L’Espresso
L'Espresso, 24/06/2004
Professor Ottovolante
Un miracolo. Diciamo uno scampato pericolo? No, proprio un miracolo. Facciamo un miracolino? No, un miracolo fatto e finito. Nell'ambiente prodiano, da Arturo Parisi a Giulio Santagata, l'inner circle di "Romano" smonta con ostinazione la teoria della delusione sul risultato della lista "Uniti nell'Ulivo". Arturo Parisi ha fatto e rifatto i conti sul suo computer, aggiungendo, sottraendo e comparando. Al termine di un esercizio di fredda cura analitica salta fuori un piccolo segno positivo. Una minuzia, ma in quei conteggi c'è la dimostrazione matematica che nel voto europeo il Triciclo non ha perso voti rispetto alle sue componenti. D'altronde, sostiene l'ambiente, Silvio Berlusconi ha visto volatilizzarsi quattro milioni di voti, quasi il 9 per cento rispetto alle elezioni politiche: e noi stiamo a sindacare su qualche decimale di punto che dimostrerebbe il fallimento del Listone e la fine politica di Prodi? Storie. Sulla valutazione del voto occorre tenere conto di due dimensioni distinte. Il lato psicologico e il lato logico. Psicologicamente il risultato del Triciclo è stato condizionato dalle aspettative eccitate dai sondaggisti, e in qualche caso dalle sparate di qualche protagonista esuberante come Massimo D'Alema («Se noi facciamo il 36 e Berlusconi fa il 19, il governo va a casa»). Ancora nella serata di domenica 13 giugno, i pollster indicavano per la lista prodiana risultati sensibilmente più alti del 31,1 per cento finale. Al punto che nelle dirette televisive della serata elettorale Piero Fassino si è lasciato andare alle sue ormai celebri e sterili esecrazioni contro la «manipolazione» del risultato attraverso exit poll e proiezioni (commento: la manipolazione c'era, ma era tesa a proiettare nel pubblico un risultato morbido per Berlusconi, in modo da influenzare i titoli dell'indomani). Dal punto di vista logico, invece, se vogliamo fare l'esame di coscienza e magari recitare l'atto di dolore per la lista unitaria, bisogna ragionare diversamente. Conviene mettere realisticamente in fila i buchi neri del listone. Il primo è un buco colossale: la mancata valorizzazione del simbolo. L'elettore generico si è trovato di fronte a un lenzuolo con 25 contrassegni ed è dovuto andare a cercarsi l'Ulivo con pazienza certosina. Qualcuno stima che si sia realizzata una percentuale di errori, nell'espressione del voto, vicina all'1 per cento. Pazienza, anche se per un'esperienza inedita come il Listone il mancato investimento sul simbolo elettorale è una castroneria spaziale. I buchi neri successivi sono invece tutti politici, in parte necessitati, in parte frutto di interessi politici in attrito. È mancata, per forza di cose, una regia unitaria, e un luogo in cui esercitarla: l'impossibilità di candidarsi da parte di Prodi ha inibito la personalizzazione, ossia la possibilità di collegare al Triciclo la figura del capo, e questa distanza ha significato un debolissimo esercizio della leadership. Mettiamoci anche una serie di elementi di contorno. La scelta di non presentare i leader di partito, tranne D'Alema al Sud, ha affievolito il richiamo della lista, a dispetto di qualche invenzione vittoriosa come la candidatura di Lilli Gruber, premiata da un plebiscito di preferenze. Infine, era sotto gli occhi di tutti che il Listone agiva con una logica maggioritaria dentro il sistema proporzionale (secondo lo stesso Prodi nella sua recente intervista a "L'espresso": «un tuffo ad alto indice di difficoltà, carpiato, con due o tre avvitamenti, magari con giudici di gara non proprio amichevoli...»). La triste scienza dei praticoni della logica elettorale aveva già avvertito che incombeva lo schema implacabile "uniti si perde" e che la somma è sempre inferiore alle sue parti. E va aggiunto che la faticosissima costruzione delle liste per le amministrative, dentro un contorno di trattative estenuanti, di ritagli di potere, di spartizioni complicatissime, ha contribuito a diffondere l'idea che all'atto pratico ogni partito giocava per sé, altro che lista. Insomma, la partita si svolgeva tutta fuori casa. Ma non è finita: il risultato elettorale, con quel 13 per cento conquistato dall'area esterna a sinistra del Triciclo (Comunisti italiani, Verdi, Rifondazione comunista) stabilisce per il futuro un complicato rapporto con i partiti collettori del no alla guerra in Iraq. Su questo aspetto specifico la lista unitaria ha giocato un match praticamente indecifrabile: gli strappi di Francesco Rutelli, con lo scavalcamento a sinistra ai danni di Fassino, hanno portato il centro-sinistra alla presentazione della mozione per il ritiro delle truppe italiane, proprio mentre la situazione diplomatica internazionale dava segnali di movimento. Successivamente, l'intervista al "Corriere della Sera" dell'autore del programma ulivista, Giuliano Amato, in cui si definiva uno «sbandamento» la mozione, ha comunicato agli elettori incertezza su un tema delicatissimo per una forza di governo. Può darsi che tutto l'atteggiamento sull'Iraq abbia influito soprattutto sul giudizio delle classi dirigenti, e non sulla generalità dell'elettorato, ma ha comunicato una tonalità contraddittoria, una specie di mobilità delle convinzioni che non ha offerto un'idea particolarmente brillante della coerenza del Triciclo. Tanto più che in prospettiva la lista unitaria deve affrontare almeno due temi piuttosto caldi. Da un lato infatti c'è la cattiva prestazione della Margherita, resa visibile alle elezioni provinciali da un risultato sotto il 10 per cento: «Se non c'era il Listone», è il commento all'interno del clan prodiano, «sarebbe stato un disastro, perché la combinazione di una Margherita bassa con i Ds alti, al 23 per cento, avrebbe potuto scatenare effetti disgregativi catastrofici». Nelle riunioni immediatamente convocate dopo la domenica elettorale, Parisi ha frenato entusiasmi e delusioni. Ricordatevi, ha detto, che l'Italia rimane fondamentalmente un paese di centro-destra. Anche un'analisi ragionieristica sembrerebbe confermare questa diagnosi. A dispetto di un corale giudizio negativo sull'azione di governo, gli elettori non si spostano dalla Casa delle libertà all'Ulivo. Secondo alcune elaborazioni, si può stimare in una quota non superiore al 2 per cento il voto di Forza Italia trasferitosi al Listone. Il pollice verso all'esecutivo rifluisce in parte nell'astensione e in parte fra gli alleati della Casa delle libertà. Il tema più bollente è comunque il malumore nella sinistra Ds, tra le file del Correntone, dove il Triciclo viene liquidato da Salvi e Folena alla stregua di un rottame politico. Affiora di nuovo la tentazione della "gauche plurielle", e sullo sfondo si staglia la figura incombente di Walter Veltroni come leader di raccordo fra centro, sinistra e movimenti. Per Prodi si profilano sei mesi sull'ottovolante. Ma il suo chirurgico blitz martedì 15 giugno, con la pubblicazione su "la Repubblica" di un nuovo manifesto, volto alla realizzazione in autunno dell'assemblea costituente dell'Ulivo, ha messo i bastoni fra le ruote a tutti coloro che avevano accolto con il mal di pancia l'iniziativa unitaria. Dire di no a Prodi significherebbe tagliare le gambe alla sua difficile leadership. Ed è per questo che nonostante la sorpresa (e talvolta l'irritazione evidente anche nella Margherita) con cui è stata accolto, il manifesto ha ottenuto un risultato. Cioè di fissare l'esperienza del Triciclo come qualcosa a cui non si può rinunciare per impazienza o per insofferenza. La sinistra è talvolta geniale nell'escogitare il modo di farsi del male. Tuttavia adesso c'è il «punto di partenza» (definizione dello stesso Prodi) per sviluppare l'esperienza unitaria. E allora c'è qualcuno che vuole assumersi esplicitamente la responsabilità di buttare per aria tutto e di ricominciare da capo? C'è davvero in campo l'ipotesi tafazzista di rifare la "gioiosa macchina da guerra"? È vero che la fantasia masochista della sinistra è sconfinata, ma questa volta, dice il votatissimo Enrico Letta, «abbiamo tutti un impegno non soltanto con le nomenklature ma con 10 milioni di italiani che hanno investito su questa novità». Dimenticarsi degli elettori non sarebbe un esempio di acutezza politica superiore.
L'Espresso, 24/06/2004
Mercoledì in trincea
Se qualcuno ha visto "Band of Brothers" alla prima uscita sugli schermi di Mediaset, approfittare della replica è un'opportunità (Rete 4, mercoledì, seconda serata). Se non l'ha visto, è un obbligo. Dieci film, prodotti da Steven Spielberg e Tom Hanks, un lungo spin-off di "Salvate il soldato Ryan", un pool di registi capitanati da Hanks: ma queste sono pippette per specialisti, perché poi uno si mette sul divano e che cosa vede? Vede uno dei telefilm più hard boiled mai apparsi in tv. Storia molto classica, la compagnia aviotrasportata che fa l'addestramento in Georgia, il D-Day, il dirty job da fare casa per casa sul continente. Roba per psicologie strutturate, perché a parte le interruzioni pubblicitarie e poche sequenze ospedaliere o di riposo dopo la battaglia, "Band of Brothers" è un film che si vede a chiappe strette. Una tensione continua, che non si scioglie mai. Trincee, incursioni, agguati, bombardamenti, esplosioni. Che il D-Day e l'avanzata contro i tedeschi nel 1944-45 fossero stati una faccenda micidiale lo si era visto grazie a Spielberg. Ma "Private Ryan" era spaventoso per i primi 20 minuti, poi diventava un film di genere; "Band of Brothers" (citazione da Shakespeare, "Enrico V") è più opprimente, ossessivo, livido. Ci si mette davanti alla tv con l'animo di chi rispetta un dovere d'ufficio, perché nessuno sano di mente può rovinarsi la seconda serata in questo modo, e si assiste all'incubo. Morti, feriti, sparatorie che non finiscono mai, assalti praticamente suicidi, difese a oltranza, il solito quartier generale di dementi che ordina la mission impossible. E sullo sfondo, a battaglia conclusa, i fuochi lugubri che bruciano le case. Soltanto dopo la liberazione di una città, mentre i soldati della Easy Company vanno in giro con l'aria spossata dei vincitori, ci si distende un po': un soldato offre un pezzo di cioccolata a un bambino; quello la guarda con aria diffidente; il padre spiega: «Non l'ha mai vista». Quando il bimbo affonda gli incisivi nella tavoletta e si intuisce la dissolvenza finale, scoppiate in singhiozzi anche voi cinici che vi siete molto divertiti per la chiraccata del mancato invito a Berlusconi all'anniversario del D-Day, ma anche voi pacifisti, no global e antiamericani, perché in quel momento lì, altro che storie, l'America è l'America.
L'Espresso, 17/06/2004
Tre uomini un voto
Brividi nell'Ulivo. Timore di avere perso il patrimonio nell'ultimo giro di roulette. Nelle ore che mancano al 12-13 giugno si sprecano le analisi per cercare di capire se la liberazione degli ostaggi Stefio, Agliana e Cupertino costituirà per il centrosinistra una specie di caso Zapatero alla rovescia. Il rimbombo mediatico è stato fortissimo ed è avvenuto nei giorni cruciali della campagna elettorale. Proprio per questo, conviene prendere in esame con freddezza le possibili conseguenze politiche di un caso che è la sintesi di una politica estera tutta giocata in chiave domestica. A prendere le distanze dal pur naturale picco di emotività determinato dal felice esito del blitz, si dovrebbe mettere a registro che la vicenda dei quattro italiani sequestrati è un episodio dentro il disastro iracheno, che per gli italiani aveva già comportato le 19 vittime di Nassiriya e la morte del lagunare Matteo Vanzan, oltre a un impegno sul campo che aveva trasformato una presenza di "peace-keeping" in una missione di guerra. È su questo sfondo che vanno rilevati alcuni aspetti. Punto primo, che riguarda la destra: il governo Berlusconi si è appropriato con entusiasmo della liberazione degli ostaggi rivendicando un ruolo di fermezza strategica, e mettendo così da parte alcuni precedenti imbarazzanti e difficilmente dimenticabili come la prestazione del ministro Franco Frattini a "Porta a Porta" nelle ore dell'assassinio di Fabrizio Quattrocchi e i festeggiamenti milanisti del premier in coincidenza con la morte del caporale Vanzan. Ma il protagonismo governativo non dovrebbe far dimenticare che la presenza italiana in Iraq è il frutto di una scelta avventurosa, condotta sulla scia di un legame velleitario con la politica dell'apparato "neo-con" della Casa Bianca. Punto secondo, che invece dovrebbe portare a un serio riesame il centrosinistra: le mozioni possono fare male a chi le vota. Quella per il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq è stata un'iniziativa molto appariscente, visto che ha unito tutto il centrosinistra. Poteva contare su un larghissimo atteggiamento contrario alla guerra da parte dell'opinione pubblica e coagulava l'intero fronte politico che si era opposto all'intervento e alle acrobazie "non belligeranti" con cui Berlusconi aveva fatto l'americano restando molto italiano. Ma alla fine il sospetto di un boomerang è fortissimo. Perché per uno di quegli incidenti che accadono talvolta in politica, la mozione è stata discussa in Parlamento mentre la situazione era già mossa. La rigidità della posizione assunta è stata fatta grippare dal mutare del quadro diplomatico, dalla svolta in atto. La stessa manifestazione pacifista svoltasi a Roma il 4 giugno contro la visita di George W. Bush, aveva messo in luce che nonostante la mozione unitaria persiste un'incompatibilità di fondo fra il nucleo duro del centrosinistra e l'area esterna al listone. L'assenza del Triciclo all'iniziativa romana costituiva la dimostrazione della distanza rispetto alle forme di protesta della sinistra oltranzista. Inoltre il sollievo per l'esito morbido della manifestazione non nascondeva l'evidenza che le sinistre sono ancora divise, e che i movimenti rappresentano una realtà irriducibile alle logiche di una coalizione che si candida come forza governativa. In questo quadro la bomba carta esplosa a Bologna l'8 giugno durante un comizio di Gianfranco Fini è un segnale distorsivo e manipolabile. Non esiste nessuna contiguità fra i pacifisti e gli eventuali anarco-insurrezionalisti. Ma i movimenti costituiscono una realtà fortemente espressiva quanto numericamente limitata. Il continuo disagio che si manifesta nel centrosinistra fra una prospettiva di governo e il richiamo della protesta è il sintomo di un problema ancora irrisolto e di scelte che non sono ancora state compiute con nettezza. Certo poteva apparire poco credibile che l'amministrazione Bush passasse dalla dottrina della guerra infinita al riconoscimento del ruolo dell'Onu e all'affannoso tentativo di insediare un governo autoctono in Iraq, e che il capo del governo italiano realizzasse una delle sue numerose giravolte sul tema. Ed è senso comune che le ragioni dell'intervento militare fossero pretestuose, basate su prove rivelatesi false, concepite all'interno di una teoria generale della guerra al terrorismo tale da garantire al mondo decenni di conflitti. In sostanza è vero che la frittata l'hanno fatta gli americani, e il nostro governo si è infilato in un'avventura improbabile, per la quale l'Italia ha pagato prezzi molto elevati. La scoperta delle torture e delle umiliazioni inflitte ai prigionieri iracheni ha infiammato il clima e ha messo in campo una questione etica e di civiltà. Ma è stato efficiente dal punto di vista politico forzare la mano mentre si delineava un cambio di sequenza? Si può continuare a essere ragionevolmente scettici sull'evoluzione reale delle vicende irachene e sulla restituzione di sovranità, ma resta il fatto che la virata è stata tanto spettacolare quanto sottovalutata a sinistra per giorni. È vero che riesce incongruo attribuire a chi ha fatto il danno, o a chi vi ha contribuito, la patente salvifica di autore del rimedio. Ma anziché incassare con soddisfazione la svolta onusiana ed "europea", il centrosinistra si ritrova ora a inseguire, come ha cominciato a fare Francesco Rutelli, una linea appropriata a una forza di governo. Il che apre nuove fratture al suo interno e lascia Berlusconi padrone di gestirsi pubblicamente il ruolo di mosca cocchiera del cambio di marcia. Soprattutto, concede al premier l'immagine di chi gioca al tavolo principale, mentre i comprimari dell'opposizione boccheggiano fuori dalle stanze giuste. Conta fino a un certo punto che il premier italiano sia stato killerato da Jacques Chirac, con il mancato invito alle celebrazioni per l'anniversario del D-Day (una delle più teatrali rappresaglie francesi contro l'"italien" Berlusconi); e che la trattativa sulla nuova risoluzione dell'Onu sia stata condotta largamente dalla diplomazia francese, nel nuovo clima di appeasement con gli americani. Ciò che importa è che il centrosinistra si è trovato all'improvviso in una condizione sfasata rispetto allo sviluppo degli avvenimenti. Il ferreo controllo sull'informazione televisiva ha consentito a Berlusconi di presentarsi come il coautore della svolta, quasi l'ispiratore della nuova geopolitica bushista. Già qualche tempo prima della liberazione degli ostaggi italiani, i sondaggisti avevano rilevato un'increspatura delle preferenze elettorali più favorevole (o meno sfavorevole) a Forza Italia. Ciò che resta da valutare è se la cifra mediatica dettata da Berlusconi riuscirà a mettere in secondo piano il giudizio dell'opinione pubblica sul governo Berlusconi. Ovvero se l'alone di statista che i telegiornali hanno cucito addosso al capo di Forza Italia influirà significativamente sul voto alle europee e alle amministrative. Sembra certo invece che se il centrosinistra ha tentato la spallata, cercando di coagulare tutto il fronte del rifiuto della guerra, l'operazione è fallita. Sui media controllati dal potere politico si assiste allo show infinito di Berlusconi, uomo di Stato, fine diplomatico, gran tessitore, partner e suggeritore dei grandi. Che si tratti di una recita dovrebbe essere evidente. Ma proprio per questo, ancora una volta, il tema fondamentale resta quello di opporre al centrodestra argomenti politici puntuali: senza scorciatoie, e senza l'illusione che un colpo di teatro possa sostituire una prospettiva politica di alternativa seria e coerente. Per la prima volta in dieci anni sembrava che l'invenzione del listone, insieme con la delusione generale per le politiche di governo, potesse preludere alla messa in mobilità di fasce elettorali anche nel campo avverso. Gli errori del centrosinistra rischiano di consegnarci un dopo-europee con un bipolarismo ancora più bloccato. Il confronto si polarizza di nuovo, diventa ancora più radicale. E quando il gioco si fa duro, Berlusconi ha risorse infinite da usare contro i comunisti, gli estremisti, gli inadatti a governare.
L'Espresso, 17/06/2004
Negli Usa è tutto un altro show
Per noi provinciali la visione del "Tonight Show" di Jay Leno e del "Late Show" di David Letterman (entrambi sottotitolati tutte le sere su Raisat Extra) è un modo per evitare con un dribbling internazionale i porta a porta, i ballarò, gli excalibur. Quindi una fuga da doveri politici o para-professionali. Detto questo, frega niente se Leno è l'America profonda e Letterman è l'America superficiale, se David è New York e Jay è "the other coast", se Leno ha fregato Letterman negli ascolti e se quest'ultimo se ne fotte. Tanto per chiarire, Letterman ha le rubriche migliori, tipo "George Bush pretends to be interested", ossia finge di essere interessato di fronte a una signora che presiede un'associazione per il recupero dei bimbi poveri e gli spiega diffusamente i suoi faticosissimi programmi. Mentre Leno ha una faccia che sembra una caricatura, mascella e mento spaventosamente grandi, un classico americano con problemi di dieta, a prima vista non proprio attraente. Il punto debole di Letterman è quello che dovrebbe essere il suo punto forte, la "Top Ten", rubrica peraltro imitata da tutti, perché troppo legata a inezie d'oltreoceano. Ma a occhio, se si tratta di fare il tifo, l'"europeo" Letterman è meglio anche se da tempo perde punti di share. Tuttavia alla lunga, superati i primi fastidi molto epidermici, anche Leno ce la fa ed entra. Sono due esempi di televisione finto povera, dove l'esilità della trama dello show è ravvivata da ospiti spesso sensazionali, molto più bravi a tenere la scena di qualsiasi italiano contemporaneo che fa l'ospite di professione. Letterman infiocchetta il suo show con rubriche stupidine, Leno con rubriche stupidotte, ma sullo sfondo si sente il brusio della macchina produttiva, di redazioni e autori, tutti premiati da un pubblico in studio entusiasta. Poi, volendo, si possono anche tentare analisi amplissime e generali, secondo cui da noi hanno trasformato l'approfondimento e il dibattito politico in un talk show continuo, mentre negli Stati Uniti sembra che i confini di genere tengano ancora. Chiederemo conferme. Ciò che risulta divertente è che la mattina, nei bar, si sente qualcuno citare qualche battuta di Letterman. Il che vuol dire che la provincia dell'impero, se non altro, è attentissima e ha voglia di un'evasione dall'evasione.
L'Espresso, 10/06/2004
Ritorno al futuro
Casa bolognese di Romano Prodi. Si affacciano gli amici più fidati, si scrutano gli ultimi sondaggi. I discorsi sono dominati dall'impressione suscitata dalle vicende della Fiat, ma anche dalla sensazione che parti significative dell'establishment si stiano ricollocando. Segnali di fumo da Confindustria, Banca d'Italia, grande finanza. Cambio di tendenza possibile. Prove di riallineamento probabile. Può essere che le élite economiche anticipino il giudizio del corpo elettorale, esprimendo di fatto un pollice verso per Silvio Berlusconi. Intanto però tutti gli occhi sono puntati sulle elezioni europee del 12-13 giugno, che daranno il primo responso su come l'opinione pubblica ha reagito all'iniziativa unitaria lanciata da Prodi nel luglio scorso. Comincia di qui una conversazione che poi si svilupperà fino a comprendere i punti fondamentali della riflessione politica del leader dell'Ulivo. La lista unitaria è attesa a una prova impegnativa. Una sua affermazione cambierebbe il sistema politico italiano. Un insuccesso potrebbe riportare tutto al punto di partenza. «Dobbiamo uscire dall'idea che un punto percentuale in più o in meno cambi significativamente il nostro progetto. C'è un messaggio unico e coerente, che esce dagli incontri della lista Uniti nell'Ulivo, secondo cui siamo costruendo una coalizione che permarrà dopo il voto, con la prospettiva esplicita di candidarsi a governare il paese». Ma ammetterà che i numeri elettorali hanno un significato. «Il punto fondamentale è che noi non abbiamo realizzato un'alleanza elettorale, un cartello di partiti. Ci sono due argomenti che voglio sottolineare. Il primo: mi sono rifiutato seccamente di dare il mio nome alla lista. Come è stato detto, i nomi passano, l'Ulivo non passa. Il secondo: abbiamo scelto consapevolmente di giocare fuori casa, in un'elezione che si svolge con il sistema proporzionale. Abbiamo ragionato in controtendenza rispetto agli interessi "egoistici" dei partiti. Tutti dicevano che la formula proporzionale esalta lo schema "divisi si vince": ebbene, noi abbiamo rischiato. Non ci si assume questo rischio se non c'è progettualità». Lei ci crede. Qualcun altro è sembrato crederci meno. «So benissimo che si tratta di una prova generale, e come in tutte le prove generali si vedono i difetti, le manchevolezze. È un tuffo ad alto indice di difficoltà, carpiato, con due o tre avvitamenti, magari con giudici di gara non proprio amichevoli...». È per questo che ha deciso di impegnarsi direttamente nella campagna elettorale, suscitando gli attacchi del centro-destra? «Su questo punto voglio che non ci siano dubbi o incertezze. Io rivendico in pieno il mio diritto di lavorare politicamente. Lo hanno fatto in passato Delors, Santer e ancora prima Roy Jenkins. Rivendico il diritto di lavorare sui contenuti politici. Non mi sono candidato, così come non ho voluto che il simbolo della lista contenesse il mio nome. Ma la presidenza della Commissione europea, che implica obblighi di neutralità e imparzialità fra i paesi membri, non inibisce l'elaborazione di idee e riflessioni politiche, e la loro pratica sul campo». Ma il tuffo carpiato, la prova generale, a che cosa deve condurre? «L'obiettivo è quello della creazione di un settore, il più ampio possibile, di stabilità politica e di credibilità in chiave di governo. Non c'è nulla nel sistema politico italiano che abbia il potenziale di attrazione della lista unica. Nello stesso tempo, quando ho parlato di rischio, non mi riferivo soltanto al centro-sinistra. Se la lista unitaria dovesse andare sotto le attese, contemporaneamente a un cattivo risultato di Forza Italia, ci troveremmo di fronte a una situazione di virtuale pre-crisi di sistema». C'è chi lavora per uno scenario di disgregazione. Sono attivissimi quelli che "il Riformista" chiama i "neo-prop", i mestatori del ritorno al sistema proporzionale. «I nostalgici ci sono sempre stati e forse ci saranno sempre. Ma credo che il nostro progetto esprima anche un desiderio di semplificazione sentito dall'opinione pubblica, avvertito come una seria e buona razionalizzazione della politica». Ma al di là dei ragionamenti sul sistema politico, qual è il messaggio che la lista unitaria rivolge alla società italiana? Sempre il messaggio ulivista di quasi dieci anni fa? «Il messaggio politico del 1995-96 era un messaggio importante, in quanto esponeva la convergenza di ispirazioni culturali diverse: la tradizione cattolica riformista, laica, socialista. In quanto tale, il messaggio è ancora perfettamente proponibile all'Italia di oggi». Ammetterà tuttavia che nel frattempo il paese è cambiato. «Certo, ma la crisi italiana di oggi rende la lista unitaria ancora più credibile. C'è una crisi sociale che prima era sottotraccia, e ora è evidente. Il nostro compito, lo dico con una sintesi estrema, è di restituire la gioia di vivere al paese. Non si tratta di una formula. Dobbiamo fare tutto il possibile per uscire dal cerchio maligno della depressione. È necessario agire sulla politica economica e su una modalità di iniziativa in Europa che ci permetta di risalire la corrente. Recuperare un ruolo attivo e un atteggiamento di cooperazione che ci ricollochi nei principali organismi internazionali». Cosa vuole dire, che l'Italia è esclusa dal giro? «Guardo i numeri, e vedo che siamo in coda nei dati di crescita. Il bilancio pubblico è in tensione. Ma l'elemento più preoccupante è l'andamento negativo nel commercio estero: l'arretramento sui mercati mondiali rappresenta un rischio vero di arretramento del paese. Per questo c'è bisogno di stare in una grande alleanza, di contribuire alla ripresa di cooperazione e sinergia con gli altri paesi europei». Per la verità l'Italia sembra avere cercato in tutti i modi di separare le proprie sorti dal mainstream europeo. E non solo in politica estera, sposando l'unilateralismo americano; ma anche con la sostanziale adozione di politiche economiche fuori linea rispetto alla tradizione europea. «Non si è capito che ci trovavamo in un passaggio di fase: è ciò che volevo segnalare quando ho detto che il pensiero unico era finito, e che non bastava più gridare "mercato, mercato". Oggi emerge la necessità della coesione sociale, come fattore che può consentire performance migliori e più durature anche sul piano economico. Noi dobbiamo scegliere fra una società che include e una società che accetta e incorpora l'esclusione». È sempre il vecchio discorso sull'economia europea, il modello renano, l'economia sociale di mercato. «No, o meglio, non solo. Pensiamo alla sfida cinese. Di fronte all'emergere della Cina, dobbiamo capire che possiamo essere capaci di reagire solo se siamo una società che non si spacca, che trova le risorse e le energie per una risposta. Questo toglierebbe di mezzo anche la visione della Cina come di una minaccia. Una minaccia? È un dinamismo che tonifica l'economia mondiale, c'è un intero continente, l'Asia, che si mobilita, c'è ricchezza che si crea e che verrà distribuita... Dopo di che, è vero che i paesi si comportano diversamente, rispetto al mutare delle condizioni competitive, e offrono risposte diverse a seconda delle loro condizioni interne. Sotto questo profilo, è o non è essenziale il ruolo dell'Europa? È o non è essenziale che l'Italia riprenda un ruolo cooperativo nell'Unione europea?». Intanto però si sente invocare sempre e comunque la litania delle "riforme". Cioè privatizzazioni, liberalizzazioni, flessibilizzazioni, precarizzazioni. «Una ricetta che ormai è insufficiente, nel contesto dei mercati mondiali. È vero, ci sono ridisegni strutturali dello stato sociale che devono essere compiuti, ma sarebbe illusorio pensare di competere con i paesi emergenti semplicemente tagliando il welfare. Non siamo l'America, che ha sempre convissuto con una quota ingente di marginalità sociale: decine di milioni di persone escluse dall'assistenza sanitaria, lavoratori che entrano ed escono dal lavoro. Per funzionare, gli Stati Uniti necessitano di quello che una volta si chiamava "esercito industriale di riserva". Ci vuole una filosofia forte per fare funzionare un sistema del genere. E noi, in Europa, siamo cresciuti avendo dietro di noi un'altra filosofia. Nell'ambito dell'Europa continentale solo in Italia si pensa che sia praticabile una via americana». E quale sarebbe allora la via europea? «Scuola, ricerca. Più risorse alla scuola, e una partecipazione diretta al grande circuito e ai grandi progetti della ricerca. Poi serve una politica industriale che tenga conto dei mutamenti: andiamo infatti verso un sistema in cui le grandi imprese sono tendenzialmente europee, non nazionali. Lo si vede bene nei trasporti, nell'energia, nelle aerolinee, nel settore farmaceutico. Tutto ciò pone all'Italia problemi seri: vent'anni fa, eravamo un paese abbastanza grande e popoloso per consentirci un'ampia varietà di sistemi produttivi. Oggi, nell'orizzonte della globalizzazione, è necessario scegliere e concentrarsi su alcuni settori. Individuare la dinamica, investire, specializzarsi». E che resterà del sistema italiano delle piccole imprese? «Le piccole imprese resteranno, ma occorrerà aiutarle a stare sul mercato globale. Bisognerà metterle insieme, offrire una strumentazione che consenta attività comuni, dotarle di servizi accessibili a questo scopo. Ma in proposito occorre avere chiaro che non possiamo restare in un'economia domestica, o addirittura autarchica. Io assisto con preoccupazione e malessere a certi piccoli e grandi segnali regressivi, ad alcuni indizi cattivi, come nel caso dell'euro, con la gente che sulla scia della televisione, e non solo della televisione, riprende a fare i conti in lire...». Lei ha parlato della necessità di uno sforzo corale per uscire da una sorta di depressione. Ma non possiamo dimenticare che tutto il paese è sotto l'ombra maligna della guerra in Iraq, e questo genera angoscia, turbamento, non soltanto conflitto politico. «Sulla guerra rivendico una coerenza assoluta. Ero contrario all'intervento unilaterale in Iraq, perché la guerra non avrebbe risolto il problema del terrorismo, non avrebbe stabilizzato l'Iraq, e non ci avrebbe resi più sicuri. Il giorno della vittoria, quando mi chiesero se ero contento che fosse finita, risposi che sarebbe stato meglio che non fosse mai cominciata. Oggi sono convinto che ci vuole un cambiamento reale, e questo cambiamento reale significa ruolo dell'Onu e coinvolgimento dei paesi arabi. È così che si conduce la lotta comune contro il terrorismo, è così che si esprime anche la vicinanza, l'amicizia e la solidarietà agli Stati Uniti».
L'Espresso, 10/06/2004
Lotta di classe nel reality show
La crudeltà etologica si addice al reality show. Soprattutto se nell'etologia c'è riflessa l'antica separazione classista. "Cambio Moglie" (FoxLife, Sky, canale 114), reality "montato" e raccontato da didascalie e voce fuori campo, è la sintesi di un film girato su un format politico classico, scene di lotta di classe nell'hinterland. Trapianto incrociato di madri. Casalinga "underclass" napoletana e immigrata a Milano spedita nel villone, in famiglia esibitiva: capofamiglia baüscia, figlia sul glamour, tre dobermann, alcuni gatti, aperitivi in giardino, feste, benessere. L'altra, vistosona, strappata alla società opulenta ed esiliata in un condominio di sottoproletari moderni, quindi modernamente sradicati. Padre che si alza alle sei per filare al lavoro ma poi passa il pomeriggio alla deriva in Internet, figlia che dorme nel soppalco con il fidanzato-disoccupato-non-organizzato che si alza nel dopopranzo. Evidenza sociologica: i poveri, che sono poveri contemporanei e metropolitani, sigarette e piercing, fanno ribrezzo. Come diceva il realismo tragico di Quino (quello di Mafalda), mangiano cose da poveri, si vestono da poveri, comprano cose da poveri; inutile aiutarli, conviene nasconderli. La poveraccia segregata in villa piange tutte le sere in camera, esclusa dalla felicità narcisistica e soddisfatta dei ricchi, che sono sani, comunicativi, incapaci di capire perché la "donnetta" non si inserisce nel giro. La tardona briosa invece spadroneggia "alla grande", ristruttura i comportamenti di casa dettando sobrietà e risparmio, perché non c'è soddisfazione migliore che insegnare agli sfigati che lo spreco è un peccato mortale. Manda fuori di casa il fidanzato nullafacente, inietta energia nella famiglia, diffonde ondate di ritmo e ottimismo. Manca solo il jingle di Forza Italia nei climax. Quell'altra truccata, ripettinata, rifatta nel look, langue in solitudine, con l'unico esorcismo antagonistico a disposizione: «Nun me ne fotte un cazzo» (però si dispera). Ottimo schema, gli spettatori si dividono in un bipolarismo televisivo. Tutto sa di recitato, ma vabbè. Il punto è che gli italiani sono così. Si guardano nel reality e trovano conferme ai se stessi reali. Di qua il berlusconismo, di là la sfiga. Per forza poi restano separate e in preda all'incomunicabilità anche alle elezioni, queste due Italie.
L'Espresso, 03/06/2004
Uno per tutti.Tutti per Prodi
Catania, domenica 23 maggio, un pomeriggio siciliano della campagna della lista Prodi. Allorché dal palco qualcuno cita il rettore dell'università etnea, Ferdinando Latteri, notabile di Forza Italia passato fulmineamente al centro-sinistra, i seguaci del boss accademico fanno scoppiare un delirio di acclamazioni, rullate di tamburi, trombe d'ordinanza e trombette ad aria compressa. Il giorno prima, alla Fiera di Milano, Romano Prodi aveva salutato con un benvenuto molto caloroso il ritorno a casa di Sergio D'Antoni, l'ex capo della Cisl che nel 2001 aveva creato il partito Democrazia europea con l'intenzione di scompaginare i poli, ed era finito tristemente a fare il sottufficiale della sussistenza nell'Udc e nella Casa delle libertà. Eppur si muove, il Triciclo. Con un sospiro di sollievo, si muove. Come accade in questi casi ci sono movimenti e movimenti. Movimenti nella società, nell'opinione pubblica e in diversi segmenti di classe politica. Ma quello che smuove la psicologia triciclista, la eccita, la dinamizza simmetricamente a quanto prima la deprimeva, è il movimento delle preferenze registrato nei sondaggi. Con il trend che prima era andato giù giù, scivolando intorno al 30 per cento. Mentre adesso sembra avviarsi la ripresa. Decimali di punto, indizi matematici, ombre percentuali. Ma, sempre a Milano, Massimo D'Alema, che sta conducendo una campagna furibonda, da leader che impegna tutta la carriera politica e le tecnicalità della raccolta del consenso (e che a "Porta a Porta" ha poi sostenuto che a Strasburgo serve la creazione di un nuovo raggruppamento democratico e progressista aperto ad altre forze non socialiste) si è sbilanciato e ha sparato il grosso calibro di un eventuale risultato di 36 a 19 rispetto a Forza Italia, annunciando nel caso sconquassi per il governo. Tipica operazione di autoconvincimento collettivo, profezia che si autoavvera, chiamata a raccolta degli indecisi. Tuttavia forse c'è qualcosa di più. Il "di più" è che pare finito lo psicodramma della lista unitaria. Esercizio mentale contiguo al masochismo che si era manifestato sottotraccia, con vari malesseri subito avvertiti dall'opinione pubblica, durante la lunga partita per la formazione delle liste. Il fatto è che l'attenzione di tutti, osservatori e opinione pubblica, professionisti politici e gente comune, risulta concentrata sulle elezioni europee. Dimenticando che il 12-13 giugno si vota anche per un turno amministrativo pesantissimo, che coinvolge 38 milioni di cittadini: e il negoziato per la formazione delle liste ha portato all'esasperazione delle identità e gelosie di partito. Ciò che il listone aveva determinato nelle élite politiche fin dal lancio del "manifesto" prodiano nel luglio scorso, cioè un riflesso di unità, ha lasciato spazio in periferia a un duello infinito sulle candidature. Sindaci, presidenti di provincia, consiglieri comunali, trattative bilanciate, negoziati defatiganti, diffidenze reciproche, nel caso migliore un manuale Cencelli della coalizione, nel peggiore una trattativa mortificante. Comunque un tormento quotidiano che ha proiettato all'esterno la percezione che il Triciclo avesse un deficit interno di compatibilità e di integrazione. Ovvero che fosse un'invenzione estemporanea, da sottoporre al giudizio degli elettori per verificarne a suon di numeri la praticabilità nel medio periodo, sottoposta alla tagliola del "poi vedremo". Se a questo si aggiunge il non proprio brillante risultato della prima uscita a Firenze, dove una défaillance organizzativa aveva esposto anche come colpo d'occhio le difficoltà del Triciclo, ce n'era abbastanza per cominciare a recitare le preghiere dei malati gravi. Nonostante gli esorcismi come quelli di Gad Lerner, secondo cui anche un risultato sul 30 per cento sarebbe funzionale al progetto ulivista di Prodi, cominciava a circolare un'aria di delusione preventiva. Che cosa è cambiato negli ultimi giorni? Poche cose, ma funzionali al progetto prodiano. La mozione sul ritiro dei militari italiani dall'Iraq ha ricompattato il centro-sinistra. Vale a questo proposito lo schema anticonformista esposto da Paolo Mieli e sottoscritto da Walter Veltroni durante la presentazione romana nei musei capitolini del libro di Giovanni Floris, "Una cosa di (centro)sinistra": se esponenti di esplicita ascendenza riformista e tutt'altro che antiamericani come Giuliano Amato e Enrico Letta votano la mozione, adeguandosi all'indirizzo politico adottato a maggioranza, questa è una novità "storica" per la democrazia italiana. In ogni caso un evento che modifica profondamente le abitudini politiche. "Right or wrong my party". Giusto o sbagliato, il mio partito. In secondo luogo, finalmente si è assistito all'ingresso in partita di "Romano". Si trattava di trovare un metodo che consentisse a Prodi di esercitare la sua problematica funzione di candidato-non-candidato. La formula consiste nella sua partecipazione a una serie di eventi pubblici, come quelli di Milano, Palermo e Catania. L'ideologo, o per meglio dire il campaign manager, di questa ripartenza "on the road" è di nuovo Giulio Santagata, l'organizzatore nella campagna del 1996 del giro d'Italia in pullman. Pragmatismo padano unito a un acuto senso delle opportunità mediatiche. Come carichi da 11, i segretari dei partiti, giocati con tempestività tattica, schierati a Milano per dare l'idea che il listone alle europee si gioca una scommessa senza riserve mentali. In modo da segnalare che la classe politica di vertice è unita, al di là degli scazzi infiniti emersi nel mercato delle liste per le amministrative. Dal canto suo, Prodi ha accettato di forzare. Indifferente agli attacchi anche strapaesani che gli sono stati rivolti da destra, agli esorcismi antropologici che gli dedica "il Foglio", ai de profundis del "Giornale" e più in generale della stampa filoberlusconiana, a Milano il leader dell'Ulivo ha ristabilito una strategia, sottolineando che la lista unitaria non è una gruccia provvisoria, bensì il telaio di un progetto di lungo periodo. «Il 14 giugno saremo ancora tutti insieme», a dispetto delle pulsioni "neo-prop", come le ha chiamate "il Riformista", che mirano a smobilitare lo schema bipolare e maggioritario a favore di una riproporzionalizzazione del sistema politico. La puntata, fortissima, è basata sull'idea che il listone consenta di razionalizzare il centro-sinistra, costituendo un pilastro capace di fare da traino e da guida politica a tutto lo schieramento. In realtà, le chance di successo, reale e simbolico, dipendono in misura consistente anche da fattori insondabili come la grande dispersività dell'offerta elettorale. Sondaggi civetta realizzati in gran segreto mostrerebbero che partiti inesistenti, con sigle del tutto inventate, sfiorano l'1 per cento se vengono sottoposti in modo brutale al giudizio di un campione indifferenziato. Tuttavia gli esponenti del Triciclo possono contare sul combinato disposto dell'election day, che fa interagire virtuosamente voto amministrativo e voto per le europee. C'è la sensazione, sottolineata da alcune rilevazioni demoscopiche, che la varietà dell'offerta elettorale possa volatilizzare una parte di elettorato generico della Casa delle libertà, disperdendone le preferenze. L'astensionismo dei delusi dalla politica economica del governo colpisce pesantemente Forza Italia. Inoltre, sul territorio il ceto politico del centro-destra dà spesso l'impressione di correre seri rischi di sfaldamento, con episodi oltre i limiti del folklore come gli scontri dentro Forza Italia a Bologna. Sotto questo aspetto, possono diventare contendibili i comuni di Padova e di Bari, come le province di Milano e Verona. Sotto le due torri bolognesi, la politicizzazione del confronto fra Giorgio Guazzaloca e Sergio Cofferati sembra ormai favorire nettamente un candidato politico come il Cinese. Sicilia, Veneto, Lombardia, Piemonte potrebbero fungere da indicatori di un cambio di tendenza politica significativo per l'intero territorio nazionale. I sondaggisti parlano di "effetto dell'unità ritrovata" e di "individuazione di leadership". Dentro la lista "Uniti nell'Ulivo", si sta formando la speranza impaziente che l'avvicinarsi della scadenza elettorale inietti il lubrificante del consenso nelle ruote del Triciclo. In modo che alla dispersione a sinistra subentri l'attrazione del voto utile.
L'Espresso, 27/05/2004
Silvio ha finito le bugie
I nemici di Silvio Berlusconi si chiamano Mannheimer, Pagnoncelli, Swg. I sondaggi sulle elezioni europee, ufficiali e ufficiosi, ogni volta sono una ferita per il presidente del Consiglio. Non soltanto perché Forza Italia è bloccata ormai da settimane a un risultato molto mediocre, fra il 20 e il 22 per cento, almeno sette punti sotto le elezioni politiche del 2001: ma perché le indagini demoscopiche mostrano il manifestarsi di due dinamiche convergenti, ai danni del partito del premier. Uno, la crescita dell'astensionismo moderato, che penalizzerebbe soprattutto Forza Italia. Due, un giudizio ultranegativo sull'operato del governo, che esprime la delusione sulla politica economica della Casa delle libertà. Questa tenaglia rischia di essere maligna. Abituato a imporre la sua agenda alla politica italiana, Berlusconi si trova nella scomoda posizione dell'inseguitore. La guerra non c'entra o c'entra fino a un certo punto. L'Iraq è considerato dall'opinione pubblica una tragedia, ma il plebiscito antibellico è ormai sedimentato, e ha cessato di essere un fattore in grado di spostare consenso. Solo un quinto dei cittadini sostiene l'intervento in Iraq. Tutto ciò che Berlusconi poteva perdere con l'appoggio a George W. Bush lo ha già perduto: ci potranno essere altre fibrillazioni, in seguito agli eventi iracheni, ma è difficile prevedere terremoti elettorali ulteriori. Ciò che invece emerge dalle domande laterali dei sondaggisti, quelle che cercano di spiegare le scelte dei cittadini, è la delusione vistosa rispetto alla politica del governo Berlusconi. I miracoli non si sono visti. La stagnazione è una realtà. L'erosione dei redditi pure. Il "declino" un vocabolo entrato nel lessico comune. Tutto questo stride aspramente con il carattere trionfale dell'esordio in campagna elettorale di Forza Italia. Per una volta, il Cavaliere si è trovato in netta sfasatura rispetto alle percezioni dell'elettorato. In altre parole: campagna sbagliata. Il profilo di Berlusconi che contemplava cifre inverificabili, astratte, misteriose, scandiva una campagna priva di risonanze emotive, incapace di risvegliare il sentimento dei cittadini. Rapida correzione di rotta, e nuovi cartelloni che suggerivano di nuovo il volto del leader come soluzione generalista per i problemi nazionali. Ma in questo momento l'immagine di Berlusconi non è più la garanzia fisiognomica di un futuro più bello e ricco. Dopo tre anni di governo, battuto il record craxiano di durata, il leader di Fi non sembra avere in mano le carte per giocare nuovamente la partita della propria prodigiosa insostituibilità. L'uomo della Provvidenza è diventato l'uomo della previdenza, cioè un politico che con il suo governo produce una riforma delle pensioni a scoppio ritardato, a partire dal 2008, ma che dà l'idea di entrare a piedi uniti nei progetti di vita degli italiani. Lasciamo perdere le gaffe pur strepitose come la festa per lo scudetto del Milan al Castello Sforzesco, mentre in Iraq i soldati italiani venivano bersagliati dai mortai dei guerriglieri: «A Nassiriya ci sono i nostri ragazzi, sono dei militari volontari, dei professionisti, ci sono delle situazioni difficili ma sono lì per questo». È noto da sempre che Berlusconi non sa stare sulla tragedia, non è nella sua psicologia, non è la sua missione. Il capo di Fi aveva promesso il sogno, e trovarsi dentro un incubo può provocare distorsioni percettive politicamente influenti. Per sostenere una situazione grave come quella irachena ci vuole una personalità churchilliana, o almeno blairista: Berlusconi e i boys di Palazzo Chigi mostrano invece una fragilità essenziale, che affiora in tutti i momenti in cui lo stress supera la soglia fisiologica. Ma considerazioni analoghe valgono sui temi della politica economica. La debolezza del governo Berlusconi è la debolezza dei suoi uomini. L'abilità tecnica di Giulio Tremonti non nasconde l'assenza di una visione macroeconomica. La furbizia di Roberto Maroni non fa velo a continui patteggiamenti. C'è una fragilità paradossalmente "ideologica", che si è manifestata con chiarezza nel caso della riforma fiscale. "Meno tasse per tutti": era lo slogan della fortunata campagna di tre anni fa. Berlusconi ha estratto la carta dal mazzo con una determinazione per certi versi disperata, da giocatore di poker. Due sole aliquote, 12 miliardi di euro di disponibilità liquida introdotta a regime nel circuito dei consumi. Ma per interpretare rigorosamente la parte del supply-sider, occorre una volontà dottrinaria. Non ci vuole uno Zelig che è putiniano con Putin, chiracchiano con Chirac, bushista con Bush, onusiano con l'Onu, e zapaterista con Zapatero, affascinato dal garbo e dalla gradevolezza del nuovo premier socialista spagnolo (magari mentre il suo vicepremier Fini schiaffeggia moralmente "Bambi" in un'intervista a "Die Welt" in cui equipara il ritiro spagnolo dall'Iraq a una vittoria del terrorismo internazionale). Per tagliare l'Irpef potrebbe essere necessaria una ferocia di calcolo secondo cui se la riforma funziona si vincono le elezioni a dispetto di tutto; e se non funziona si avvelenano i pozzi, lasciando a un'opposizione disarmata il compito di tappare i buchi. Non solo: secondo le visioni più radicali il taglio delle tasse può produrre risultati dal lato dei consumi preferibilmente se è "iniquo", se privilegia i privilegiati. Cioè se introduce nel sistema economico risorse aggiuntive immediatamente spendibili. I ricchi spendono, i poveri pagano i debiti o risparmiano in vista di possibili aggravi futuri. Ma Berlusconi non è né Ronald Reagan, capace di fare "woodoo economics", né Margaret Thatcher, spinta da un sacro furore neoconservatore. Il premier è un uomo psicologicamente bisognoso di consenso. E il consenso è tiepido. La nuova Confindustria montezemoliana non sembra gradire un'azione sui consumi a scapito dei trasferimenti alle imprese. Un economista della sinistra riformista, Nicola Rossi, approfondisce i dubbi: «Nell'ultimo anno i consumi sono aumentati dell'1,2 per cento, gli investimenti sono caduti del 2. Siamo sicuri che nel 2005, quando un'eventuale riforma fiscale sull'Irpef comincerebbe a manifestare i suoi effetti, il paese abbia bisogno proprio di questo, di un'accelerazione dei consumi?». Tanto più che in un momento di crisi della competitività italiana la distribuzione di risorse finanziarie potrebbe avvantaggiare largamente le importazioni dall'estero, e dunque andare a vantaggio dei produttori stranieri. «Il piccolo imprenditore che si ritrova due soldi in più compra Smart o Toyota», dice Michele Salvati, ideologo del partito democratico-riformista: «E se vogliamo guardare all'esperienza americana, consideriamo che nel 2001 l'iter legislativo per il taglio alle tasse si chiude agli inizi di giugno, e i cittadini si trovano il rimborso fiscale, cash, firmato dal segretario al Tesoro Paul O'Neill, in agosto. Manovra bruciante, cento miliardi di dollari immessi direttamente nel circuito economico, altro che effetti annuncio, discussioni, rinvii a dopo le elezioni». Se si distribuisce un punto di Pil tra i 20 milioni di famiglie italiane, non è una "scossa" all'economia. Con una media di cinque-seicento euro a famiglia si elargisce un contributo per pagare l'assicurazione dell'auto e ripianare qualche modesto rosso in banca. Senza contare che il taglio delle aliquote avrebbe effetti squilibranti sul piano territoriale, premiando il Nord e penalizzando il Mezzogiorno. Con l'ombra supplementare dei tassi d'interesse in possibile aumento di qui a fine anno che potrebbero mangiarsi tutto ciò che Tremonti fosse riuscito a ritagliare sulle spese dello Stato. E con gli alleati (Udc, Lega e Alleanza nazionale) che guardano in cagnesco a politiche sospettabili di classismo. Risultato: all'annuncio della grande riforma fiscale i sondaggi restano piatti. «Ma non c'è solo la questione del consenso», aggiunge Salvati: «Immaginare un push, una spinta domestica all'economia agendo sulla leva fiscale è come immaginare in ritardo il socialismo in un solo paese. Una politica seria terrebbe le posizioni, senza avventure, ristrutturando in modo intelligente lo stato sociale e aspettando di essere coinvolti nella ripresa europea». Il resto sono illusioni. O propaganda: ma la veste pubblicitaria del berlusconismo è logora. Dopo le promesse mirabolanti del 2001, allorché quasi il 40 per cento della vecchia classe operaia votò per Forza Italia, il disincanto è il sentimento prevalente nell'elettorato di centro-destra. Secondo Roberto Weber (Swg) si potrebbe delineare una specie di temporaneo «ritiro dalla politica» dei cittadini risvegliatisi dal lungo sonno in preda al malumore. Ecco, il malumore: una delle categorie che la visione pubblica di Berlusconi non aveva mai né concepito né previsto. Oppure il «disinvestimento sentimentale» di cui parla Weber nei confronti della figura di Berlusconi. La "soglia catastrofica" del 20 per cento è a un passo. Perché è a un passo la possibile fine del sogno.
L'Espresso, 13/05/2004
Via dalla pazza maggioranza
Il primo è stato Paolo Cirino Pomicino, andreottiano di lungo corso, che con la sapienza degli anticipatori ha abbandonato le file dell'Udc e ha raggiunto Alleanza popolare-Udeur, ossia le milizie di Clemente Mastella e Mino Martinazzoli. Poi è stata la volta del magnifico rettore di Catania, Ferdinando Latteri, che ha lasciato Forza Italia per approdare al centrosinistra. Infine si è avuto l'esodo più vistoso, l'abbandono dell'Udc da parte di Sergio D'Antoni, fondatore di Democrazia europea, la formazione politica con cui l'ex segretario della Cisl intendeva scompaginare il bipolarismo italiano (per poi finire nell'Udc e nella Casa delle libertà). Il centrodestra minimizza, naturalmente. Sono casi isolati, capitribù senza tribù, non porteranno voti. Eppure questi casi isolati infastidiscono, punzecchiano, fanno male. Il perché lo ha sintetizzato perfettamente D'Antoni, che nell'aderire alla lista unitaria prodiana ha giudicato "fallimentare" la sua esperienza nel centrodestra, e di riflesso anche l'esperienza di governo della Casa delle libertà. La fuga dal centrodestra è imbarazzante perché nasce da un giudizio politico. Ci potranno essere anche interessi personali, elettoralistici, di potere, ma il nocciolo della questione è che alcuni esponenti politici di vecchia tradizione anticipano un giudizio che sta serpeggiando ormai da qualche tempo in ampi settori dell'establishment italiano. Il giudizio è un pollice verso nei confronti di Berlusconi, della sua maggioranza, del suo governo. Non stupisce quindi che politici di normale intuito ma di ottimo fiuto "sentano" la possibile sconfitta del centrodestra, e facciano i bagagli. Come si può capire, spesso il ceto politico professionale è molto meno ideologico dell'elettorato. Nell'opinione pubblica permane quel riflesso semiautomatico che dal 1994 in poi ha impedito un passaggio di voti significativo da uno schieramento politico all'altro. In settori consistenti dell'élite economica italiana la valutazione della vicenda berlusconiana si è ormai sedimentata, in termini negativi, ma permane un sentimento di diffidenza verso il centrosinistra, insieme con un senso di contiguità con l'ideologismo aziendalista di Berlusconi. Invece, nelle zone politiche di confine, sul centro della Casa delle libertà, la libertà, o la spregiudicatezza, possono manifestarsi senza tabù. Per gente intrisa di politica, nata e vissuta nel professionismo politico, le rigidità e le forzature berlusconiane sono assimilabili al dilettantismo. Per ora, ciò interessa più i capi che non i semplici indiani. Ma questa sensazione di disillusione, insieme con un senso di impotenza, investe profondamente quel ceto politico di ascendenza democristiana che ha trovato nel centrodestra una casa in affitto. In particolare l'Udc viene a trovarsi in una posizione critica. Il partito guidato da Marco Follini esercita una specie di presidio istituzionale sul margine del centrodestra. Cerca di evitare gli strappi più vistosi, tiene una linea europeista classica, è esente dalle ispirazioni liberiste di una parte della Casa delle libertà. Ma basta tutto questo per assicurare un'identità, un ruolo, un peso politico? Molti post-democristiani sono consapevoli e convinti che l'alleanza con Berlusconi è stata un patto con il diavolo; e a qualcuno è venuto da tempo il dubbio che il prezzo di questo patto sia troppo oneroso. Per il momento non sono immaginabili altri scossoni o passaggi di confine. Tuttavia è chiaro che l'appuntamento con le elezioni europee sarà particolarmente importante, anzi, segnerà un crinale delicatissimo: una sconfitta secca del centrodestra, fosse pure una sconfitta per disaffezione, per disincanto, per stanchezza dell'elettorato, aprirebbe scenari di turbolenza inedita. Non sarebbe la prima volta che il mutamento politico in Italia avviene per spostamenti di spezzoni di ceto dirigente, prima ancora che per scelte autonome dell'elettorato. Si tratta di puro e semplice trasformismo? Non soltanto. Gioca la sua parte un bipolarismo provvisorio, tenuto in piedi dalla figura adulata e demonizzata di Berlusconi. Ma in fondo c'è anche il giudizio sempre più distante e disarmato sulla qualità del centrodestra, e sulla cultura che in esso si esprime: se scatterà la grande fuga, può benissimo darsi che essa non verrà dettata esclusivamente da interessi politici ignobili.
L'Espresso, 13/05/2004
Mai più questa tivvù
Martirio mediatico alla Rai per santa Lucia. Una liberazione, per i nemici. Scoppia una crisi extraparlamentare, che rimbomba nei corridoi della politica, a un passo dalle elezioni europee. Diagnosi di Aldo Grasso: «Le dimissioni di Lucia Annunziata fanno evaporare un fantasma, la presidenza di garanzia. Una finzione istituzionale, con l'assurdità dei quattro consiglieri che votavano regolarmente contro la presidente». Nella sua vita di studioso, Grasso insegna Storia della radio e della televisione all'Università Cattolica di Milano. Come massimo esperto della tv italiana, la sua competenza è segnalata da un'autentica summa, la "Storia della televisione italiana" (Garzanti), che in questi giorni arriva alla quinta edizione. In quanto spauracchio pubblico veste i panni del critico televisivo del "Corriere della Sera", ruolo che gli ha guadagnato rancori supremi. Siamo alla tragicommedia. Bonolis e il serial killer, quindi il duello a calci e a fiori tra direttore generale e presidente. Ma poi arriva il varo della legge Gasparri. Mettiamoci le dimissioni della Annunziata, e il sistema esplode. «Oppure implode. Ma prima di discutere della Gasparri o della Annunziata vorrei chiarire un punto essenziale. Parliamo del sistema televisivo. Dei programmi, del pubblico. Chiariamoci le idee, perché la politica non è tutto. Ad esempio, sappiamo che lo spettatore medio italiano è tendenzialmente donna, oltre la sessantina, livello di istruzione elementare, con un addensamento più forte nel Mezzogiorno. Quindi il primo aspetto da mettere a fuoco è l'evidente scollatura fra il paese reale e l'audience. Le due realtà sono assai differenti. Si dice "pubblico" ma è un'entità che non conosciamo: il pubblico televisivo non è l'Italia». Quindi risulterebbe esagerata anche l'attenzione della politica per la tv? «La partita elettorale si gioca su queste fasce, ed è per questo che la tv ha centralità politica. Ma qui occorre isolare due aspetti. Il primo: per almeno 25 anni la televisione è stata effettivamente al centro del paese. Era fatta da borghesi per i borghesi, gente con la maturità classica che si rivolgeva ai propri simili. I dirigenti della Rai se ne fregavano delle masse popolari, andavano diritti per la loro strada». Ma quella è l'epoca del monopolio. «Con l'avvento della televisione popolare c'è stato un ricambio fortissimo: niente cultura liceale, non siamo più nel salotto buono. Andiamo in cucina, in lavanderia, nella stireria. Se prima eravamo nei centri storici ora ci buttiamo nelle periferie». E il secondo aspetto della grande trasformazione televisiva? «Dall'universo simbolico del consumo culturale passiamo al consumo materiale. Prima c'era il mondo delle idee, l'invenzione dei programmi. Poi subentra l'universo concreto del consumo: la televisione diventa un tramite per connettere le immagini con i prodotti. E lo stesso pubblico viene "consumato" come oggetto della pubblicità. Ciò significa fra l'altro che la tv non rientra più al mondo dello spettacolo. Si va in tv come gente comune, non in quanto professionisti dell'intrattenimento. Il piccolo schermo si avvicina moltissimo alla vita». Conseguenze? «Per la Rai, le ripercussioni sono distruttive, perché le tolgono la ragione sociale, ossia la possibilità di invocare il servizio pubblico come missione. In realtà, la Rai non aveva una tradizione propria, come la Bbc: la sua linea primaria consisteva nella contiguità con la politica, e il servizio pubblico si risolveva in una spartizione fra i partiti e in un trattamento paternalistico del pubblico. Per la sua centralità politica, la Rai equivaleva a un ministero». Ma fuori dall'informazione, nell'intrattenimento, la qualità era elevata. «La professionalità era grandissima perché all'inizio la Rai ha pescato nel cinema, nel teatro di rivista, nella radio, in tutti i settori dello spettacolo. Un intero repertorio di capacità è stato portato in tv. Tanto per dire, il "Musichiere" era firmato da Garinei e Giovannini, e i registi degli show storici, come Antonello Falqui, avevano alle spalle il Centro sperimentale di cinematografia. Non diventavi regista perché eri, che so, il compagno della Carrà. Se c'è da rimpiangere qualcosa, di quella tv, non è il servizio pubblico, etichetta ipocrita su un contenuto al servizio dei partiti: è il tasso altissimo di professionismo». Non si confondevano gli ambiti, come con l'intervista con Donato Bilancia a "Domenica In". «Intervista sbagliata nel luogo sbagliato e nel momento sbagliato. Ma non dimentichiamo che, poche ore dopo lo scandalo, Bruno Vespa ha fatto un'altra puntata su Cogne. Va così perché c'è la guerra per strapparsi pubblico. In una trincea la Rai, nell'altra Ricci e Costanzo». Lotta senza quartiere per lo share prima ancora che lotta per il controllo politico. «La televisione era al centro della politica quando si confrontava con la classe dirigente. Adesso si confronta con i ceti marginali. Per questo non capisco bene la paura "politica" della televisione». Ma se si guarda al duello rusticano avvenuto fra Lucia Annunziata e il direttore Cattaneo si direbbe che una posta politica c'è, e che sia alta. «Il duello è stato un segno del malessere profondo che attraversa la Rai. D'altra parte, potrebbe non esserci, il disagio? Chiamano questi allestitori di fiere commerciali, che dopo sei mesi si piccano di parlare il gergo televisivo, come se la competenza si potesse inventare dal niente. E adesso si fanno decine di nomine che cambiano tutta la geografia interna della Rai. Un'operazione dal sapore elettoralistico in cui la figura peggiore la fanno proprio i quattro consiglieri. Dai quali ci si aspettava che risultassero un po' più consoni al loro ruolo. Sono arrivati con i loro paramenti accademici o intellettuali, e hanno dato l'impressione di non aver capito che la democrazia vive di forme, e che le procedure sono sostanza». Il conflitto politico per la nomina e la destituzione del Cda dice che conta più l'idea del controllo politico che non la professionalità. «Con l'effetto che nell'ultimo Cda non c'era nessuno, Annunziata a parte, che sapesse una virgola di tv. La Rai si è trasformata in una holding che commissiona prestazioni a servizi esterni. Voglio il prodotto Endemol o il prodotto Magnolia: eccolo qua. Gli ultimi dirigenti televisivi capaci di interrogarsi sulla tv, sono stati Angelo Guglielmi e Carlo Freccero, alla sua maniera anarchica». Centralità politica o no, la Casa delle libertà si è impegnata allo spasimo sulla legge Gasparri. «Gasparri ha fatto la prima legge proiettata nel futuro televisivo. Le leggi precedenti, in particolare la Mammì, legiferavano sull'esistente. Erano come la regina che nomina baronetti i pirati». Vuole dire che le piace la Gasparri? «La fragilità intrinseca alla legge è che è costruita sugli interessi di Berlusconi». E qualcuno esce dal gruppo, come Lilli Gruber. «La Gruber è la sintesi del vizio classico dei giornalisti tv di buttarla in politica: Selva, Badaloni, Giulietti. Come ho detto, questo è il punto storicamente debole della tv italiana: la sua contiguità alla politica, e la prossimità dei giornalisti ai partiti. Tutto questo accettato senza nessuno scandalo, come pura fisiologia politica». Ma la tv può regalare una credibilità politica? «La Gruber è credibile, a suo modo, dal momento che oggi sta funzionando e pagando un giornalismo schieratissimo, che dà dei vantaggi: una parte ti odia, ma l'altra ti accredita». Risulterebbe credibile anche Bruno Vespa? «"Porta a Porta" è un tipo di giornalismo che non mi piace, perché mette insieme l'infotainment e la politica. C'è una contraddizione intrinseca. Si presenta come la "terza Camera", ed è nello stesso tempo il luogo meno credibile, con le soubrette come opinion leader. In sé è affascinante: l'istituzionalità più lo svacco. Irrita, attrae. Molto italiano, direi». Comunque da Vespa vanno tutti. Se è centrale politicamente ci sarà una ragione. «Vespa fa quel tipo di televisione che non riesce più a Costanzo. È l'interlocutore delle istituzioni, rappresenta il benpensante, incline ai vizi privati, che poi si presenta in veste ufficiale e dispensa autorevolezza». Mentre Costanzo... «Costanzo mi insulta e non so perché: mentre io gli garantisco che il giorno in cui non sarà più così potente lo difenderò». Siamo sempre davanti a una tv pedagogica, che vuole ammaestrare lo spettatore? «Quella tv vecchio stampo non esiste più. Oggi c'è una specie di pedagogia senza progetto, che dilaga in tutti i palinsesti. La tv di Maria De Filippi è molto pedagogica: c'è sempre il superamento della prova, in spazi spettacolari che sono coercitivi come collegi. Ogni trasmissione ha i suoi guru, come Paolo Crepet, o l'ideologo di Costanzo, Raffaele Morelli: figure che fanno sorridere le persone attrezzate culturalmente, ma che sono affascinanti per la fascia televisiva di bassa scolarità. Non c'erano mai stati tanti pedagoghi come adesso: prima c'era il professor Cutolo o il maestro Manzi, oggi ce ne sono cento». Neanche l'intrattenimento incanta. C'è Panariello, quello della tv "deficiente", e Fiorello, che forse non mantiene tutto quello che promette. «Su Fiorello si potrebbe aprire un discorso approfondito. Ragiono così: se "Studio Uno" avesse avuto Fiorello, noi avremmo avuto Broadway. Come intrattenitore è il più grande in assoluto, si muove con una padronanza straordinaria, sa fare tutto...». Che cosa gli manca? «Gli mancano Garinei e Giovannini, gli manca Falqui alla regia, gli mancano Scarnicci e Tarabusi per i testi. Però la scuola di Gigi Ballandi ha funzionato: Ballandi è uno che ti manda in provincia e ti migliora, ti valuta, ti fa mettere in scena il numero zero dello show, ti induce a correggere gli errori e a valorizzare i punti di forza. Se ne può trarre una considerazione generale. Nella tv italiana non è scomparsa soltanto la regia: c'è Beldì, è vero, forse l'unico che ha mantenuto uno stile, una personalità registica; ma è scomparso il numero di prova. Lo si è sostituito con il format, ma non è detto che funzioni sempre». Non si vede qualche novità di rilievo? «Le cose interessanti sono ormai pochissime. Paola Cortellesi è bravissima, ma, come al solito, il programma non la aiuta. Un bravo autore e un bravo regista la correggerebbero, rendendola meno ansiogena». Resta il mistero del ritorno della fiction. «Anche questo sintomatico. "Elisa di Rivombrosa" era recitato male, girato al ribasso, con una storia così così. "Orgoglio" è un fotoromanzo. Ma è rivelatrice la composizione del loro pubblico, molto femminile, sopra i 55 anni, istruzione medio-bassa. Così scatta la connessione fra il prodotto e l'audience». E continua il successo dei reality show. «Detesto quelli con i "morti di fama", gli ex famosi che si riducono a gente comune per ritrovare la popolarità. Meglio il "Grande Fratello": la gente è comune davvero e non scatta il riflesso sadico verso la star decaduta». Dunque, la tv va vista sempre in relazione al pubblico che la guarda. «Il discorso riguarda anche la pubblicità. Perché non si capiscono almeno due cose. Primo, perché i pubblicitari fanno spot linguisticamente allusivi, sofisticati, sfasati rispetto alla cultura del pubblico di riferimento? Secondo, perché allora si investe in televisione, sul grande pubblico, quello che non cambierà mai un telefonino solo perché la tecnologia avanza? Mi sembra che l'investimento pubblicitario abbia uno strabismo formidabile. Vedi caso, uno dei pilastri della Gasparri era la liberalizzazione delle televendite: che invece sono l'equivalente elettronico del mercatino sotto casa. Molto più popolare. Più domestico. Molto più in sintonia con l'Italia televisiva».
L'Espresso, 22/04/2004
Chi ha paura dei lumaconi di Bruxelles
Brillante, non c'è che dire, la polemica aperta da Silvio Berlusconi contro i "lumaconi" di Bruxelles. Come sempre, il premier non fa nomi. Fra i viscidi molluschi dovremmo comprendere Super-Mario, ovvero il Monti che conduce durissime battaglie antitrust contro il colosso Microsoft? O dobbiamo pensare che le invettive di Berlusconi si rivolgano a Pedro Solbes, il commissario dell'"early warning" ai conti pubblici italiani? Macché: il lumacone è uno solo, e ha i cornini di Romano Prodi. Cioè il leader incoronato della lista unitaria e dell'Ulivo, ancora per qualche mese alla guida della Commissione europea. Dovrebbe essere chiaro che la Casa delle libertà, con il capocondominio in testa, ha tutto il diritto di attaccare Prodi per la sua doppia identità. A posizioni rovesciate, il centrosinistra farebbe altrettanto. Quindi conviene considerare la guerra aperta dal Cavaliere come una normale iniziativa politica, condotta nel solito modo scombinato e stilisticamente "cheap". Ma subito dopo occorre anche valutare che l'obiettivo di Berlusconi e dei suoi boys è largamente strumentale. La formula berlusconiana è la seguente. Premessa maggiore: il limite del 3 per cento al deficit previsto dal Patto di stabilità non ci piace. Premessa minore: per poter raddrizzare un'esperienza di governo mediocre, con una radicale riduzione delle aliquote fiscali, dobbiamo avere la possibilità di agire in "deficit spending". Conclusione: attacchiamo Prodi per il suo "conflitto d'interessi" e prendiamo due lumache con una sola esca. Intanto imbrattiamo l'immagine del leader dell'Ulivo e nello stesso tempo prepariamo le condizioni per la nouvelle vague finanziaria all'americana. Tutto questo sconta il difetto, ampiamente segnalato, che i grandi paesi europei hanno una media del debito pubblico inferiore al 60 per cento del Pil, mentre l'Italia si aggira sul 106. Quindi non è affatto detto che l'appoggio allo sforamento di Francia e Germania, assicurato a suo tempo da Giulio Tremonti, sia ricambiato. Dal punto di vista dell'equilibrio dei conti, il nostro paese è ancora "l'uomo malato" d'Europa. Uscito convalescente dalla cura Prodi-Ciampi, ha visto sensibili sintomi di peggioramento con il governo Berlusconi. Ma tutto questo va collocato anche nell'ambito del vero sentimento che gran parte del centrodestra nutre nei confronti dell'Unione europea e delle sue istituzioni. E cioè un'insofferenza provinciale, un rancore domestico, un'animosità autarchica. In Parlamento si sentono spesso accuse vocianti contro "l'euro voluto da Prodi", dimenticando che senza la moneta unica, e senza lo sforzo di rientrare nei parametri di Maastricht saremmo un paese allo sbando. Il ministro dell'economia, Giulio Tremonti, non perde occasione per manifestare i suoi scetticismi (e per riesumare periodicamente il rimprovero di non avere stampato la banconota da un euro). E fosse solo questo. Alle spalle abbiamo la rottura della solidarietà in politica internazionale, con la scelta filoamericana sulla guerra in Iraq, la costituzione di un presunto "asse" con Blair e Aznar che è tracollato in seguito alla sconfitta dei popolari alle elezioni spagnole del 14 marzo. C'è la gestione velleitaria della conferenza intergovernativa, finita nel grottesco di formule segrete e ricette miracolose ignorate dai partner. Nonché l'ombra di un "direttorio" fra chi conta veramente (Schröder, Chirac, Blair) e che esclude di fatto proprio quell'Italia berlusconiana scesa in Europa con l'intenzione muscolare di "contare di più". Mettiamoci anche la probabile beffa finale di un'approvazione a breve della Costituzione europea, e si avrà la dimostrazione che il nome Berlusconi non assicura di diritto il ruolo di statista e padre fondatore. Con tutto questo, addosso al Lumacone. Ottima strategia istituzionale, elegante intellettualmente, di grande apertura internazionale. Ma chissà quanto utile politicamente. Annotazione storica a futura memoria: per guastare l'immagine di Prodi, inventarono la definizione della mortadella dal volto umano, e Mortadella, entrato nel ruolo, vinse le elezioni. Corsi e ricorsi, cicli e Tricicli: oggi può darsi che il passo della lumaca sia più efficace della nevrotica e sterile velocità polemica del centrodestra.
L'Espresso, 22/04/2004
Un Pannella per tutte le ragioni
Europeo, capace di richiamarsi fraternamente ad Altiero Spinelli. Americano, come le riforme politico-elettorali che ha sempre sostenuto. Fautore del maggioritario a turno unico, a dispetto dell'essere il signore di un partitino, che può allignare solo nel proporzionale, e solo grazie al suo indiscusso potere carismatico. Corteggiato a destra e cercato a sinistra, con i buoni uffici post-socialisti di Giuliano Amato. Trasgressivo e trasgressore, come nelle battaglie antiproibizioniste a base di spinelli, questa volta con la minuscola, anche se gli appellanti a favore della sua ultima battaglia, l'iniziativa per il ripristino della prerogativa presidenziale sul potere di grazia hanno scritto nel loro succinto manifesto: «Ci fidiamo di Marco Pannella e della sua storia di difensore battagliero e irriducibile della legge e del diritto» (firme di Pierluigi Battista, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Angelo Panebianco). Trasgressore o tutore, plagiario, eversore o garante, Marco Pannella è un'autobiografia della nazione politica. Ma c'è un legame fra l'uomo delle battaglie per i diritti civili negli anni Settanta, e l'ultrasettantenne che promuove il "Satyagraha" gandhiano e non violento, ricorrendo allo sciopero della fame e della sete, per ripristinare la legalità, vulnerata due anni fa dal mancato plenum alla Corte costituzionale e oggi da una prassi che ha reso "duale", ripartito fra il capo dello Stato e il ministro della Giustizia, il potere di grazia? Leader senza esercito, Pannella è in grado di reinventarsi a ogni stagione. Alle elezioni politiche del 1994, prima prova del maggioritario, era riuscito a farsi concedere qualche seggio da Silvio Berlusconi (ancora oggi sogghigna, con solidarietà liberista: «Io e Silvio, due cattivi ragazzi...»), ma protestando accanitamente contro chiunque sostenesse che aveva stretto un accordo con il Polo. Nel 1999, alle elezioni europee, gli era riuscito il trionfo mediatico di Emma Bonino, che aveva ottenuto più consensi dei prodiani, ma scontentando immediatamente l'elettorato che credeva di essersi espresso per il volto nuovo della fanciulla Bonino e aveva visto riapparire il ghigno del vecchio vampiro. Aprile si addice a Marco. Nell'aprile 2002 era riuscito a farsi telefonare da Carlo Azeglio Ciampi nello studio di "Buona domenica". Secondo le cronache: «Occhiaie bluastre e profonde, esausto, tormentato da una tosse che gli scuote il corpo smagrito, Marco Pannella vuota un bicchiere d'acqua e interrompe così il suo sciopero della sete sotto lo sguardo soddisfatto di Maurizio Costanzo. Applausi, Orietta Berti e Enrica Bonaccorti in piedi, il presidente della Repubblica ancora collegato in diretta...». Due giorni prima Pannella aveva scioccato l'Italia bevendo la propria urina. Allora c'era in ballo l'elezione mancata di due giudici della Consulta, scaduti da un anno e mezzo. L'ultima protesta (l'ultimo «ricatto», secondo i detrattori, «la solita barzelletta», per il ministro Carlo Giovanardi) è sorta invece sulla scia del dibattito per la grazia a Adriano Sofri. Ma Pannella ha negato ostinatamente che si trattasse di un caso particolare. In una lettera a Ciampi pubblicata sul "Foglio" del 7 aprile, dopo 60 ore di sciopero della sete, con il "collegio medico" che segnalava ogni giorno la disidratazione e i rischi per il cuore, lo ha sottolineato con forza: in gioco non c'è il «problema specifico di questa o quella concessione di grazia, ma il recupero della legalità costituzionale». L'iniziativa di Pannella ha buttato per aria la politica. Nella sua prosa, Ciampi è diventato il «principe prigioniero», a cui una corte ignava impedirebbe di esercitare la potestà costituzionale. Ha chiesto le dimissioni del massimo giurista quirinalizio, Gaetano Gifuni, liquidandolo con un ukase: «Non credo che tu possa ritenerti la persona meglio adatta per servire i dettati della Costituzione e le scelte conseguenti del Presidente». Ha messo in mezzo un Berlusconi impacciato, che già era stato brutalizzato da Giuliano Ferrara («si è consumata un'amicizia») dopo la bocciatura della legge Boato, un dispositivo per riattribuire al Quirinale il potere esclusivo di grazia. Berlusconi ha dovuto promettere che «l'orologio» del ripristino costituzionale sarebbe ripartito. Ciò ha scaraventato per aria la Casa delle libertà, con gli alleati che sono insorti contro qualsiasi provvedimento potenzialmente a favore di esponenti del «terrorismo», con Roberto Maroni in prima fila, mentre Maurizio Gasparri non ha esitato a opporre il veto preventivo a un'eventuale decisione di Ciampi a favore di detenuti in odore di eccellenza. Tutto questo, da parte di Pannella, senza mai citare Sofri, ma soltanto il potere presidenziale di grazia, articolo 87 della Costituzione, «questo gioiello giuridico, che ci giungeva da millenni». Ogni volta citando la «dottrina» e schiere di giuristi favorevoli alla sua interpretazione (e ignorando l'opinione di chi sostiene invece che il potere esclusivo di grazia sarebbe un residuo medievale, e che un sistema democratico non tollera decisioni del tutto discrezionali). Alla fine, Pannella ha bevuto. Ha incontrato il Reduce da Nassiriya. È riapparso da Costanzo, con un bicchiere d'acqua in corpo. Ha lasciato dietro di sé un caso praticamente indecidibile, nel quale dietro una misura universalistica traspare un atto ad personam. Ma soprattutto ha fatto nascere un dubbio: e cioè che il Pannella di oggi, capace di mobilitare dietro l'appello dei "terzisti" Battista & c. un variété di intellettuali e showmen, da Pippo Baudo a Milva, da Carlo Ginzburg a Bernardo Bertolucci, e di trattare un caso istituzionale dubbio come un dogma, sia ormai un uomo politico che parla alle élite, e sicuramente le influenza, talvolta le mette sotto scacco; ma chissà se parla ancora all'opinione pubblica, e se l'opinione pubblica ha voglia di ascoltare le sue strepitose manipolazioni politiche vestite da argomenti di inoppugnabile civiltà giuridica.
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