L’Espresso
L'Espresso, 15/04/2004
La guerra di Guerri
Guai a toccare l'Orco, cioè l'Elefantino, alias Giuliano Ferrara, insomma la mente del "Foglio". Si rischia grosso, e non solo per la sua stazza. Indifferente ai sortilegi, Giordano Bruno Guerri ha aperto le ostilità. Prima presentando "L'Indipendente", giunto alla quarta incarnazione come quotidiano, come l'alternativa al giornale cult della destra, divenuto «troppo autoreferenziale». Poi facendosi sponsorizzare dalla coppia scoppiata Berlusconi-Fini al lancio romano del quotidiano «futurista», fra 700 invitati, compresi Tony Renis e Mogol. Quindi giocando ogni giorno col fuoco, in una guerra fra eretici, gente facile a farsi bruciacchiare. Grande guerricciola tra due figure agli antipodi. L'Elefante, un quintale e mezzo di politica, di malizia, di menzogna come anticamera della verità polemica. Giordano Bruno, l'esilità fatta pallore, immagine dark, mente sempre febbricitante. Per capire qualcosa della guerra di Guerri è utile dare un'occhiata al suo sito Internet (www.giordanobrunoguerri.it) molto spettacolare, con tutti i migliori plug-in, dove campeggia il motto "La mente va aperta come un paracadute", e da cui si può accedere a una biografia fluviale. Se di Ferrara, a parte prefazioni e appendici, si ricorda solo un breve saggio sul filosofo Leo Strauss, Giordano Bruno, cinquantatré anni, ha una produzione libraria vastissima, dedicata fra gli altri a Bottai, Ciano, Malaparte, la "povera santa" Maria Goretti. Ha diretto "Storia illustrata", è stato direttore editoriale della Mondadori, è stato considerato un allievo di Renzo De Felice («Con il quale invece ho soltanto litigato»), ha condotto programmi tv e fatto cinema. Conclusione, in terza persona: «Ha vissuto moltissimo. E vuole continuare a farlo». Basta questo curriculum per intuire che Guerri non è uno che si tira indietro. L'idea di entrare a spintoni nel club dei giornali da quattro pagine e un euro, presidiato dal "Foglio" e dal "Riformista", era audace. Entrarci da destra, ma guardando anche a sinistra, con un editore come il geometra Italo Bocchino (An, commissione Telekom Serbia) era ancora più spavaldo. Ma il vero manifesto, o la vera locandina programmatica del nuovo "Indipendente" è stata la lettera di un Ferrara apocrifo, pubblicata sul numero d'esordio, che annunciava le sue dimissioni dalla direzione del "Foglio" a favore del terzista di "Batti e ribatti" Pierluigi Battista. Pesciolino d'aprile. Giochetto che non è nemmeno diventato il tormentone che poteva essere. Tuttavia non si è Orchi per nulla. Il giorno dopo, nella rubrica delle lettere, l'Elefantino barriva: «Scherzetto di un fogliuzzo che imita le nostre beffe, "Il Pitigrilli dei piccoli"». Non male, come avvio di scaramuccia. Pitigrilli, alias Dino Segre, dannunziano antidannunziano, decadente full time, è l'autore di libri fortunati fra le due guerre come "Dolicocefala bionda", "Mammiferi di lusso" e soprattutto "Cocaina". Ahi. Eccoci alla polvere bianca, neanche troppo terapeutica. Si allude? Ma certo che si allude. Se poi Giordano Bruno, nella rubrica su fondo azzurro "L'anticentro", definisce Adriano Sofri «il raffinato intellettuale galeotto», invitandolo a fare il piacere di chiedere la grazia (oppure «Rimanga in carcere per tutto il tempo che gli resta»), la vendetta del "Foglio" era sicura. È arrivata puntuale lunedì 5 aprile, con l'edizione straordinaria del quotidiano a sostegno dell'ultima iniziativa di Marco Pannella, nella rubrica teppistica di Andrea Marcenaro "Andrea's Version". Il giornale di Guerri si è autopromosso con lo slogan "Indipendente fino all'ultima riga"? Ecco allora una serie di parafrasi marcenariane con molti vistosi sbuffi di polvere bianca: «Indipendente, non si perde una pista». «Indipendente, il quotidiano che vi dà la polvere», e via di seguito con il giornale «che fiuta e rifiuta». Il giorno dopo, Guerri pubblica la lettera di un lettore volonteroso: «Secondo il "Foglio" fai uso di cocaina. Se è vero, mi dai l'indirizzo del tuo pusher?». Buona la battuta, ribatte il complice Guerri. Ma la risposta carogna è in prima pagina, nella solita rubrica azzurra anticentrista, e riguarda ancora l'iniziativa per Sofri: «Grottesca pantomima» che «ha superato qualsiasi limite razionale», lasciando pensare che «vi siano oscure ma pericolose armi di ricatto - di Sofri e dei sofriani - alla base di comportamenti politici così frenetici». Si aspettano rappresaglie. O per meglio dire: fuoco alle polveri.
L'Espresso, 08/04/2004
Tornado elettorale
No, non credo all'onda lunga socialista. E non credo che il pacifismo sia la discriminante politica decisiva in questa serie di rovesciamenti elettorali in Europa. Aznar è stato punito per lo sfruttamento vergognoso dei 200 morti di Madrid. Schroeder, pacifista a oltranza, prende mazzate ogni volta che si aprono le urne. L'alleato di ferro di Bush, Tony Blair, è in testa nei sondaggi a dispetto di un'opinione pubblica contraria alla guerra. Chirac ha fatto l'anti- americano e perde. Essere contro la guerra in Iraq non salva la destra e non premia la sinistra... Nella sua casa romana, Giovanni Sartori esorcizza le illusioni con il suo consueto esercizio analitico. Il suo ultimo libro, "Mala tempora" (Laterza), veleggia verso le 50 mila copie. Fra pochi giorni uscirà dal Mulino la quinta edizione di un suo libro ormai classico, "Ingegneria costituzionale comparata", con un'appendice inedita dal titolo provocatorio: "Verso una costituzione incostituzionale?". Negli ultimi tempi, Sartori si è trasformato nel più aspro nemico delle invenzioni costituzionali della Casa delle libertà, nel censore del conflitto d'interessi, nella vox clamantis in deserto contro la democrazia ingabbiata dal monopolio berlusconiano dell'informazione. L'Italia come l'Europa? Siamo anche noi alla vigilia di un cambio radicale di indirizzo politico? «Meglio andarci piano. Il primo aspetto di cui tenere conto è che l'esercito berlusconiano sta marciando a tappe forzate verso la propria riforma costituzionale. Si procede alla trasformazione del sistema parlamentare, con una formula, l'elezione diretta del premier, che è stata sperimentata disastrosamente in Israele e abbandonata dopo tre prove. Con conseguenze che possono essere catastrofiche per l'assetto costituzionale e politico». Si è sostenuto che la ristrutturazione federale impone il rafforzamento del potere centrale. «È una trovata estemporanea: una volta che i poteri siano devoluti alle entità "federali" rafforzare il centro non significa nulla. Si tratta di due realtà diverse, ognuna con le sue prerogative. Rafforzare l'esecutivo si può e va fatto, anche se c'è l'"unicum" rappresentato da Berlusconi. Il Cavaliere passa e le istituzioni restano. Ma per razionalizzare il sistema bastano due misure: da un lato una struttura gerarchica più forte, con il premier che sia il solo a essere investito dalla fiducia parlamentare, e con la possibilità di nominare e rimuovere i ministri; e dall'altro la sfiducia costruttiva, che elimina le crisi extraparlamentari». Invece stiamo inventando il premierato a elezione diretta. «A dire la verità lo aveva inventato D'Alema alla Bicamerale, ritagliandolo su se stesso. Il centrodestra lo ha sviluppato in modo micidiale, prefigurando una sorta di premierato dispotico: cioè uno strapotere non bilanciato da altri contropoteri. E se cade il principio della delimitazione dei poteri, ciò significa la sconfitta del criterio "quis custodiet custodies?", e la violazione dei principi di fondo del costituzionalismo. Il presidente della Repubblica perde la facoltà di nominare il primo ministro e di sciogliere le Camere; perde anche il potere di controllo sull'iter legislativo, garantito dalla controfirma, e di rinviare le leggi alle Camere». Tanto più che il sistema maggioritario permette la formazione di maggioranze in grado di eleggere il "proprio" capo dello Stato. «Il presidente della Repubblica può essere catturato dalla maggioranza. Con questo si sterilizza anche la nomina delle authority, e si incamera anche la nomina dei giudici costituzionali. Non esiste più un contropotere. Se aggiungiamo che controlla e manipola tutta l'informazione televisiva, quindi è in grado di vincere sempre, le conseguenze per la democrazia sono gravissime». L'opposizione è nettamente svantaggiata. «Non solo. C'è l'impossibilità di raggiungere una verità di fatto. Sui dati concreti. Hanno potuto sostenere che la legge sull'immunità per le alte cariche dello Stato c'è in tutta Europa, e non è vero. Quando ho richiamato la legislazione sul conflitto d'interessi negli Stati Uniti, hanno fatto finta di non capire. Le sembra una situazione europea? Prima di parlare dell'onda lunga di sinistra bisognerebbe osservare se c'è la possibilità di un'opinione pubblica libera». A sinistra non sembra esserci una consapevolezza sulla drammaticità della situazione. «Sbaglia anche la sinistra. Siamo all'assurdo che sul premierato esistono due progetti, il progetto Tonini, per la sinistra, e il simultaneo progetto Malan, per la destra. Sono uguali. Uguali. Il che mi fa pensare che i misteri non sono solo in Danimarca». Non era meglio copiare un modello europeo? «Certo, il semipresidenzialismo francese, il sistema parlamentare inglese, il cancellierato tedesco con la sfiducia costruttiva. Così ci avventuriamo in un terreno ignoto, e distruggiamo il costituzionalismo». Ma esisterà un razionalità nel progetto berlusconiano, un obiettivo, un'architettura... «Usare la parola razionalità mi sembra audace quando c'è di mezzo Berlusconi. C'è un disegno preciso sul potere e come conquistarlo e mantenerlo». Non avrebbe bisogno di forzature costituzionali, data la maggioranza che si ritrova. «Berlusconi fa quello che ha sempre fatto. Fa la vittima, sostiene che è paralizzato perché non ha poteri sufficienti, che gli alleati lo frenano. Anche se, quando occorre, quando c'è di mezzo un interesse personale bruciante, gli alleati votano come falangi, vedi la Gasparri. Questo alibi copre soprattutto l'incapacità di governare». Colpisce anche che alleati come An e l'Udc si dimostrino corrivi verso il federalismo imposto dalla Lega. «Non hanno alternative, vivono di voti concessi. Tuttavia ciò che mi sorprende di più è che non hanno nessun argomento, nessuno. A ogni obiezione rispondono in un solo modo: tutto ciò che stiamo facendo lo ha fatto la sinistra. In effetti la sinistra gli ha spianato la strada, con l'approvazione unilaterale della riforma del Titolo V». Secondo lei andranno fino in fondo? Oppure è un'operazione di facciata, che si insabbierà nelle letture parlamentari? «Andranno fino in fondo. Marceranno implacabili, in parte per l'istinto di predatore di Berlusconi, e in parte perché la grande riforma è il surrogato pubblicitario di un'attività di governo fallimentare». Resterà soltanto il referendum. «Difficilissimo da vincere contro le televisioni. Tanto più che la gente non ne vuole sapere, non ci capisce niente. L'assetto e l'equilibrio costituzionale sono come i mercati sotto casa o l'elettricità: la gente sa che ci sono, ma non ne conosce e non ne vuole conoscere il funzionamento. Sa che premendo il pulsante si accende la luce, non vuole sapere le teorie retrostanti. Tocca alla classe politica essere responsabile e valutare tutte le implicazioni delle riforme». In queste ultime settimane invece si sono visti sistemi democratici ottimamente funzionanti. «Sicuro: ma ripeto che non vedo onde lunghe di nessun tipo. C'è piuttosto in tutti i paesi europei un elettorato frustrato e scontento per motivi che nessun governo può controllare. La globalizzazione ha liquidato la possibilità di scaricare sul prezzo dei prodotti il costo dello stato sociale. La concorrenza globale ha messo la parola fine, e ciò spiega lo scontento degli elettorati e l'impossibilità per i governi di trattare il problema. Non si può più usare l'inflazione, e i prezzi cinesi o indiani portano a comprimere i prezzi dei prodotti europei». È una questione strutturale delle economie contemporanee. Eppure ci sono ricette di destra e ricette di sinistra. L'elettorato può scegliere fra soluzioni neoliberiste o soluzioni socialmente più equilibrate. «No, gli elettorati europei hanno aspettative che in genere non possono essere soddisfatte dai governi. È per questo che ogni governo, di destra o di sinistra, dura al massimo una legislatura, salvo eccezioni. Aznar, che pure aveva governato bene, è inciampato in un errore incredibile, lo sfruttamento politico della strage dell'11 marzo. C'era un voto pronto per il Partito popolare che si è modificato nelle ultime ore». C'è stata anche una ripresa della partecipazione elettorale. In Francia, sette punti in più rispetto alle regionali precedenti. «E poi mi obiettavano che il doppio turno provoca l'assenteismo. Storie. La partecipazione dipende dalla posta in gioco. Inoltre, in Francia la sinistra derelitta era ancora sotto il peso di avere dovuto votare per Chirac alle presidenziali, contro l'incubo Le Pen, e aveva una gran voglia di togliersi quel peso e vendicarsi. La ragione del declino della partecipazione elettorale dipende da un declino di intensità politica. Quando non ci sono più fratture profonde e conflitti ideologici la partecipazione cade. Non appena si ricrea intensità, la partecipazione risale. Quindi, quando si riacutizza lo scontro sociale, per l'insostenibilità del welfare, i cittadini vanno a votare». Ciò nondimeno è sembrato di assistere a un eccellente spettacolo democratico. La protesta che si incanala nel voto. Che spettacolo vedremo nella campagna per le elezioni europee? «Assisteremo a un bombardamento. Nessuno lo immagina ancora, siamo alle premesse. Berlusconi scatenerà un fuoco impressionante. Potrà mentire su tutto senza essere smentito su nulla. Per questo gli ottimismi "europei" sono prematuri. Meglio dire che la partita è tutta da giocare». Diversamente dall'Europa, in Italia il pacifismo può essere un criterio di voto contro il governo? «Sì, da noi può costituire la variabile determinante. In Italia c'è la Chiesa, non dimentichiamolo. Io sono critico verso quelli che ho chiamato "ciecopacisti", ma Berlusconi può perdere il voto di chi era contrario alla missione in Iraq». Non le piacciono, i pacifisti. «C'è chi vuole la pace e intende perseguirla, e chi urla pace senza sapere come realizzarla. Achille Occhetto mi ha detto che oggi il motto latino "si vis pacem para bellum" va rovesciato. Gli ho risposto: guarda che hai ragione. Rovesciando, viene fuori: se vuoi la guerra, prepara la pace. Mi sembra il giusto epitaffio sul pacifismo irreale».
L'Espresso, 08/04/2004
Politici di razza bestiale
Nel bestiario ci sono le bestie. Bestie politiche: qualcuna feroce, qualcuna intelligentissima, qualcun'altra un poco fessa, altre ancora dannatamente imbecilli. Addirittura così stupide da fare male a se stesse e alla propria razza, secondo la nota legge della stupidità umana codificata dal compianto professor Carlo M. Cipolla nel suo aureo manuale "Allegro ma non troppo". Fuor di metafora: come sanno i lettori de "L'espresso", il Bestiario è il regno di Giampaolo Pansa. Un reame dove non ci sono né re né scettri e l'unico potere che conta è l'intenzione di guardare la politica con l'occhio di san Tommaso. Senza campagne, fanfare, buonismi. Con la consapevolezza che il giornalismo non è un mestiere da educande. Ora Sperling & Kupfer fa uscire un'antologia della storica rubrica di Pansa, con un titolo obbligato: "Bestiario d'Italia 1994-2004" (pp. XXVI + 404, 15 euro, in libreria il 6 aprile) e s'impongono subito due considerazioni. La prima. Questo libro esce dopo l'eccezionale successo di "Il sangue dei vinti", il volume che ha aperto uno scorcio inedito sulla violenza post-Liberazione (inedito fino a un certo punto? Si sapeva già tutto? Ma certo che si sapeva tutto, solo che non lo diceva nessuno, e come si sa il genio è la capacità di vedere l'ovvio). Con il "Bestiario" si rientra in un ambiente un po' più mediocre, dove comunque un'allegra famiglia di animali si scanna, almeno allegoricamente, e viene scannata dall'altrettanto allegra crudeltà di Pansa. Se dopo il 25 aprile del 1945 il sangue era quello dei fascisti trucidati dai vincitori, nel "Bestiario" siamo invece in una materia che è quella imbottigliata a suo tempo dal sulfureo socialista Rino Formica: «Sangue e merda». Prosit. Almeno si conoscono gli ingredienti. La seconda considerazione dice invece che questo "Bestiario" accompagna i dieci anni della nostra tormentata e faziosa transizione. Dieci anni di epopea berlusconiana, un decennio di bipolarismo, 3.600 giorni di sistema maggioritario, di destra sdoganata, di sinistra sull'ottovolante. È il problema fondamentale di vivere in epoche interessanti, quelle che fanno venire mal di fegato anche a chi è di ottima costituzione. Sicché le epoche interessanti si possono analizzare con gli attrezzi del politologo, con bellissime e fredde astrazioni: oppure con la cassetta del «cronistaccio» (autodefinizione dell'autore), insieme agli umori, al fiuto, alla diffidenza, alle incazzature. Pansa guarda le facce. Scruta i volti. Interpreta le fisionomie. Giudica gli abiti, dato che fanno e non fanno il monaco. Se Silvio Berlusconi è «squaloso» nel suo sorriso assassino, Gianfranco Fini, «faccia da seminarista frustrato», è il «Lasagne» di Alleanza nazionale, un uomo di cui diffidare anche per le sue cravatte rosa, perché sotto la riverniciatura c'è «la violenza di testa e l'arroganza mentale del fascista doc». Oggi Fini ha fatto il possibile per sfuggire all'etichetta nera, e ha anche corretto la pastosità bolognese e le consonanti al ragù, e forse Pansa ha modificato la propria idea su colui che in una Festa dell'Unità, a Modena, settembre 1994, in una leggendaria serata con il compagno Montanelli e Paolo Mieli, definì tra le sghignazzate del popolo rosso «un fascista con la faccia da prete». Ma il 1994 è l'anno del grande choc, con l'epifania e la vittoria di Berlusconi, la scoperta drammatica che l'Italia non era di sinistra, e che la gioiosa macchina da guerra era un catorcio. Sicché gli studiosi si misero a pensare schemi complicatissimi, e a inventare formule via via più perfette, semplicemente per dire quanto segue: «Stampiamoci nel cervello questa verità: se la sinistra in Italia non riesce a vincere si deve costruire qualcosa che non sia la sinistra, ma che la contenga». Stop. Tutte le elucubrazioni sul "partito democratico" in una sola frase. Tutto il Michele Salvati del 2003, tutta la lista unitaria, tutto il pensiero e la strategia di Arturo Parisi, tutta la visione di Romano Prodi in una ventina di parole. Il "Bestiario d'Italia" si può leggere in tanti modi: come una cronaca, come una storia, come un commento. Ha tutti i difetti dell'essere stato scritto a caldo, e l'onestà di non essere stato tartufescamente taroccato a posteriori; ma soprattutto ha la virtù immensa di essere parziale, sincero, immediato. Fra i modi di leggerlo ce n'è uno infallibile, che consiste nell'andare a caccia dei ritratti pennellati da Pansa. Prendere per esempio il bozzetto dedicato a Giuliano Ferrara, alias Cicciopotamo, «il pope barbuto», il «socialista islamico» che al congresso del Psi all'Ansaldo di Milano scende dal palco esclamando: «Ho fatto un numero alla Italo Balbo!». Selezionare anche il cammeo dedicato a don Gianni Baget Bozzo, e alle sue manie di attribuire l'eterno alla politica, prima a Craxi e poi, riciclando, a Berlusconi. Oppure ecco la sintesi con cui dopo il ribaltone di fine '94 Pansa riassume il giudizio dei forzisti e di An nei confronti di Umberto Bossi: «Quel giuda leghista è un ladro. È un ubriacone laido. È un pazzo che crede di essere Napoleone. È una miserabile merda politica che ammorba le tende degli ex alleati. È il cancro che ha tentato di uccidere il sogno di milioni di elettori...». Sangue e merda, per l'appunto. Più merda che sangue, grazie al cielo. E soprattutto una irrefrenabile avversione verso la nuova destra e verso il suo capo, verso il «capo dei centurioni», «Silvio, l'Unto del Signore, un bugiardo senza vergogna. Un demagogo capace di ogni trucco. Un cinico senza rivali nell'usare la tivù come la piazza Venezia del 2000...». Il "Bestiario" è entusiasmante quando allinea «un La Russa tanto fosco da sembrare un incrocio tra un becchino e un vampiro». Oppure il Parolaio Rosso, in arte Fausto Bertinotti, con il suo «micidiale bla-bla», che sta in tv come un pesce nell'acqua, perché la televisione è la «giungla vietnamita» del subcomandante guerrigliero che manda in malora il primo governo dell'Ulivo. Perché Pansa non ha fisime nel parlare male della sua parte, la sinistra: lancia i suoi fulmini contro D'Alema e Veltroni dopo il caso di Affittopoli, dato che «mia nonna diceva: "I poveri devono sempre avere le mutande pulite, perché, se gli capita di andare all'ospedale, a loro non perdonano niente"». Festeggia la vittoria di Prodi nel 1996 («Ha vinto il Parroco, ha perso Mandrake»), ma segnala che è atteso da sfide tremende, e subito dopo, insieme al dioscuro Claudio Rinaldi, si mette di traverso e inventa la figura ibrida, un'autentica chimera, uno scherzo del darwinismo politico, ossia «Dalemoni», l'incrocio fra D'Alema e Berlusconi, anzi un D'Alema berlusconizzato che all'improvviso scopre una sensibilità antigiustizialista e a causa dell'«inciucismo, malattia senile del dalemismo», tresca con il Cavaliere nella Bicamerale, in uno «stupefacente kamasutra». Poi, si sa com'è finita. È finita che i furbissimi della sinistra, D'Alema in testa, hanno perso le elezioni, e soprattutto hanno perso il potere. E Pansa, nel tramonto chissà quanto lungo del centro-sinistra, ha maturato una disillusione quasi crepuscolare. In cui la voglia di fare i conti con il passato (con il terrorismo di sinistra, ad esempio, che è soltanto «la storia delle vittime») si unisce alla diffidenza per il presente, per i pacifisti e i girotondini, per la sinistra parolibera. Fino a un residuo atto di fiducia per il Prodi 2: ma sapendo già che è l'ultima occasione, mentre intanto la propensione alla guerra intestina è sempre viva, come accade sempre nei migliori bestiari, con la più normale delle bestialità.
L'Espresso, 25/03/2004
Quei colpi di fantasia del senatore Umberto
Solo il genio politico di Umberto Bossi ha consentito alla Lega di sopravvivere a Silvio Berlusconi. Ragion per cui è legittimo chiedersi qual è il futuro del movimento leghista, oggi che il suo leader è stato toccato dalla mano di una sorte cattiva. Il senatùr è riuscito miracolosamente a svincolarsi dal fallimentare governo di centrodestra nel 1994, a sopravvivere altrettanto miracolosamente alle accuse che dopo il ribaltone lo volevano "traditore" e "ladro di voti". Ma tutta l'esperienza della Lega Nord è stata un prodigio politico di Bossi. Agli inizi, Bossi ha capitalizzato l'ondata popolare contro i partiti. La Lega era l'alieno, la forza barbara che raccoglieva il rancore covato a lungo contro la partitocrazia. Il capo del Carroccio offriva parole inedite, soluzioni stratosferiche, rompeva tabù in serie: ma soprattutto è sempre riuscito a presentare come realtà politica un bluff da tavolo di poker che gli altri protagonisti politici non hanno mai voluto andare a vedere. La forza politica della Lega infatti è sempre stata circoscritta. Anche nel Nord, nella mitologica Padania, i numeri elettorali delle camicie verdi sono sempre stati minoritari. Ma Bossi è riuscito a presentare il suo movimento come una forza che al momento opportuno, nel caso di una gravissima crisi economica o di un conflitto sociale senza precedenti, sarebbe riuscito a trascinare tutto il Nord verso la secessione, o verso altre ipotesi istituzionalmente dirompenti. Ci voleva una grandissima fantasia e anche una improntitudine politica straordinaria per riuscire a sostenere questa strategia. Almeno in un paio di occasioni Bossi è stato scoperto, o quasi: ad esempio nel settembre 1996, allorché la Marcia sul Po, che doveva essere una manifestazione in tutti i sensi fluviale, si rivelò un fallimento di fatto. Oppure quando le elezioni "padane", nei gazebi della Lega, mostrarono la faccia folklorica e tutto sommato domestica del Carroccio. Tutte le invenzioni di Bossi sono state funzionali ad accreditare alla Lega una forza che la Lega non aveva. E lui lo sapeva. Il senatùr ha inventato la mitologia leghista, Braveheart, il paganesimo celtico, le ampolle con l'acqua del Monviso, ha istituito il parlamento e il governo padano senza che nessuno gli mandasse i carabinieri. Per supplire con il movimento a una forza politica declinante. Ha sostenuto tutto e il contrario di tutto, nell'esclusivo interesse della sopravvivenza del Carroccio. Per lui Alleanza nazionale è stata la "porcilaia fascista", e Berlusconi venne da lui esorcizzato come "Berluskaz", "Berluskaiser", l'uomo della mafia o di chissà quali altri poteri. Ha convinto D'Alema che la Lega era "una costola della sinistra", si è scatenato contro il Vaticano e i "vescovoni". Infine ha negoziato da perfetto giocatore d'azzardo il contratto elettorale del 2001 con Berlusconi, riuscendo a mascherare con i collegi sicuri il fatto che la Lega fosse finita sotto la soglia del 4 per cento nel proporzionale. Da tempo ci sono serie ragioni per argomentare che la Lega è un fenomeno politico residuale. È una forza politica a cui Forza Italia finora ha concesso il diritto all'esistenza, ma il suo destino probabile è di finire come una sorta di corrente del partito di Berlusconi. Dietro Bossi, infatti, non c'è una classe dirigente, una leadership con la stessa rutilante fantasia populista del capo. Ci sono figure come Roberto Maroni o Roberto Castelli, ma al momento nessun protagonista che lasci intuire doti carismatiche. Bossi era stato convinto a rientrare nell'alleanza con il Polo da Giulio Tremonti, il quale gli aveva spiegato che la secessione l'aveva già fatta l'Europa, portandosi via pezzi di sovranità nazionale. L'Umberto aveva capito. Ha continuato le sue polemiche contro Forcolandia e i "frammassoni", ma ripiegando nel tepore della Casa delle libertà. Tuttavia era già arrivato al bivio: il federalismo sembrava ormai una chimera, con le riforme padane continuamente rinviate dai suoi alleati. Avrebbe avuto bisogno di un altro colpo di fantasia, di scomporre rapidamente i giochi, di sottrarsi all'inerzia del doroteismo del centrodestra. Non ne ha avuto il tempo: ed è possibile che a questo punto la politica italiana andrà a una velocità troppo superiore a quella che una Lega senza Bossi può permettersi.
L'Espresso, 25/03/2004
Mistero Mr Me
Chi fermerà l'ascesa di "Mr. Me", alias Minestrony, e la sua gang di grassatori, avvocati, giudici corrotti, che hanno messo le mani sull'Italia? Nelle vesti di Clark Kent, Superman è sfiduciato: «Ladri, mascalzoni, mafiosi, banchieri off shore sono diventati una banda agli ordini di Minestrony». Le televisioni del regime rimandano immagini sgangherate in cui i profittatori cantano e si riempiono le tasche di danaro. L'opinione pubblica è anestetizzata. Chi salverà il Bel Paese? Semplice, gli eroi dei fumetti: Mandrake, Jessica Rabbit, Olive Oyl e Popeye, Charlie Brown e Snoopy... Si apre così l'opera comica in un atto "Mr. Me", composta da Luca Mosca su un libretto di Gianluigi Melega. Strane storie accadono nel paese di Minestrony. Succede che un giornalista come Melega, carriera al "Giorno", "L'Europeo", "Panorama", "la Repubblica", "L'espresso", deputato radicale per sei anni, autore di romanzi e di raccolte di poesie in inglese, incontri un musicista, Luca Mosca, 47 anni, che rimane affascinato dalla sonorità della sua ultima raccolta poetica in inglese ("Concerto and Collected Poems", Archinto, 2002) e compone la musica per sei liriche, presentandole nel novembre 2003 a Roma. Le storie si complicano allorché dalla collaborazione fra Melega e Mosca nasce l'opera comica "Mr. Me", edita da Suvini Zerboni. «Ho scritto le prime due scene l'estate scorsa, e in ottobre l'opera era completa. Abbiamo lavorato di conserva, in tempi ridotti, grazie alla grande capacità di scrittura di Mosca». Un'ora e 20 di spettacolo, con costi di allestimento limitati. Scritta in inglese, poteva essere un'eccellente occasione per la Biennale Musica: pubblico internazionale, una rappresentazione facile da produrre anche oltre confine. Sulle prime l'opera sembra interessare il direttore (dimissionario) della sezione musicale della Biennale, Giorgio Battistelli. Dopo i primi pour-parler però comincia un tiramolla che trascina l'accordo risolutivo fino a gennaio. Si dimette Franco Bernabè, e la Biennale resta senza presidente. Quando arriva Davide Croff, finanziere e musicologo, Battistelli viene confermato e due settimane fa telefona un primo ufficioso verdetto: «"Mr. Me" mi piace, lo annunciamo in aprile nel cartellone d'autunno». Passa un solo giorno e Battistelli indietreggia: l'opera non si fa più. Spiegazione: costi troppo alti. «In realtà», commenta Melega «l'opera non sarebbe costata neanche un euro: avevamo già impegni affidabili con teatri della Venezia Giulia, Napoli, Emilia, che avrebbero coperto le spese, e anche qualche sponsor pronto a sostenere l'iniziativa». Dunque di che si tratta? Eccesso di prudenza? Autocensura preventiva? Sta di fatto che l'ascesa di "Mr. Me" provoca effettivamente una resistenza. Aggiunge Melega: «Oltretutto l'opera è modulabile in varie forme, e l'idea era di rappresentarla in prima mondiale a Venezia con un budget medio, mettendola in scena con voci dal vivo e una compagnia di marionette. C'erano già stati contatti con la compagnia dei Lupi di Torino, regia di Margot Galante Garrone, e a Trieste con la compagnia di Podrecca. A questo punto mi dispiace per gli amici della Fenice, e soprattutto per l'ultima dogaressa, Teresa Foscari, che ne era entusiasta». Sarà che l'opera è un'allegoria troppo trasparente. Un incubo circolare da cui Minestrony si risveglia, attribuendo alla cattiva digestione l'insurrezione dei cartoons, che lo avevano circondato lanciando la profezia «una risata ti seppellirà, Mr. Me». Salvo ritrovarsi poi, al risveglio, con il cameriere che annuncia la visita di un reporter del "Daily Planet". Naturalmente è Clark Kent. «Ditegli che non sono a casa, che ho dovuto andarmene: ditegli che sono andato... alle Bahamas!». Prevedibile che un'istituzione come la Biennale venga presa dall'inquietudine. «Macché», conclude Melega, «l'opera è un musical postmoderno, un Kurt Weill nel millennio dei mass media. Se le istituzioni culturali hanno paura della musica, sfortunata la terra che ha bisogno di eroi, ancorché a fumetti».
L'Espresso, 18/03/2004
L’ulivo fiorisce a primavera
Quelli della lista unitaria la chiamano «rottura del pack». Il Polo si scongela, isole di consenso si staccano ed escono in mare aperto, qualcuna va alla deriva fino a toccare il continente del centro-sinistra. Non era mai accaduto in dieci anni di bipolarismo. A leggere l'ultimo sondaggio della Swg la dinamica è ormai percepibile. A destra precipita Forza Italia, che oltretutto ottiene il suo risultato con un effetto Bancomat, digitando il codice e svuotando il conto corrente degli alleati. Nel centro-sinistra la lista unitaria si colloca un sospiro oltre la soglia psicologica del 35 per cento; non si profila la temuta guerra fra Margherita e Ds, nel senso che non si parla più di sorpassi: Fassino si muove a buona andatura e Rutelli tiene, le gerarchie di grandezza non vengono sconvolte. Semmai sorprende il risultato potenziale della lista Occhetto-Di Pietro, che drena un po' di cattolici "radicali", raccoglie frange della sinistra movimentista (e forse anche qualche traccia di destra giustizialista), al punto da mettere un fermo alle ambizioni di crescita di Rifondazione comunista. Numeri. Pure astrazioni nel cielo della statistica. Figurazioni angeliche della riscossa antiberlusconiana. Ma gli esperti della matematica elettorale avvertono: non si tratta solo di uno svolazzo di cifre. Dietro le curve e gli andamenti dei grafici c'è una realtà in movimento. Dati che cambiano, si consolidano e si stratificano. E che mostrano come la situazione politica sia in fase, se non tellurica, almeno bradisismica. Dice Piero Ignazi, politologo: «Una rondine non fa primavera, ma la primavera scongela e scompone il blocco sociale di destra, mostrando che gli interessi erano troppo disomogenei per essere componibili, e che il messaggio mediatico- populista non basta a tenere insieme gli opposti, il Nord e il Sud, l'impresa e il pubblico impiego, i sussidiati e gli esposti alla concorrenza». Ammettiamo pure che con un impegno eccezionale e una campagna tutta effetti speciali Silvio Berlusconi riesca a recuperare l'ancora di "salvezza" del 25 per cento, il limite su cui ha fissato la sua Maginot. Resta il fatto che la quasi-tenuta di Forza Italia sarebbe pagata in contanti da An e Udc. La svolta "antifascista" di Fini sarebbe stata inutile sul piano elettorale, e la resistenza di Follini non verrebbe premiata, con il rischio di finire sotto il livello-brivido del 4 per cento. La Lega dimostrerebbe una volta per tutte di essere un modesto nido sotto l'ala di Forza Italia, che la tiene al caldo ma alla lunga la soffoca. Si aprirebbero quindi scenari tutti da scoprire. Probabili faide al coltello, nei corridoi della Casa. Senza escludere una sequenza di straordinaria dinamicità politica ed elettorale, con effetti o trasformismi inediti, passaggi di campo, studio ossessivo di strategie del post-Berlusconi. Perché l'orizzonte è il seguente. Le elezioni europee potrebbero sancire una vittoria in percentuale del centro-sinistra sulla Casa delle libertà per 50 a 45. La valutazione è prudenziale, ma gli esperti demoscopici sono piuttosto concordi nel valutare che i dati di oggi sono assestati, che le tendenze appaiono verificate nel medio-lungo periodo, e quindi è implausibile immaginare una riscossa rutilante di Berlusconi. Anche Renato Mannheimer rileva che la spinta antipolitica del Cavaliere, sintetizzata dal "sono soldi rubati", nonché dalle invasioni televisive e tecnico- tattiche sul Milan a due punte, «non ha portato finora a un incremento dei consensi». Forza Italia può limare le perdite, ma il risultato del 2001 sembra del tutto fuori portata. Ma a questo punto il problema centrale riguarda il centro-sinistra. Le elezioni europee infatti possono rappresentare una base di lancio per l'alternativa. Possono preludere anche a un ridisegno della Casa delle libertà, di cui gli annunci a-partisan sul "metodo repubblicano" di Giulio Tremonti e a ruota di Pier Ferdinando Casini rappresentano lo sfondo operativo. La rottura del pack smuove territori che in periferia (ma non solo in periferia, presumibilmente, e non c'è solo il caso di Paolo Cirino Pomicino a dimostrarlo) avvertirebbero l'attrazione del "magnete" costituito dalla lista prodiana, fosse pure soltanto in chiave di potere. Dimostra che l'ascesa del Cavaliere era molto resistibile, e che la sua discesa potrebbe essere irresistibile: nel bipolarismo imperfetto, il bandwaggoning, ossia il salto in corsa sul carro del vincitore, è la tentazione ineffabile di tutti i futuri orfani. Per questo il congresso della Margherita di questo fine settimana, giudicato inutile, una trovatina pubblicitaria di livello non eccelso, costituisce in realtà un momento delicato e a suo modo cruciale per risistemare i ruoli delle varie componenti del partito. Con Francesco Rutelli confermato alla presidenza, e Franco Marini all'organizzazione, si assisterebbe a una pacificazione delle tribù, lasciando tutto lo spazio alla gestione della lista unitaria e del suo futuro, nonché alla ridefinizione del rapporto strategico con i Ds. Il successo della lista Prodi non si rivelerebbe solo un fattore di grande semplificazione, apprezzato dagli elettori, ma costituirebbe anche un'entità politica in grado di assicurare la tonalità riformatrice dell'Ulivo e del centro-sinistra allargato. Oltre il confine della lista unitaria, infatti, la scena si movimenta, dato che non c'è più soltanto Fausto Bertinotti a presidiare la linea dell'antagonismo: Occhetto e Di Pietro possono anche fare da cerniera e da filtro. Per la prima volta dalla batosta del 2001, "en attendant" Romano Prodi, per il centro-sinistra il pessimismo non sembra più, a prima vista, una virtù.
L'Espresso, 26/02/2004
La pubblicità è l’anima della politica
Ieri l'euro era l'oggetto di una polemica populista; oggi è un'ancora. Appare schizofrenico il pensiero del centrodestra, dal momento che il presidente del Consiglio sostiene che il paese si è arricchito, mentre pochi giorni dopo il ministro Giulio Tremonti lancia una specie di piano fiscale per colpire gli aumenti dei prezzi. Tra la visione flou di Silvio Berlusconi e l'aumento dell'inflazione c'è un terreno accidentato, in cui avvengono fenomeni economici che coinvolgono pesantemente le famiglie, falcidiano i redditi, spostano ricchezza. A chi è esposto al diluvio post-euro le parole del capo del Governo sembrano un'amara ironia alle spalle dei perdenti: è una visione paradossale quella di un paese che si arricchisce mentre i suoi abitanti si impoveriscono. Ed è strano anche l'atteggiamento di Forza Italia, che quando era all'opposizione contestava aspramente i dati dell'Istat, mentre ora li sbandiera come la prova provata della stabilità e della crescita italiana. Naturalmente Berlusconi ha tutto il diritto di evocare un paese e una società dipinti con sfumature azzurre. La pubblicità è l'anima anche della politica, non solo del commercio, e il premier avverte il bisogno di contrastare la valutazione gravemente pessimistica che si sta diffondendo sul suo governo, e che rende perplessi anche numerosi elettori del centrodestra. Per uscire dal dilemma di un'Italia sospesa fra arricchimento e impoverimento, occorre rilevare un fenomeno in sé elementare, ma che sfugge ai dati medi e alle rilevazioni generali. L'inflazione infatti è un tiro alla fune sul piano sociale. Qualcuno ci rimette, qualcun altro ci guadagna. Uno studioso e parlamentare riformista, Nicola Rossi, ha analizzato i dati ufficiali dell'Istat, mostrando che l'impatto della curva inflazionistica è significativamente maggiore su alcuni ceti, su alcuni tipi di famiglia, sul lavoro dipendente, sulle pensioni. Non si tratta di una scoperta straordinaria: eppure mette in rilievo che in questo momento, anche sul piano economico, esistono due Italie. Non c'è soltanto la divaricazione fra l'Italia mediatica e l'Italia reale descritta da Ilvo Diamanti: c'è anche in atto un problema di redistribuzione fra una fascia di società che ha subito l'aumento dei prezzi e un'altra fascia che ne ha tratto vantaggio. Detto in termini un po' fuori moda, oggi stiamo assistendo a una variante della lotta di classe. Risulta curioso che essa venga condotta dai ricchi contro i poveri: tuttavia questa semplificazione estrema descrive un processo politico importante. Se è vero infatti che il sogno berlusconiano aveva indotto al consenso per il centrodestra anche una platea di elettori marginali, non privilegiati, esposti alla pressione televisiva, componendo un interclassismo fondato sul miraggio di un benessere facile per tutti, l'inflazione a due velocità rappresenta la smentita politica di un'illusione. Dovrebbe bastare questa modesta considerazione per caratterizzare l'azione politica del centrosinistra. Nei prossimi mesi, a partire dalle elezioni europee, non c'è in gioco soltanto il successo della lista unitaria: il confronto politico non riguarderà esclusivamente una battaglia di astrazioni bipolari. C'è in bilico anche una partita fra interessi. Partita pesante, da cui dipende il profilo della società italiana. L'Ulivo deve assimilare l'idea che l'alternativa a Berlusconi non è la contrapposizione di un sogno a un sogno. Se è vero che gli arricchiti dall'inflazione appartengono tendenzialmente all'elettorato di centrodestra, occorrerà mettere a fuoco che gli impoveriti devono essere conquistati dal centrosinistra. Non con formule politiciste, ma con idee e progetti riferiti alla realtà effettiva, al disagio che serpeggia nel paese, alla precarietà e all'insicurezza determinate dalla flessibilizzazione dell'economia. Per ora, Berlusconi offre come progetto politico la sua faccia; l'Ulivo promette l'unità riformista. Ci vuole una iniezione di realtà e di consapevolezza: altrimenti "l'altra" Italia, il paese impoverito, sentirà solo parole. E quanto a parole non è facile battere l'Italia immaginaria del Cavaliere.
L'Espresso, 11.11.2004
Grande fratello grandissimo
Sarà che hanno sbagliato il casting. Sarà che non c'è nessuna donna che possa figurare come oggetto del desiderio, una Mascia o una Marina, una gatta grassa o una gatta morta. Sarà che l'unico essere interessante dovrebbe essere quel tale Jonathan che sembra avere il fisico di un serpente o di Iggy Pop, l'Iguana (però ibridato con la faccia di Adriano Celentano). Sarà e sarà, ma sarà anche il fatto che perfino il Padrone, il magnate arcoriano provvisoriamente insediato a Palazzo Chigi, avrebbe detto ai suoi intimi di governo: «Ma che stronzate stanno a di', questi, tutto il giorno». Insomma, le ragioni saranno tante, ma l'unica realtà comprensibile è che il "Grande Fratello", quest'anno, fa pena. Gli ascolti calano, gli share languono, l'audience latita. Al punto che l'imprevedibile è accaduto davvero: la moda è cambiata, il trend si è azzoppato, il glam è altrove, e nessuno fra gli intellettuali confessa più lubricamente di essere un fan del "GF". Un'occhiatina all'"Isola dei Famosi" è ancora consentita; ma non appena il tasto del telecomando cade sul "Grande Fratello", si urla: «Cambia, cambia». Difficile spiegare le ragioni del flop. I protagonisti sono brutti come italiani normali, parlano con un forte, insopportabile accento regionale, hanno una concezione della vita da giornale di gossip, sono capaci di ingurgitare 44 lattine di birra e dopo darsi a un petting schifosino. Sostanza: sono italiani medi o medio-bassi come tutti noi che guardiamo la svaccata televisione pubblica o privata. E allora perché non scatta l'identificazione? Perché il pubblico non si immedesima? Eh, perché? Sarà che hanno sbagliato il casting eccetera. Ma l'unica spiegazione veramente suggestiva è che sia proprio cambiato il mood. Il "Grande Fratello" era il programma perfetto per accompagnare l'ascesa di Silvio Berlusconi e del berlusconismo, con la benedizione della Prestigiacomo e della Santanchè. Quando il "GF" tramonta, vuol dire semplicemente che tramonta anche il regime, il centrodestra, il berlusconismo suddetto. Anzi, si può pensare a un crossover fantastico, immaginando di abrogare con referendum il "Grande Fratello" e il governo, e di spedire gli esponenti più significativi del centrodestra nell'"Isola dei Famosi". Così si risolve il problema del rimpasto di Rocco, delle aliquote di Gianfranco (nel senso di Fini), e della proporzionale di Silvio. Addio, cari, alla prossima edizione.
L'Espresso, 09.09.2004
Piombo amore e fantasia
Trattasi di slogan inattuale, "Lavorare con lentezza". Eh sì, storia degli anni Settanta, anni non solo di piombo. "Gli anni della maturità che non sapemmo avereª, disse più tardi Giuliano Amato. Anni dell'alternativa politica cercata prima attraverso il Pci, grande avanzata alle elezioni politiche del 1976: ma ovviamente la Dc non cede, e "i due vincitori" prefigurano una specie di bipartitismo, la possibile modernizzazione politica dell'Italia post-sessantottesca, post-autunno caldo, post-divorzio, post-rivoluzione sessuale. E si tratta di un film, sempre "Lavorare con lentezza", prodotto da Fandango e girato da Guido Chiesa (il regista che ha alle spalle un buon successo nel 2000 con "Il partigiano Johnny"), in concorso al Festival di Venezia. Siamo a Bologna, l'isola felice, almeno in apparenza, del comunismo pragmatico all'emiliana, servizi sociali e salda egemonia culturale, un sindaco accademicamente con i controfiocchi come Renato Zangheri, il recupero del centro storico, l'umanesimo rosso, la borghesia soddisfatta, il compromesso socialdemocratico voluto da Togliatti fra l'Emilia rossa e i ceti medi che funziona ancora mirabilmente tutto sotto controllo, compagni. I segnali di disagio sono altrove: a Roma, dove in febbraio Luciano Lama Ë stato spernacchiato all'università dagli autonomi, "Lama non l'ama nessuno", "I Lama stanno in Tibet". Comincia qui l'anno 1977. E succede politicamente un Settantasette. Radio Alice è un epicentro. Bologna la grassa, la dotta eccetera comincia a fibrillare. Il magnifico rettore Rizzoli chiama le forze dell'ordine per spegnere gli scontri davanti ad Anatomia fra il Movimento e studenti e gli "squadristi" (come dicono a sinistra) di Comunione e Liberazione. Un carabiniere ammazza Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta continua. In un solo momento, Bologna non è più la stessa, l'isola è invasa, il sistema di potere del Pci si incrina, scricchiola, sbanda. I blindati della polizia demoliscono anche l'immagine del socialismo che funziona. Per raccontare questa storia, insidiosa come tutte le storie generazionali, Guido Chiesa ha chiamato a collaborare alla sceneggiatura i Wu Ming, entità definibile forse come "intellettuale collettivo", a cui si devono fra l'altro un paio di libri fortunati come "Q" e "54". Quelli di Wu Ming, per capirci, sono gente che se la tira abbastanza, e per ogni progetto o intuizione devono costruirci su una teoria; ma poi hanno avuto una buona idea, rintracciata dalle cronache d'allora: "Proprio sui giornali d'epoca abbiamo trovato notizia di una misteriosa rapina col buco, che dai canali sotto le strade di Bologna doveva portare un commando di uomini-talpa a un passo dal pavimento del caveau della Cassa di Risparmio..."ª. Quella della galleria è un'altra città sotterranea, simile metaforicamente a quella della Bologna underground. Le talpe scavano. Gli animali da scavo politico sono quelli dell'autonomia, di Radio Alice, di Francesco Berardi detto Bifo. Le talpe manovali del crimine sono un bolognese autentico e un "meridionale massa". Squalo e Pelo: il regista Chiesa li ha selezionati con ogni probabilità per testimoniare anche fisicamente i due volti di una Bologna che si sta disintegrando politicamente e socialmente. Da una parte il proletario di quartiere, ludico, cazzeggiatore, non ancora adulto, fichissimo nella sua svagatezza petroniana, interpretato dall'esordiente Tommaso Ramenghi; dall'altra Marco Luisi, immigrato incazzato duro, che sembra venuto già da un film d'epoca tipo "La classe operaia va in paradiso". Reclutati, i due, da un impresario della mala, tale Marangon, criminale filosofo (interpretato da Valerio Binasco), con il compito di scavare il lunghissimo tunnel verso la sede della Carisbo in piazza Minghetti. La Bologna non ufficiale ma comunque politica, quella di Radio Alice, della polizia, della contestazione Ë affidata ai volti di Valerio Mastandrea, poliziotto incaricato di ascoltare professionalmente la voce della sovversione che corre via etere, e di Claudia Pandolfi, sottratta alle melensaggini di prima sera, nel ruolo dell'avvocata giovane e di sinistra che sta dalla parte dei rivoltosi. Secondo Wu Ming, fare un film sulla Bologna del biennio 1976-77 significava soprattutto questo: sperimentare se fosse possibile parlare di anni Settanta senza restare prigionieri dell'uno o dell'altro clichè. Rifiutarsi di credere che la complessità di quel decennio potesse essere rappresentata solo da Bombolo e Mario Morettiª. Tuttavia un punto di vista di questo tipo è molto parziale, anzi, unilaterale. L'unilateralismo è dato dal prendere la prospettiva del "movimento" come l'unica praticabile. In realtà, la galassia movimentista era soltanto uno degli elementi in gioco: il Settantasette bolognese rappresenta una delle crisi settoriali che preludono alla grande crisi di sistema. Quando a Bologna, in settembre, viene organizzato il grande convegno sulla repressione, sull'onda di Fèlix Guattari e dell'Antiedipo, il dato di fondo è rappresentato dal fatto che una generazione ha dichiarato la propria sfiducia nel Partito comunista. Cioè nell'alternativa politica al "regime" democristiano. Se non si crede nel meccanismo della democrazia "borghese", non c'è altra strada se non l'insurrezione, la lotta di massa, l'esplosività collettiva contro le istituzioni del controllo politico-sociale, "al limite" anche l'illegalità di massa o individuale e sotterranea. Oppure, come prospettano i Wu Ming, c'è la libertà d'invenzione formale, "la forza- invenzione, i "cento fiori", le tinte acide delle serigrafie, le fanzine, il cut-up grafico e sonoro, il linguaggio destrutturato delle radio libere e dei circoli di proletariato giovanile ("Un risotto vi seppellirà"), l'irrompere degli slang e degli accenti regionali dopo decenni di dizione Raiª. Dopo di che ci si può anche chiedere: che cosa è restato? La Bologna di allora aveva tentato di neutralizzare la propria epopea negativa ricorrendo alle caratteristiche stereotipate di città tollerante. Ma in realtà lo scontro fra movimenti e istituzioni era destinato a rimanere insoluto e sterile perchè gli uni e le altre non credevano alla democrazia. Dopo ?Zangheri zangherò zangheriamo la città", l'autonomia restava all'interno di un circuito estetico, non di rado estetizzante, compiaciuto delle proprie formule, mentre dentro la roccaforte sbrecciata del socialismo "Emilian Style" ci si rendeva conto che nel bilancio fra l'egemonia politica e il cambiamento, fra la lotta e il governo, il partito si era seduto. D'altronde, come era possibile tenere insieme, nel clima di allora, i docenti democratici dell'Università di Bologna che firmavano appelli progressisti, Umberto Eco che preparava lo scherzo sublime di "Il nome della rosa", Dario Fo con il suo teatro militante, il Soccorso rosso che reclutava fiancheggiatori, nonchè Carlo Ginzburg e Vittorio Foa, Lotta continua e l'Autonomia, la guerriglia e la liberazione, rivoluzionari, dadaisti, nichilisti, indiani metrò. Mentre dall'altra parte c'era l'arco costituzionale, i partiti, Zangheri che diceva "ci vuole il dialogo fra la città e gli studenti, escludendo i fautori della violenza"ª. Questione di incomunicabilità. Lavorare con lentezza era impossibile anche allora, perchè i movimenti avevano un bisogno matto di velocità, di efficacia grafica, di creazione parolibera, mentre la politica è troppo lenta rispetto ai tempi nuovi. Per questo adesso tutti parlano di memoria: "Memoria dei movimenti, memoria moltepliceª, secondo Wu Ming. "Tutte le storie parlano di oggi. E di domani"ª, dice Guido Chiesa, uno che pure preferisce "l'ironia alla nostalgia"ª. A proposito: l'espressione "lavorare con lentezza" viene da una canzone che ogni mattina apriva le trasmissioni di Radio Alice, un brano del pugliese Enzo Del Re, oltranzista della canzone politica di quegli anni, abituato a chiedere come compenso il minimo sindacale della paga di una giornata di lavoro di un metalmeccanico. Ma forse la canzone che meglio definisce quei tempi Ë di Rino Gaetano, "Mio fratello è figlio unico", che in poche strofe fa ancora ricordare che le contraddizioni sono allora e sempre in seno al popolo.
L'Espresso, 02.09.2004
Forrest Gump è diventato un quiz
Lunedì 30 agosto torna "L'Eredità", programma giornaliero di Raiuno, sei giorni su sette, prima del tg delle 20, condotto da Amadeus. Nessuno in Italia conosce il regolamento di questo gioco a quiz, così come nessuno conosce il vero nome di Amadeus e, tanto per cambiare settore, nessuno conosce il nome di tre dirigenti di Rifondazione comunista escludendo Bertinotti (su quest'ultimo punto, il copyright è dello storico Giuseppe Berta). Comunque "L'Eredità" male non fa, è una trasmissione del tutto innocua, che si guarda per vedere se la concorrente tale o il concorrente talaltro è ignorante come noi a proposito di delfini, di buddhismo o di mitologia greca (ma dice preoccupato Claudio Gorlier che, ahi, "lacune stupefacenti affiorano in professoresse di scuola media"). Lasciati al passato i tempi del quiz paranoico, con i concorrenti preparatissimi su un solo argomento, tipo "Rischiatutto" e prima "Lascia o raddoppia", il quiz contemporaneo è un esercizio di abilità generica, in cui persone molto dilettanti e mediamente informate sperano di riuscire a dimostrare in primo luogo una capacità televisiva, l'attitudine a stare in video, a risultare attraenti per simpatia o per "preparazione". "Lei mi sembra molto preparato/a", dirà infatti Amadeus a un/a concorrente che padroneggia con una certa disinvoltura il condizionale. Come altri quiz televisivi "L'Eredità" presenta domande su argomenti che non padroneggerebbe neppure un conoscitore degli organigrammi di Rifondazione comunista, in cui la cosiddetta preparazione di chi gareggia si misura nella capacità di trovare argomentazioni apparentemente ragionevoli per escludere le risposte in apparenza sbagliate. D'altronde, oggi chi si offre alle selezioni per partecipare a un telequiz non ha come scopo primario i premi in denaro. Il titolo stesso del programma di Amadeus segnala la possibilità di una fortuna improvvisa e inaspettata, qualcosa che cade dal cielo. Sotto questo aspetto la Casa dell'Eredità è un programma a suo modo politico, che in parte attenua la retorica e le fatiche dell'impresa, del mercato, della competitività, del lavoro, della professionalità. Viva Amadeus. Viva Forrest Gump. Viva il colpo di fortuna. In alto le bandane e una pioggia di euri scenda su di voi.
L'Espresso, 05.08.2004
Meglio Ruta o cicuta?
Se un pomeriggio qualsiasi si comincia a guardare "Estate sul 2", naturalmente su Raidue, non ci si stacca più. Ipnotizzati. Perché il programma condotto da una Maria Teresa Ruta rigenerata (abbassata la testa, smerigliate le valvole) è, punto 1, un provino continuo della prossima edizione e di quelle successive dell'"Isola dei famosi". Infatti, presenta, punto 2, una fila di svip, svippati e svippate, di cui non è certa la professione, se non quella di fare gli ospiti in programmi come "Estate sul 2". Ammettiamo che uno si svegli una mattina e pensi: ma Lory Del Santo, dove sarà finita? E Jo Squillo, quella che oltre le gambe c'è di più, che cosa starà facendo? Bene, "Estate sul 2" colma la lacuna, soddisfa la curiosità, offre l'ultima notizia e l'ultimo look (perlomeno l'ultimo look che svippati e svippate si possono permettere). Ma non basta. Punto 3: nel programma c'è anche la zona grandi recuperi. Visto un bellissimo esemplare di Alessandro Meluzzi, ex Forza Italia, ex straccione di Valmy con Cossiga, tornato alla sua professione di psicologo, anche se irresistibilmente attratto dalla tv, come accade a tutti gli psicologi, specialmente quelli che sanno scrutare la profondità, gli abissi, insomma l'insondabile superficialità della personalità contemporanea per descriverla radiosamente a Costanzo, a Vespa, o almeno alla Ruta. Punto 5: non manca un cuoco, nel programma, e non manca nemmeno la partecipazione di Barbara Alberti e di Marina Ripa di Meana. A proposito di marina e marinai, avvistata anche una eccezionale apparizione di Marina Occhiena, la fatalona ex Ricchi e Poveri. Al sesto punto, si segnalano i grandi dibattiti di "Estate sul 2": ti piacerebbe rinascere dell'altro sesso? La sposi se ha un figlio? Funzionano le minacce con i figli, tipo se non studi niente vacanze? Sono temi e dilemmi che inducono agli istinti più malvagi tutti noi. Sicché dopo due o tre puntate arriva alla coscienza, come direbbe lo psicologo, il tema fondamentale, esprimibile così: cari ospiti, cari famosi, care lori, marine, alessandri, teneteli cari, i vostri gettoncini di presenza, aprite libretti di risparmio, fate dei Bot, accendete una pensione integrativa. Non venitevi poi a lamentare: al momento buono, punto finale, il contributo previsto dalla legge Bacchelli non ve lo diamo, no e poi no, neanche se c'è l'interessamento del presidente del Consiglio (come è avvenuto nel caso di Joe Sentieri, forse per affinità canora e salterina).
L'Espresso, 31/12/2003
Don Francesco e l’onorevole Rutelli
Sulla fecondazione assistita si possono avere idee molto diverse, e non è detto che la prudenza equivalga a oscurantismo; ma sulla politica le idee dovrebbero essere piuttosto chiare. Data questa piccola premessa, viene da chiedersi se il leader della Margherita, Francesco Rutelli, sia sostenuto da una chiarezza politica appropriata. Perché nessuno discute le concezioni del Rutelli cattolico di oggi, che smentiscono le convinzioni del Rutelli laico e radicale di ieri. Resta il fatto che la nobiltà delle ispirazioni culturali del Rutelli attuale andava divisa nettamente dalla posizione da assumere in Parlamento. La legge in sé non è cattolica. Com'è noto, la chiesa non ammette nemmeno la fecondazione omologa, e quindi il di-scorso etico-religioso sarebbe chiuso. Il provvedimento legislativo approvato nei giorni scorsi è una misura intermedia, di freno, di tamponamento, rispetto alla quale sarà curioso seguire l'applicazione pratica: ad esempio sui criteri con cui verranno valutate più o meno "stabili" le coppie di fatto che vogliono accedere alla provetta. Sotto il profilo etico, se si vogliono scomodare parole ingombranti, la legge non è né più alta né più bassa di altre norme legislative possibili; si tratta di un testo politico, da valutare anche, se non soprattutto, in quanto tale. In sostanza, Rutelli e i cattolici della Margherita possono coltivare perfino l'idea che i figli non devono mai essere prodotti in provetta; si può benissimo essere proibizionisti nella propria coscienza; ma non si capisce per quale motivo ciò debba condurre a un voto con il governo e la maggioranza di centrodestra. Ci fosse in ballo una battaglia di civiltà, questa decisione sarebbe comprensibile. Ma qui non erano in ballo i sacri principi dell'inviolabilità della vita: era in ballo una legge-pasticcio, un fritto misto compromissorio. Tre embrioni sono eticamente meglio di quattro e peggio di due? Le coppie di fatto "stabili" sono più stabili di coppie sposate e annoiate? Ecco perché una personalità indubitabilmente cattolica come Arturo Parisi ha segnalato con asprezza l'eccesso di confessionalismo della scelta di Rutelli. Nelle aule parlamentari ci sono molti modi di segnalare la propria sensibilità culturale, la propria ispirazione religiosa, i principi cardine della propria visione etica, senza cadere in operazioni trasformistiche. Ci si può astenere nel voto, uscire dall'aula, adottare il criterio della libertà di coscienza. In questo caso, si è scelto il principio di avvelenare politicamente la provetta. Nei gameti è stato inoculato un virus che segnala fra i suoi sintomi l'incompatibilità delle culture presenti nel centrosinistra. Il che getta una luce fredda sulle prospettive politiche dell'opposizione. "Uniti per unire", dice lo slogan non proprio brillante della lista unica. Ma ha ancora un senso? È vero, nella società contemporanea ci sono argomenti che non possono essere separati rozzamente con il discrimine fra destra e sinistra. E all'interno del centrosinistra convivono tradizioni culturali che devono essere negoziate e mediate. Di più: in linea di prospettiva il centrosinistra deve fare i conti con la qualità della sua proposta di governo, tenendo conto che una possibile vittoria elettorale contro l'armata berlusconiana non gli garantisce certo a priori una compattezza programmatica decente. Bene: si tratta di capire se dopo che il centrosinistra si è dissolto sulla fecondazione assistita non si dissolverà anche sui prossimi temi che emergeranno nella campagna elettorale per le elezioni europee, e più avanti nelle campagne per le regionali e le politiche. È presto per dire che alla prova dei fatti il centrosinistra si dimostrerà incapace di gestire le proprie tensioni interne. Tuttavia, dato che si sa che il principale mastice della coalizione è l'antiberlusconismo, converrebbe anche capire quale sarebbe il calcolo strategico che ha consigliato Rutelli e parte della Margherita a votare per il governo. È una sintesi brutale, ma contiene un elemento cruciale per il futuro del centrosinistra. E se ieri è prevalso il "facciamoci del male", non si riesce a intuire come domani l'opposizione riuscirà a farsi del bene.
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