di popolarità dopo l'"abbiamo scherzato". Fosse stato realizzato all'esordio della legislatura, il ridisegno delle aliquote poteva essere presentato come un elettroshock all'economia. Una spinta robusta ai consumi, l'applicazione sul campo della teoria di Arthur Laffer secondo cui ridurre le tasse equivale a rilanciare l'economia, con il risultato che la crescita avrebbe ripagato a usura il minore introito dello Stato. «Woodoo economics», la definì allora Paul Samuelson: ma con una sua creatività intima, con una sua persuasività profana, un suo fascino controintuitivo. Meno tasse uguale più tasse. Geniale. Ma tagliare le tasse un anno prima delle elezioni politiche non è una scossa all'economia, alla produzione, ai consumi: è semplicemente una trovata elettorale. Berlusconi si è accorto all'improvviso che il rinvio del taglio delle aliquote gli si era ritorto contro, e i sondaggi erano precipitati almeno di otto punti. E quindi si è rimangiato il rimangiabile, ha invocato il liberalismo, ha scritto al "Foglio" una «postilla» al Contratto con gli italiani, argomentando la tesi paranoica che tagliare le tasse costituisce un paradigma politico ed etico irrinunciabile. La formula intellettuale di Berlusconi assomiglia in modo impressionante a quelle spiegazioni da Bar Sport, secondo cui problemi molto complessi si risolverebbero d'incanto con soluzioni semplicissime, in una catena micidiale di deduzioni: ridurre le tasse implicherebbe minore spesa pubblica, quindi maggiore efficienza delle amministrazioni, semplificazione delle procedure, attrazione di capitali stranieri, maggiore benessere, migliore competitività. Bingo. Ma questo giochetto deduttivo non convince molto la sede istituzionale che è ormai da tempo il presidio del rigore contabile, ossia il Quirinale. Anzi, per niente. Carlo Azeglio Ciampi non crede affatto nelle puntate pazze al tavolo verde dell'economia. Ha lavorato senza risparmio, a suo tempo, impegnando anche la sua credibilità personale, per convincere mezza Europa che il risanamento del primo governo di centro-sinistra, a partire dal 1996, era solido, strutturale, credibile. Assistere ai tre anni di finanza creativa del governo Berlusconi-Tremonti gli ha procurato inquietudini continue. E si capisce. Il deficit che cresceva. L'avanzo primario che scendeva. Il debito che tendeva a uscire dalla scia del circuito virtuoso. Per questo, Ciampi ha visto di buon occhio la nomina di Domenico Siniscalco al ministero dell'Economia, dopo la liquidazione di Tremonti. Verso Siniscalco, Ciampi ha la stima e l'affetto che si può nutrire per i giovani promettenti. Oltretutto, l'economista torinese ha una lunga consuetudine con le istituzioni. Si è fatto le ossa come consulente di diversi governi, all'epoca dei Reviglio-boys. Ha collaborato con Giuliano Amato nell'impostare la mega-manovra del 1992, all'epoca della spaventosa bufera finanziaria che investì la lira. «Un provvedimento da mettere i brividi», commentò Siniscalco più tardi. «Poteva essere un trauma insostenibile per il paese. Invece funzionò. Così, quando Ciampi subentra ad Amato, può dare il secondo aggiustamento, quello sui salari, con la concertazione». Anche se in termini mediati, connessi a un sottile gioco di diplomazie, si può dunque parlare di un legame effettivo fra il presidente della Repubblica e Siniscalco. Tant'è vero che fu proprio Ciampi a designarlo nel cda della Telecom, in rappresentanza del Tesoro, cioè l'azionista pubblico. Sembra esserci un patto implicito, che può essere descritto in questo modo: Siniscalco è il guardiano dei conti, l'uomo che presidia gli equilibri finanziari. Nel caso che Berlusconi volesse tentare il colpo, sfondare il patto di stabilità, governare in deficit come gli suggeriscono i suoi consiglieri più sbrigativi, Siniscalco sa che il Quirinale vigila, e che quindi non può e non deve dare il suo avallo allo sfondamento. Se il premier gli dice: «Ma che cosa sarà mai mezzo punto in più sui parametri di Maastricht!», il ministro dell'Economia guarda verso il Quirinale. Intuisce così, respirando l'aria del primo colle romano, che Berlusconi non può silurarlo come ha fatto con Tremonti, dato che non si cambia un ministro "strategico" ogni quadrimestre. Anzi, il patto non detto e non scritto con il Colle prevede un deterrente, la minaccia dell'apertura della crisi nel caso della caduta del ministro dell'Economia. Vale a dire che Berlusconi potrebbe anche tentare di liberarsi di Siniscalco, ma vedrebbe spalancarsi davanti a sé l'idea per lui odiosa di una crisi di governo. Nelle crisi, è noto a tutti, si sa come ci si entra ma non si sa come se ne esce. E il premier non vuole rischiare la trattativa per un governo-bis, non foss'altro che per raggiungere il record di un esecutivo che dura per l'intera legi?slatura. Ma non c'è solo questo aspetto. La linea del 3 per cento in realtà è un confine reale che separa nettamente alcune aree politico-istituzionali. Al di qua del limite del patto di stabilità, nella più trasparente ortodossia europea e affiancati al Quirinale, si collocano gli uomini di punta dell'Udc, Marco Follini e Bruno Tabacci, garantiti dalla presenza istituzionale di Pier Ferdinando Casini. Al di là del patto, in una volatile Europa post-stabilità, si raccolgono i fautori della possibilità dello sforamento, a cui si è affiancato negli ultimi giorni il presidente del Senato, Marcello Pera: «I vincoli europei non devono essere un alibi per non fare le riforme». Visione moderna o visione provinciale? L'economista Alberto Quadrio Curzio aveva già messo in chiaro più volte la situazione sul "Sole 24 Ore": «Germania e Francia possono anche permettersi un deficit oltre il 3 per cento; l'Italia, con il debito pubblico che si ritrova, no». E il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, non perde occasione per ricordare che i tagli fiscali devono basarsi su «consistenti, stabili e strutturali risparmi di spesa». Aggiungiamoci che Luca Cordero di Montezemolo ha chiesto come prioritaria la riduzione dell'Irap, e che anche Romano Prodi, appena tornato a Bologna, nel suo nuovo ufficio in Strada Maggiore, ha sottolineato l'urgenza di provvedimenti a favore delle imprese. Di fronte a queste posizioni, l'idea fissa di Berlusconi sembra più che altro una superstizione. La fede cieca in un gioco d'azzardo. Ambo, terno, quaterna, tombola e cinquina. Cinquantatré permettendo, naturalmente: anche a costo di nascondere il bussolotto.
L'Espresso, 02/12/2004
Premiata scuola Faletti
Bisogna stare attenti ai comici. Perché poi succede come con Giorgio Faletti, che scrive "Io uccido", Antonio D'Orrico lo nomina sul campo massimo scrittore italiano, e Faletti sbanca il botteghino. Quindi adesso che è la volta di Natalino Balasso, alias il professore di Storia universale Anatoli Balasz, alias l'attore di film porno autore del cult "Si divertono tutti alle mie spalle", la prudenza è d'obbligo. Dopo avere pubblicato infatti alcuni libri umoristici, tipo "Operazione buco nell'acqua" (Sperling & Kupfer, 1994), Balasso si è fatto prendere dalla sindrome Faletti e ha scritto un libro serio. Un romanzo giallo, o mezzo giallo e mezzo nero, appena messo in libreria da Mondadori. Si intitola "L'anno prossimo si sta a casa" (Mondadori, 180 pagine, 13 euro), ed è a tutti gli effetti un libro singolare. Innanzitutto perché ci si aspettava la solita trasposizione in volume degli sketch televisivi tipo "Zelig", come avevano fatto quasi tutti, da Ale & Franz (Alessandro Besentini e Francesco Villa) a James Tont (alias Fabrizio Fontana), con la parziale eccezione di Luciana Littizzetto, che ha messo insieme un paio di libri comici molto lavorati, e di Paolo Cevoli, il cui primo libro, "Cent'anni di Roncofritto", era un exploit umoristico ragguardevole, dialettal-popolare ma con sprazzi comici irrefrenabili. Invece Balasso si è preso la briga di scrivere un romanzo di intreccio, una sceneggiatura che sembra ricalcata su "Frantic" di Roman Polanski: storia di una coppia sui sessanta, lui appena pensionato, lei insegnante di inglese, che se ne va a Creta per la vacanza di tutta una vita, un balzo esotico dalla vita di provincia a Chioggia nel Mediterraneo più caldo e cosmopolita. Con il prevedibile risultato che la vacanza si trasforma in un'avventura mozzafiato. Ma al di là della trama, ciò che può sorprendere è lo stile di Balasso. Perché invece di reinventarsi come giallista, il comico di Rovigo si cerca uno stile insinuando nella trama numerosi "stand up", o certi piccoli "one man show", in cui il cabarettista si fa sentire: «La femmina, indaffarata e scattante, nonostante i 59 anni, ma portati bene dicono (come se gli anni si portassero e non si perdessero piuttosto per strada), rovistante nei cassetti, nei cassettoni, nei cassettini alla ricerca di cose da portare, persino le più piccole, che possano casomai servire anche solo un po' per il viaggio. Lungo viaggio. Ogni tanto sposta il marito inutile alla bisogna e parato davanti al suo parare come una statua, con in mano una tazzina di caffè, stanco di fumare più il caffè che il marito, che rimanda ancora un poco la sigaretta micidiale del dopopranzo». Insomma un andamento più o meno così. Al centro di tutto c'è «il celebre disco di Festos», che viene rubato dal museo di Heraklion. Ogni assonanza con il "Topkapi" di Eric Ambler dev'essere fortemente voluta. D'altronde Balasso è un comico che non rinuncia alla cultura. Chi l'ha visto recitare alcuni testi di Achille Campanile («Il tasso del tasso del Tasso...») ne ha apprezzato la versatilità. Premiato per il teatro nell'edizione 2004 del Premio Satira politica di Forte dei Marmi, il professor Anatoli Balasz, 44 anni di Rovigo (lì vicino, Porto Tolle per la precisione), è riuscito a mettere insieme uno stile. Velocità narrativa, dialoghi ellittici, perché chi vuol capire capisca: «"Buono questo vino, come si chiama?" "Vino", dice l'oste, di formazione socratica». È poi certe inserzioni descrittive in cui parla l'umorista, l'osservatore che non rinuncia a scherzare: «Le dune si riempiono presto di cartacce e di bottigliette e Settimo pensa che questo è il segno della presenza di italiani». Domanda: è nato un altro Camilleri? Perché per certi versi è suggestivo anche il racconto noir al ritorno da Creta: un Veneto qualunque, una superficie di normalità che non nasconde una realtà di traffici clandestini, di violenza quotidiana, di rischio implicito nelle vite di ogni persona qualunque. Forse no, non è nato un altro Camilleri. Sembra troppo eclettico, Balasso, per diventare l'uomo di un solo mestiere. E sotto sotto, nella sua mitezza stupefatta dall'esistenza del male, nel realismo leggermente sbalordito dei suoi personaggi, penserà con divertimento a tutti coloro che hanno creduto di leggere il libro di un comico e si sono trovati sotto gli occhi uno scrittore.
L'Espresso, 02/12/2004
Incantesimo al novantesimo
Nonostante il passare degli anni, dei campioni e delle bufale, "Novantesimo minuto" tiene. Tiene a dispetto di "Diretta gol", cioè la versione satellitare di "Tutto il calcio minuto per minuto", che è uno dei punti di forza di Sky e può ancora migliorare, accelerando gli automatismi e la tempestività dei collegamenti e dei replay, adesso ancora macchinosi. Ma si sa che Sky ha neanche tre milioni di abbonati, mentre i tifosi in Italia sono almeno dieci volte tanti, e quindi il vecchio "Novantesimo" fa ancora la sua figura. Anche perché è un isola di professionismo in quell'arcipelago dei famosi che è "Domenica In", sicché l'animo si ristora, dopo una discussione sulla inconsolabile ma "serena" Loredana Lecciso. Perché Paola Ferrari è rapida e professionale, e Giorgio Tosatti è capace di crivellare un allenatore a suon di cifre e rilievi tecnico-tattici (fantastico un processo di tre minuti a Roberto Mancini), la moviola è piuttosto tagliente, tipo rasoio di Occam, "telecamere non sunt multiplicanda" e il giudizio di solito è secco: negli altri programmi si sviluppa una teologia del calcio di rigore, che "può anche starci", oppure "non ci sono gli estremi". Qui si dice: è rigore, o non è rigore, il che costituisce un ottimo schema bipolare. Se si vuole un difetto, c'è che da molte stagioni "Novantesimo" è stiracchiato, lungo, infarcito di pubblicità. E vabbè, facciamocene una ragione. Ma almeno dal punto di vista dei "riflessi filmati", come si diceva una volta, o degli "higlights" (pronuncia "àilàits"), come dicono adesso soprattutto a Mediaset, se la cava ancora. E anzi un certo indulgere allo specialismo, agli schemi tipo 3-4-1-2, non disturba: perché oggi il calcio è una nave dei folli, tra veline, gente tatuata, flirt da discoteca, settimanali di gossip; a cui si aggiungono commenti dagli stadi in cui l'unico aggettivo è "incredibile" (ma quale incredibile: il calcio è uno sport semplice, i gesti basta impararli, c'è riuscito anche Ringhio Gattuso; eventualmente c'è da stupirsi che presunti campioni pagati milioni di euro riescano ancora a sbagliare l'esecuzione di un corner). Quindi il tecnicismo di "Novantesimo minuto" è buona cosa. Serve come antidoto. Più si è tecnici meno si è dottrinari (anche se poi si sa che finito "Novantesimo" torna don Mazzi, la Lecciso, oppure tutti e due, per un dibattito su Al Bano, e allora mano al telecomando).
L'Espresso, 18/11/2004
God salvi la Gad
Ma no, ma no. Non siamo mica gli americani. Il vecchio slogan di Vasco Rossi è l'antidoto migliore al coro pastorale di spiegazioni della vittoria di George W. Bush. Se il centrosinistra italiano vuole perdere le elezioni politiche del 2006 non ha che da seguire le indicazioni che motivano la vittoria di Bush con la mobilitazione dei "valori morali". Tesi: sono stati i fondamentalisti cristiani a soccorrere il comandante Bush, evangelici, presbiteriani, la cristianità profonda, dato che i repubblicani hanno fatto propria la battaglia contro il relativismo, l'aborto e il matrimonio gay. Conseguenza: la sinistra deve riscoprire i sunnominati valori. Pazienza se l'interprete migliore di una politica di questo genere, perfettamente qualificato perché il centrosinistra l'ha costruito davvero, si chiamerebbe Amintore Fanfani ed è stato sfortunatamente sconfitto nel 1974 al referendum sul divorzio. Pazienza. Oppure un'altra ottima tecnica è quella di lasciarsi affascinare dal movimento degli "atei devoti", o dei clericali senza Dio, capeggiati da Giuliano Ferrara, fondatore della Società dei liberi, embrione di partito, movimento trasversale che trova nella cristianità di Rocco Buttiglione gli ideali e l'identità che la postmodernità liberale ha scialacquato. Tanto poi non mancherà un prete, mettiamo un Gianni Baget Bozzo, che reciterà con bella ispirazione il motto della nuova crociata: "Nel nome del Padre, del Foglio e dello Spirito Santo". È tale e tanta la subalternità comportamentale della sinistra, che ci si può aspettare di tutto. Che Francesco Rutelli, ad esempio, il quale aveva già preso una posizione "clerical" con la legge sulla fecondazione assistita, cerchi di aprire un tavolo sulla riforma della giustizia. Sono mesi che il centrosinistra è indignato perché la Casa delle libertà si fabbrica le "sue" riforme, a cominciare dalla Costituzione, e Rutelli annuncia al "Corriere della Sera" che sarebbe bene aprire il tavolo. Aprire: poco dopo che è stato denunciato che certe norme, tipo quelle sulla prescrizione, servirebbero soltanto a salvare Cesare Previti. Sicché non ci si può stupire troppo se un uomo come Fausto Bertinotti di questi tempi sembra un riformista moderato, un uomo equilibratissimo. Dove sono i valori?, gli ha chiesto Massimo Giannini in una intervista su "la Repubblica". «Nella Costituzione», ha risposto l'estremista. Perché nella Costituzione c'è la persona e c'è la solidarietà, un riflesso della visione socialista. Già, il socialismo. Che fine fa il socialismo nella prospettiva di Bertinotti? Il subcomandante Fausto non esita. Vale la pena di riscoprire il documento di Bad Godesberg, anno di grazia 1959, quando nella città gemella di Bonn i socialisti tedeschi rinunciarono al marxismo e inserirono nel proprio quadro politico l'idea dell'economia sociale di mercato, ciò che all'avvio degli anni Novanta l'economista francese Michel Albert avrebbe definito "modello renano". Ma il lieve senso di sollievo nell'assistere alla nuova incarnazione di Bertinotti, pacifista ma nonviolento, radicale ma non oltranzista, forse autenticamente alle prese con la questione del governo, viene poi compensato da alcuni altri fenomeni, tutti riassumibili nella domanda: quali sono i confini del centrosinistra? No, non i confini della Gad, la Grande alleanza democratica. Ormai dovremmo avere capito che gran parte dei problemi che hanno afflitto nei mesi scorsi l'opposizione, e che l'opposizione ha inflitto agli italiani, sono fortunatamente alle spalle. Al momento, quindi, non c'è nessun bisogno di riesumare vecchie storie. La questione della leadership, agitata a suo tempo con una bella vena masochista, è definitivamente alle spalle, anche grazie all'eccellente uscita di Romano Prodi dalle stanze di Bruxelles, e al colpo di immagine, diciamo così, dovuto alla proroga del suo incarico in seguito alla caduta della prima Commissione Barroso. Si sono dissolti anche molti degli spettri neocentristi che turbavano l'alleanza e il leader. Potrebbero eventualmente essere rievocati, questi fantasmi, se qualche partito dell'opposizione dovesse prendere sul serio le sirene della Cdl sul cambio del sistema elettorale. Nell'incontro con Prodi prima della firma del trattato costituzionale europeo, un Berlusconi con il sorriso sulle labbra ha detto che intende procedere decisamente sulla strada del ritorno alla formula proporzionale. Sorridendo a denti stretti, Prodi ha risposto: «E noi ci metteremo di traverso». Ma basterà che i molti orfani della proporzionale, da Clemente Mastella ad alcuni ex popolari della Margherita, ma senza perdere di vista verdi, socialisti, i proporzionalisti convinti di Rifondazione, facciano qualche apertura per interesse di partito perché il capo del centrodestra si ritrovi in mano un'arma virtualmente letale contro la Gad. La domanda sui confini del centrosinistra riguarda piuttosto ancora una volta la galassia esterna: a questo punto i girotondi, i movimenti, le "espressività", come le chiama Piero Fassino, alla Nanni Moretti sembrano avere un profilo molto più basso rispetto al passato, e Pancho Pardi è poco visibile. C'era un solo leader possibile per i sostenitori del no alla guerra in Iraq "senza se e senza ma" ed era Sergio Cofferati, che ha scelto la via più tradizionale della riconquista del bastione Bologna. In attesa di sciogliere il dilemma angoscioso se le elezioni si vincano mobilitando l'identità a sinistra o conquistando il centro (altro argomento affascinante per l'elettore gaddista medio), ci sarebbe da valutare quanto incida sull'umore dell'elettorato l'evento disastroso della "spesa proletaria" effettuata con l'assalto all'ipermercato Panorama di Roma e alla libreria Feltrinelli di Largo di Torre Argentina. La sensazione immediata è che un certo elettorato quello sì moderato, nel senso che detesta di?sordini, espropri, allagamenti di licei, e che magari voterebbe il centrosinistra perché intuisce che la professionalità di alcuni suoi esponenti è migliore della media berlusconiana, non appena vede profilarsi un corteo di Disobbedienti, di Invisibili del Nord-est, di Disoccupati del Sud, oppure la "Gap", la Grande alleanza precaria, con i suoi leader Casarini e Caruso, e l'accompagnamento di Nunzio D'Erme, viene colto da acuti malesseri. Non parliamo poi di quando il deputato verde Paolo Cento prova a difendere l'esproprio parlando dell'episodio romano come della «conferma di una nuova, drammatica emergenza sociale», o quando si apre un interessante dibattito sulla differenza fra illegalità e illegittimità. È vero che la situazione del governo è grottesca: bocciato sul primo articolo della finanziaria, maltrattato da economisti autorevoli come Francesco Giavazzi secondo cui il taglio fiscale del Cavaliere è insignificante, sbertucciato nelle scelte dai suoi guru (come nel caso della nomina di Franco Frattini alla Commissione europea, che "Il Foglio" ha svalutato alla stregua di un gioco di massonerie), ci mancherà soltanto che la nomina di Gianfranco Fini alla Farnesina venga accolta da scocciate riflessioni antifasciste. Ma l'autodemolizione della Casa delle libertà non significa automaticamente la vittoria del centrosinistra. Se si impegna, la Gad, quanto all'euforia autodistruttiva, non la batte nessuno.
L'Espresso, 18/11/2004
Ma il cielo è sempre più buio
Le migliori menti televisive si interrogano sul mediocre andamento dello spettacolo di Giorgio Panariello "Ma il cielo è sempre più blu". Battuto ripetutamente da Maria De Filippi, il programma sembra sintetizzare la crisi degli "one man show". Già non era andato benissimo, ma solo benino, Fiorello, che pure è un fuoriclasse, e che almeno faceva il Gobbo di Notre- Dame, irresistibile parodia-tormentone del musical di Riccardo Cocciante. Panariello passerà alla storia della televisione per essere stato accostato alla "tv deficiente" dalla signora Franca Ciampi. Troppa disgrazia, per la verità. Vabbè che ci si mettono in molti a dare ragione alla prima signora, con le censurine a Paolo Hendel e a Monica Guerritore. Restando ai fatti, e non alle interpretazioni politiche, Panariello non è affatto deficiente o deficitario. Era un comicastro locale, pieno di energia provinciale; è diventato un comico nazionale a cui è capitata la peggiore sciagura per un cabarettista, calarsi nei panni del conduttore: riesce a Claudio Bisio, che è un fuoriclasse come Fiorello. Riuscirebbe forse a Gene Gnocchi, se avesse voglia di provarci; riuscirebbe a pochi, ma proprio pochissimi altri. Ma non a Panariello. Perché Panariello, insomma il suo show, non è deficiente, è reazionario. La visione della vita dei suoi autori è il classico atteggiamento in cui ci si sbalordisce di fronte a ciò che è nuovo, al ristorante dove «non si mangia, si degusta», il cameriere parla francese (e giù smorfie per rappresentare lo sbalordimento genuino del popolo: ma come, non si magna! Ma siamo qua per magnà! Non per déjeuner!). Il calcolo è presto fatto: per fare i grandi numeri richiesti dagli investimenti del sabato sera, bisogna inseguire il proletariato televisivo, ossia le masse. Ma le masse hanno capito da tempo che lo show serale è una faccenda di alto intelletto. Non è che solo volgarizzandolo un po' diventa deficiente. Per il classico pubblico da televisione generalista, che pretende quanto di più modesto (quanto a impegno mentale) ci sia, si vede che Panariello "fa" il reazionario, l'impolitico, quello che non capisce niente di politica, il babalone, senza nemmeno crederci del tutto. Sicché le masse capiscono a volo, e cercano la De Filippi, con i suoi casi umani e disumani. Chi vuol essere reazionario, capisce subito che non c'è partita.
L'Espresso, 18/11/2004
Buonanotte Cavaliere
Zot! Come in un fumetto il fulmine vendicatore dei sondaggi si abbatte sul Cavalier Silvio Berlusconi. Lo schianto di otto punti in meno per Forza Italia, non appena arriva la notizia che il taglio delle tasse è stato rinviato all'anno prossimo, ossia a mai più. Sommiamoli tanto per gradire agli otto punti perduti alle elezioni europee e la prima conclusione è desolante: il premier è in avanzato stato di decozione. Romano Prodi e la Gad stanno avanti di dieci punti. Il suo ministro Domenico Siniscalco si è appoggiato al Quirinale, ai poteri forti, alle banche, al governatore Fazio: ha fatto balenare al suo premier cifre fantomatiche, gli ha ripetuto in continuazione che si poteva fare una finanziaria «di rigore e di sviluppo», ed ecco il risultato. Straziante. Agghiacciante. Raccapricciante. Bambole, non c'è una lira. Al massimo due soldi per l'Irap, ma diffusi come un'elemosina, sicché Luca Cordero di Montezemolo può permettersi il sarcasmo: «Un balletto umiliante». E Piero Fassino, commentando i pochi euro delle detrazioni alle famiglie: «Se va bene è una pizza, se va meno bene un pacchetto di sigarette». I più cinici, nel partito del Capo, fischiettano: «Ahi Forza Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello», e sottolineano non tanto l'ascendenza dantesca dei versi, quanto l'aspetto casinistico e bordellesco della situazione. Cambiare il ministro dell'Economia non è consigliabile, anche se ha ciurlato nel manico. A chi risponde Siniscalco?, si chiede nevroticamente il Cavaliere. E a chi risponde il Ragioniere generale dello Stato Vittorio Grilli? Il sospetto è l'anticamera del fallimento. «Voglio vedere i conti della finanziaria, punto per punto e taglio per taglio». Vederli personalmente. È vero che l'occhio del padrone ingrassa il cavallo, ma è tardi, disastrosamente tardi. Manca niente alle elezioni regionali del 2005, un soffio alle politiche del 2006. E Berlusconi si sta disintegrando. Si disintegra il berlusconismo, fantastica bolla di euforia e di mediaticità, si sfalda il Contratto con gli italiani firmato davanti a Bruno Vespa, si deprimono gli elettori del centrodestra, si sgonfia il sogno alimentato da Mediaset. L'establishment economico ha già emesso il suo pollice verso: non è gradevole assistere agli sketch di un imprenditore che si è autoprestato alla politica e che al momento buono (vabbè, cattivo) non trova di meglio che dare la colpa agli alleati, al debito pubblico, alle politiche «insensate» di qualche decennio prima, all'11 settembre, a D'Alema e Amato. «Ci sono solo io che voglio ridurre le tasse», e dai. Che si rivolge alla Guardia di Finanza dicendo «sono più contento di essere io da voi di quanto non sarei se foste voi da me», e ribadendo la fiaba tremontista e anarco-liberista dello Stato «criminogeno» che rende morale evadere oltre la soglia etica del 33 per cento di tasse sul reddito. In altri tempi, Berlusconi avrebbe raccontato barzellette epocali, come quella, storica, che rappresenta una delle sue migliori interpretazioni. Suonano alla porta. «Chi è?». «I ladri». «Meno male, credevo fosse la Finanza». Ma il premier deve avere intuito che il momento non è favorevole alle storielle. La verifica sembra effettivamente "neverending", come il tour di Bob Dylan, con i protagonisti che trasformano continuamente sempre la stessa vecchia canzone. Il rimpasto è infinito e mai realizzato, ma continuamente ipotizzato o minacciato, con il ricatto a Marco Follini perché entri nel governo come vicepresidente, e la proposta a Gianfranco Fini come candidato a guidare la Farnesina. In proposito, si sussurra nelle stanze del ministero degli Esteri, andatevi a rivedere quello che Francesco Storace raccontò al "Giornale" nel dicembre 1994: «Un giorno Fini si avvicina a un gruppo di giapponesi e con i suoi modi sussiegosi li ricopre di insulti, sicuro che quelli non lo avrebbero capito: "Pidocchiosi, teste di cazzo, coglioni". Così, per ridere. Anche loro ridevano...» (per i filologi, l'episodio si trova documentato nel libro di Gian Antonio Stella "Tribù", e appare un viatico eccellente per la nomina a ministro degli Esteri di Fini, nonché come contributo ulteriore al "Farnesinian Style"). Ma la crisi estenuante di Berlusconi non è soltanto una questione di aneddoti. Ciò che è svanito è l'alone mitologico, l'aura imprenditorial-carismatica intorno al capo del Capo. Come si sa, la vicenda dell'Uomo di Arcore con l'élite economica italiana è stata sempre irta di difficoltà. L'establishment mise alla prova Berlusconi una prima volta nel 1994, a governo insediato, e fu l'Avvocato a invitare il Cavaliere nella sua residenza romana, insieme al meglio dell'industria nazionale. I Marzotto, i Merloni. Risultato: un verdetto senza appello, in cui il Gotha imprenditoriale stabilì che Berlusconi non sapeva tenere le posate a tavola, e mostrò il suo pollice verso, destinato a fare sentire i suoi effetti quando il capo del centrodestra tentò la prova di forza nell'autunno del suo governo, sfidando i sindacati sulle pensioni. D'altronde, proprio il rapporto fra Casa Agnelli e Berlusconi è sempre stato il termometro della relazione instabile tra i poteri forti e il Cavaliere. Per rileggere queste vicende molto alterne è utile il libro di Alberto e Giancarlo Mazzuca, "La Fiat: da Giovanni a Luca. Un secolo di storia sotto la dinastia Agnelli", pubblicato di recente da Baldini Castoldi Dalai: si può ricostruire così la diffidenza del Lingotto nel momento della inattesa e drammatica sconfitta di Carlo Callieri al vertice della Confindustria con l'elezione di Antonio D'Amato: «Hanno vinto i berluschini», secondo il commento a labbra tirate dell'Avvocato. Poi il via libera di Torino al secondo governo Berlusconi nonostante gli attacchi distruttivi dell'"Economist", «non siamo una Repubblica delle banane», e il successivo amarissimo pentimento di Gianni Agnelli al momento della liquidazione dell'inviato della real casa Renato Ruggiero: «Macché banane, siamo una Repubblica dei fichi d'India». Il sintomo centrale della malattia berlusconiana è proprio il rapporto con l'establishment economico. Finiti in archivio i trionfi, come l'exploit a Parma in vista delle elezioni del 2001, in cui si rivolse a 2 mila imprenditori entusiasti gridando al sodale D'Amato «il vostro programma è il mio programma!», e giurando su una crescita del 4 per cento. Dimenticato il "magic moment" scandito dalle dichiarazioni del governatore della Banca d'Italia secondo cui davanti all'Italia c'era «un miracolo possibile». Esaurite anche le dimostrazioni di muscolarismo, con le maniche arrotolate sui gomiti per mostrare il porco lavoro e la fatica esaltante di chi sta nella «trincea del lavoro». Adesso, anche nei santuari del potere economico, nei circoli ristretti nella "nuova classe" rappresentata dall'azionariato della Rcs, nel circuito bancario, i Tronchetti Provera, i Profumo, i Della Valle non nascondono la convinzione che «Berlusconi ha dato quello che poteva dare». Dal canto suo, dopo anni spesi nel tentare di mobilitare le folle sulla ripresa continuamente in arrivo, il "bagalun d'luster", secondo la definizione di Franco Cordero, l'imbonitore da fiera popolare sembra avere esaurito il repertorio, i dulcamara, gli elisir, le scatolette di lucido da scarpe. Ha lasciato cadere senza nessun sussulto morale il suo uomo forte, «il nostro centravanti di sfondamento», Giulio Tremonti, che adesso ha buon gioco nell'incenerire il suo doroteismo quotidiano, «il relativismo cedevole del giorno per giorno». Senza nemmeno accorgersi, per un accesso di viziosità politicante, che Tremonti non era soltanto un ministro: rappresentava la saldatura istituzionale con il popolo delle partite Iva, con quella piramide di lavoro autonomo che aveva creduto nelle promesse liberalizzatrici del Cavalier Libertà. Tolto lui, si affloscia il castello di carte del blocco sociale di centrodestra. Gli effetti della commedia berlusconiana sfidano il grottesco: preso in un balletto demoniaco, Silvio II sembra un attore che si rivolge in ogni direzione nella speranza ansiosa di trovare un appoggio o un conforto. Di fronte a una crisi essenzialmente, costitutivamente, ontologicamente politica, passano in secondo piano anche gli otto anni di condanna chiesti da Ilda Boccassini al processo Sme. Mentre i suoi sostenitori scuotono la testa, e mentre i ras territoriali come Gianfranco Micciché fanno la voce grossa, perché Forza Italia è un microfeudalesimo, una federazione di vassalli e valvassori ognuno dei quali può esercitare qualche minaccia, Berlusconi torna alle origini. Si consulta con Umberto Bossi, cercando un "idem sentire" e facendosi consigliare sulle scelte politiche da perseguire. Nel frattempo, in questa frenesia apparentemente senza scopo, sembra impersonare la tipica figura dell'imprenditore a cui il responsabile di settore ha nascosto fino all'ultimo il cattivo andamento delle vendite. L'azienda, insomma il governo, è rovinato: occorrerà abbattere il capitale sociale, ricorrere ad aumenti di capitale, alla finanza creativa, a qualsiasi cosa: quanto al miracolo italiano... Zot, un fulmine lo ha bruciato.
L'Espresso, 18/11/2004
A mezzanotte scocca il trash
A occhio e croce c'è troppa gente che investe o specula sul trash. Il programma di Italia Uno "Cronache marziane" (in onda a mezzanotte il giovedì e il venerdì) è il tipico esempio di trasmissione a due facce. La prima faccia la vede chi dice: tv spazzatura. La seconda, quelli che intuiscono: roba cult. Si sa com'è il trash: è l'immondizia vista da gente che sostiene di divertirsi con l'immondizia. Col risultato che c'è sempre un che di artefatto. Intessuto a una cifra gay, come quella garantita nel caso da Fabio Canino, ex Iena e "volto di Gay tv". Ci si diverte a vedere l'ultra-trash di "Cronache marziane"? Bah, beh, boh. Se uno si diverte all'apparire di Roberto Da Crema, "il Baffo delle televendite", visto in una specie di balletto con la pornostar Brigitta Bulgari e con Eva Robin's, allora può anche divertirsi con il Barnum colorato di Fabio Canino: una folla di drag queen, di trans, di squinternet, di esuli del "Grande Fratello", e se gli piace il quiz "Chi vuol essere culattone", gioco in onore del ministro Tremaglia, allora si diverte. Si tratta di avanguardia televisiva, nel senso che il programma prende pezzi di televisione, li frulla, li monta, li omogeneizza, fa una maionese che non impazzisce mai perché è pazza a priori. Ma per godersi lo show sino in fondo bisogna essere dei maniaci di tv, di gossip, del démi-monde immortalato ogni giorno da Dagospia. Televisione dell'eccesso, rischia di essere sempre insufficiente: ci si diverte un sacco a vedere i freaks, ma dopo un po' stufano. La donna baffuta la si trova ormai dappertutto. "Blob" è stato inventato da Enrico Ghezzi e Marco Giusti anni fa. Fabio Fazio ha organizzato una carriera sul godimento feticistico della spazzatura consumistica d'antan. Insomma, Canino e la sua banda mangiano televisione, divorano televisione, digeriscono televisione. Il galateo contemporaneo impone di apprezzare le venature nichilistiche del trash, comandando di sorridere alle figurine "di merda" che affollano il teleschermo. E vabbé, sorridiamo, anche se è mezzanotte. Però lo sappiamo che il giochetto è risaputo, che la risatina è atteggiata, che l'estetica gay alla fine può stuccare, che la provocazione continua induce allo sbadiglio. Per cui, vista l'ennesima trasgressione, l'ultimo giochino a sfondo sexy, può venire voglia di dire buonanotte cari, arrivederci alla prossima.
L'Espresso, 11/11/2004
IL CAOS DELLE LIBERTÀ
I deputati più ironici del centro-sinistra incrociano in Transatlantico qualche ministro o facente funzione, un Gasparri, un Matteoli o un Urso, e strizzano amichevolmente l'occhietto: «E fategliela questa riforma fiscale al Cavaliere, siate buoni». I gaddisti (da Gad, Grande alleanza democratica) più incattiviti, gente evidentemente maligna, psicologie vendicative, fanno con le dita lo storico gesto da commedia dell'arte del Pupone Totti alla fine della famosa partita con la Juve: sette pappine a zero, zitti e filare a casa. Qualcun altro motteggia facendo il gesto delle forbici o della spada: Zac, Zac, Zaccaria. Come il segno di Zorro nel centro di Milano. Oppure Dan Dan, D'Antoni. Campane a festa nel regno di Napoli. Quelli del centro-destra, invece. Già quelli del centro-destra. Ma esiste ancora il centro-destra, in Italia? Oppure si è già sciolto, liquefatto, vaporizzato, e la stessa Casa delle libertà si sta afflosciando come un edificio di marzapane imbibito di sambuca? Abbozzano, i casinisti della Libertà. Si stringono nelle spalle. Leggono Giuliano Ferrara per sentirsi rimproverare l'inconsistenza del governo e per sentirsi intimamente ancora peggio. «Dateglielo, questo taglio delle tasse». Ma non è mica così semplice, tagliare le tasse. Finalmente il supply-sider Berlusconi ha gettato la maschera e ha confessato la verità più ovvia, normale, apodittica: secondo cui le tasse bisogna ridurle ai ricchi, perché sono i ricchi che alimentano il circuito economico. Se gli si dà qualche euro lo buttano subito dentro l'economia. Non come i poveri, poveretti. Perché i poveri, lo ricorda sarcasticamente Enrico Letta conversando con il suo complice Pier Luigi Bersani, secondo la concezione berlusconiana «mangiano cibi da poveri, si vestono da poveri, abitano in case da poveri: sono poveri, è inutile cercare di aiutarli, è meglio nasconderli». Per la verità la battuta è di Quino, il classico autore di Mafalda: ma se il capo del governo dimostra di condividere questo pensiero, le cose diventano subito più chiare. «Non è un peccato guadagnare molto», ha dichiarato infatti il Cavaliere dopo che "L'espresso" aveva mostrato il fenomenale vantaggio fiscale della riforma a tre aliquote per la Silvio Berlusconi e fam. (nel senso di famiglia), e quando si è accorto che le spiegazioni di Paolino Bonaiuti, secondo cui il "Pres. del Cons." avrebbe devoluto in beneficenza il superbonus tributario, nonostante la buona volontà del portavoce, cadevano nel vuoto. O nel ridicolo. Commento filosofico dell'opposizione: «E chi se ne frega dove mette i suoi soldi il Cavaliere: che li dia ai poveri o che li spenda in bagordi, che li regali agli immigrati o che li doni alla fondazione degli idraulici è la stessa cosa, non è una questione che riguardi le aliquote». Eh già, lo Stato non è una faccenda discrezionale. Ma il Pres. del Cons. ha esternato dicendo che lui non ha il senso dello Stato, bensì il senso dei cittadini. Che cosa vorrà dire? Vedremo. Intanto è caduta la maschera di Domenico Siniscalco, che di fronte alle pretese di Berlusconi ha cercato di ripetere una volta di più il celebre "Mantra del tecnico": «La politica dica che cosa vuole e io provo a trovare la soluzione». Ma in questa occasione nel Consiglio dei ministri anche Re Silvio si è scocciato, ha sistemato il bottone interno del doppiopetto con la solita smorfia che fa quando è nervoso, e gli ha aperto il libro, squadernando il precetto: «Domenico, tu non puoi fare il ministro-burocrate: c'è una responsabilità politica e te la devi prendere». Conclusione parziale numero uno: bisogna dare i soldi ai ricchi, ma non troppi altrimenti Gianfranco Fini organizza un programma di governo alternativo, come ha accennato in una clamorosa quanto intempestiva intervista al "Corriere della Sera" (rilasciata mentre Berlusconi diceva «tutto va ben») e se è il caso introduce nel nome del popolo un'aliquota di solidarietà del 3 per cento per i redditi sopra i 100 mila euro. Conclusione parziale numero due, raccolta fra le stanze della Confindustria: «Ormai è chiaro che taglio delle tasse significa che pagheremo più tasse». Si era appena conclusa la dolorosa e fastidiosa vicenda di Rocco Buttiglione, ma evidentemente non ci può essere pace a destra. Oltretutto la bocciatura di Buttiglione si è risolta in un autogol spaventoso, con l'interim della Commissione a Romano Prodi, il dimezzamento politico e morale del povero Barroso, ridotto a una barzelletta, e una figuraccia disarmante in Europa, quell'Europa in cui dovevamo «contare di più», secondo il fantasioso motto del «non- euroentusiasta» Giulio Tremonti. Con il risultato che l'abbattimento di Buttiglione ha dato il via a un complicatissimo risiko ministeriale, riaprendo l'odiata (da Berlusconi) verifica, con la solita storia di rimpasti che non rimpastano mai, di soluzioni che non riescono a quagliare. E allora? Frattini in Europa e Fini agli Esteri, per esempio. Ma la Farnesina come accoglierebbe Gianfranco e il suo entourage post-missino, capeggiato da Salvo Sottile? E lui come se la caverebbe all'estero, come va con le lingue, con le abitudini, gli stili, i galatei diplomatici, il "Farnesinian style"? In Israele, ai tempi del «fascismo male assoluto», il capo di An non aveva dato il massimo, con quel giubbottino scamosciato da bodyguard in giornata libera e le sigarettine fumate passeggiando davanti all'albergo in attesa dell'auto. E poi, per quale motivo premiare il capo di An, dopo l'uscita disastrosa e inaspettata «ci vuole un nuovo programma di governo»? Il Pres. del Cons. è furibondo con il suo vicepremier, ma bisogna dire che l'incacchiatura di Berlusconi è anche il frutto di un gioco dei quattro cantoni in cui non si riesce mai a infilare tutti nell'angolo giusto. Se riesce quasi a incastrare Follini intimandogli di entrare nel governo come vicepremier salta su Tabacci che chiede in cambio la proporzionale. Se si guadagna il consenso di Bossi, che dall'ospedale manda a dire: «Non possiamo abbandonare Berlusconi perché con la devolution siamo entrati nella storia», deve poi fronteggiare l'idea, condivisa dai poteri forti a Milano e a Roma, che la riforma costituzionale di Calderoli sia una stupidaggine; e in prospettiva si profila il fantasma del referendum confermativo, su cui anche i suoi consiglieri sono scettici: «Silvio, abbiamo incassato il sette a zero nelle suppletive perché i nostri non vanno a votare; guarda che non andranno alle urne neanche per il referendum sulla riforma costituzionale, e se ci andranno, tranne i leghisti, voteranno tutti contro». Totale: la riforma della giustizia non va avanti per assenza del numero legale (e il processo di Cogne si ritorce con divertente simmetria contro l'avvocato Taormina), la Finanziaria è un morto che cammina, e a quanto si legge perfino i repubblicani del centro-destra hanno fatto la vocina grossa e reclamato un ministero economico. "Il Riformista" incenerisce per interposta persona lo stile del governo della Casa delle libertà a causa di Lulù. No, non è la labrador di Massimo D'Alema: «Lulù è Luana Bisconti, giovane fanciulla che un ministro del governo Berlusconi avrebbe adottato come figlia... In pratica, si ripete la stessa storia di Baldapadre e di sua figlia Francesca D'Auria, che nella Rai ai tempi del centro-destra ha dato un significativo impulso alla filantropia, per la serie: io uomo buono, tu donna bona, io ti faccio apparire, tu mi dai tanto amore filiale, mi basta questo. Adesso, quindi, l'impulso filantropico si sarebbe impadronito di un ministro berlusconiano che non citiamo (anche perché la moglie sarebbe all'oscuro dell'adozione) e così la brava Luana è riuscita ad avere un programma tutto suo...». Per gli interessati, il programma di Luana, ex pescivendola secondo le «fonti autorevoli» di via Teulada identificate dal quotidiano di Antonio Polito, si intitola "Diglielo in faccia". Sembrerebbe il basso impero, ma da tutto questo si capisce che il programma conta. Magari ridimensionato come vuole Fini, ma serve. I poteri sempre cosiddetti forti, soprattutto quelli milanesi, area Rcs, hanno fatto conoscere il loro giudizio allo staff di direzione del "Corriere della Sera": cari amici, noi siamo convinti che questa esperienza politica, vale a dire il governo Berlusconi, ha dato tutto ciò che poteva dare. Non era molto, ma ha esaurito il suo compito. Adesso bisognerebbe soltanto dirlo a Berlusconi, il quale invece insiste nel promettere la realizzazione integrale del programma e del Contratto con gli italiani. Intanto, dati economici sempre peggiori si accumulano. Caduta dei consumi, crollo della spesa per l'intrattenimento, abbandono dei ristoranti, stadi deserti. Se le cose stanno così, anche il centro-sinistra avrà il suo daffare, a mettere insieme - a adottare, diciamolo pure - un programma di salvataggio.
L'Espresso, 04/11/2004
L’Ulivo ha 7 vite
L'euforia è pericolosa. Anche se il leader annunciato, designato ma non ancora "primarizzato", Romano Prodi, ha lanciato il messaggio che è cominciata un'avventura meravigliosa, lo staff e l'entourage stanno prudenti. Certo, fa piuttosto impressione il sette a zero delle elezioni suppletive, e che un uomo odiato dal centrodestra come Roberto Zaccaria, l'autore di una campagna televisiva "criminale" contro la Cdl, espugni il collegio elettorale di Umberto Bossi. Champagne e un pensiero a Enzo Biagi: prosit. Tuttavia i sofisti dell'ambiente prodiano, abituati dall'esperienza a spaccare il capello in sedici, guardano i segnali e ne traggono auspici, se non contrastanti, perlomeno variegati. Positivi, se è vero che l'avere sbancato le suppletive conferma una tendenza ormai prolungata («Sono tre anni che godo ogni volta che si vota», come ha detto Piero Fassino in pieno orgasmo da schede uninominali). Più incerti, forse più contraddittori, comunque meno facilmente decifrabili appaiono invece i vaticini se si guarda alle condizioni politiche generali. Innanzitutto, negli ambienti vicinissimi a Prodi si osserva con un certo sospetto alle modalità con cui il "cappotto autunnale" è stato presentato dalla stampa e commentato da molti opinionisti. Quasi tutti i titoli facevano riferimento all'Ulivo, mettendo sullo sfondo la Gad, Grande alleanza democratica: «Evidentemente l'Ulivo ha ancora una risonanza emotiva, una qualità di sintesi immediata che la Gad non possiede ancora», dice Giulio Santagata, l'uomo che sta facendo i preparativi per la lunga campagna prodiana per il 2006. E aggiunge: «Dobbiamo stare attenti a non commettere l'errore delle europee, quando ci siamo praticamente dimenticati di valorizzare il simbolo "Uniti nell'Ulivo", con la conseguenza che gli elettori hanno dovuto compiere uno sforzo micidiale per trovarlo fra gli altri ventotto contrassegni, e un paio di punti probabilmente li abbiamo persi proprio per questo». Fra gli aspetti positivi, la crisi interna del centro-destra, che a questo punto sembrerebbe irreversibile. Come ricordano i sondaggisti, le decisioni di voto (e di non voto) sono il frutto di lunghi assestamenti. In questa fase si ha la sensazione che il giudizio degli elettori sulla Casa delle libertà sia particolarmente aspro e non scalfibile da trovate dell'ultima ora. Renato Mannheimer ha rilevato che la maggioranza degli italiani non crede al progetto di Silvio Berlusconi relativo al taglio delle tasse. Anche l'Italia di centro-destra non ha fiducia, e questo vuol dire che la coalizione berlusconiana ha perso credibilità. In un incontro riservato svoltosi a Bologna in cui i principali collaboratori di Prodi hanno fatto il punto sulla situazione politica, l'analisi ha messo in luce un elemento particolare. La discussione è cominciata prendendo spunto dall'articolo di Giovanni Sartori sul "Corriere della Sera", con cui il capofila della scienza politica italiana ha criticato l'atteggiamento del centro-sinistra: le elezioni si vincono al centro, era la tesi di Sartori, che citava le classiche analisi di Anthony Downs, mentre si sta diffondendo una "dottrinuccia" secondo cui conta l'intensità della mobilitazione e il recupero dell'astensionismo più che la capacità di strappare voti alla coalizione avversaria. In realtà, si è detto, la Grande alleanza deve fare uno sforzo straordinario per riportare all'ovile quei ceti e quei voti che nel 2001 si sono fatti attrarre dalle suggestioni berlusconiane, nella speranza che «il banchetto dei ricchi facesse cadere anche copiose briciole sul pavimento per i poveri». Se c'è una possibilità di smobilizzare l'ingessatura dei due schieramenti, di favorire una traslazione di voti fra destra e sinistra, conviene puntare su quel 38 per cento di classe operaia che ha votato per Forza Italia, e su quel 59 che tre anni fa ha scelto la Cdl. C'è un'Italia che oggi è in sofferenza, che vede fuggire dalle tasche i soldi per la benzina, che deve rifugiarsi negli hard di?scount per limitare i costi. Nelle grandi città ci sono segnali, ancora limitati ma avvertibili, che nella ricerca del basso prezzo il proletariato urbano comincia a rivolgersi ai negozi per i maghrebini. «Noi non abbiamo nessuna intenzione di puntare al tanto peggio tanto meglio», commenta Enrico Letta, «ma mi sembra evidente che si stanno fronteggiando due Italie: una che sente il peso del ristagno e dell'inflazione; e un'altra Italia che invece ha massimizzato i vantaggi del passaggio all'euro scaricando sui consumatori i costi o semplicemente speculando allegramente al rialzo». Sotto questo punto di vista, la politica di Berlusconi non sembra ottenere risultati significativi: il premier è superconcentrato su una soluzione "bushista", tagliare le tasse a tutti i costi, nella convinzione che questo genererebbe contemporaneamente ripresa economica e consenso politico. In realtà, guardando i dati europei, il nucleo di lavoro di Prodi si è convinto che il punto più alto della ripresa potrebbe essere già alle nostre spalle: e dunque in questo momento anche tutti i calcoli di Domenico Siniscalco, fondati su una crescita del Pil al 2,1 per cento, potrebbero essere già da rivedere. L'intero quadro delle compatibilità sarebbe già a rischio, anche senza attendere gli ukase di cui è prodiga l'Unione europea. Grande è la confusione sotto il cielo, con quel che segue, dunque. Eppure l'aspetto più delicato riguarda come al solito l'evoluzione dell'alleanza di centro-sinistra. Il ritorno di "Romano" ha dato un contributo positivo all'umore della coalizione, in parte perché il suo addio alla Commissione a Bruxelles è stato salutato da applausi convinti e bipartisan, che hanno dissolto le critiche precedenti, spesso pretestuose, e restituito a Prodi un'allure autenticamente europea; e in parte la semplice presenza in Italia è servita a ridimensionare tutte le fumosità neocentriste e neocomplottiste. Ciò ha consentito a Fassino di mettersi a lavorare per il congresso, senza il timore di manovre pericolose in corso. Il Professore è talmente sicuro di sé che si permette perfino di civettare sul suo destino politico, sollevando dubbi, giocando narcisisticamente sul futuro, commentano i suoi collaboratori. Eppure qualche spiffero gelido c'è, in questo avvio di autunno atmosfericamente caldo. Vengono tenute sotto osservazione le mosse di Fausto Bertinotti e non solo per le proposte fiscali che potrebbe partorire. Due settimane fa, dopo un convegno a inviti tenutosi nella biblioteca del Mulino, un imprenditore bolognese si è intrattenuto qualche istante sotto i portici di Strada Maggiore: «Stai attento, Romano, che in Confindustria quando si parla di Bertinotti si capiscono solo due cose: imposta patrimoniale e ritorno delle 35 ore». Prodi annuiva pensosamente. Ma l'attenzione dei suoi analisti di riferimento, e in particolare di Arturo Parisi, è attratta dal movimentismo politico di Bertinotti. Con il lancio, un po' estemporaneo per la verità, di un nuovo soggetto politico capace di raccogliere tutta la sinistra al di là dei Ds, Bertinotti ha scompaginato qualche carta. Perché l'intuizione del segretario di Rifondazione comunista in sé è tutt'altro che peregrina. Le elezioni europee hanno dimostrato che esiste un'area esterna alla sinistra moderata, valutabile in un 12- 13 per cento. Questo mette in mano a Bertinotti due carte: la prima è quella più immediata, schierarsi contro Prodi alle primarie, e fare il pieno del voto pacifista, oltranzista, della sinistra radicale, degli insoddisfatti a prescindere. Il comandante Fausto ha svolto questa ipotesi con il sorriso sulle labbra, «una bella iniezione di democrazia», ma il pensiero che possa mettersi in tasca una quota importante del consenso di sinistra, un 20-25 per cento, è raccapricciante per l'establishment diessino. Soprattutto se a questa si affianca e si aggiunge l'altra carta: vale a dire il progetto del partito della sinistra alternativa, capace di attrarre verdi, Comunisti italiani, occhettiani, e magari anche qualche frangia del vecchio Correntone. Anche questa è un'ipotesi orribile per i diessini, ma in prospettiva è preoccupante anche per Prodi. Tanta fatica per tirare dentro Bertinotti, per costruire la coalizione larga, per garantirsi un futuro non conflittuale. Ed ecco che sulla parete che il centro-sinistra deve scalare si proietta l'ombra di un altro partito, e quindi di un'altra, più complessa, trattativa. Per il momento ci si gode il sette a zero, e la firma della Costituzione a Roma. Poi il lavoro riprende, e il messaggio è chiaro. Ragazzi, non perdiamo colpi: finora ci siamo occupati di faccende di condominio, d'ora in avanti dobbiamo pensare all'appuntamento decisivo. Senza nasconderci che potremmo trovarci davanti un'Italia disastrata. E che la fatica del 1996 non sarà nulla rispetto a quella in arrivo.
L'Espresso, 04/11/2004
Se la cultura diventa un cult
C'è una vecchia convinzione che si replica stanca e infallibile in ogni discussione sulla tv, e cioè che nella televisione del futuro privatizzato il privatizzabile, dovrà comunque permanere un'isola di servizio pubblico, una rete esente dal mercato. Per fare che cosa, boh. Il satellitare e il digitale consentono di coprire ogni nicchia di pubblico. In realtà questo è uno dei campi in cui l'offerta crea la domanda. Su Sky, con semplici pressioni sui tasti del telecomando si possono acchiappare decine di documentari, biografie, approfondimenti, "stories and history". Il canale Cult Network, diretto da Massimiliano "Max" Fasoli, dissemina la propria programmazione di preziosità d'archivio (visti ad esempio eccellenti reliquie sui Rolling Stones), ma non solo. Nei prossimi quattro mesi, a partire da novembre comincia "Fa la differenza" (speriamo ci mettano l'apostrofo, se è un imperativo) un progetto leggermente radicale, che andrà seguito anche per capire se la tv movimentista ha un senso e un seguito. Si tratta di una programmazione tematica, interamente dedicata alle culture del Sud del mondo, largamente comprensiva di programmi autoprodotti, e di 20 film realizzati dai principali registi della cinematografia asiatica, africana e latinoamericana. L'Africa, Cuba, l'America del Sud, le rotte asiatiche: sembra un lungo festival multietnico, di qui a febbraio, su cui forse si potrà misurare se esiste una coincidenza possibile fra una cultura "altra", diversa dal flusso televisivo comune, e un qualche pubblico. Ovvero se coloro che alla tv chiedono letteratura, antropologia, il post-Malinowski, non-fiction "alta", musica dell'altrove, cinematografia dell'altronde, un docu inedito sul Rwanda, se insomma tutti quelli che nelle inchieste di mercato assillano il marketing reclamando inchieste, scienza, attenzione alle etnie, mappe degli indizi culturali, sono gente credibile o dei volgari infingardi. Detto questo, vale la pena di seguire il progetto di Cult Network, anche per verificare se la sua cifra a suo modo "estrema", ossia la valorizzazione di tratti radicali di specificità in ogni manifestazione culturale o spettacolare, che connota stilisticamente il canale, rappresenti una caratteristica rilevata dal, e magari in sintonia con un, pubblico. Noi lo speriamo, anche perché il servizio pubblico, con le sue pedagogie punitive, ci ha già seviziato tutti abbastanza.
L'Espresso, 28/10/2004
Siniscalco l’economista equilibrista
Siniscaltro, perché ha tentato di imbrogliare le carte al governo e a Silvio Berlusconi in persona. Siniscalcolo, in quanto ha messo i conti in tavola e sui conti non si imbroglia più. Sinistralcio, perché ha cercato di portare il taglio delle tasse nel collegato alla legge finanziaria, per far capire di chi è eventualmente la responsabilità dello sfondamento. Finiscalco, visto che avrebbe trovato un legame collegiale di ferro con il leader di Alleanza nazionale. Diniscalco, perché all'occorrenza, dovesse crollare tutto, nessuno meglio di lui potrebbe interpretare la parte del tecnico che assicura la stabilità nazionale. Insomma, le molteplici personalità del ministro dell'Economia sono messe davanti a una prova mica male. In luglio aveva esposto il suo metodo: tocca al tecnico sciorinare i numeri, e al governo fare le scelte. Come no. I numeri sono stati fatti. Erano catastrofici, al punto che il "Wall Street Journal" aveva giudicato il suo compito una «mission impossible». Visto il Dpef, un analista come Paolo Onofri ha scritto: «Si sapeva che il disegno di politica economica del governo di centro-destra era palesemente inattuabile», e quindi «la sensazione diffusa è che sia troppo tardi». Troppo tardi vuol dire che tutte le previsioni infauste emesse prima dell'estate potrebbero realizzarsi. Il governatore Fazio salva Siniscalco ma infierisce su Tremonti, dicendo che la situazione è grave, bradisismica verso il tracollo. La competitività italiana finisce al 47° posto al mondo, dietro il Botswana. Detto questo, se in precedenza si era illuso, ora Siniscalco sa che Berlusconi non solo vuole, bensì pretende la riforma fiscale. Meno tasse per tutti era il suo slogan elettorale nella campagna del 2001, e taglio dev'essere. Il capo del governo è convinto che la rimodulazione delle aliquote è la sola risorsa, l'arma letale per rivincere le elezioni nel 2006, e quindi non ci sono né se né ma: bisogna tagliare. La visione berlusconiana si basa sulla convinzione che con due soldi in più distribuiti ai contribuenti, gli italiani dimenticheranno il fallimento del suo governo, le promesse mancate, gli assurdi tassi di crescita previsti da Tremonti nei suoi primi Dpef, il siluramento del superministro, e non capiranno neppure che il taglio delle tasse implicherà un aumento delle tasse locali, Ici in testa, con una specie di patrimoniale clandestina. Pochi, benedetti e subito, ragiona Berlusconi; magari un po' di più ai ceti affluenti, che hanno una rilevanza statistica modesta ma sono capaci di imporre la tendenza. Formate le convinzioni, l'intendenza seguirà. E Siniscalco farà il piacere di adeguarsi, anche se adeguarsi non è così comodo: il ministro dell'Economia, professore in aspettativa di economia politica all'Università di Torino, figura eminente di quel network modernista che raccoglie ambientalisti come Ermete Realacci e Chicco Testa, e che in passato ha raccolto a Milano il meglio dell'intellighenzia economica di centro-sinistra, il potere bancario illuminato impersonato da Alessandro Profumo, la mondanità intelligente del côté rutelliano, una sola cosa non può permettersi: perdere la faccia di fronte al suo gruppo dei pari, ossia alla comunità degli economisti. Aveva esordito con un messaggio rassicurante: «Tranquillità, sobrietà, credibilità». Operazione verità sui conti, apprezzata perfino dal nemico storico di Tremonti, Vincenzo Visco, con l'assicurazione che i suoi numeri erano indubitabili, onesti, esatti al centesimo, «anche Tremonti avrebbe presentato lo stesso quadro». Per far digerire agli uomini del governo la terra desolata davanti a loro, aveva illustrato un gradevole programma di crescita e di ritorno alla competitività. Ma qui cominciano gli inconvenienti: la crescita al 2,1 per cento del Pil individuata come media fra le previsioni di Confindustria, Prometeia, Commissione europea, Fondo monetario, deve scontare l'exploit del prezzo del petrolio. Da riunioni riservate della Confindustria filtra l'ipotesi di un ridimensionamento sensibile, fino all'1,3 per cento. Dentro la Banca d'Italia sono meno pessimisti ma alcune fonti fanno capire che il tasso di crescita ipotizzato dal ministro possa essere irraggiungibile, con questi chiari di barile. Sicché Siniscalco deve passare alla difensiva. Per consentire il taglio fiscale che Berlusconi reclama, deve cercare tagli di spesa e maggiori introiti. Detto fatto: ma il tetto del 2 per cento sulla spesa, mutuato dal metodo del laburista inglese Gordon Brown, rischia di essere un valore solo nominale, dal momento che le modalità della spesa pubblica sono agganciate a specifiche norme di legge, e dunque occorrerebbe indicare tutte le leggi da cambiare per ottenere quel dato. Senza calcolare che il contratto dell'impiego pubblico è già stato sottratto al vincolo, come vogliono gli interessi di An, e l'assalto alla diligenza in aula potrebbe avere effetti deleteri, aprendo un effetto slavina. E fossero solo qui, i problemi. Per rastrellare i soldi del taglio fiscale, Siniscalco aveva previsto una serie di misure di "manutenzione dell'imponibile", dall'aggiornamento degli studi di settore alla ridefinizione delle tasse sulle rendite finanziarie. Ancora poche ore prima di varare la nuova curva delle aliquote, aveva riunito i collaboratori ordinando che i 6,5 miliardi di euro necessari per l'abbattimento fossero reperiti con tagli reali alla spesa pubblica: «Voglio che sulle tasse ci sia una copertura solidissima: tutti gli occhi in Europa saranno proprio sulla copertura». Per la verità, Berlusconi aveva fatto gli occhi cattivi su alcuni provvedimenti che minacciavano di colpire proprio l'elettorato di Forza Italia e della Casa delle libertà. A un certo punto si era avuta la sensazione che il governo, arrivato alla canna del gas, fosse pronto a fare ciò che fanno i regimi in via di fallimento, cioè vendicarsi sui propri sostenitori. Commercianti, piccoli imprenditori, popolo delle partite Iva, rentier, possidenti. Era dovuto intervenire personalmente il premier, per indurre Siniscalco a una maggiore elasticità politica. Anzi, per qualche ora si era diffusa persino la voce, maligna, perfida, una manovra teleguidata da vicino o da lontano, che il ministro dell'Economia fosse giunto a minacciare le dimissioni. Con il che finisce per il momento la novela di Siniscalco, in attesa della prossima puntata. Perché in realtà la Finanziaria nessuno sa che cosa sia. Viene scoperta giorno per giorno in un poker dove nessuno conosce bene le carte cambiate. Aggrappato con tutta la sua forza alla propria dignità di economista, il ministro dell'Economia compie sforzi sovrumani affinché non arrivi un giudizio distruttivo da parte di Giavazzi, o di Salvati, di Penati, di Spaventa. Lo hanno consolato le parole di Geminello Alvi sul "Corriere Economia", secondo cui la manovra approvata dal Consiglio dei ministri «protegge gli statali, tassa gli autonomi, riduce i sussidi alle imprese e non può dirsi una Finanziaria per i ricchi». Ma non basta: prendendosi la successione di Tremonti, Siniscalco ha compiuto una scommessa altissima su se stesso. Paradossalmente, ma non troppo, il suo primo obiettivo non consiste tanto nel quadrare i conti dissestati dal centro- destra, ma nel salvare la propria credibilità pubblica e professionale. Manovra vuota, dice la Confindustria. Manovra restrittiva, sottolinea Luca Cordero di Montezemolo. Manovra semivuota, echeggia nelle stanze governate da Antonio Fazio (anche se il governatore si tiene in continuo contatto con il ministro). E Siniscalco non ha un paracadute politico. Può guadagnare tempo, mentre Berlusconi gli ordina di fare anche i giochi di prestigio per consentire alla Casa delle libertà di rivincere le elezioni. È così abile, il super-Domenico, che può giostrare ancora qualche mese. Ma alla fine sarà difficile che ci siano due vincitori. O vince lui, e il rigore assomiglia in qualche modo al rigore, oppure vince Berlusconi, e i conti pubblici sono una variabile dipendente dall'interesse elettorale. A occhio, anche la sorte di Siniscalco è incerta: perché sopravvivere alla dinamica dei conti pubblici e agli imperativi del Cavaliere è un esercizio di equilibrismo probabilmente superiore anche alle straordinarie doti acrobatiche del ministro dell'Economia. A meno che, si sussurra nei palazzi del potere, non riesca a Siniscalco ciò che non era riuscito a Tremonti: ovvero lo sfondamento, concordato con i tedeschi, del Patto di stabilità, con l'esclusione dai conti pubblici della spesa per investimenti. "Golden rule", si chiama in gergo. A quel punto il gioco di prestigio sarebbe riuscito, con un'eleganza europea inoppugnabile. Berlusconi potrebbe governare in deficit l'ultimo tratto di legislatura, e l'incubo del default finanziario trascolorerebbe nell'incubo della sconfitta per il centro-sinistra. Con l'ennesima ironia del professor Domenico, uomo di centro-sinistra, che salvando la faccia salverebbe la vita politica del Cavaliere.
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