L’Espresso
L'Espresso, 28/10/2004
Sull’isola non c’è più religione
Basta un po' di zapping per incrociare la seconda edizione dell'"Isola dei famosi" (su Raidue e Sky) e chiedersi perché tanti semi-vip accettino di partecipare a questo festival del sadismo nazionale. Ci guadagnano poco: dopo la fiammata di popolarità, i protagonisti della prima edizione sono riprecipitati nel semi-anonimato. L'eroe, il selvaggio, il disumano protagonista dell'anno scorso, Adriano Pappalardo, è riuscito a ottenere una comparsata a Sanremo, con una canzone così brutta da far dimenticare si teme per sempre i suoi meriti di autore d'avanguardia (ebbene sì, non c'è solo "Ricominciamo": prendere nota della collaborazione con Panella e la supervisione di Battisti in "Oh! Era ora"). Quest'anno "L'isola" ha vissuto alcuni momenti epici a causa di una crisi di dissenteria e di una rissa fra donne, ma l'acme della di?scussione è stato raggiunto sulla partecipazione di don Antonio Mazzi alle serate in studio con Simona Ventura. In sé, don Mazzi è un personaggio adattissimo al programma. Una volta, in una qualche "Domenica In", chiese a Mara Venier se non le capitasse mai di augurare una crisi di emorroidi a qualcuno antipatico. Vale a dire che il personaggio c'è, adeguato alla trasmissione. Mazzi è un prete democratico, di larghe vedute: non si dev'essere posto il minimo dubbio sull'opportunità di fare il prete ospite in un programma come "L'isola". Poi una qualche autorità ecclesiastica deve essere intervenuta, perché purtroppo nelle sedi cattoliche apostoliche romane non sono ancora arrivati a conquistare la modernità, e messo alle strette anche Rocco Buttiglione confesserebbe che apprezza di più "La monaca di Monza" che non il "Grande Fratello"; e quindi don Mazzi è stato incenerito da una bolla sub- papale, così impara a fare il mondano nei reality. Sicché ai grandi protagonisti dell'"Isola", da Kabir Bedi a quell'Ana Laura Ribas che non ha avuto scrupoli nel dichiarare «sono davanti all'ultima occasione della vita», rischia di mancare un contributo spirituale autentico. Si può sperare in quello di Massimo Caputi, avvertendolo però che sull'"Isola" non c'è confine tra chi è dentro e chi fuori, e il conduttore di oggi può essere il recluso di domani. Sicché anche don Mazzi potrà essere un protagonista, la prossima volta. Si spera con il viatico di don Buttiglione.
L'Espresso, 21/10/2004
Quei politici ministri per caso
Lunedì 11 ottobre, il ministro dell'Ambiente Altero Matteoli è in collegamento con il programma "Nove in punto", condotto da Giuseppe Cruciani su Radio 24. La discussione verte sull'ipotesi del superbollo sui cosiddetti Suv, cioè i fuoristrada, i gipponi, i giganti 4x4. Bello come il sole ottobrino, il ministro dichiara che qualsiasi ipotesi in materia è prematura, che occorrerà studiare gli ingombri, i consumi, i flussi di traffico, il colore delle auto, la fisionomia del proprietario e "quant'altro". Per poi concludere che il problema non sono le dimensioni delle auto, ma le emissioni. Bisogna ridurre le emissioni, dice con aria ispirata il ministro, rinnovare il parco automobilistico nazionale, magari fare come in Germania, «dove le vetture che raggiungono i dieci anni di vita non possono più circolare». A questo punto viene data la parola a un esperto, il direttore di "Quattroruote" Mauro Tedeschini, il quale replica: «Non so dove il ministro Matteoli abbia tratto questa notizia, perché a noi non risulta affatto che in Germania ci sia una norma del genere». A quanto pare, la disposizione non esiste, e ricerche accurate dimostrano che i tedeschi non hanno mai neanche presentato una proposta legislativa in questo senso. Quindi con ogni probabilità il ministro parlava di realtà a lui sconosciute, e di fronte a queste chiacchiere raccolte a cena o in un caffè, per ridurre le emissioni, non è possibile altro che ridurre l'emissione di un sospiro. Matteoli è in buona compagnia, perché come ha raccontato Gian Antonio Stella, un altro ministro della Casa delle libertà, il colto liberista Antonio Marzano, preso alla sprovvista dall'introduzione nella Finanziaria della "shadow toll", ovvero il pedaggio-ombra sulle statali, senza accorgersi che si trattava di una partita di giro (cessione delle strade alla società Infrastrutture e pagamento di un canone d'affitto), insomma un pedaggio virtuale come il governo attuale, ha fatto subito presente che si poteva pensare a forme di abbonamento per gli utenti abituali. Ancora: la sera di martedì 5 ottobre, nel programma "Ballarò", si è assistito a una bellissima lite fra l'economista di Forza Italia e parlamentare europeo Renato Brunetta e il vicepresidente della Confindustria, il torinese Andrea Pininfarina. L'ex socialista Brunetta ha attaccato gli industriali italiani con una veemenza insolita per l'uomo di un establishment che dovrebbe rappresentare il consiglio d'amministrazione della borghesia piazzato ai vertici dello Stato. Voi industriali, ha detto Brunetta con l'aria più ironica del mondo, e via via inclinando al sarcasmo, siete i soliti: volete la libera concorrenza e i sussidi pubblici, la ricerca pagata dallo Stato, l'innovazione con i soldi dei cittadini. Ottimi argomenti se li avesse svolti alla fine degli anni Cinquanta un liberale fautore della battaglia contro i monopoli come Ernesto Rossi, oppure oggi un socialista radicale come Fausto Bertinotti, ma sinceramente sfasati per un esponente della parte politica rappresentata da Silvio Berlusconi, l'uomo che si presentò alle assise confindustriali di Parma dicendo: «Il vostro programma è il mio programma». La realtà è che la classe di governo del centrodestra sta precipitando nel grottesco. Nel contemplare da Salò le disfatte italiane, Benito Mussolini se la prese con «gli italiani, questo popolo di imbelli». In modo analogo, Berlusconi e l'estemporanea classe dirigente che si è raccolta intorno a lui stanno vendicandosi sul loro elettorato. Il capo del governo si lamenta che in Italia, fra questo popolo di ignavi, è l'unico a voler tagliare le tasse. Il suo ministro Siniscalco, che ha ancora il senso della contabilità, inventa un diluvio di tasse. Gli altri suoi ministri e i dirigenti politici della Casa delle libertà tentano affannose spiegazioni di misure incomprensibili, e quindi inscenano bellissime commedie degli equivoci. In questa situazione, il centrosinistra non brilla per iniziativa, diciamo così. Certo che però se uno pensa alle risorse inutilizzate dell'Ulivo, da Enrico Letta a Pierluigi Bersani, da Giuliano Amato a Paolo De Castro, può continuare a pensare che il centrosinistra è una banda di squinternati; ma che in fondo la professionalità dei suoi eventuali ministri è ancora infinitamente superiore a quella dei desesperados della Casa delle libertà.
L'Espresso, 21/10/2004
2004 fuga dal Biscione
Mediaset precipita, Canale 5 si inabissa, gli ascolti delle sue tv franano, e Silvio Berlusconi è scocciato. La Rai invece decolla, il che farebbe pensare che la televisione pubblica ha finalmente capito la lezione e ha imparato come si fa a battere la televisione commerciale. Ci ha messo anni, vive nella posizione equivoca di chi gode del canone e della pubblicità, si trova in una zona grigia fra il condizionamento politico e la decenza professionale, ma sta vincendo la battaglia dell'audience. E le implicazioni possono essere colossali per il sistema televisivo. Che la Rai vinca la partita dell'etere sembra davvero qualcosa di sconvolgente. Che un direttore generale come Flavio Cattaneo, traslocato dal settore fieristico a Saxa Rubra per volontà politica, possa battere le reti del Cavaliere è un prodigio che appartiene agli enigmi dell'Italia contemporanea. Evidentemente il problema ormai non riguarda soltanto la qualità televisiva, il successo dei programmi, il rendimento delle fiction o dei talk show in termini di share: ci dev'essere qualcosa, un fermento o un virus, che agisce dentro il sistema televisivo, e altera l'equilibrio fra pubblico e privato. La prima spiegazione è quella classica, "Graecia capta ferum victorem cepit": messa a confronto con la spregiudicatezza della televisione commerciale, la Rai lottizzata e clientelare ha imparato le tecniche necessarie a guadagnare ascolti e alla lunga ha messo nell'angolo la tv concorrente. Tanto per dire, se Mediaset possiede un reality show infallibile come "Grande Fratello", con la sua parata di freak, specchio della società che si rispecchia nella tv, la Rai può rispondere con "L'isola dei famosi", ossia un trionfo del trash televisivo capace di attrarre i fan di Alessia Merz come anche un pubblico "alto" propenso periodicamente all'ingaglioffimento. Il mercato è il mercato, l'audience è l'audience, la tv generalista è la tv generalista chiunque la faccia, ed era impensabile che una struttura come quella della televisione pubblica rimanesse inerte per sempre di fronte all'aggressività delle reti Mediaset. Tanto più che il plantigrado Rai sarà un animale amorfo, ma proprio perché è pletorico negli organici è anche in grado di estrarre dalla sua pancia una varietà infinita di trasmissioni. Programmi di massa e programmi di nicchia. Programmi per ogni tipo di pubblico. Fiction e documentari storici di classe. Mediaset al suo meglio è capace di produrre "Terra" di Toni Capuozzo, vale a dire un programma ben costruito ma di impatto non decisivo sull'opinione pubblica; la Rai invece può produrre "Report", in cui Milena Gabbanelli dà fondo a un brillante populismo di sinistra, fondato sul rigore implacabile dell'approfondimento, con toni e stile da maliziosa "ombudswoman", tale da incollare al teleschermo quelli che fanno tendenza, anche se magari antipatizzano. Ma ci può stare anche un'altra spiegazione, "di sistema". Come ha illustrato ripetutamente un conoscitore come Aldo Grasso, il pubblico della televisione generalista è largamente frainteso dagli esperti, e in particolare dagli operatori pubblicitari. Lo spettatore-massa è una pensionata meridionale, a bassa scolarità, fortemente esposta al consumo televisivo, tendenzialmente conservatrice in politica. Non si tratta di un pubblico da conquistare, ma eventualmente da suddividere e redistribuire, magari con fumettoni antirealistici come "Elisa di Rivombrosa". Ma questo settore di audience non è propriamente significativo in chiave di consumi vistosi e qualificati. È sfasato rispetto al linguaggio pubblicitario, un lessico ipersofisticato grazie alla creatività dei copywriter, alle canzoni di sfondo che richiamano gli anni Settanta più ammiccanti, alle citazioni dai film di culto, allo Spike Lee che globalizza mediaticamente Gandhi. Il pubblico generico conosce al massimo "che ne sai tu di un campo di grano" e sarebbe in grado di battere le mani a tempo sulla Riva bianca e la Riva nera di Iva Zanicchi: tanto poi al Parlamento europeo ci mandano Gawronski e alle suppletive l'aquila di Ligonchio viene impallinata a suon di firme clandestine. Ma il pubblico generico al massimo sostituisce la lavatrice ogni dieci anni e si fa impressionare tutt'al più dai detersivi al sapone di Marsiglia. Vecchie mercanzie. Piaccia o no politicamente, il cavalier Silvio non è un tipo capace di amministrare una manomorta residuale. L'impresa è l'impresa. Forse la televisione come lui l'aveva intuita negli anni Ottanta è già una reliquia: seguita ancora da processioni adoranti, ma senza più essere la frontiera della modernità. La modernità è altrove. Oltretutto, dal punto di vista politico Mediaset non ha mai smesso di essere un ingombro poco elegante. Qualsiasi imbecille, in Europa, può permettersi di trattare re Silvio come un manipolatore postmoderno della politica e della società, proprio a causa della nuda proprietà delle reti Mediaset. Al diavolo. La storica battuta di Enzo Biagi su Berlusconi, «se avesse una puntina di tette farebbe anche l'annunciatrice», si avvia all'archivio. La frontiera dell'innovazione non è più nelle televisioni generaliste via etere. Basterà che Sky alzi un po' la qualità dei film in abbonamento per mettere fuori gioco la programmazione cinematografica delle sei reti duopoliste. I curiosi guardano sempre più spesso gli show di Jay Leno e di David Letterman su Raisat Extra. Per quale motivo i ceti affluenti, le fasce medio-alte del consumo televisivo dovrebbero continuare ad appassionarsi ai programmi di Costanzo, Ricci, Bonolis, Venier, Panariello? E perché ci si dovrebbe sottomettere a "Quelli che il calcio" quando Sky monopolizza il pallone e la domenica pomeriggio offre "Diretta gol", versione contemporanea di "Tutto il calcio minuto per minuto"? Anche sul piano politico sono delusioni. I telegiornali "di regime" risultano sempre meno efficaci nel plasmare il giudizio dei cittadini. Con tutti gli sforzi possibili nell'esercizio del troncare e sopire, la guerra va effettivamente male, Giulio Tremonti è stato effettivamente silurato, i ceti impoveriti si sono effettivamente impoveriti, Rocco Buttiglione è stato effettivamente preso a pomodorate dal Parlamento europeo e la legge finanziaria è effettivamente, decodificando le definizioni economiche della coppia pragmatica Letta-Bersani, un cesso; infine, come direbbe il ministro Tremaglia, i culattoni sono effettivamente culattoni. Dato questo panorama deprimente, anche i tg diventano meno strategici. Se l'avvenire è nel satellite, nel digitale, nella telefonia mobile, nella banda larga, nei box multimediali che trasformeranno il televisore nello schermo delle meraviglie, la persuasione politica dovrà percorrere strade diverse. Il futuro è una audience che si disintegra e schizza in una galassia di particelle in fuga. L'asset principale consisterà non tanto nel controllo dei contenuti, quanto nel possesso degli strumenti. Berlusconi deve avere intuito tutto questo, e quindi diventano realistici i boatos che ipotizzano la vendita di Mediaset e il progetto di entrare con tutto il peso dell'impero di famiglia in una utility telefonica e multimediale. Solo che a questo punto, di fronte alla rivoluzione possibile, anche tutti i progetti di privatizzazione parziale della Rai, nel tentativo di staccarla dalla politica, rischiano di essere obsoleti prima di venire attuati. L'emittente pubblica è un carrozzone, e le norme spartitorie previste dalla legge Gasparri per la nomina del cda sono un rompicapo su cui si romperanno la testa i responsabili dei partiti. Loro, poveretti, a scornarsi per risolvere il puzzle politico della presidenza e del consiglio d'amministrazione, nel gioco dei quattro cantoni della maggioranza e dell'opposizione; e il diabolico Berlusconi proiettato nel mondo della comunicazione pura a cavallo di un supertelefonino, senza le vecchie antenne, un po' più libero dal conflitto d'interessi, che fa ciao ciao con la manina, felice al pensiero di intascare i soldini pregiati dei consumi ipermoderni dei suoi vecchi sudditi italiani.
L'Espresso, 21/10/2004
Teo in cerca d’autore
Ci sono tre fuoriclasse assoluti, nell'intrattenimento tv italiano. In ordine casuale, il primo è Massimo Lopez; il secondo è Fiorello. Il terzo è naturalmente, last but not least come scrivono i polli, Teo Teocoli. Il quale è un genio comico purissimo fin da quando faceva con uno strepitoso Massimo Boldi lo sketch simil-spagnolo di Abelardo Norchis, grandissimo chitarrista castigliano con la mano destra artificiale sinistramente guantata di nero: «È bravissimo», era il tormentone di Boldi. Tutto questo per dire che "Il Teo - Sono tornato normale", il supershow teocoliano in quattro puntate cominciato il 5 ottobre su Canale 5, andava e andrà visto con attenzione. Commento. Bene Teocoli, male lo spettacolo. Per fare la tv deficiente ci vuole Panariello. La tv deficiente è la tv di massa, rivolta al target mediobasso. Teocoli fa il napuletano Felice Caccamo, giornalista e antiquario (il negozio si chiama "Cose di casa d'altri", per intenderci), una macchietta storica, e vabbè. Fa Maurizio Costanzo, e va benissimo. Però annuncia che farà l'imitazione di Antonio Ricci e di Michele Guardì: è sempre stata la sua forza fare personaggi sconosciuti, come la catarrosa critica tv Claudia Vinciguerra, ma in programmi di nicchia. Dove il pubblico è sfizioso, e apprezza la performance anche se non riconosce il performato. Mica siamo schiavi della tv, santo cielo. Ma su Canale 5, in prima serata, tutto questo è rischioso. Già il programma è a rischio continuo di fraintendimento, perché quando arriva Elton John, "quello vero", tutti si chiedono: è un'imitazione? Idem con Zucchero, che sembrava un'imitazione davvero. Quanto all'Alba Parietti, nostra vecchia passione, molta buona volontà, anche se si capiva benissimo che era un'interpretazione di Teocoli. Difatti Teo sa ballare, cantare, recitare, imitare, sa fare tutto ciò che l'Alba vorrebbe saper fare. È più ignorante in filosofia, è vero. Ha tanto l'aria di essere di destra, è vero. E forse è per tutti questi motivi che non gli riescono bene i monologhi. Quello della prima puntata, argomento le vacanze sulla Riviera adriatica, era brutto forte, e non solo perché si intratteneva troppo a lungo sui costumi da bagno degli anni '60, di lana grezza e pesante, che facevano prudere le pudenda. Comunque: fra tanta fanghiglia, meglio una sera con Teocoli, anche se ci vorrebbe, come anche per Lopez e per Fiorello, un autore.
L'Espresso, 14/10/2004
Compagno terrore
Questa è la storia di un'ombra. Un fantasma. Un comunista fatto evaporare dalla Storia, da una delle tragedie politiche del Novecento che sono diventate catastrofi morali. «Un signor Nessuno per il grande partito di Togliatti, un detrito della battaglia fra Stalin e Tito». Si chiamava Andrea Scano, era un ragazzo sardo ribelle che la burocratica polizia fascista avrebbe bollato come «pericoloso in linea politica», e avrebbe cercato una fuga: prima in Corsica, poi in Spagna a partecipare alla guerra con le brigate internazionali contro i "tercios" di Francisco Franco, insomma «alla prova generale dello scontro fra i proletari d'Europa e la forza maligna di Hitler e Mussolini». Per poi tornare in Italia, a infilarsi nella Resistenza. E finire in un buco nero di disperazione, di violenza, di tortura, di umiliazione disumana. E infine, la mortificazione indicibile, il silenzio. Peggio di una condanna. L'accettazione di un destino, come una sottomissione. Si intitola "Prigionieri del silenzio" (Sperling & Kupfer, pagg. XII-446, 17 euro) il nuovo libro di Giampaolo Pansa, che esce il 12 ottobre, un anno dopo la pubblicazione dello scandaloso "Il sangue dei vinti". Dodici mesi fa Pansa aveva infranto il silenzio sulla violenza comunista dopo la Liberazione, su una giustizia intrisa di odio fino a diventare barbarie. Oggi racconta un'avventura che aveva narrato otto anni fa su "L'espresso": ed è un romanzo che talora apparirebbe incredibile, se non ci fossero le testimonianze, e se non ci fosse a garantirla il rigore assiduo della ricerca, la volontà di raccontare "tutto", benché questo tutto sia insopportabile. Un'ombra. Un falso protagonista, perché Andrea Scano in realtà è una vittima: un giovane isolano spinto dalla "balentìa" e da un oscuro senso di rivalsa, che si ritrova in Spagna, nel campo di Albacete, dove comanda Luigi Longo, alias Gallo, commissario politico e poi ispettore generale degli internazionali, e dove impara la prima regola della guerra civile: «Se ti prendono, ti fucilano». Perché la guerra ideologica non fa prigionieri. I "moros" di Franco, le truppe coloniali, castrano i morti e i vivi. I combattimenti a corpo a corpo esemplificano una ferocia che anticipa lo scontro fra visioni del mondo, non fra milizie contrapposte. Il libro di Pansa non è una biografia di Scano. Questi è un gregario che ha avuto la sfortuna di vivere "in tempi interessanti". Di attraversare la guerra di Spagna; di tornare in Italia e di finire al confino a Ventotene. "Prigionieri del silenzio" è un racconto storico più difficile e complesso del "Sangue dei vinti". La ricostruzione delle violenze contro i fascisti dopo il 25 aprile 1945 conteneva una carica provocatoria, che richiamava un dilemma etico: fino a che punto è giusta la giustizia dei vincitori? Quindi l'effetto scioccante del volume era prevedibile, come era prevedibile il trauma rappresentato dall'elenco minuzioso degli eccidi, e così come era prevedibilissimo lo "scandalo" a sinistra e in qualche caso lo sdegno un po' stridulo per avere fatto il gioco della destra. Questo nuovo libro invece è politicamente più sottile, forse addirittura più insidioso. Il partigiano Andrea Scano, che come molti resistenti comunisti imbosca i mitragliatori dopo la Liberazione, e viene condannato dal tribunale di Tortona perché lo intercettano mentre sposta in una vigna un carico di armi ed esplosivo, è un personaggio simbolo di un progetto politico che sta abortendo. L'ora "X" non verrà. Come altri rivoluzionari di professione, per evitare il carcere nella «rassicurante Italia democristiana» cercherà rifugio vicino al confine orientale, nella Trieste che vive sotto l'incubo della polizia politica dei partigiani jugoslavi, per poi passare la frontiera, raggiungere Fiume, assistere all'esodo degli italiani cacciati via, mentre i miliziani comunisti seminano il terrore con la loro «muta tutta nera, nera la divisa, nera la bustina, neri gli stivali». Non c'è solo la pulizia etnica degli uomini di Tito. Non solo le foibe, non solo la pulsione violenta contro gli italiani. Sullo sfondo si profila un conflitto politico formidabile e inatteso, la rottura fra Stalin e Tito, in cui i "cominformisti", fedeli al blocco sovietico, diventano nemici, traditori, banditi. Milovan Gilas, uno dei numeri due di Tito, destinato in seguito a diventare uno dei critici "liberali" del comunismo jugoslavo, a quel tempo li aveva bollati con queste parole: «Bastardi, canaglie, merde umane». Per alcuni di loro l'accusa e la condanna furono più che qualcosa di incomprensibile: furono un «trauma culturale», che spesso in seguito li indusse a non raccontare niente a nessuno. Il comunismo, l'ideale di una vita si era spezzato in due, e un troncone cercava oscenamente di fagocitare i nemici, fossero pure i vecchi compagni o fratelli di lotta. Comincia qui l'epopea tragica di Scano e di altri italiani, di altri cominformisti, di altri comunisti che in quel momento avevano scelto la parte sbagliata, l'Unione Sovietica. Per loro si apriva «l'inferno speciale» di Goli Otok, l'Isola Calva nelle acque del Quarnaro, cinque chilometri quadrati riarsi d'estate e gelidi d'inverno: un sistema repressivo perfetto nel suo sadismo, ideato da Edvard Kardelj, il braccio destro di Tito, per spezzare la fibra di qualsiasi opposizione all'ortodossia titina. Alcune stime dicono che fra il 1949 e il 1956 passarono per l'Isola Calva 32 mila internati; vi morirono presumibilmente 4 mila persone; gli italiani furono più di 300. Scano fu catturato dalla polizia politica nel luglio del 1949 a Fiume, e rimase a Goli Otok per tre anni, dal 1950 al 1953. Le tracce che riconducono a lui consentono di avere il resoconto delle torture a cui i prigionieri venivano sottoposti: lo "stroj", il gioco della lepre stanata, in cui il nuovo arrivato subiva una via crucis fra due file di detenuti che lo riempivano di botte; il boicottaggio, che consentiva a tutti di umiliare anche fisicamente chi lo subiva; la "jama", una buca in cui al condannato venivano inflitte le mortificazioni peggiori; la "jazbina", ossia la caverna, con il derelitto che veniva sommerso da cumuli di coperte e poi picchiato selvaggiamente, «così il diavolo di Stalin uscirà dal tuo culo». «Eravamo dei vinti, totalmente, senza rimedio». Percossi non solo dagli aguzzini di Goli Otok, ma dalla sensazione di avere subito una violenza umiliante della storia. «In Spagna, nei campi di internamento francesi, a Ventotene, noi eravamo degli sconfitti, però mai ci siamo sentiti dei vinti. Moralmente ci sentivamo dei vincitori». In un gulag jugoslavo, invece, massacrati di lavoro, i comunisti della parte sbagliata erano schiuma della terra, gente senza diritti, autentici reietti, condannati a tacere per sempre. È un racconto che si avvia alla fine con l'incontro fra Krusciov e Tito nel 1955, che liquida la rottura e il conflitto fra Urss e Jugoslavia come un banale incidente geopolitico, uno scampolo dello stalinismo, e quindi consegna alle vittime dell'Isola Calva la sensazione straniante della «terribile inutilità» delle sofferenze patite. Dopo, infatti, rimane soltanto il silenzio. Gli archivi vanno distrutti, perché evidentemente non devono restare tracce della guerra che aveva dilaniato il movimento comunista. I reduci dalle prigioni e dai lager jugoslavi furono obbligati a tacere. Come avevano fatto i torturatori del regime jugoslavo, per ragion di partito il Pci di Togliatti ordinò il silenzio ai propri militanti, in una «cinica sintonia fra il vertice delle Botteghe Oscure e gli ufficiali della polizia politica che comandavano il gulag di Goli Otok». "Il sangue dei vinti" ha spezzato un silenzio lungo quasi sessant'anni, ma lasciava il campo diviso in due fazioni riconoscibili: da una parte i comunisti, qualcuno in cerca di rivoluzione, qualcun altro in cerca di vendetta, e dall'altra le vittime di cui bisognava tacere. "Prigionieri del silenzio" è un libro meno facile, meno spettacolare nell'individuazione delle ragioni e dei deliri politici, ma forse ancora più provocatorio: perché parla del modo in cui le ragioni del potere hanno lacerato dal di dentro la solidarietà del movimento comunista. "Una storia che la sinistra ha sepolto", recita la copertina: proprio per questo, il lungo dramma di un'ombra, di un detrito, di un uomo che per sbaglio o per eccesso di convinzione è finito in quel meccanismo crudele, anzi, in un automatismo ovvio e feroce, sembra dirci oggi che a sinistra non c'è più bisogno di revisioni. C'era, e c'è, bisogno di verità: una verità che oscura l'ideale con il gioco osceno del potere. Perché solo riconoscendo la verità più crudele, fuori dagli opportunismi dettati dall'epoca, fuori dalle convenienze, fuori dalla ragione politica, si può salvare di una storia ciò che non è stato violenza, non è stato calcolo cinico, non è stato irragionevole assimilazione ai comportamenti dei nemici.
L'Espresso, 14/10/2004
Quei ricchi senza benzina
L'idea non è malvagia, il programma ha un suo ignobile interesse, Tobias Jones è un giovanilista ma possiede uno stile anglosassone nel lasciare parlare i suoi interlocutori, gli intervistati sollevano la curiosità del pubblico: perché allora "Ricchi d'Italia", la serie di Raitre in onda in quattro puntate dal 26 settembre, non funziona? È semplice. Perché gli italiani ricchi sono desolatamente uguali agli italiani poveri. Parrucchieri-stilisti come Salvo Filetti e Renato Gervasi, che hanno creato il franchising Compagnia della bellezza, sono dei tipi che mobilitano i dipendenti una volta al mese facendo il trenino, come ha insegnato Mara Venier a tutta la nazione, e lanciando sulle slide il motto aziendale: "Sono talmente bravo che voglio conquistare il cuore di tutte le donne". Lapo Elkann, responsabile del marketing globale della Fiat, deve ancora trovare un educatore- stilista che gli spieghi che la pochette si porta solo dopo le 17, e mettere a punto i congiuntivi. Francesco Amadori, imperatore dei polli d'allevamento, spiega che non va mai in ferie, non ha la barca, spedisce la moglie in vacanza per due mesi, e l'unico lusso che si consente è l'auto, e la tintura per i capelli. Edoardo Garrone, re del petrolio, sembra un tipo di ottimo buon senso, anche se gioca a golf, e si illumina quando definisce l'arrivo di Montezemolo alla presidenza della Confindustria come «una novità bellissima», perché ciò gli permette di gettare qualche palata di critiche, tutte piuttosto ragionevoli, su Antonio D'Amato. I ricchi d'Italia hanno il tremendo difetto di non esprimere una cultura significativamente diversa dai ceti medi. Attraverso di loro parla un'Italiona normale. Per esempio, interrogato sulle sensazioni che prova vedendosi immortalato sui rotocalchi in compagnia di tante donne, Lapo ribatte: quali donne, una sola. E pazienza se si chiama Martina Stella. Il fatto è che non ci sono mostri. Ricchi, riccastri, ricconi sono gente come noi. Dopo di che uno si chiede perché si è perso lo slancio, non c'è entusiasmo, la ripresa non si vede, il miracolo è lontano. Basta guardarli, i ricchi. Basta guardarci, tutti noi. Sono e siamo loffi, e abbiamo finito la benzina. Altro che Cina, altro che mercato globale: la verità è che il paese è stanco, e non sarà l'entusiasmo di maniera dei ricchi a innescare la rivoluzione.
L'Espresso, 07/10/2004
Ma la pace non ha vinto
Occorreva esorcizzare ogni giorno l'orrore possibile, l'eventualità che un sito jiahdista infilasse sul Web un filmato con la decapitazione di Simona Pari e Simona Torretta. Si era già visto che i carnefici iracheni erano stati capaci di annichilire le differenze politiche, oltre che le vite umane, uccidendo allo stesso modo uno sconosciuto contractor come Fabrizio Quattrocchi e un no global come Enzo Baldoni. E quindi non c'erano molte teorie razionali in grado di rassicurare tutti noi sulla sorte delle due ragazze italiane. Per questo la liberazione delle due volontarie di Un ponte per... è stata accolta da un diluvio di solidarietà festosa, ampiamente comprensibile e giustificata. Per qualche aspetto la salvezza di quelle giovani donne è sembrato restituire una dimensione di razionalità a una realtà, quella irachena, in cui alla catatonia strategica degli anglo-americani si oppone la violenza stralunata dell'islamismo omicida. Tuttavia c'è da mettere a fuoco anche il lato politico domestico di questa vicenda. Nella fulminea conferenza stampa con cui ha salutato la felice conclusione del sequestro, Silvio Berlusconi ha ringraziato l'opposizione per l'esercizio di una sorta di solidarietà nazionale. La misura del capo del governo è stata praticamente perfetta. Anzi, è stata l'espressione più persuasiva del "nuovo" Berlusconi, prudente, suadente, non conflittuale, che a una parola in più preferisce una parola o due in meno. Dopo di che è stata la volta dei portavoce, come Sandro Bondi, che hanno cominciato a parlare del «nuovo clima politico» che si è creato. E qui si avviano i fraintendimenti. Non c'è nessun nuovo clima politico. Sul caso specifico, Ignazio La Russa non ha mancato di prendersela a caldo con quella parte di opposizione che aveva chiesto la sospensione dei bombardamenti in Iraq. E sul piano generale, sarebbe peggio che sciocco, sarebbe ingannevole favorire qualsiasi convincimento che l'appoggio dell'opposizione al governo sul caso delle ragazze sequestrate possa significare un sostegno che si estende anche alle scelte generali del governo e alla sua politica di alleanze. Meno che mai, un appoggio che si trasferisce anche alla politica generale del governo tout court. C'è una dignità nella vita collettiva che consente di gioire per la liberazione di due giovani donne, che hanno messo a rischio la loro esistenza nell'inseguire un sogno di pace; ma questa stessa dignità impone di non dissolvere le differenze nel volemose bene. Tanto per dire, mentre l'Italia intera festeggia la liberazione di Simona e Simona, la maggioranza sta votando la "sua" riforma costituzionale, con una perfetta e incomprensibile ostinazione unilaterale. Ancora, non appena sarà finita la festa nazionale, sarà un dovere politico ricominciare a discutere l'adeguatezza della politica estera del governo italiano. Insomma, c'è una durezza della politica che va rispettata. Nel Medio Oriente sta andando in onda una tragedia. Una minaccia terroristica senza precedenti incombe sul mondo contemporaneo. C'è una larga corrente islamica che giustifica la guerra di civiltà, suscita le inquietudini più profonde e induce a scelte concretamente drammatiche. Sotto questa luce, un sospiro di sollievo è esattamente ciò che è: un sospiro di sollievo e niente di più. Non è la vittoria della pace contro la guerra. Non è la dimostrazione dell'efficienza dell'esecutivo e delle straordinarie capacità del «dottor Gianni Letta», come argomenta puntigliosamente Berlusconi. Non è il successo della bipartisanship. Non è il successo della fermezza, del "non si tratta con i rapitori", dato che trattativa c'è stata. È un episodio che per un attimo inonda di luce una terra desolata. Nel filmato della liberazione, trasmesso da Al Jazeera, le due ragazze sollevano il velo, sorridono, così come sorride il commissario della Croce rossa, Maurizio Scelli. Sorridono tutti, sullo sfondo di un paese disperato, e che ha un disperato bisogno della nostra capacità politica, della qualità dell'Occidente, non solo dell'umanitarismo, delle buone parole, del sollievo e degli applausi di un'Italia lontana.
L'Espresso, 07/10/2004
Senza di me il diluvio
Attenti alla maledizione di Prodankamon. Preparate esorcismi, scongiuri, riti scaramantici. Ricordatevi la catastrofe spaventosa della caduta di Romano, nel nefasto mese egizio denominato Ottobre nero, quando bastò smuovere un mattone per far crollare la piramide del governo ulivista, anno 1998, voto di fiducia alla Camera, 313 a 312. Ridono a denti stretti, dentro l'entourage prodiano, si scambiano il "gimme five" a ogni battuta cinica o sadomaso sul destino del Professore, e sulla maledizione relativa. Romano ha posto l'ultimatum, e loro sghignazzano: d'accordo, fate un altro complottino, un'altra congiuretta, un'altra cospirazioncina proprio come sei anni fa; chiamate il gran sacerdote Francesco Cossiga, suonate la squilla centrista e democristiana, preparate trame scudocrociate. E divertitevi, mi raccomando, ridacchiano a mezza bocca, divertitevi tanto, auguri, augurissimi. Ottobre ritorna, e il grande Prodankamon scolpisce negli annali con aria cupa che «non gliel'ha ordinato il dottore di fare il candidato». Le elezioni europee sono alle spalle, dimenticate. Il 31,1 per cento conseguito dal Listone, finito nell'oblio. Il "miracolo" della Lista unitaria, così definito da Arturo Parisi, rappresentato da un terzo di elettori italiani che erano andarti a cercarsi con il lanternino il simbolo Uniti nell'Ulivo sulla scheda, sembra trasformato in un prodigio a rovescio. E il bello è che nessuno ha capito perché e percome il centro-sinistra è riuscito a ficcarsi in un enigma come quello attuale. «Qui rischiamo di consegnare Berlusconi all'eternità», commentano con lo sguardo al cielo i fedelissimi, «soprattutto adesso che fa la parte del buon doroteo». Ma non basta: bisognerebbe spiegare anche alcuni capolavori politici come l'astensione sul primo articolo della riforma costituzionale. Ma come, quattro burloni stilano una bozza in una baita a Lorenzago, vengono giù dalla valle e dicono questa è la Costituzione, prendere o lasciare, e il Listone non trova di meglio che astenersi sul Senato federale? «Un errore dettato più dall'insipienza che da altre ragioni», commenta Giulio Santagata maciullando il mezzo toscano: «Non c'è stato bisogno di molte parole per spiegare la situazione a Romano e fargli liquidare qualsiasi sospetto di inciucio». Opposizione senza quartiere allo stravolgimento della Costituzione. Tuttavia che la situazione sia ai limiti del grottesco è fuori di dubbio. «Siamo stati quattro anni ad aspettare il ritorno di Romano da Bruxelles, torna, non torna, e appena è tornato ecco fatta la frittata», commenta Enrico Letta con aria perplessa. Per non dire della formidabile idea di andare alle regionali con liste divise, con una dismissione immediata della Lista unitaria. Eppure per qualcuno Prodi ha tirato troppo la corda. Prima il lancio della Lista unitaria, poi le primarie, quindi la lite con Rutelli «bello guaglione», infine la lunga lettera a "la Repubblica" con cui specificava lo schema "si fa come dico io perché non me l'ha ordinato il medico di fare come pare a voi". Per la verità, spiegare le ragioni del colossale autogol di fine estate dell'Ulivo è un'impresa improba. Il cattivo scelto all'unanimità dai prodiani, «l'uomo che amiamo odiare», Francesco Rutelli, non sembra avere le forze per un ribaltone nella leadership. Al massimo si critica una visione diversa dell'evoluzione dell'Ulivo, fondata sul mantenimento dei partiti e su un ruolo competitivo della Margherita nei confronti dei Ds. Le malizie diffuse nel "partito del Professore" arrivano poi a segnalare che Rutelli appare fin troppo soddisfatto della sua situazione personale e del partito: «Sta seduto su 35 miliardi di finanziamento pubblico», si gode una sede faraonica, un ufficio stampa potentissimo, oltre cento dipendenti della Margherita, e mettiamoci il quotidiano "Europa" con i suoi fedelissimi. Il che fa pensare che Rutelli abbia buone e legittime ragioni per resistere alla dissoluzione del partito nella federazione; ma questo non sembra bastare per attribuirgli volontà politicamente suicide o peggio, salti di corsia o di campo. E allora? Il primo punto da tenere presente, apparentemente indiscutibile, è che nonostante ogni invenzione pubblicitaria, malgrado le «ombre mediatiche» indicate da Parisi, i concorrenti eventuali di Prodi alla leadership sostanzialmente non esistono. Nell'entourage di Romano si guardano i sondaggi e ci si stringe le spalle: «Il concorrente più forte ha un distacco di 30 punti. Se vogliamo discutere, cominciamo da qui». Ma potrebbe esserci una questione generazionale. Il Professore è invecchiato, anche se l'allenamento studiato dal professor Conconi fa miracoli. Sui giornali di destra gli incisi su di lui sono sempre ispirati da una civetteria maligna: «Prodi, a un passo dai settant'anni», e così via. «Che c'entra, Berlusconi ha tre anni di più», ribatte come un sol uomo la squadra prodiana. Eppure Letta il giovane sostiene che alla Festa nazionale dell'Unità di Genova, durante l'intervista condotta dal direttore de "la Repubblica" Ezio Mauro, il momento più applaudito è risultato quando Prodi ha dichiarato: «Faccio questo giro da premier, se gli italiani lo vorranno, e poi il mio servizio al paese in questo ruolo è finito». Sottinteso: quelli della nuova generazione facciano il favore di aspettare il 2011, poi non sbarrerò la strada a nessuno. Il popolarissimo Walter Veltroni, che si staglia sulla Roma delle notti bianche, e tutti gli altri, compresi Fassino e Rutelli, stiano tranquilli. Eppure tutto questo non basta. Non è sufficiente a spiegare l'autunno dell'Ulivo. E allora per capire la crisi occorrono ipotesi più radicali. Il fatto è che il centro-sinistra non esisterebbe se non ci fossero state due persone. Berlusconi e Prodi. Il Cavaliere ha suscitato l'insurrezione etico-culturale di una parte dei moderati, dei centristi, degli ex democristiani, contro il "partito di plastica". E il Professore, buttato in scena da Nino Andreatta, è apparso il 2 febbraio 1995 nelle sale bolognesi di Nomisma, per pronunciare quel triplice sussurro «serenità, serenità, serenità», con cui avrebbe offerto una casa comune a tutti gli antiberlusconiani d'Italia. Prima il centro-sinistra non c'era. C'era la gioiosa macchina da guerra, battuta dalla potenza mediatica di Berlusconi e dalla propria non credibilità come soggetto di governo, e il pattuglione percosso e disanimato del Patto per l'Italia di Segni e Martinazzoli. Prodi ha inventato l'Ulivo, ma creare empiricamente il centro-sinistra è una fatica immensa. Aveva avuto sostenitori ambigui, come l'avvocato Agnelli, che aveva accolto con un sorriso i vincitori del 1996 nella convinzione che potessero fare riforme impopolari senza il rischio di ritrovarsi la gente in piazza. E oppositori durissimi come il cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei, convinto che il volto di Prodi fosse la maschera moderata dei comunisti. Nonostante giuramenti assortiti sull'eternità del formato bipolare attuale, dice Giulio Santagata, «nella scena politica o dietro le quinte c'è una folla di eretici, frati piagnoni, frati questuanti, predicatori, ex democristiani, cossighisti, che flirtano con l'idea della ricostituzione del Soggetto centrista, la Cdu italiana, il "partito tedesco"». Lo schema è noto: se Berlusconi è transitorio, la Dc è eterna. Si troverà una via d'uscita al Cavaliere, e i tasselli del puzzle andranno a posto. Follini, Tabacci e i due Letta staranno insieme nello stesso partito. «Anche Romano», sogghigna Cossiga. Perché il tentativo di Arturo Parisi è stato effettivamente eroico, tentare di stemperare la pregiudiziale anticomunista annegando i comunisti nel brodo di Ulivo. Ma un processo del genere avviene sui tempi lunghi o lunghissimi. Mentre adesso siamo all'alternativa secca: Prodi o non Prodi. Le sottigliezze analitiche in questo momento non aiutano. Per questo Prodankamon ha tirato la corda fin quasi a spezzarla. Sa bene che nell'elettorato e nell'opinione pubblica la contaminazione di culture e sensibilità è avvenuta da tempo. Alcuni uomini di partito l'hanno compreso, come Massimo D'Alema, che ha fatto la campagna elettorale delle Europee come un leader autentico del centro-sinistra, contaminando gli elettorati, cercando un contatto con settori politici diversi dall'ambiente naturale diessino. «Questo dimostra che fra la gente l'Ulivo esiste», dice Prodi: «I problemi sono nelle stanze dei partiti». Oltretutto, per il Professore c'è una specie di ironia della storia e della politica: nel 1996 il "golpino" contro di lui fu realizzato nell'impunità più assoluta, dal momento che Prodi non aveva alle spalle un partito capace all'occorrenza di vendicarlo. Adesso si assiste al paradosso della Margherita, nata con il contributo decisivo dei prodiani, e che sembra diventata il partito-freno del progetto ulivista. «Siamo sì e no il 20 per cento del partito», ammette Santagata. Ma non è solo una questione di percentuali, sottolineano i supporter di Prodi. La figura del Professore era ed è essenziale per una quantità di ragioni. Perché mette in contatto il mondo dell'economia con il mondo del lavoro. La realtà cattolica con i laici, con i socialisti, con i postcomunisti. Il riformismo non socialista con l'oltranzismo di Fausto Bertinotti, indotto finalmente a una prospettiva di governo del paese. Se Prodi si convince che l'esperienza si è consumata, tutto questo finisce. Chi altri può esercitare questo ruolo di mediazione? Se Prodi se ne va, si mugugna nello staff, finisce il centro-sinistra. Dopo di che? «Dopo di che, la maledizione di Prodankamon continuerà a colpire, e c'è gente che nei prossimi vent'anni di opposizione rimpiangerà amaramente ciò che ha fatto».
L'Espresso, 07/10/2004
Passeggiando con Stravinskij
Tornerà la tv di conversazione, eccome. Se n'è avuta la prova con il dialogo fra Eugenio Scalfari e Paolo Mieli, con cui si è dimostrato che gli intellettuali non hanno l'obbligo mondano di seguire il chiacchiericcio del "Grande Fratello", in quanto sono molto più interessanti ricordi e divagazioni degli intellettuali stessi. Adesso l'incubatore televisivo di questi programmi di parole, Raisat Extra, tenta un'altra serie dialogica, "ExtraTerreni", titolo che allude ai cimiteri, inaugurata la sera del 29 settembre con la visita al cimitero veneziano di san Michele, visita guidata da Massimo Cacciari. Cacciari è reduce dal trionfo del Festival Filosofia; a metà settembre ha mandato in estasi 5 mila professoresse parlando dei supersegreti del mondo. È un entertainer di lusso, quantunque il suo look sia da correggere (out of fashion? no, "altmodisch", ma non precisissimo). Il passaggio dalla Piazza Grande di Modena alla Morte a Venezia sarebbe esiziale per molti, ma il cimitero di san Michele in Isola è un must per la cultura mondiale e locale. Un passo ed ecco tombe sopraffine, Igor Stravinskij, Sergei Diaghilev, Ezra Pound, Manfredo Tafuri, Luigi Nono, e infine Helenio Herrera, ottimamente ricordato dalla vedova, Fiora Gandolfi. Cacciari, fenomenale. Impassibile di fronte a domande epocali, allorché la conduttrice lo interpella dicendo «senta professore» e chiede «mi parla del tabù della morte?» Lui per ogni reliquia del Novecento ha una definizione visionaria (e si vede che quando cita Nietzsche traduce mentalmente dal tedesco): Nono, «un maestro di suoni e di silenzi». Pound, «un profeta», e «una poesia che si stende su uno spazio letterario immenso». Stravinskij e Diaghilev, «ah, quella stagione a Parigi con i Balletti russi, sarà stato il 1909, o l'8». Preferenze, nell'opera del russo? Sostiene Cacciari con nonchalance veneziana che l'ultimo Stravinskij è il meno felice. E allora la sua preferita sarà la "Sagra"? No, l'"Histoire". Poteva essere un mortorio, è una mezz'ora di classe, che spazia da Dante a Joyce, dimostrando che i cimiteri si addicono alla cultura. Il programma è di Valeria Paniccia, regia di Luca Nannini che inquadra spesso l'addome superpiatto del pensatore (però di don Helenio l'insigne intellettuale tace. Il "taca la bala", ossia "ataque la pelota", l'autentica filosofia del pallone, deve spiegarlo la vedova, non il filosofo).
L'Espresso, 30/09/2004
Il maestro e Paolino
A vedere le puntate televisive di "Della vita e del potere", il programma di Marco Giudici e Raffaella Spaccarelli che va in onda su Raisat Extra (lunedì 27 e martedì 28 alle 22 le ultime due), Eugenio Scalfari e Paolo Mieli sembrano due contendenti che finalmente hanno deposto le armi. Sono lontani i tempi in cui c'era una competizione neanche troppo subliminale, avviata con le carinerie paterne di Barbapapà: "Vediamo che cos'ha fatto oggi il nostro Paolino" e proseguita con esorcismi piccati verso uno dei componenti della "banda di "Pagina"" (che fu il mensile antesignano di "Liberal" e forse del "Foglio", diretto da Ernesto Galli della Loggia, con la partecipazione fra gli altri di Mieli, Pierluigi Battista e Giampiero Mughini). Il fatto è che dopo 18 anni a "L'espresso" e due a "la Repubblica" Mieli era diventato troppo grande per poter continuare a fare il numero due. » vero che Scalfari era un monumento vivente e operante, l'uomo che aveva realizzato un'iniziativa editoriale più che ambiziosa, rivoluzionaria per l'Italia alla metà degli anni Settanta, ossia l'invenzione, il decollo e la crescita di un quotidiano che ha cambiato lo stile giornalistico del nostro paese. Ma Scalfari non era soltanto un direttore: era l'editore, un agitatore culturale, un uomo politico, il capo, secondo i malevoli, del "partito di Scalfari". Ingombrante? Ingombrante. Perchè dietro la scrivania e la poltrona di Scalfari si poteva vedere il profilo di Mario Pannunzio, e la folla dei collaboratori del "Mondo", gli eredi del partito d'azione, Ernesto Rossi, il rapporto con l'establishment laico. E poi il creatore di una formula giornalistica, prima con "L'espresso" e poi con "la Repubblica", circondato da un ambiente, da un gruppo di famiglia, da amici importanti che potevano chiamarsi Italo Calvino o Guido Carli. Insomma, un uomo portatore di una linea politica senza tentennamenti, interpretata con una personalità fortissima, dotata del gusto della polemica come anche di una propria linea culturale. Mentre Mieli era un giornalista, e un giovane intellettuale, che aveva cominciato a fare i conti con la propria appartenenza giovanile alla sinistra estrema, con i tempi di Potere operaio, quando "era sufficiente portare una velina rossa in redazione per vedersela pubblicata", perchè in Italia "era in corso la rivoluzione, anche se non abbiamo voluto accorgercene, e molti hanno fatto finta di niente". Tanto più che il luogo deputato di Scalfari era la via Veneto ben prima della dolce vita, con l'ambiente liberale dei Carandini, Cattani, Libonati. "Profondamente laici - avrebbe scritto nel suo libro "La sera andavamo in via Veneto" - ma profondamente religiosi. Sobri. Di solito longilinei. Di solito benestantiä Era l'Italia dei galantuomini". Mentre il santuario intellettuale di Mieli era stato l'aula di Renzo De Felice, di cui era stato l'assistente, e più tardi il proprio studio romano in cui ospitava almeno tre pomeriggi la settimana lo storico Ernesto Galli della Loggia. Pazienza per De Felice, il cui "opus magnum" sulla vita di Mussolini aveva le pezze d'appoggio di un archivio indiscutibile, e le cui attestazioni revisionistiche sul "consenso" in età fascista erano il frutto di una storiografia laica, praticata con attenzione certosina alle minuzie documentarie. Ma il legame di amicizia intellettuale fra Mieli e Galli della Loggia doveva essere guardato con sospetto da Scalfari. Se De Felice era lo studioso che aveva secolarizzato l'analisi del Ventennio, trattandolo con la freddezza di un entomologo, "il professor Ernesto" era un polemista fastidioso, partito da sinistra per arrivare chissà dove, alla "morte della patria", alla defezione dalla sinistra. Eppure Scalfari cercò addirittura di prenderselo, quando andavano di moda le discussioni sul "polo laico": e Galli della Loggia scrisse alcuni articoli per "la Repubblica" sui laici, la laicità e il suddetto polo nascente o morente, suscitando uno scandaletto polemico che pose rapidamente fine alla tormentata collaborazione. Quindi doveva andarsene, Mieli, per trovare una propria strada che non interferisse con il binario di Scalfari. Ma non fu la sua uscita da "la Repubblica", per quanto dolorosa per il fondatore-direttore, e il suo arrivo a "La Stampa", a segnare le differenze. Durante la sua direzione torinese, "Paolino" mise a punto il metodo che poi avrebbe sperimentato al "Corriere della Sera". A Torino dovette fronteggiare l'onda d'urto costituita dalla pubblicazione su "Panorama" della lettera con cui uno dei numi tutelari dell'azionismo torinese, Norberto Bobbio, si era rivolto al duce per testimoniare la sua lealtà al regime, in modo da non ricavarne danni nella carriera universitaria. Sulla colonna di apertura del giornale dell'Avvocato, Bobbio fu indotto a scrivere che aveva rimosso l'episodio e che se ne vergognava. Mieli sembrò uno spettatore che guarda con scetticismo sia i rigori dell'azionismo sia le debolezze degli azionisti. Il cambio deciso di rotta avvenne con il passaggio al "Corriere della Sera". Oggi Scalfari riconosce al suo vecchio allievo di avere trasferito la lezione di "Repubblica" al quotidiano milanese. Di avervi introdotto la maggiore invenzione stilistica di Scalfari, la "settimanalizzazione". Gianni Agnelli l'aveva definita più icasticamente: "Mieli ha messo la minigonna a una vecchia signora". Cioè aveva inventato il "mielismo". Termine che non gli piace: "» stato usato per mettere alla berlina il mio stile, esagerandone i tratti, a partire dalla sdolcinatura del cognome che porto". Lui lo chiama "metodo Mieli". Filippo Ceccarelli ne ha dato una definizione memorabile, che cominciava così: "Inconfondibile miscela di spirito alto e materia bassaä", e si concludeva citando il gusto per il gossip e il mielistico "spargimento di polpettine di zizzania" fra intellettuali e politici. Dove ancora oggi, passate le tempeste, Scalfari e il suo ex allievo non vanno per nulla d'accordo è sul concetto di "terzismo", coniato da Mieli per definire chi non si schiera politicamente da una parte o dall'altra, ma è disposto ad ascoltare le ragioni degli altri. Per Scalfari tutto questo è figlio del cerchiobottismo: "Assai labile mi appare il confine tra terzismo, opportunismo e trasformismo". Eppure il vecchio pupillo, figlio del comunista apostata Renato Mieli, non si era tirato indietro nei momenti cruciali della politica italiana. Se Scalfari aveva accolto la discesa in campo di Berlusconi, nel gennaio del 1994, titolando beffardamente sul "ragazzo Coccodè", poco prima delle elezioni del 1996, insediato sulla massima poltrona di via Solferino, Mieli si era espresso con franchezza: "Val la pena di dire subito il più chiaro possibile quel che pensiamo noi: noi non ci auguriamo la vittoria del Polo se, come sembra, questo sarà guidato da Silvio Berlusconi e questi si candiderà a tornare a Palazzo Chigiä Inutile far giri di parole: come questo giornale non si è stancato di ripetere dall'inizio del 1994, Berlusconi non può fare il presidente del Consiglio". Dopo di che, il duello continuerà. Perchè Mieli produce opinioni con la sua rubrica delle lettere sul "Corriere", dove compara testi e dichiarazioni, allinea le ragioni e i torti degli uni e degli altri, in una specie di continua disputatio filosofica, mostrando le insufficienze e gli ideologismi della sinistra insieme alle grossolanità e agli errori della destra. Mentre Scalfari, nel suo lungo editoriale di ogni domenica su "la Repubblica", continua a seguire la strada maestra delle sue origini. Vale a dire quel piglio di laicità intransigente, con la fedeltà ai numeri della politica economica, e l'insofferenza per i contabili creativi. Con quel gusto che gli viene rimproverato dai suoi avversari, specialmente dal "Foglio" di Giuliano Ferrara, che ne fa uno degli ultimi esemplari di antitaliano, "sprezzatore dell'Italia alle vongole". Che gli fece dare credito a Ugo La Malfa, che aveva la sua stessa cultura, ma anche a Ciriaco De Mita, un po' perchè sembrava una reincarnazione tecnocratica e riformatrice della Dc, e un po' perchè era l'avversario più esplicito del Psi di Craxi e della sua corruzione genetica. E anche perchè forse ciò che accomuna il maestro e l'allievo fuggitivo è che è bello essere per, ma è più divertente, nei giornali, essere contro.
L'Espresso, 30/09/2004
Quando il gay detta la linea
Se è vero che siamo burattini nelle mani di poteri occulti, "La sottile linea rosa" (Foxlife, il martedì sera, produzione Magnolia sul format inglese "Gay Dates by Gay Mates") è un'allegoria della condizione umana contemporanea. Siamo oltre il reality, la tv è pervenuta al "dating show". Prendere una povera ragazza, indurla a scegliere fra quattro potenziali fidanzati, metterla nelle mani di due complici gay, il venditore di mobili Max Viola e il veterinario "Pier" Pupino Carbonelli, che la consigliano, la sconsigliano, dettano strategie di seduzione, naturalmente con la leggerezza frizzantina del gay style. La pupazza nelle mani dei poteri glamour fa quello che può: s'industria, si adegua, si ingegna. I due amiconi, il veterinario e il venditore, parlano come ci si immagina che parlino due gay moderni e ben stilizzati, un certo birignao, ma non troppo, una leggera carica esibitiva, ma leggera mi raccomando. Ciò nondimeno lo show è abbastanza divertente, pur derivando il titolo da uno dei più noiosi (e fastidiosi) film di guerra mai visti, "La sottile linea rossa" di Malick. Abbastanza divertente vuol dire che i due conduttori, quelli che danno la linea, sono abbastanza spiritosi. Abbastanza spiritoso è anche Stefano Gabbana, che in assenza di Dolce fa la guest star del programma e prepara la ragazza-pupazza all'appuntamento decisivo con il boy. Le offre in prestito un vestito da sera disegnato per Catherine Zeta Jones e le consegna una pompa da bicicletta: "Comincerei con una bella gonfiatina alle tette". Proprio come nelle barzellette del dopoguerra, una pompata alla mattina e una alla sera. Ricordando che Dolce e Gabbana hanno curato l'immagine di due estremi del femminino come Nicole Kidman e Simona Ventura, risultano anche credibili le rassicurazioni rivolte a una concorrente culona e con il complesso del didietro: "Ma no, stai tranquilla, se la vedi da vicino anche Jennifer Lopez è così". L'allegoria consiste nel fatto che il mondo contemporaneo è modellato strategicamente dalla cultura antropologica gay, e anche le ragazze devono adeguarsi allo stile prevalente. Figurarsi i maschi, allora, questi bruti da circuire. La sottile linea rosa è talmente sottile che è già stata sorpassata dal trend, dal fashion, dal glamour e dal trash tv. A questo punto, non stiamo a sottilizzare, nè in rosa nè in altri colori.
L'Espresso, 23/09/2004
Le chiavi di sinistra e le chiavi di destra
A naso il film di Gianni Amelio "Le chiavi di casa" è un tipico film italiano, di quelli che raccontano un viaggio, le ferie, un frammento di vita senza trama. Nel caso, l'incontro e il viaggio di un padre, Kim Rossi Stuart, con il figlio quindicenne disabile. Ma sull'estetica cinematografica i discorsi sono complicati. Il giudizio sul film di Amelio è stato fortemente influenzato dal punto di vista. Che può essere politico, in chiave di destra e sinistra, oppure più in generale attinente alla filosofia del cinema; e magari dei sentimenti e dell'atteggiamento verso il genere umano. Fatto sta che un critico di sinistra tradizionale come Tullio Kezich si è speso molto sul "Corriere della Sera" per certificare che il film di Amelio meritava il Leone "per coraggio, stile e qualità poetica". Sull'"Unità" Alberto Crespi ha chiarito che ""Le chiavi di casa" non è un film: è un'esperienza di vita che Gianni Amelio ha avuto la generosità di condividere con noi". Sulla "Stampa" Lietta Tornabuoni, a proposito di questo "bellissimo film sul dolore, sul legame fra padre e figlio, sull'approccio alla maturità" ha concluso che è "cosÏ bello, struggente, semplice e forte da poter restare nella vita degli spettatori come un'esperienza vissuta, come un'emozione personale, come una propria memoria". Un capolavoro? Ma no, si dà il caso che ci sia anche una critica di destra. O se vogliamo ispirata al realismo, alle durezze antisentimentali. Quelli che "ci vuole un cuore di pietra per non mettersi a sghignazzare". E se non è di destra è di sicuro una critica molto meno sensibile ai moti del cuore. Sul "Riformista", Michele Anselmi ha usato sei colonne di giornale per non dire se questo film "toccante ma non edificante" gli è piaciuto. Mentre il più carognone è stato ovviamente "Il foglio", cioè l'organo della destra vera, a ciglio asciutto, che prima nel colonnino quotidiano sulla Mostra del cinema ha parlato di "situazione strappalacrime", del "ragazzo disabile nella parte del ragazzo disabile", segnalando con crudeltà che "i ruoli con handicap o con ritardo mentale sono i più amati dalle giurie". E ha commentato tutto questo con un tocco di ferocia critica: "Con tali assi nella manica, perchÈ disturbarsi a scrivere una sceneggiatura?". Sempre sul "Foglio", Mariarosa Mancuso, che magari non sarà di destra ma ha le idee chiare ed è una delle più divertenti scrittrici di cinema, racconta che la copia della pellicola di Venezia o era difettosa oppure era tecnicamente inaccettabile per tutta la prima scena (nella critica di sinistra non se n'è accorto nessuno?). E affonda la pugnalata: "Il resto della sceneggiatura latita. Il regista ha puntato tutto sulla situazione commovente e prevedibileä Risultato: mani spellate e critici commossi". In sintesi. C'era una corrente che esaltava l'umanità del film di Amelio reclamandone a gran voce la vittoria, tanto che Natalia Aspesi annotava: "Non ci sono, pare, vie di scampo. Questa sera il Leone d'oro, nel lusso rutilante del teatro La Fenice, andrà al 99 per cento al "Le chiavi di casa", e non solo perchÈ il film è bello, il regista Amelio lo merita e sarebbe da cinico cuore di pietra non lasciarsi intenerire dall'adolescente disabile che ne è il protagonistaä Quest'assegnazione la pretendono tutti, con accanimento. I critici soprattutto se anziani, gli spettatori soprattutto se facili alla commozione, in blocco granitico la Rai che lo ha prodotto, dal direttore generale ai consiglieri tutti, alla montagna di dirigenti di ogni grado sino all'ultimo dei telecronisti estasiati e singhiozzanti: lo vuole accanitamente Marzulloä Fermissimamente lo vuole il ministro Urbani come se il film l'avesse fatto lui o qualche sua conoscente, ci sperano il presidente della Biennale Croff e il direttore della Mostra M?ller per evitare di essere cacciati dai poteri notoriamente vendicativi". Poi si sa com'è finita, e all'indomani i titoli dei giornali erano significativi: "Lo schiaffo del Leone", "Il superfavorito a mani vuote", "Aria mesta alla Fenice". Sempre a naso, chissà se c'è stata in Italia un'egemonia della cultura di sinistra. Se c'era, dev'essere svaporata, in questa tarda estate veneziana.
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