L’Espresso
L'Espresso, 23/09/2004
Margherita avvelenata
Reggio Emilia, impressioni di settembre. Dopo un eccellente piatto di cappelletti in brodo di cappone, sotto un tendone affollatissimo, Enrico Letta conclude il suo intervento alla Festa dell'Unità invitando il popolo a imbracciare "il forcone" contro i dirigenti del centro-sinistra che si attardassero a discutere questioni interne all'alleanza anzichÈ pensare ai contenuti e al programma. Ovazione dilagante, mentre l'altra metà della ditta, il compagno Pier Luigi Bersani, con cui Letta ha effettuato il suo apprezzato tour nei distretti industriali, mastica il suo sigaro sogghignando e guardandosi ostentatamente le natiche. Piccole demagogie senza importanza, utili per scaldare le platee? Anche, come no. Ma se uno dei politici più ulivisti della Margherita, un tecnico, l'allievo prediletto di Beniamino Andreatta, un ex ministro di credibilità bipartisan, si sente obbligato a chiedere il bombardamento del quartier generale, vuol dire che il problema esiste. Esiste un calo del centro-sinistra nei sondaggi; esiste un certo recupero di re Silvio, forse favorito dal suo lunghissimo silenzio. Esiste il fastidio, o il disagio, con cui la base guarda al duello fra Prodi e Rutelli. Ancora Emilia profonda. A Reggio e a Modena, Massimo D'Alema liquida i problemi di leadership dell'Ulivo con un'alzata di spalle. "Abbiamo un'alleanza larga, un leader che è Romano Prodi, dobbiamo formulare un programma capace di parlare alla gente e risolvere i guasti lasciati dalla destra". Sembra il punto più alto della coesione ulivista, ma è vero fino a un certo punto. PerchÈ lo schema dalemiano liquida come una sovrastruttura inutile la cerimonia prodiana delle primarie. Il leader ha già ricevuto l'investitura, non rompa le scatole. Sembra un proclama simmetrico a quello che sempre più spesso lanciano dal fortino della Margherita i vecchi valvassori Lamberto Dini e Ciriaco De Mita, e gli esponenti della nouvelle vague come Dario Franceschini: Prodi è il capo della coalizione, e allora che vuole? Alla Margherita lasci che ci pensiamo noi. Intanto, i prodiani soffrono. Ormai da mesi assistono alle iniziative di Francesco Rutelli con una diffidenza cosÏ intensa da risultare paragonabile soltanto a quella fra una corrente democristiana e l'altra. Temono in realtà che Rutelli stia interpretando uno show tutto personale, acrobatico, anzi funambolico, ancora da decifrare. Sono attentissimi a tutte le dicerie sulle ipotesi neocentriste. Sono sensibili a tutte le maldicenze antiuliviste come quelle spifferate da Francesco Cossiga la settimana scorsa, a "L'espresso". In uno dei suoi exploit più creativi, l'ex capo dello Stato ha raccontato due storielle sensazionali. Nella prima, Berlusconi avrebbe detto: beh, se qui si fa finalmente la sezione italiana del Ppe, un posto per "Romano" bisogna pur trovarlo; nell'altra storiella, ambientata a Trento durante l'incontro post-ferragostano per il cinquantenario della morte di De Gasperi, Helmut Kohl avrebbe invitato Prodi a mollare al più presto l'esperienza del centro-sinistra, "l'ubbia dell'Ulivo", e a mettersi alla guida politica dei cattolici nuovamente riuniti. Storie, hanno commentato i membri principali del partito prodiano, riuniti come ogni anno a Camaldoli per parlare di temi culturalmente altissimi nei seminari del programma ufficiale, e di temi politicamente meno alti ma più inquietanti nei corridoi: secondo i più vicini a Prodi, gli intimi, quelli che registrano anche i sospiri del quasi ex presidente della Commissione europea, Kohl non ha mai dimenticato la sua diffidenza per Berlusconi, per i tacchetti, il cerone, quel look che agli occhi teutonici dell'ex cancelliere lo fa sembrare "ein Buchmacher", un allibratore. Adesso, poi, con il lifting e il trapianto di capelli, figuriamoci. E giurano che al momento buono l'immenso Kohl, 160 chili di materiale cristiano-democratico purissimo, offrirebbe pubblicamente il proprio appoggio al vecchio amico Romano. Intanto, fra Rutelli e Prodi, se non è corso il sangue sono corse carognatine di lusso. "L'intemperanza giovanile" autocertificata con cui Prodi ha qualificato il suo interlocutore come "'nu bello guaglione" è stata tutt'altro che una voce dal sen fuggita. La ricostruzione che circola nel giro prodiano è la seguente: Rutelli aveva cominciato una manovra insidiosa, tesa a qualificare "Romano" come troppo sbilanciato verso Fausto Bertinotti, e troppo legato ai Ds. In sostanza, il Prodi dipinto da Rutelli sarebbe un leader eccessivamente pencolante a sinistra, che sposterebbe il baricentro della coalizione addirittura fuori dalla Margherita. "A questo punto", commentano i fedelissimi del Professore, "Prodi è entrato in tackle scivolato, e ha portato via la palla a Cicciobello". Traduzione: l'invito a Rutelli a candidarsi alle primarie, per verificare se la sua posizione è davvero consistente nel centro-sinistra, ha reso evidente chi ha il consenso, il carisma e il bastone del comando. Risultato: "» stata bloccata un'operazione neocentrista potenzialmente pericolosa". La parola "neocentrista" è rivelatrice di tutti i sospetti che si appuntano su Rutelli. Alcuni pasdaran prodiani, infatti, non nascondono le loro preoccupazioni: da ex radicale, da radical- conservatore come il suo maestro Marco Pannella, Rutelli potrebbe, dicono, essere l'agente segreto, sussurrano, della ricomposizione postdemocristiana, mormorano. Fantapolitica? Fintanto che sulla scena politica c'è l'ingombro di Berlusconi, ogni progetto centrista appare fuori luogo. Eppure, eppure. Qualcosa ha cominciato a muoversi dopo le elezioni europee. La sconfitta di partito e personale di Berlusconi, con la perdita di otto punti percentuali sul 2001, ha reso quasi plausibili appetiti che prima erano inimmaginabili. Possibile lasciare tutto quel ben di Dio all'Udc? Possibile abbandonare tutta l'eredità elettorale di Berlusconi a Pier Ferdinando Casini? Inoltre, sul fronte dei poteri forti, è sembrato delinearsi un rassemblement centrista, visibile nell'azionariato della Rcs e in quei settori della Confindustria che riconoscono il fallimento del governo di centro-destra ma non hanno nessuna intenzione di concedere la fiducia a un governo Prodi-Bertinotti. E intanto il cattivo, anzi il pessimo risultato della Margherita lascia incustodito questo ben di Dio moderato. Dati questi chiari di luna, ci sono ampie ragioni per pensare che il centro-sinistra possa avere cominciato il suo lento suicidio, come sospettano da tempo i più pessimisti. Mancano quasi due anni alle elezioni politiche, e visto con il senno di poi, dopo avere assistito alle scenette dello scambio malevolo "Prodi si candidi alle suppletive", "Rutelli si presenti alle primarie", sembra incombere davvero l'ombra della triste scienza secondo cui il centro-sinistra è un'impresa troppo complicata per quagliare. A Genova, in un'altra serata settembrina, Prodi ha dichiarato che se dovesse vincere le elezioni del 2006, dopo cinque anni di governo riterrebbe concluso il servizio al Paese come premier. Anche in questo caso, ovazione generale, non proprio comprensibile. Un applauso che esprime l'apprezzamento per un disinteresse da Cincinnato. O un esorcismo verso il ricambio generazionale reclamato dall'iconoclasta Franceschini. PerchÈ indica che i Prodi passano e i Ds restano. O semplicemente perchÈ segnala una distanza da "quegli altri", quelli legati ai partiti. Ma se è cosÏ, il duello a sinistra, per l'ennesima volta, è appena cominciato, e conviene ricordare dov'è il ripostiglio dei forconi.
L'Espresso, 23/09/2004
Così Lucio non ritorna in mente
Difficile trovare in tv qualcosa di più imbarazzante di una commemorazione cantata di Lucio Battisti. La serata di Raiuno da Napoli, in piazza del Plebiscito (giovedÏ 9 settembre), ha fatto oltre il 22 per cento di share e i soliti danni. Giancarlo Giannini che con Giuliana De Sio recita le parole di "Emozioni" fa tornare in mente l'immortale apoftegma di Gianfranco Manfredi: "A volte l'effetto ridicolo non può più essere contenuto: "Parlare con un pescatore per ore e ore e sentire che dentro qualcosa muore". Non era più semplice dire che ti eri rotto le palle a parlare ore e ore col pescatore?". Grossa produzione, comunque, quella di Napoli, ottima orchestra e buoni arrangiamenti, con accompagnamento di un corpo di danza moderna con ballerine polpute, che ogni tanto facevano vedere glutei ottimamente mutandati. Sul palcoscenico, le solite robe secondo cui "Lucio è stato la colonna sonora di cinque generazioni" (variante: "Della nostra vita"). I cantanti, alcuni buoni, alcuni cosÏ cosÏ. Patty Pravo al di là del bene e del male, una bambola di cera che stonava nostalgicamente come quando era giovane. E ogni volta ci si rende conto che quasi tutte le canzoni di Battisti con i versi di Mogol potevano essere cantate soltanto da Lui, perchÈ Maurizio Vandelli che modula "un canto di fagiano sale ad Est" fa ridere. Il fagiano. Dopo il brodo caldo e la trattoria. I pezzi scritti con Panella sono non cantabili per definizione, nonostante la buona volontà di Ron, che si arrischia a interpretare "cadere la guardai riflessa tra ghiacciai sessanta volte che cacciava fuori la lingua e t'abbracciai di sangue m'inguaiai". Di Battisti ci sono rimaste 15canzoni in tutto, quelle che sanno tutti, e fuori da quel canone il mito non è più tanto mitico. Raf che canta "Prendila cosÏ" lascia fredda la platea che aspetta "Mi ritorni in mente" ad accendino spianato. Idem per Antonella Ruggiero e alcuni altri bravi guaglioni. Recuperare il Battisti meno noto, più marginale e sperimentale, è un esercizio che va lasciato al puntiglio di Michele Bovi e dei suoi inediti prudentemente centellinati (oppure a operazioni gentilmente provocatorie come il disco prodotto dall'agitatore culturale Franco Zanetti, "Sinceramente non tuo", 14 canzoni panelliane, cantato da tre vocalist denominati "equiVoci", accompagnamento di archi, neanche un colpo di batteria, spegnere gli accendini e tanti saluti al popolo).
L'Espresso, 16/09/2004
Fare i conti con l’odio
Il sequestro di Simona Pari e Simona Torretta è l'addio alle favole umanitarie. Noi siamo i nemici. Tuttavia l'emozione suscitata dal rapimento di due donne non occulta il fatto che c'è una strategia feroce, una regia brutale, una rottura radicale dei codici di comportamento. Qualcuno ha dichiarato la guerra contro di noi, e manda a dire che tutte le armi sono utilizzabili. Ma se ciò liquida le illusioni sul ruolo italiano in Iraq, è anche una conferma che gli stereotipi sulla "resistenza" irachena, come se fosse composta da intrepidi cavalieri dell'identità nazionale, sono carta straccia. Tempi difficili per la sinistra sentimentale, antiamericana, affetta secondo i falchi dal caratteristico masochismo dei pacifisti. Sul "manifesto" Riccardo Barenghi ha dato un calcio al formicaio scrivendo che preferisce l'occupazione americana ai tagliatori di teste. Un segnale "cattivo" rispetto alle analisi di maniera l'avevano mandato gli assassini di Enzo Baldoni: un pacifista no global vale un militare o un bodyguard armato. La strage nella scuola di Beslan ha squinternato gli schemi giustificazionisti, perchè nemmeno il pugno di ferro di Vladimir Putin e il controllo dei media può nascondere l'evidenza: ossia che anche in Cecenia il nazionalismo frustrato è stato contaminato dall'islamismo omicida. Ecco dunque problemi intellettuali drammatici. Sullo sfondo del Meeting delle religioni a Milano, il cardinale Renato Martino ha dichiarato che con gli eventi di Beslan il mondo contemporaneo è scivolato nella quarta guerra mondiale, una guerra "senza schemi, terribile, diffusa, frammentata". A sua volta, un politico e intellettuale come Giuliano Amato ha rotto un altro fronte, sostenendo che di fronte all'"ineludibile richiamo di Beslan" la sinistra non deve più concedere alibi a nessuno: "Di questo terrorismo non si può non essere nemici. Quali che siano gli errori che vengono commessi nel fronteggiarlo". Qualcuno a sinistra identificherà le parole di Amato come una pietra dello scandalo. Perchè gli eventi terroristici sono sempre stati interpretati come un eccesso di risposta, da parte di avanguardie attive in realtà dominate dallo scontro fra occupanti e insorti. In Israele, dove continuano gli attentati suicidi patrocinati da Hamas, così come in Iraq, dove i tagliatori di teste sono stati considerati una forma di resistenza all'occupazione militare guidata dagli angloamericani. Con quel che segue: lo slogan "Una, cento, mille Nassiriya" gridato nei cortei; gli italiani sequestrati dalle Brigate del Profeta trattati alla stregua di vittime di seconda scelta; la soddisfazione malcelata per ogni disastro iracheno che possa contribuire a "fottere Berlusconi", come ha rilevato sul "Corriere della Sera" Angelo Panebianco. E più in generale un sentimento di indulgenza verso qualsiasi forma di rivolta contro l'oppressione occidentale, il tallone capitalista, l'impero delle multinazionali. Ma di per sè anche le analisi come quelle di Amato sono elusive. Parlare genericamente di "terrorismo" significa accettare l'idea che sono i cattivi a organizzarsi per produrre malefatte; che gente senza scrupoli, svincolata da ogni criterio etico, sta disintegrando qualsiasi soglia morale in vista dei propri obiettivi politici. Indicare il "terrorismo" come il nemico supremo significa accreditare la nozione che nuclei maligni, esenti da qualsiasi razionalità politica, stiano complottando in segreto contro la civiltà. Così concepito, il "terrorismo" è un'astrazione. Qualcosa che non esiste. Mentre esistono entità terroristiche concrete che hanno dichiarato la guerra contro l'Occidente: e di questa dichiarazione ostile ci sono le tracce documentali. E allora occorre decidere quale sia il modello di analisi che accettiamo. Certo non quello di Oriana Fallaci, ossia la pura invettiva anti-islamica. Neppure il cartoon dottrinario animato dal bestseller di Robert Kagan "Paradiso e potere", che descrive come in un fumetto il mondo marziano e hobbesiano dell'America contro il mondo kantiano e venusiano dell'Europa. E nemmeno gli apologhi da bar di Silvio Berlusconi sull'inferiorità della civiltà musulmana. Ma di fronte alle forzature dei neoconservatori americani, ai modellini geopolitici sull'esportazione della democrazia, e davanti alla durezza semantica di Giuliano Ferrara, bisognerebbe avere qualche ragione seria da opporre: ad esempio per trattare nel modo adeguato "l'islamizzazione a tappe forzate del martirio ceceno, divenuto uno dei fronti nichilisti della guerra religiosa islamica contro l'Occidente e concretamente contro la vita dei passeggeri della metropolitana di Mosca, contro il volo dei passeggeri dell'Aeroflot, contro il volo dei bambini dell'Ossezia nel primo giorno di scuola". Aggiungiamoci l'orrore dello stupro simbolico rappresentato dal rapimento di due giovani volontarie e sarà difficile continuare a nutrire l'idea illusoria di un diritto conculcato che si trasforma in doverosa lotta contro l'oppressione. Nonostante i pudori che inducono intellettuali e politici progressisti a rifiutare il "bad dream" di Samuel Huntington sulle guerre di civiltà, occorre il realismo sufficiente per riconoscere che c'è una guerra e qualcuno l'ha dichiarata. Basta rivedere i video e riascoltare gli mp3 registrati da Osama Bin Laden per prendere atto di una ricostruzione storica secolare in cui si stagliano le Crociate, Lepanto, la fine dell'Impero ottomano. Si tratterà di un'ossessione islamica, della mitologia elaborata su una frustrazione: eppure su questa favola nera è stato costruito l'odio verso "i crociati e gli ebrei" che sfrutterebbero il mondo musulmano, impoverendolo e privandolo della sua libertà. A dispetto dei suoi tratti irrazionali, il terrorismo nichilista contagia le marginalità sociali dell'islamismo nelle società europee, si avvale della simpatia delle "masse islamiche" per qualsiasi impresa contro il Satana americano, capitalizza i successi come dimostrano le feste palestinesi per gli Scud sulle case israeliane nella prima guerra irachena nel 1991, o l'entusiasmo serpeggiante per l'abbattimento delle Torri gemelle, dieci anni dopo. » per questo che la parola "terrorismo" risulta imprecisa o svagata. Abbiamo visto i sequestratori uccidere i bambini con cui avevano passato ore e ore. Le vedove nere farsi esplodere per provocare deliberatamente una strage di innocenti. Assistiamo alla paurosa vicenda di due donne neanche trentenni finite nella oscura vertigine della prigione e del ricatto politico. L'opposizione oscilla fra il tutti a casa e una permanenza umanitaria che non è ben chiaro come possa essere difesa. Intanto però sarà il caso di non parlare più di dolore che diventa vendetta, di frustrazione che diventa odio. Se questa è una guerra, bisognerà guardarla fino in fondo: e usare i concetti della politica per capire che di fronte all'abisso della ferocia non valgono giustificazionismi, teorie rassicuranti, proiezioni eufemistiche. Ci vuole il senso della realtà. E la realtà non è fatta per piacere a tutti.
L'Espresso, 16/09/2004
Paradigma Barale
L'impressione è che le critiche autorevoli che hanno tumulato "Film privato", il reality movie di Paola Barale e Raz Degan (andato in onda su Italia 1 la sera del 31 agosto) non abbiano colto del tutto nel segno. Lo stesso magistrale Aldo Grasso, che pure ha estratto dal suo repertorio l'esimia definizione di "estremisti dell'insulsaggine", si è limitato a rilevare l'aspetto trash, o meglio rubbish, di questo film, diario di viaggio, resoconto di cazzeggio, dietro-le-quinte del chissenefrega. Sul "Riformista", Isabella Angius ha detto che si tratta solo del "mediocre tentativo di fare cinema con i filmini delle vacanze". Invece si direbbe che "Film privato" sia propriamente un programma seminale. Di quelli che producono figli, sequel, autofecondazioni, trans-clonazioni. D'accordo che l'auditel non ha premiato il capolavoro, ma il filmetto verrà riproposto di mattina o di notte, altri lo vedranno, e qualcuno lo rifarà. Perchè è vero che Barale e Degan sono due vecchie pantegane tv, lei domesticamente sexy, soprattutto quando ha la pancetta e le manigliette; lui una specie di reincarnazione di Monnezza, pur senza l'ironia di Tomas Milian. Ma non si produce un movie di famiglia come "Film privato", con battage, anticipazioni, rivelazioni e smentite sulla tale scena censurata, con tanto di curatrice del programma (Serenella Messina) e titoli di coda così lunghi da mostrare uno sforzo tipo capolavoro di Hollywood, se l'opera non avesse valore di paradigma. Ecco, "Film privato" è un modello, da replicare all'infinito. Il primo episodio è andato così così perchè la Barale funzionava bene, come icona della vicina di casa abbordabile senza tante storie, mentre Raz genera disagio, trasmette tensione, può sollevare ondate di insofferenza. Con un po' di pazienza, e affinando la scelta dei protagonisti, il modello verrà portato alla perfezione: è "L'isola dei famosi" condotta dentro il salotto, sono le vecchie diapositive (le "slides", diremmo meglio oggi) inflitte agli amici, con molte inquadrature dell'amica "bòna". Ma soprattutto è l'epopea di gente a cui promettiamo fin d'ora di negare i benefici della legge Bacchelli, che vivono per ora all'altezza dei loro mezzi. Siccome il masochismo del paese è fuori discussione, siccome amiamo i bagni di folla del Bucaniere con Blair, e l'estetica del Billionaire, la quasi normalità italiota di "Film privato" avrà un seguito, eccome.
L'Espresso, 09/09/2004
Santissima alleanza
In pubblico negano tutti. Dissimulano, smentiscono. Sollevano cristianamente gli occhi al cielo, recitano giaculatorie che negano anche l'evidenza. Nessuno vuole rifare la Dc. Nessuno se lo sogna. Eppure, eppure. L'estate ha portato alcuni venticelli insidiosi, velenosi, appetitosi. Per qualcuno, irresistibili. Bastava essere a Trento, il 18 e 19 agosto, e partecipare alla kermesse per il cinquantenario della morte di Alcide De Gasperi, con annesso Premio De Gasperi, infilarsi nella villa di rappresentanza dei fratelli Lunelli (spumante Ferrari, acqua Surgiva, distillati di classe), per assistere a un gioco di mosse, avance, finte e controfinte nel migliore stile dc. Tutti presenti, da Romano Prodi a Pier Ferdinando Casini, a far da corona ai 160 chilogrammi del premiato, il super-Cdu Helmut Kohl. Tutti speranzosi di ricevere un'investitura, tutti preoccupati che qualcuno potesse apparire più diccÏ degli altri, più candidabile, più investito. Per esempio, quel Prodi, troppa attenzione da parte di Kohl, troppe manifestazioni di stima europeista. Quindi, corsa generale a riprendersi il podio degasperiano, Casini nella funzione istituzional-moderata, Cossiga nella versione del teppista che fa ammenda delle cattiverie precedenti e chiama Prodi a ricucire il filo fra dossettiani e cattolici liberali. No, non è la Dc. Ma, in una terra dove abbondano ancora gli austriacanti, è facile battezzarlo come il partito di De Gasperi. O il partito tedesco. Che non è ancora un progetto. Ma è già un'ipotesi. Il ragionamento è semplice: l'establishment cattolico non ha ancora finito di digerire Berlusconi. E quando l'avrà digerito non lo assimilerà. La bandana, il trapianto, il lifting e le imbarazzanti liturgie new age della convention per il decennale di Forza Italia sono state il sigillo sulla sua inadeguatezza come portavoce cattolico. Berlusconi può essere utilizzato, ma non degasperizzato. Lo ha detto anche Giulio Andreotti al Meeting di Rimini: Silvio è stato essenziale nel 1994 quando ha bloccato la sinistra, ma ricordiamoci che De Gasperi non si sarebbe mai messo un fazzoletto da pirata in testa. Dunque, la prima tentazione era stata quella di smontare il bipolarismo, visto che non piacevano gli schieramenti. Ma l'operazione risultava difficile. Quindi, meglio cambiare schema. Dov'è il punto critico nel sistema politico italiano? Il centrodestra, secondo gli strateghi del partito degasperiano, va quasi bene cosÏ com'è. Il fattore Berlusconi è un problema transitorio, soprattutto se si adottano i tempi lunghi cari a eminenti ecclesiastici come il presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, abituato ai ritmi secolari della Chiesa. Alleanza nazionale è ormai sdoganata, vedi l'invito dell'Azione cattolica a Gianfranco Fini: insorgono i cattolici di sinistra, come don Leonardo Zega sulle colonne de' La Stampaft, ricordando che il vicepremier è l'erede dei persecutori fascisti, ma un invito è un invito, il tema è anestetico (la funzione sociale dell'oratorio), e se c'è da trangugiare l'ex fascista Fini in vista di un piatto più goloso, l'Azione cattolica farà il piacere di mandare giù il boccone. Il problema investe piuttosto il centrosinistra. PerchÈ i cattolici che contano non hanno mai creduto nella funzione salvifica dell'Ulivo. Il cardinal Ruini ha sempre pensato che Prodi fosse la maschera cattolica da usare, vedi il 1996, per rendere presentabile l'alleanza con i postcomunisti; e il golpettino rosso dell?ottobre 1998 fu accolto quasi con soddisfazione perché rivelava la verità ruiniana, ossia che Prodi era un prestanome e dietro il suo volto pacioso si profilavano come volevasi dimostrare gli zigomi e i baffi di Massimo D?Alema. Ma la soluzione c'è. Ed è facile. Si chiama modello tedesco. Comporta una nuova razionalizzazione del sistema politico. Ma senza forzature traumatiche. La prima operazione da compiere consiste nel liquidare la leadership e il progetto di Prodi e di Arturo Parisi. Ulivo addio: anche se qualcuno aveva apprezzato il tentativo eroico degli ulivisti di sciogliere i residui comunisti dentro il partito democratico, sterilizzando una volta per tutte la pregiudiziale anticomunista, ora si sceglie una via più facile, più automatica, meno faticosa. Occorre semplicemente portare dall'altra parte, nel centrodestra, le componenti cattoliche e centriste non legate per la vita e l'eternità al progetto ulivista. Le diverse posizioni sono impersonate da facce riconoscibili. C'è Clemente Mastella, ci sono democristiani storici come Mino Martinazzoli e Ciriaco De Mita, eternamente insoddisfatti dell'ulivismo e delle sue ambiguità. A chi piace il partito degasperiano? A Ruini, naturalmente. Ma anche a quei cardinali di destra come il potentissimo segretario di Stato vaticano Angelo Sodano, che ha sempre fatto buon viso alla destra, in particolare a Fini e ad An, senza portare a casa molto. Fuori dai santuari ecclesiastici piace dentro la Banca d'Italia, dove il governatore non ha dimenticato le battaglie a coltello con Giulio Tremonti, ma nemmeno l'antipatia istintiva per il centrosinistra. Piace in alcuni settori della Confindustria, in cui il giudizio verso Berlusconi e il suo governo è feroce, ma il pensiero di un governo dell'Ulivo, ancora condizionato da Rifondazione comunista, Verdi, Comunisti italiani e dal vecchio correntone Ds, viene giudicato scoraggiante. Piace anche, naturalmente, a Casini e a Follini, a Tabacci, a molti democristiani dentro Forza Italia, a tutti coloro insomma che sono stati gli antesignani della creazione di un partito popolar-conservatore come la Cdu tedesca, e che nel frattempo guardano con favore all'idea montezemoliana di una moratoria sulla devolution. Non dispiace a tutti coloro che avvertono il peso e la stanchezza di un bipolarismo inteso come guerra permanente. Non dovrebbe dispiacere alla Cisl, che in diverse occasioni ha pagato un prezzo salato (la rottura con la Cgil, le ruggini dentro le fabbriche) per avere accettato il tavolo di discussione con il governo, e che quindi guarda con diffidenza sia a sinistra sia alla destra attuale No, non è la Dc. La Dc era un partito a vasto raggio, che conteneva destra e sinistra. Lo stesso De Gasperi, all'epoca della battaglia con il "partito romano" per stroncare la cosiddetta "operazione Sturzo" (l'alleanza con la destra monarchica e missina alle comunali di Roma nel 1952) riformulò significativamente la propria notissima definizione dell'identità politica democristiana: "La Dc è un partito con una linea di centrosinistra, con aperture a destra"ª. Fra i cattolici del centrosinistra la preoccupazione ha raggiunto il livello di guardia, al punto che la pax fra Azione cattolica e Cl al Meeting è stata vista come l'effetto di un lavoro di sfondo per favorire l'operazione neocentrista. Non soltanto perché si sa benissimo che l'ambiziosissima impalcatura dell'ulivismo si regge tutta sulla figura di Prodi. Ma anche perché il ritorno a una riedizione del bipartitismo imperfetto, con la stragrande maggioranza dei cattolici, il "partito di Dio", tutta da una parte, come ai tempi del duello fra Dc e Pci, implicherebbe una nuova frattura nel rapporto fra laici e cattolici. Si determinerebbe una impermeabilità delle culture. Un rischio catastrofico per i fautori di una definitiva pacificazione con la modernità. Ed è per questo che nella sinistra cattolica si tenta in tutti i modi di tenere aperto il fronte. Uno dei termometri sarà di nuovo l'incontro annuale di Camaldoli, organizzato dalla rivista "Il Regno" (10-12 settembre), che verrà aperto dal cardinale Achille Silvestrini, uno dei porporati che mantengono aperto un canale vaticano con l'Ulivo, e che vedrà una sfilata di intellettuali tutti orientati a interpretare i conflitti contemporanei strappandoli alla logica della guerra di civiltà e alle rigidità neoconservatrici, di destra dura. Senza nascondere del tutto che dietro questo orizzonte culturale c'è soprattutto un obiettivo vitale per il cattolicesimo non moderatista: quello di evitare un ruinoso tutti a casa. L'Espresso numero 36 del 09-09-2004 pagina 102 Piombo amore e fantasia Utopia e violenza. Radio libere e scontri di piazza. Un film ricostruisce la contestazione a Bologna. Dove si sgretolÚ il mito del socialismo all?italiana di Edmondo Berselli Trattasi di slogan inattuale, ?Lavorare con lentezzaft. Eh sÏ, storia degli anni Settanta, anni non solo di piombo. ?Gli anni della maturit? che non sapemmo avereª, disse pi? tardi Giuliano Amato. Anni dell?alternativa politica cercata prima attraverso il Pci, grande avanzata alle elezioni politiche del 1976: ma ovviamente la Dc non cede, e ?i due vincitorift prefigurano una specie di bipartitismo, la possibile modernizzazione politica dell?Italia post-sessantottesca, post-autunno caldo, post-divorzio, post-rivoluzione sessuale. E si tratta di un film, sempre ?Lavorare con lentezzaft, prodotto da Fandango e girato da Guido Chiesa (il regista che ha alle spalle un buon successo nel 2000 con ?Il partigiano Johnnyft), in concorso al Festival di Venezia. Siamo a Bologna, l?isola felice, almeno in apparenza, del comunismo pragmatico all?emiliana, servizi sociali e salda egemonia culturale, un sindaco accademicamente con i controfiocchi come Renato Zangheri, il recupero del centro storico, l?umanesimo rosso, la borghesia soddisfatta, il compromesso socialdemocratico voluto da Togliatti fra l?Emilia rossa e i ceti medi che funziona ancora mirabilmente tutto sotto controllo, compagni. I segnali di disagio sono altrove: a Roma, dove in febbraio Luciano Lama Ë stato spernacchiato all?universit? dagli autonomi, ?Lama non l?ama nessunoft, ?I Lama stanno in Tibetft. Comincia qui l?anno 1977. E succede politicamente un Settantasette. Radio Alice Ë un epicentro. Bologna la grassa, la dotta eccetera comincia a fibrillare. Il magnifico rettore Rizzoli chiama le forze dell?ordine per spegnere gli scontri davanti ad Anatomia fra il Movimento e studenti e gli ?squadristift (come dicono a sinistra) di Comunione e Liberazione. Un carabiniere ammazza Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta continua. In un solo momento, Bologna non Ë pi? la stessa, l?isola Ë invasa, il sistema di potere del Pci si incrina, scricchiola, sbanda. I blindati della polizia demoliscono anche l?immagine del socialismo che funziona. Per raccontare questa storia, insidiosa come tutte le storie generazionali, Guido Chiesa ha chiamato a collaborare alla sceneggiatura i Wu Ming, entit? definibile forse come ?intellettuale collettivoft, a cui si devono fra l?altro un paio di libri fortunati come ?Qft e ?54ft. Quelli di Wu Ming, per capirci, sono gente che se la tira abbastanza, e per ogni progetto o intuizione devono costruirci su una teoria; ma poi hanno avuto una buona idea, rintracciata dalle cronache d?allora: ?Proprio sui giornali d?epoca abbiamo trovato notizia di una misteriosa rapina col buco, che dai canali sotto le strade di Bologna doveva portare un commando di uomini-talpa a un passo dal pavimento del caveau della Cassa di Risparmio...ª. Quella della galleria Ë un?altra citt? sotterranea, simile metaforicamente a quella della Bologna underground. Le talpe scavano. Gli animali da scavo politico sono quelli dell?autonomia, di Radio Alice, di Francesco Berardi detto Bifo. Le talpe manovali del crimine sono un bolognese autentico e un ?meridionale massaft. Squalo e Pelo: il regista Chiesa li ha selezionati con ogni probabilit? per testimoniare anche fisicamente i due volti di una Bologna che si sta disintegrando politicamente e socialmente. Da una parte il proletario di quartiere, ludico, cazzeggiatore, non ancora adulto, fichissimo nella sua svagatezza petroniana, interpretato dall?esordiente Tommaso Ramenghi; dall?altra Marco Luisi, immigrato incazzato duro, che sembra venuto gi? da un film d?epoca tipo ?La classe operaia va in paradisoft. Reclutati, i due, da un impresario della mala, tale Marangon, criminale filosofo (interpretato da Valerio Binasco), con il compito di scavare il lunghissimo tunnel verso la sede della Carisbo in piazza Minghetti. La Bologna non ufficiale ma comunque politica, quella di Radio Alice, della polizia, della contestazione Ë affidata ai volti di Valerio Mastandrea, poliziotto incaricato di ascoltare professionalmente la voce della sovversione che corre via etere, e di Claudia Pandolfi, sottratta alle melensaggini di prima sera, nel ruolo dell?avvocata giovane e di sinistra che sta dalla parte dei rivoltosi. Secondo Wu Ming, fare un film sulla Bologna del biennio 1976-77 ?significava soprattutto questo: sperimentare se fosse possibile parlare di anni Settanta senza restare prigionieri dell?uno o dell?altro clichÈ. Rifiutarsi di credere che la complessit? di quel decennio potesse essere rappresentata solo da Bombolo e Mario Morettiª. Tuttavia un punto di vista di questo tipo Ë molto parziale, anzi, unilaterale. L?unilateralismo Ë dato dal prendere la prospettiva del ?movimentoft come l?unica praticabile. In realt?, la galassia movimentista era soltanto uno degli elementi in gioco: il Settantasette bolognese rappresenta una delle crisi settoriali che preludono alla grande crisi di sistema. Quando a Bologna, in settembre, viene organizzato il grande convegno sulla repressione, sull?onda di FÈlix Guattari e dell?Antiedipo, il dato di fondo Ë rappresentato dal fatto che una generazione ha dichiarato la propria sfiducia nel Partito comunista. CioË nell?alternativa politica al ?regimeft democristiano. Se non si crede nel meccanismo della democrazia ?borgheseft, non c?Ë altra strada se non l?insurrezione, la lotta di massa, l?esplosivit? collettiva contro le istituzioni del controllo politico-sociale, ?al limiteft anche l?illegalit? di massa o individuale e sotterranea. Oppure, come prospettano i Wu Ming, c?Ë la libert? d?invenzione formale, ?la forza- invenzione, i ?cento fiorift, le tinte acide delle serigrafie, le fanzine, il cut-up grafico e sonoro, il linguaggio destrutturato delle radio libere e dei circoli di proletariato giovanile (?Un risotto vi seppellir?ft), l?irrompere degli slang e degli accenti regionali dopo decenni di dizione Raiª. Dopo di che ci si puÚ anche chiedere: che cosa Ë restato? La Bologna di allora aveva tentato di neutralizzare la propria epopea negativa ricorrendo alle caratteristiche stereotipate di citt? tollerante. Ma in realt? lo scontro fra movimenti e istituzioni era destinato a rimanere insoluto e sterile perchÈ gli uni e le altre non credevano alla democrazia. Dopo ?Zangheri zangher? zangheriamo la citt?ft, l?autonomia restava all?interno di un circuito estetico, non di rado estetizzante, compiaciuto delle proprie formule, mentre dentro la roccaforte sbrecciata del socialismo ?Emilian Styleft ci si rendeva conto che nel bilancio fra l?egemonia politica e il cambiamento, fra la lotta e il governo, il partito si era seduto. D?altronde, come era possibile tenere insieme, nel clima di allora, i docenti democratici dell?Universit? di Bologna che firmavano appelli progressisti, Umberto Eco che preparava lo scherzo sublime di ?Il nome della rosaft, Dario Fo con il suo teatro militante, il Soccorso rosso che reclutava fiancheggiatori, nonchÈ Carlo Ginzburg e Vittorio Foa, Lotta continua e l?Autonomia, la guerriglia e la liberazione, rivoluzionari, dadaisti, nichilisti, indiani metrÚ. Mentre dall?altra parte c?era l?arco costituzionale, i partiti, Zangheri che diceva ?ci vuole il dialogo fra la citt? e gli studenti, escludendo i fautori della violenzaª. Questione di incomunicabilit?. Lavorare con lentezza era impossibile anche allora, perchÈ i movimenti avevano un bisogno matto di velocit?, di efficacia grafica, di creazione parolibera, mentre la politica Ë troppo lenta rispetto ai tempi nuovi. Per questo adesso tutti parlano di memoria: ?Memoria dei movimenti, memoria moltepliceª, secondo Wu Ming. ?Tutte le storie parlano di oggi. E di domaniª, dice Guido Chiesa, uno che pure preferisce ?l?ironia alla nostalgiaª. A proposito: l?espressione ?lavorare con lentezzaft viene da una canzone che ogni mattina apriva le trasmissioni di Radio Alice, un brano del pugliese Enzo Del Re, oltranzista della canzone politica di quegli anni, abituato a chiedere come compenso il minimo sindacale della paga di una giornata di lavoro di un metalmeccanico. Ma forse la canzone che meglio definisce quei tempi Ë di Rino Gaetano, ?Mio fratello Ë figlio unicoft, che in poche strofe fa ancora ricordare che le contraddizioni sono allora e sempre in seno al popolo.
L'Espresso, 09/09/2004
Non s’interrompe così un’Olimpiade
Bilancio olimpico e televisivo: bleah. Per la verità qualche buona notizia c'è. Innanzitutto, s'è capito finalmente che tutte le storie sul secessionismo sono state dismesse senza tante grancasse. Tanto per capirci, Raidue sarebbe la rete "leghista", quella per cui tanto chiasso si fece, mizzica, con l'annuncio dello spostamento della direzione a Mal?no, come segno dei tempi e dimostrazione sul campo del nordismo di rete e maranismo di gestione. Bene, a vedere e a sentire le formidabili dimostrazioni di italianità durante il programma olimpico, il tifo strepitoso per la patria e la coralità entusiasta per i successi della nazione intera, si è capito che la secessione è un reperto, una cara memoria da tirare fuori ogni tanto dai cassetti per vedere l'effetto che fa o che faceva. La rete è riuscita anche a inventarsi una pistolata formidabile, cioè la premiazione tarocca in diretta, subito dopo la medaglia, con esecuzione dell'inno di Mameli, ben prima della premiazione ufficiale con il podio e le medaglie. Gaudeamus igitur per la ritrovata unità del popolo, degli atleti e della Giovine Italia. Riguardo alla qualità dell'offerta televisiva, notte profonda. Il profluvio di pubblicità l'hanno criticato tutti, quindi non servono aggiunte. Ma il delitto maggiore è stato commesso ai danni dell'atletica leggera, ovvero, come dicono i retori tv, "la regina delle Olimpiadi". Si dà il caso che per le prove di atletica ci voglia cultura anche nel proporla. Occorre un racconto. I 100 metri, i 10 mila, gli 800, il salto in lungo eccetera non sono spettacolari di per sé. Lo spettacolo si costruisce attraverso le batterie, le qualificazioni, le semifinali, individuando e rappresentando i personaggi, mostrando le loro doti tecniche e i loro eventuali difetti, le rivalità, le premesse di vittoria e i presagi di sconfitta. Macché l'atletica è stata maltrattata, spesso per eccesso di nazionalismo, e in sostanza non si è capito niente. Naturalmente la prossima volta andrà ancora peggio, e quindi non è il caso di farne un dramma. Però mica siamo nazionalisti: rispetto a una medaglietta italiana nel lancio della caccola noi preferiamo un discreta semifinale nella grande atletica, anche se non ci sono italiani in quella gara. Si è preferita la festa paesana, magari con le accuse ai giudici che sempre penalizzano los italianos, guarda un po'. Comunque, ossequi al costituzionalista Calderoli e viva l'Italia.
L'Espresso, 26/08/2004
Ciampi unisce quel che il bipolarismo divide
La popolarità del presidente della Repubblica sta raggiungendo il calor bianco. Nelle sue vacanze in Val Gardena l'entusiasmo dei villeggianti italiani era alle stelle, ma anche gli scalatori tirolesi reduci dalla conquista del K2, durante i festeggiamenti ufficiali per l'impresa, non mancavano di salutare con affetto Carlo Azeglio Ciampi. «È stato emozionante scalare l'ottomila?», chiedeva il conduttore della serata. «Un'emozione simile a quella che si prova quando arriva il presidente della Repubblica», rispondeva con ottimo accento tedesco, e con una paraculata formidabile, il domatore di cime. Ad Atene siamo arrivati più o meno al delirio, specialmente dopo che Paolo Bettini ha vinto l'oro nella prova di ciclismo su strada e Aldo Montano ha trionfato nella sciabola. Due toscani laureati con la corona d'ulivo, e il secondo addirittura di Livorno, patria di Ciampi. Tre indizi fanno una prova: i giornali, i telecronisti, i coloristi che seguono le Olimpiadi hanno fatto i conti, concludendo all'unanimità che Carlo Azeglio porta fortuna. Tanto più che poche ore dopo, non appena la Ferrari ha vinto un nuovo titolo mondiale costruttori e ha messo matematicamente le mani sul campionato piloti, la telefonata di congratulazioni del Quirinale al cellulare al presidente della Ferrari è arrivata puntuale, e Luca Cordero di Montezemolo è stato felicissimo di sposare la tesi di Ciampi, sostenendo che l'ulteriore trionfo in Formula Uno era una vittoria della tecnologia italiana, insomma, un successo fabbricato e realizzato in Italia. Perfetto, in alto i cuori e i vessilli. Resta da chiedersi qual è il segreto della popolarità dell'ex governatore della Banca d'Italia, l'ex presidente del Consiglio che nel 1993 inventò la concertazione (ne rimane traccia in un piccolo libro pubblicato dal Mulino, "Un metodo per governare"), l'ex ministro del Tesoro con Romano Prodi a Palazzo Chigi, partner in una coppia che riuscì ad acchiappare la maggior parte dei parametri di Maastricht, risanando seriamente i conti pubblici. Un presidente di cultura azionista, cattolico senza bigotterie, non amatissimo anche se formalmente rispettato dai berluscones, qualche volta tollerato a denti stretti, come quando respinse al mittente la prima obbrobriosa versione della legge Gasparri sul sistema televisivo, o sull'epoca della "moral suasion" che sterilizzò i punti più stridenti costituzionalmente della legge Cirami e contribuì di fatto a svuotarla. Il fatto è che il livornese Ciampi non gode di una popolarità politica, bensì di un consenso pre- politico. È riuscito a trasmettere l'idea che fuori dalle stanze della politica e dell'informazione, all'esterno del circuito intossicato dal cicaleccio nei corridoi del Palazzo, il paese, cioè l'Italia profonda, è molto meno diviso di quanto non venga accreditato dai giornali e rappresentato dagli scontri fra i partiti. Che questo sia vero fino in fondo è semmai argomento di analisi e riflessione, non una certezza. Ma il capo dello Stato ha puntato larga parte del suo mandato sul tentativo di accreditare i simboli di questa unità nazionale, dal Tricolore all'inno di Mameli, proprio allo scopo di neutralizzare il conflitto politico che in superficie porta allo scontro le due Italie di destra e di sinistra. A giudicare dai risultati, Ciampi ha ottenuto il suo obiettivo. Il che la dice lunga sull'equilibrio istituzionale che gli italiani gli riconoscono, sulla credibilità della sua figura, sulla fiducia che suscita, elevandosi sopra le onde del politicume quotidiano. Ma forse il successo personale dell'uomo del Quirinale identifica anche una stanchezza ormai radicata per la guerra tra fronti politici contrapposti. La popolarità di Ciampi è anche, simmetricamente, un esito della stanchezza del bipolarismo. O almeno del bipolarismo all'italiana dominato dall'adorazione berlusconiana di Sandro Bondi e della ripetitività antiberlusconiana del centrosinistra. In attesa delle nuove risse di settembre, della battaglia mortale sulla legge finanziaria, di una Costituzione che rischia di essere cambiata a colpi di maggioranza, evidentemente fa bene pensare che sul Colle c'è un uomo che sa dire sì e no, con semplicità, facendo sentire talvolta meno sola una società che era stata galvanizzata dai sogni e ora si sente percossa dalla realtà.
L'Espresso, 26/08/2004
Calvario Wojtyla
Per i cattolici più strenui, lo strazio pubblico di Karol Wojtyla è uno scandalo virtuoso, una provocazione vitale, una smentita assoluta della logica realtà postmoderna. Il mondo contemporaneo è leggero, il cristianesimo di Giovanni Paolo II è pesante. Ci vuole un certo anticonformismo per sostenere questa tesi: il pellegrinaggio a Lourdes è stato forse l'esibizione più crudele della vecchiaia e della malattia del papa. Davanti alla grotta delle apparizioni, Giovanni Paolo II ha detto: «Sono giunto alla meta del mio pellegrinaggio». Quasi un "consummatum est", il presagio della fine mischiato all'orgoglio di stare adempiendo a un compito irrinunciabile. Molti dei 300 mila fedeli che a Lourdes hanno assistito all'omelia dell'Assunta sono stati presi dalla commozione, anzi spesso dal pianto, quando il pontefice piegato dalla fatica, dal dolore, dal morbo che lo fa tremare, da una crisi respiratoria, si è guardato intorno quasi con smarrimento e ha chiesto: «Aiutatemi». Lo ha detto in polacco, riprendendo il linguaggio della sua gioventù forte, del suo passato atletico, della sua piena padronanza di se stesso: «Promoczie mi». Gli hanno dato un bicchiere d'acqua, mentre la folla lo sosteneva con un lungo applauso, vale a dire il sostegno di chi non ha altro strumento se non il gesto televisivo del battere le mani. Pianti, applausi. Rivolti entrambi a immagini di una fragilità estrema, punteggiate dal sospiro di alcune giaculatorie nella sua lingua natale: «Gesummaria», quando la voce si spegneva in gola e il respiro sembrava fermarsi. Vittorio Messori, sul "Corriere della Sera", non ha avuto dubbi: «In un mondo di lifting, di fitness, ecco un vegliardo con Parkinson in fase avanzata che continua, con fedeltà puntuale, il suo ministero, esponendo alle telecamere, agli obbiettivi elettronici, alle folle, lo sfacelo di un corpo tremante e ansimante...». Già, un supershow in perfetta e totale controtendenza, per chi apprezza gli scandali. Una negazione totale dell'ideologia contemporanea, che invece nasconde la malattia e la morte, rendendoli il tabù più forte del mondo secolarizzato, del tutto disinibito. Lourdes testimonia con una forza spettacolare inedita un "ecce homo" in cui il Vicario di Cristo, attraverso il suo personale calvario, «in un mondo che sembra più carente di forza morale che di tutto si lagna, di tutto fa tragedia», dimostra che lo spirito indomabile può «padroneggiare sino all'estremo la carne ormai riluttante». Davanti al "corpo banalizzato" di cui nella messa di Ferragosto a Milano ha parlato anche il cardinale Dionigi Tettamanzi, di fronte ai costumi «contagiati dal materialismo, edonismo e relativismo», il corpo del papa rappresenta una contestazione vivente, in cui la sofferenza e il dolore vengono vissuti come una testimonianza infinita. Va bene, ma a quale scopo? Qual è il senso di questa "Passion of Christ" a cui sembrano mancare soltanto gli slow motion e gli effetti speciali di Mel Gibson? Non sono mai sembrate particolarmente chiare e razionali le argomentazioni di chi sostiene che Wojtyla ormai da anni "cerca" il martirio: come se avesse chiaro da tempo che il suo corpo è stato sfruttato fino all'ultima fibra, che non c'è più speranza di un recupero fisico significativo, e per questo vale la pena di consumare le proprie membra sino alla fine, sino alla mortificazione e alla morte, affinché il servizio alla Chiesa e a Dio sia completo, esauriente, pervasivo, ulteriore. Secondo altre argomentazioni, i gesti estremi di Giovanni Paolo II rappresentano la negazione incarnata e visibile dei progetti più o meno riformatori, quelli che serpeggiano nella Chiesa ipotizzando l'istituzionalizzazione della fine del mandato papale. Sempre Messori giudica «manageriale», e quindi non consona alla radicalità del messaggio evangelico, una prospettiva ecclesiastica con incarichi a tempo, limiti di età, giudizio collegiale in base alle condizioni di salute, eventuali dimissioni per malattia o insostenibilità apparente dell'incarico. Secondo i tradizionalisti, la Chiesa non è un consiglio d'amministrazione. Ma altri osservatori delle vicende vaticane, dopo avere preso nota delle voci secondo cui poche settimane fa Wojtyla era sembrato prossimo alla morte, preda di una crisi apparentemente irrecuperabile (al punto da indurre a richiamare in Vaticano alcuni cardinali di curia), sostengono la tesi opposta: proprio l'esibizione mediatica della malattia del papa, proprio il peso insostenibile e per molti incomprensibile di quel corpo straziato potrebbe essere un argomento in più al prossimo conclave, inducendo a privilegiare un candidato che si manifesti ragionevole sulla durata e la sostenibilità fisica e intellettuale della missione papale. Ma al di là delle discussioni canonistiche sull'istituzione papale, con tutte le loro implicazioni teologiche, ciò che colpisce nella via crucis di Giovanni Paolo II è la rottura di una tradizione. Il riserbo sulla salute dei pontefici era tale da avere favorito la diffusione di sensazionali e ciniche battute secondo cui, ad esempio, «fino a qualche ora dopo la morte, la salute di qualsiasi papa è sempre eccellente». In secondo luogo, la liturgia cerimoniale, con la costruzione della ritualità del potere, è una convenzione vaticana suprema, che finora ha scelto sempre di velare più che di mostrare, e semmai di esibire lo splendore e non la miseria. Dei "due corpi del re", il corpo fisico e il corpo simbolico, che venivano attribuiti ai monarchi medievali, il sovrano e santo pontefice doveva mostrare quello culturale della gloria e della potenza, della sacralità e della fede, con i suoi simboli e i suoi gesti. Nulla doveva invece trasparire della debolezza e della infermità, del male che si annida nel corpo reale e lo svuota di energia e di potere. Perfino dopo la morte, il corpo del pontefice doveva apparire in una sorta di integrità miracolosa, garantita da balsami infallibili (salvo poi fallire spaventosamente, come si è sempre divertito a ricordare Alberto Arbasino, allorché il cadavere del "Duodecimo", papa Pacelli, "esplose" in piazza san Pietro, con le guardie svizzere svenute lì attorno). Invece adesso ci sono pool di esperti che aiutano i cardinali e i collaboratori del papa, se non il papa stesso, a valutare l'effetto mediatico della malattia esposta in pubblico, analizzando videocassette che raccolgono i servizi televisivi sui viaggi papali, per giudicare se la dolente vecchiaia di Wojtyla appartiene alla sfera del mistero, se esprime ancora un indicibile messaggio di conversione, se attrae la compassione o la pietà dell'audience mondiale, oppure se rappresenta ormai solo uno spettacolo intollerabile, completamente avulso dalla sensibilità comune, qualcosa da rifiutare come una sorta di hardcore della religione. Come ha ricordato il vaticanista Marco Tosatti su "La Stampa", non tutte le televisioni hanno pudore nel riprendere la decadenza corporea dell'ottantaquattrenne Wojtyla. Le reti americane «sono più impietose nel mostrare i momenti di debolezza o di stanchezza». E quindi in Vaticano ci si chiede se «l'icona del papa sofferente che vuole fare della sua malattia un'ulteriore arma di evangelizzazione» è ancora autentica ed efficace oppure è semplicemente insopportabile. Il papa che si accascia, che quasi cade, che fatica a respirare, che nel primo piano televisivo si asciuga un angolo della bocca con la manica ricamata sarà uno spettacolo impressionante, ma potrebbe anche essere un'immagine troppo dura e respingente. Probabilmente c'è nell'atteggiamento di Giovanni Paolo II una considerazione particolarmente sentita del cattolicesimo come di una fede materiale, addirittura carnale. Chi ha potuto vedere almeno una volta il papa pregare non ha potuto evitare di stupirsi di fronte all'intensità quasi dolorosa della sua preghiera, alla dedizione di una fede "hard", praticamente medievale, come se le mani e la fronte di Wojtyla si ponessero a diretto contatto con la pietra delle cattedrali in cui si è inginocchiato, cercando la divinità oltre la durezza della materia. Fino a qualche anno fa, il senso spettacolare della missione wojtyliana conferiva una forza speciale ai suoi gesti, sia che la sua voce echeggiasse altissima su tutto lo spazio dell'Europa cristiana, al di sopra delle separazioni geopolitiche, sia che consacrasse solennemente la Russia a Maria Vergine, adempiendo a un messaggio della Madonna di Fatima, sia ancora criticasse il trionfante capitalismo, indicando «i grani di verità» del marxismo. Ancora oggi la violenza profetica o semantica di Giovanni Paolo II è tale da mobilitare a Lourdes i "nuovi cattolici", le comunità tradizionaliste raccolte intorno alle grandi abbazie, con gli adepti giovanissimi che vestono abiti medievali. E il suo prestigio è tale che tutti i leader eredi della Francia radicale e giacobina, laica e secolarizzata, liberale e agnostica, tutti, da Jacques Chirac a Dominique de Villepin, compresi i prefetti in alta uniforme, a Lourdes gli hanno baciato la mano. Da una parte dunque si percepisce ancora la traccia di un carisma eccezionale, dall'altro si manifesta il rischio che la figura papale diventi un monstrum mediatico. Perché forse nemmeno un agitatore di eventi come Karol Wojtyla può permettersi di finire in un reality show permanente.
L'Espresso, 26/08/2004
Totò è un regalo dell’estate
I palinsesti estivi sono vuoti, ma anche in agosto ampie categorie guardano la tv: quelli che non vanno in vacanza perché l'hanno già fatta, i poveri tout court, gli intossicati che senza tv stanno male, quelli che hanno un paio d'ore libere, in ferie o no, nel pomeriggio e la sera. Per queste fasce sociali la tv estiva è dono del cielo, perché non trasmette nulla, e quindi anche i tossici si sentono liberi da obblighi. Ci si allunga sul divano, magari con le persiane abbassate sotto la calura, senza neanche consultare prima le pagine dei programmi. Perché la tv d'estate non tradisce mai. C'è sempre un film, un filmetto, un filmone da vedere. In questi pomeriggi in cui non si va in spiaggia, non si passeggia sugli alti sentieri, e in città c'è troppo caldo per lavorare, sono passati in questi pomeriggi alcuni film di Totò, a cominciare da "La banda degli onesti", che non è neanche un film, ma un trattato di come due grandi attori (l'altro è Peppino De Filippo) occupano le inquadrature con la loro gestualità corporea (ci si ammazza dalle risate a vederli litigare). Visto anche "Il monaco di Monza" e "Totò diabolicus", da cui si capisce che quando in Italia si facevano film di genere c'erano caratteristi supremi che ci campavano, altro che dilettantismo dell'intrattenimento tv contemporaneo, anche quando i film erano una mezza schifezza, tolti eventualmente due brani in cui Totò e Peppino facevano numeri comici cosmici. In altre ore, visti "Poveri ma belli", "I soliti ignoti" che è il più grande film del cinema italiano, "Audace colpo dei soliti ignoti" che ne è il sequel anche se allora non si diceva così, "Fumo di Londra" con Sordi che parla in inglese senza didascalie. Eccetera. I film d'estate, meglio se in bianco e nero, hanno un'ottima caratteristica: che non c'è alcun bisogno di vederli, perché li si è già visti. Quindi non ci sono urgenze di informazione o di curiosità. in poche sequenze si ricorda tutto il film o quasi, e a quel punto ci si può disporre alla visione senza ansia, e senza nessun senso di colpa per l'eventuale abbiocco. Anzi, una bottarella di sonno è augurabile, perché fa bene. La palpebra si abbassa, e mentre Totò e Peppino («Caro signor lo Turso»... «Lo Turco!») battibeccano prima di stampare il diecimila, il mondo si allontana senza angoscia e l'animo grato mormora addio, addio cari, e alla prossima estate.
L'Espresso, 19/08/2004
E un giorno Silvio dirà: è tutta colpa sua
Dentro la Casa delle libertà, i più cinici sostengono che in autunno, per giustificare il proprio fallimento a finanziaria disintegrata, Silvio Berlusconi produrrà un outing formidabile e darà tutte le colpe a Giulio Tremonti, il suo ex superministro. Sarebbe una sorte paradossale per il "genio" della Casa delle libertà, l'esponente governativo che avrebbe fatto contare di più l'Italia in Europa, il tecnico che sarebbe riuscito, prima con la sospirata Tremonti-bis, e poi con il taglio delle tasse, a galvanizzare il ceto delle partite Iva, e a legarlo stabilmente al centrodestra. In realtà Tremonti aveva un limite evidente, determinato dal fatto che la sua competenza, straordinaria come fiscalista, era meno professionale sul piano della macroeconomia. Più che un ministro portatore di una visione, il divo Giulio era l'uomo delle soluzioni alla carta. Ora spingendosi verso la frontiera liberista, ora recuperando la cultura statalista e "colbertiana". Questo sincretismo era piaciuto a Umberto Bossi: perché evidentemente il Senatur ammirava la creatività tecnica, ma amava soprattutto le grandi ricostruzioni tremontiane, i panorami fondati sulla "lex mercatoria", la ricchezza senza nazioni, la geopolitica del danaro. Il capolavoro di Tremonti era stato proprio la ricucitura fra il "traditore" Bossi e Forza Italia. Aveva spiegato al capo del Carroccio, con una delle sue formule speciali, che «la secessione l'ha già fatta l'Europa» portandosi via pezzi di sovranità nazionale, e che qui in Italia si poteva trattare sulla base di un federalismo approfondito ma non scassatutto. Tremonti era il vincitore morale delle elezioni del 2001. Risulta quindi sorprendente ancora adesso, a distanza di qualche settimana, che il più leghista degli uomini di Forza Italia sia stato lasciato cadere dalla Lega praticamente senza combattere. Berlusconi se l'è cavata con il grazioso cinismo dei sovrani assoluti, parlando del «cattivo carattere» del suo principale ministro e sostanzialmente facendo spallucce al verdetto di condanna di tre anni di politica economica. Fuggito nel suo buen retiro, Tremonti ha di fronte a sé un futuro politico dubbio. Può fare il consigliere-ombra di Berlusconi, se il suo orgoglio sulfureo non gli impedirà di fare buon viso privato al cattivo gioco pubblico. Un suo rientro al governo, anche dopo nuove elezioni, al momento sembra un'ipotesi incongrua. L'ex ministro in questo momento è una riserva della Cdl. Potrebbe partecipare alla corsa del dopo-Berlusconi, quando ci sarà un dopo. Oppure occupare una posizione di prestigio nella Lega. A meno che la delusione sia così profonda da impedirgli di rientrare nelle seconde file della politica, e di consigliargli di ridiventare il grande fiscalista che è stato.
L'Espresso, 19/08/2004
Nostalgia Moana
Aveva trasformato un mestiere abbastanza tremendo in una specie di tesi di laurea permanente. Foucault, Derrida, abissi psicologici, massimalismi della fisicità. Parlava del suo corpo come di uno strumento tecnico, un'estensione della volontà da usare in modo estremo. Collezionava flirt e passioni di alto livello mondano, citandoli quasi sempre per nome e cognome nel suo libro diventato un cult. "La filosofia di Moana" (60 milioni certi di pubblicazione in proprio e 20 mila copie dichiarate di vendita): da Luciano De Crescenzo a Marco Tardelli, da Renzo Arbore a Massimo Troisi, da Francesco Nuti a Nicola Pietrangeli con tanto di voti per le loro qualità personali e amorose, voto minimo al grande centrocampista della Roma Falcao. Eppure, fuori dalla mondanità romana e dal giro dei morti di fama, non aveva esitazioni a farsi accarezzare nuda, durante i suoi spettacoli furibondi e strampalati con Ramba, cioè Ileana Carusio, e l'altra "puledra di razza della scuderia di Riccardo Schicchi", l'italo-tedesca Petra Scharbach, concedendosi a folle di gente sudata e male in arnese che allungava disperatamente le mani. Talmente sensibile al richiamo della sessualità da girare metri e metri di pellicola su un'orgia con quattro maschi, per poi filare «a farmi scopare in bagno appoggiata a un lavandino» con il più attraente di questi, un tale Marc, passando dalla brutalità del film porno all'urgenza desiderante della realtà. Così raccontava e si raccontava Moana Pozzi, pornostar, ideologa del sesso, attrice che interpretava se stessa, morta in un ospedale di Lione per un cancro al fegato dieci anni fa, a 33 anni. Adesso Mondadori pubblica un libro postumo, "Il diario", a cura di Marco Giusti, e che uscirà a metà settembre. Ma è ancora un mito, Moana? Una figura in grado di risvegliare qualche scintilla nell'immaginario di massa? «Dio mio, non riconosco più il mio corpo che amavo tanto», aveva confidato alla famiglia, chiedendo di essere cremata. Era l'Italia degli anni Novanta, del post-Tangentopoli, del primo trionfo di Silvio Berlusconi, che pure non l'aveva voluta, al contrario di Antonio Ricci, nuda a "Matrioska", solo scarpe e orecchini. Allora Moana era l'icona possibile di un'Italia sospesa. Una ragazza dal fisico esondante, che aveva frequentato le elementari dalle Orsoline e il liceo scientifico dagli Scolopi, chitarra classica al Conservatorio, per scoprire il sesso a 14 anni, e in seguito teorizzare che la penetrazione è apprezzabile come fornitrice di piacere solo dopo aver compiuto i 17. Figlia di un ingegnere nucleare molto cattolico e impegnato nel volontariato, sorella di un'altra piccola star del porno, "Baby" Pozzi, vero nome Tamiko, ossia "fiore di nebbia" in giapponese, Moana, che «è il nome di un'isola delle Hawaii e in dialetto polinesiano significa "il punto dove il mare è più profondo"» aveva davanti a sé la vita deprimente della pornostar, dopo una gioventù di nottate spaventose e osée, di amanti ricchi, di relazioni con politici importanti: ma in quegli anni, anche se tutti capivano, nessuno scriveva chi era «il politico spiritoso con cui mi divertivo», il "cinghialone" che «adora le ragazze vistose», con cui Moana nel 1981 passò le notti di otto mesi di quasi amore, insomma quel segretario di partito che la prima notte passata insieme, di fronte a lei vestita come un'atomica del sesso, si limitò a masturbarsi «guardandomi e accarezzandomi», a dispetto del decisionismo maschilista che impersonava. Realtà, fantasia, non importa. Il segreto più intimo di Moana consisteva in una schizofrenia dell'esistenza e dell'apparenza, per cui c'era nelle immagini una sacerdotessa sacrilega di performance drammaticamente dure, e nella vita reale, o perlomeno nella vita fuori dal porno, una signora dalla faccia grande e dagli occhi un po' bovini che confessava di amare fra gli scrittori «Moravia, Kundera, Poe, la Yourcenar, Anaës Nin, Burroughs». Da una parte, il suo riflesso in un fumetto hardcore ricco di estremismi erotico-popolari, «alle cui fantasie qualche volta mi ispiro per i miei spettacoli», dall'altra una gran signora che riceveva moltissime proposte di matrimonio, che nella sua casa "da sultana" amava circondarsi di oggetti di arte sacra, inginocchiatoi, acquasantiere, e diceva di dormire «in una stanza tutta rosa in un letto a baldacchino stile Luigi XVI». Amante del denaro («Da buona genovese», anche se era nata a Lerna, provincia di Alessandria) e dei gioielli («Quando li indosso mi sento meglio fisicamente»), timida e preda di grandi imbarazzi, soprattutto alle conferenze stampa e davanti a fotografi e giornalisti, in quanto timorosa di non essere all'altezza: «Mi sento molto più a mio agio quando sono su un palcoscenico e mi esibisco nuda». Anche gelosa in amore, perché «dal mio partner non accetto la minima infedeltà» e antifemminista con qualche sprazzo di coscienza anticonformista e parafemminista, «per me la donna oggetto è la casalinga che lava, cuce, stira e cucina per la famiglia, senza nessuna gratificazione», Moana aveva la capacità di fare un cocktail di opposti: dichiarare una fede pacificata in Dio, nella vita dopo la morte, «immagino il Paradiso come un posto di campagna con tanti alberi. Penso che avremo vicino le persone a cui abbiamo voluto bene e che il tempo non esisterà», e nello stesso tempo annotare come sua principale massima filosofica «vivi come se dovessi morire domani e pensa come se non dovessi morire mai». Capace anche di dichiarare la sua avversione per la volgarità, «mentre l'oscenità è sublime», dopo film come "Le calde labbra bagnate di Moana", dopo collezioni di denunce per atti osceni e «un totale di 24 mesi di reclusione senza la condizionale», per poi confessare di tenere la Bibbia sul comodino, di fianco all'enorme letto coperto con lenzuola nere, leggendola a caso come se interrogasse l'"I Ching", il libro cinese delle trasformazioni. In un memorabile articolo pubblicato nel settembre 1994 subito dopo la morte della «pornodiva per bene», una maestra di stile come Natalia Aspesi aveva colto bene la doppiezza strategica della bella Moana: «Una Shahrazad capace di incantare per mille e una notte, pudicamente, il re disperato, riservando la sua ribalderia sporcacciona ad altri, i servi gli schiavi». Per poi ricordare, che «il giusto rispetto e l'autentico lutto» che avevano accolto la sua morte, e lo stupore generale per la scomparsa di una donna «che aveva scelto di morire in silenzio e di farlo sapere dopo, concedendosi il buio della fine senza ulteriori oltraggi», portava anche alcuni vistosi equivoci, come il necrologio sul "Corriere della Sera" con cui «il gruppo Garavaglia la onora definitivamente ricordandola come "esempio di vita"». Le definizioni di Moana furono infinite: «Una Jessica Rabbit in polpa, che pratica fellatio, cunnilinctus e ogni genere di coito, davanti alla macchina da presa o sui palcoscenici a luci rosse, senza mai perdere la naturale eleganza che le viene dalla nascita buona borghese», «una salamandra che passa indenne tra mille fuochi, questa sfinge che molti sfiorano ma pochi toccano veramente» (Marco Fini su "Epoca"). Comparsate anche dignitose in qualche film di Verdone, Salce, Risi, Corbucci, con la gemma di una particina in "Ginger e Fred" di Federico Fellini. Interviste, partecipazioni e dichiarazioni dappertutto, negli spettacoli di Fabrizio Frizzi e nei talk show di Giuliano Ferrara, Catherine Spaak, Giancarlo Magalli, in cui enunciava la sua morbida visione new age dell'eros. Adesso si tratterebbe di capire se Moana resti un simbolo anche ai giorni nostri, terzo millennio avanzante.Allora era una donna naturalmente politica, che poteva annunciare vaghi progetti con il partito degli anziani, di cui sarebbe stata la leader e l'infermiera erotica, e sostenere che l'Italia è un paese molto libero «in quanto è vietato tutto ma si può fare ogni cosa». Ma è difficile dirlo, soprattutto perché "l'estremo" praticato e mitologizzato da Moana un decennio fa si è lentamente trasferito nel costume. Delle vecchie compagne di strada, Luana Borgia, Milly D'Abbraccio, Eva Orlowsky, Jessica Rizzo, nessuna ha raccolto la staffetta ideologica della Santa meretrice. Tuttavia è sufficiente guardare l'immagine pubblica delle donne, fra piercing, tatuaggi, cavallo bassissimo, intimo in bella vista, per sospettare che la testimonianza di Moana appartenga per molti al passato: e per qualcuno alla nostalgia.
L'Espresso, 19/08/2004
È meglio nascere a Milano
Il programma-antidoto antiromano si chiama "Nati a Milano", su Raisat Extra (vista la puntata del pomeriggio di domenica 1° agosto, dedicata a Dario Fo). Chi scrive appartiene alla categoria di quelli che Fo. Cioè quelli che qualsiasi la tv passi del premio Nobel, restano lì pietrificati col telecomando inattivo, nell'illusione di rispondere all'annosa, irresponsabile e insoluta questione: fece, faceva, fa ridere, Fo? Il programma è condotto da colui che per qualcuno è il massimo scrittore italiano vivente, l'autore di "Io uccido", Giorgio Faletti, a cui si deve anche la sigla (tutt'altro che ignobile, perché Faletti è un eclettico, minchia, anche quando faceva "Drive In" minacciando «Anatrema su di voi», e poi tramontava nelle tv locali usando l'interiezione padana «c'la vàca»). Faletti si insinua tra il materiale d'archivio e sembra sempre che debba inciampare, e non venirne fuori: e invece non inciampa mai, ma con questa tecnica ansiogena si tiene attaccati gli apprensivi. Poi, com'è naturale, il programma vive delle sequenze di repertorio. Televisione antica e moderna: Fo a "Canzonissima", Fo in bianco e nero, Fo che fa il gregoriano, Fo che racconta la storia del «pursell in del smerdasso», Fo che ripete «Frènca», Fo che indottrina il pubblico e gli spiega le barzellette medievali. Si vedono anche alcune scene divertenti con Enzo Jannacci, e allora vengono in mente almeno due cose: primo, che una delle prestazioni migliori, questa sì da Nobel, fu quella volta o due che Fo cantò "Ho visto un re" insieme proprio con Jannacci (e magari c'era anche Renato Pozzetto); secondo, che il grande scrittore Fo stava benissimo con i lingera milanesi, nei locali sulla cerchia dei Navigli, e chissà perché gli è venuta la smania politico-culturale. Infine, se non ci fosse da correre dietro a dati di audience che si sa che sono tarocchi ma bisogna fare finta che siano veri, varrebbe la pena che a Faletti dessero un bel programma culturale, qualcosa sui libri, sugli scrittori, sugli assassini, sul giallo, sul noir, sugli apostrofi, qualsiasi roba. Perché è lento e rassicurante, la sintassi gli torna, le parole gli vengono, o almeno se le è scritte in fila: e allora, per contrappasso, tanto vale mettere a frutto lo stramilione di vendite di "Io uccido" per fare un programma che stenda senza rimorsi le poche decine di migliaia di spettatori che non leggono i bestseller, ma sopportano la cultura.
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