L’Espresso
L'Espresso, 31/12/2003
Premier in caduta libera
Regnava sull'Italia la legge dell'immagine, strategia rivoluzionaria per la politica domestica. Ho vinto tutto, sono l'unico che può fare ripartire questa vecchia e stanca Italia, sono liberista, centrista, degasperiano, americano, rifondatore dell'Europa. Trasformare la politica estera in una soap opera, i rapporti fra le cancellerie in pacche sulle spalle, corna sulla testa, prese a braccetto e boutade cameratesche. Non si può negare a Silvio Berlusconi la dote di avere capito i meccanismi della società contemporanea. Comunicare, comunicare, comunicare. Ripetere all'infinito che la battuta del kapò rivolta all'eurodeputato Shultz provocò un'ilarità generale fra i «turisti della democrazia» del Parlamento europeo. Sono storie, distorsioni della realtà, rifrazioni speciose? Non importa. Ripetete, ripetete, qualcosa resterà. Ma la realtà ha la cocciuta tendenza a rifarsi viva, al di là dei cactus della villa in Sardegna, oltre il riflesso del kolossal finto-marmoreo di Pratica di Mare, dopo una conversazione «alla seconda bottiglia di champagne» dove si dicono cosucce da bar su Mussolini e il fascismo come dittatura benevola. Tanto più che il presidente del Consiglio non solo pretende che il pubblico creda alla sua verità. Ci crede anche lui, artefice e vittima delle proprie invenzioni. «Sono alto come Tony Blair», e soprattutto "eppure son simpatico": va da sé che l'innata cordialità, il tratto compagnone, la bonomia meneghina consentono exploit altamente istituzionali, come il goliardico «parliamo di calcio e donne» che all'ultimo vertice apre la cena con Schröder e lascia allibito il reparto donne dell'Unione europea: aggravato subito dopo dal «Gerhard, tu che hai una certa esperienza, dacci qualche consiglio». Vabbè che con le donne va così così, se Veronica Lario confessa a Maria Latella che lei è una casalinga e legge i giornali (anzi, è titolare di una quota del "Foglio" di Giuliano Ferrara), contrariamente all'opinione del marito secondo cui le massaie non consumano un prodotto obsoleto come i quotidiani. Quanto al calcio, c'è una folla televisiva di reduci dalla delusione di Yokohama, dove il Milan è stato sconfitto dagli argentini del Boca Junior dopo una serie di rigori tirata catastroficamente dai rossoneri (con il giocatore intrinsecamente più berlusconiano del Milan che con una pedata disastrosa solleva dal dischetto una zolla di due chili, come un dilettante di sinistra). Sciocchezze, se non fosse che i vincitori devono sempre vincere. Ma vincere non è così facile sulle faccende serie, sulla Costituzione europea ad esempio, dove i duri giocano duro veramente. Serve a poco annunciare di avere in tasca la «formula segreta» capace di mettere d'accordo tutti sul sistema di voto, quando alle spalle c'è il ricordo della grave defezione innescata con la lettera degli otto paesi al "New York Times" che si schierava con l'unilateralismo di George W. Bush, contro l'Europa "carolingia" e pacifista di Chirac e Schröder. Oppure la censura europea sulle dichiarazioni iper-putiniane a proposito delle "leggende" in Cecenia. Succede poi che ci si ritrova a dover ballare fra la posizione francese e tedesca, alleati sul sistema di voto, e la dura opposizione di spagnoli e polacchi, alleati di ieri sulla guerra in Iraq, con l'amico Aznar che si guarda bene dal cedere alcunché in nome dell'amicizia e dei regali di nozze. Il Cavaliere raccoglie quanto ha seminato, è il commento che si registra nei pressi della Commissione europea. Dopo il vento, la tempesta. Il grande federatore, l'uomo che era partito per Bruxelles annunciando di avere in tasca la «formula segreta» per un accordo «alto e nobile», ha dovuto tagliare il vertice riconoscendo l'impossibilità di trattative ulteriori. Romano Prodi era stato freddissimo sulla capacità berlusconiana di produrre miracoli in sede europea. Le consultazioni telefoniche con Carlo Azeglio Ciampi erano state tese, e si capisce: un europeista classico come il capo dello Stato, l'artefice del risanamento maastrichtiano e dell'ingresso nell'euro, di fronte a un realista scettico come Berlusconi, patron di quel Giulio Tremonti che aveva collaborato attivamente per incrinare il Patto di stabilità. Nessuno è autorizzato a individuare una connessione tra il fallimento del semestre e della conferenza intergovernativa («Un trionfo», per il capo del governo) e il fulmine arrivato dal Quirinale sulla legge Gasparri. Resta il fatto che la combinazione dei due eventi in stretta successione è risultata distruttiva. Erano settimane che l'area berlusconiana stava plasmando un clima favorevole alla legge sul sistema televisivo, alternando dichiarazioni di massimo rispetto formale per l'autonomia del Colle e una pressione avvertibile, esemplificata da un editoriale sul "Foglio" di Giuliano Ferrara, secondo cui il rinvio alle Camere avrebbe comportato una qualificazione di Ciampi come giocatore politico, non più come arbitro. Ora, il documento con cui Ciampi ha motivato il rinvio appare ineccepibile e severamente circostanziato: non si può risolvere il dilemma di oggi con le opportunità di domani, il monopolio attuale con il futuribile del digitale, il controllo effettuale di Rai e Mediaset con l'annacquamento della televisione nel fantomatico Sic. Anche se Berlusconi, sempre per la legge dell'immagine, ricorre al latinorum e dice che «non c'è vulnus» per il governo, e poi si incattivisce dicendo che non leggerà le motivazioni dei «tecnici del Quirinale», tutto si accartoccia su se stesso. Ripresentare la legge così com'è equivarrebbe ad attaccare frontalmente il Quirinale, rischiare una violenta delegittimazione del presidente della Repubblica, e ciò non sembra raccogliere la disponibilità di An e dell'Udc. Conseguentemente, il conflitto d'interessi raggiunge un livello parossistico nel momento in cui il salvataggio di Retequattro con un decreto ad hoc sarà affidato per decenza alla firma di Gianfranco Fini, e non del premier-padrone. Ma l'uragano che sta investendo Berlusconi non riguarda soltanto le relazioni internazionali e il rapporto con un establishment economico che guarda con sempre maggiore delusione l'attività del governo. Si sa che la riforma delle pensioni è un provvedimento a sua volta d'immagine, una legge hard rinviata nelle nebbie soft del 2008; che Luca Cordero di Montezemolo, nelle vesti di presidente della Fieg, avrà accolto con sollievo il rinvio della Gasparri, legge che gli editori di giornali avevano sempre osteggiato. Ed è vero anche che il governo non si era guadagnato attestati di fiducia dopo che un pezzo di Finanziaria era stato folgorato dagli uffici della Camera causa uno sforamento "invisibile" di 3,2 milioni di euro. Eppure il ciclone anti-Berlusconi non sarebbe così preoccupante per l'interessato se non ci fossero condizioni esplicitamente politiche a lui sfavorevoli. Detto in modo brutale: se non si fosse aperta da un paio di mesi la corsa alla successione. Spiegare perché si sia cominciato a parlare del post-Berlusconi non è di immediata evidenza. C'è sicuramente una parte dell'élite economica che sta rovesciando il pollice nei suoi confronti. Ma soprattutto siamo davanti a un panorama politico in cui i possibili successori, gli autocandidati al post, hanno tutti cominciato a stringere i pedali per la volata alla successione. Gli ingredienti della ricetta post-berlusconiana sono quasi tutti sul tappeto: verifica, rimpasto, questione-Lega, resa dei conti con Tremonti. Aggiungere i guai giudiziari di Cesare Previti, mascherati da un'altra operazione d'immagine che ha trasformato una condanna in una sostanziale assoluzione. Prevedere altre forti turbolenze nel caso che la Corte costituzionale rigetti il lodo Schifani restituendo il premier alla condizione di imputato. Agitare il cocktail con il riesplodere, dopo mesi di silenzio, dei vociferii sulla salute del signore di Arcore, questa volta trapelati anche sulla prima pagina di un quotidiano sensibile al gossip politico come "Il Riformista". Non basta? E allora mettiamoci anche i sondaggi sfavorevoli, non escluso il virtuale sorpasso inerziale del centro-sinistra. Tutte condizioni che si accendono di colori rame e ruggine, come in un autentico autunno del patriarca, non appena si pensi al tempismo con cui Gianfranco Fini, secondo l'interpretazione offerta da Eugenio Scalfari, ha trasformato il suo partito in un potenziale sostituto popolar-conservatore di Forza Italia; e alla sapienza politica attendista, abituata ai tempi lunghi, ma chirurgicamente puntuale nei tempi brevi e brevissimi, con la quale Pier Ferdinando Casini e Marco Follini amministrano il loro piccolo patrimonio neo- democristiano, pronti a traghettarlo nella Repubblica del dopo-Berlusconi. In altri tempi, ci si poteva aspettare un colpo di genio del grande improvvisatore, del grande manipolatore, di quel talento comunicativo chiamato Silvio Berlusconi. Un appello diretto al popolo, la ricerca del plebiscito. Ma fra il popolo e il leader mediatico, come fra realtà e immagine, sembrano essersi schierati troppi fattori e troppi soggetti di interposizione. E senza la possibilità di mobilitare il popolo, Berlusconi non è più il capo populista. È sempre di più l'immagine di un uomo solo.
L'Espresso, 11/12/2003
Orgoglio nero
Fascista, certo. Fascista nel senso del movimento, sia chiaro, non nel senso del partito. Consapevole che un regime politico non è ripetibile, perché il fascismo nasce sulla scia della massa di reduci dalla Grande guerra, dallo scontro sociale, dal biennio rosso, dal timore del bolscevismo... Pino Rauti maneggia le parole con spregiudicatezza. «Fascista io? Sicuro. Lo dissi al giudice del processo di Catanzaro: lei è cattolico, vero? E va a messa tutte le domeniche, no? E ci va anche se l'Inquisizione ha torturato e bruciato. Allora io sono fascista. Se c'è chi si dice comunista nonostante gli "errori" che hanno provocato cento milioni di morti, io sono fascista». Quelli dell'estrema destra lo chiamavano "il Gramsci nero". È stato allievo di Julius Evola, ha fondato Ordine nuovo, all'epoca delle trame nere il "male assoluto" era lui. Dopo l'assemblea di Fiuggi, è diventato lo scissionista e il custode dottrinario dell'identità missina. Oggi Rauti, altro che fiamma, è un vulcano di insofferenza anti-finiana. Figurarsi, per uno come lui, che ha scritto e pubblicato i sei volumi, le 3.600 pagine della "Storia del fascismo", la svolta del presidente di Alleanza nazionale è l'ultimo, intollerabile episodio di un'abdicazione politica ai danni della memoria. E si capisce, il suo vecchio avversario, con cui si scontrò per la segreteria del Msi, è diventato antifascista. «Vuole un giudizio sul viaggio di Gianfranco Fini in Israele? È stato del tutto negativo. Per l'Italia, per l'Europa e, se posso dirlo, anche per Alleanza nazionale». Svolta negativa per l'Italia, Rauti: ci dica perché. «È stata improvvida per il nostro paese perché ci ha presentati come i più filoisraeliani dell'Unione europea. Al coperto della condanna del razzismo e dell'antisemitismo, Fini ha compiuto un'operazione politica che ha avuto e avrà serie conseguenze nel rapporto con il mondo islamico. Oltretutto, c'è stata una confusione di ruoli, che non è stata rilevata né dalla stampa né dall'opposizione: chi era il Fini che si è visto a Gerusalemme, il vicepresidente del Consiglio? Oppure il leader di An? Non si è capito affatto. È andato a farsi sdoganare, e la conseguenza è che siamo apparsi succubi di Sharon e del suo governo, un governo contestatissimo per la politica che conduce». E per l'Europa? «Si è trattato di una iniziativa dannosa anche per l'Europa, e per la sua collocazione nell'equilibrio geopolitico mondiale. Esiste ancora, o esisteva, un'ipotesi di Europa "carolingia", fondata sul binomio Francia-Germania: se a questo asse si fosse aggiunta l'Italia, si sarebbe costituita un'entità capace di distinguersi dagli Stati Uniti e dalla politica di George W. Bush. Bene, anzi male, questa ipotesi è stata affondata. Per un presunto interesse di partito, e per sicuro un interesse personale, Fini ha ceduto tutto». Ma per Alleanza nazionale lo strappo di Fini può portare vantaggi politici o almeno elettorali. «No, la svolta è negativa anche per An, perché svende una storia. Noi della Fiamma tricolore siamo stati sommersi dalle telefonate, dai fax, dalle proteste. Questa potrebbe sembrare una dichiarazione politica, non verificabile, d'accordo. Ma allora tenga conto che l'Unione combattenti della Repubblica sociale ha chiesto ai suoi iscritti di uscire da An. Ajmone Finestra, il vicepresidente dell'Unione, ha emesso un comunicato durissimo in questo senso». Rauti, non lo nasconda: si aprono prospettive di qualche interesse per il suo partito. «Adesso noi faremo una lista alle elezioni europee, che possa essere una casa per l'eventuale diaspora da An e per tutti coloro che rifiutano la svendita. Siamo avvantaggiati perché non abbiamo bisogno di raccogliere le firme, dato che avevamo già un deputato europeo, mentre Forza nuova e il Fronte sociale nazionale di Adriano Tilgher, e il partito annunciato da Alessandra Mussolini si trovano davanti le 35 mila firme da raccogliere sul piano nazionale, una montagna». Fini sostiene che ciò che ha detto a Gerusalemme è una semplice conseguenza dell'assemblea di Fiuggi del 1995. «Storie. Fini ha aggravato Fiuggi. Perché un conto è uscire dalla casa del padre, un altro conto è dire che era un luogo di vergogna. C'è una sconcertante mancanza di cultura storica. Vuole che non sappia che nella Repubblica di Salò si scatenarono anche gli istinti peggiori? Era una guerra civile, queste pulsioni sono venute fuori da una parte e dall'altra. Ma Fini e i suoi seguaci devono spiegare allora che cosa rimane di quella esperienza. Che cosa ne facciamo di Junio Valerio Borghese, che con la X Mas, tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945, riuscì a salvare il Friuli sbarrando il passo a quelli di Tito? Ci dica, Fini, come dobbiamo trattare il maresciallo Graziani, che alla fine di aprile 1945 firmò la resa della Rsi a Caserta, un atto ufficiale, che fece in modo che tutti i militari della Repubblica caduti nelle mani degli alleati godessero del trattamento di prigionieri di guerra? E ci dicano anche che cosa rimane di una figura come Filippo Tommaso Marinetti, ferito in Russia, ormai moribondo nel 1944, sul lago di Como, che in un atto estremo aderisce alla Repubblica sociale. E che cosa resta di Giovanni Gentile, il filosofo ammazzato dai partigiani. La memoria storica non può essere insultata. Dico a Fini: fatti il tuo partito, allora, e non trascinare nella vergogna chi ha ancora l'orgoglio di ciò che ha fatto». Orgoglio anche per le leggi razziali? «D'accordo, le leggi razziali. Parliamone. Non le difendo affatto, ma cerco di capire il contesto in cui vennero emanate. Ricordiamoci che nel 1936 era scoppiata la guerra di Spagna, che ha strappato il paese al bolscevismo. Ai primi del '38, le grandi associazioni ebraiche internazionali avevano dichiarato guerra al fascismo. Le leggi razziali sono state un episodio minore di reazione a questa apertura di ostilità. Un episodio sbagliato, sbagliatissimo, che cosa devo dire di più? Ma non è che una parte può fare la guerra e l'altra deve stare a guardare. Insomma, c'era una guerra in corso, un fronte internazionale contro il fascismo, se è vero che la Francia spedì in appoggio al Negus e alla resistenza abissina Raoul Salan, il futuro capo dell'Oas, che veniva dall'Indocina ed era uno specialista di guerre tribali. Capirà, noi mandavamo in Africa orientale dei ragazzi di vent'anni, senza nessuna esperienza, mentre Salan era stato il governatore del Mekong: ci toccò riconquistarla, l'Etiopia, e costò l'ira di Dio». È la tesi della guerra civile europea. «Sto giusto per pubblicare un libro che si intitola "La guerra più lunga", sottotitolo "Undici anni che sconvolsero il mondo". Dal 1935 al 1945 si è combattuta davvero una guerra civile in Europa, che ha avuto sempre gli stessi protagonisti sui due versanti». Solo che il fascismo questa guerra l'ha combattuta dalla parte di Hitler, del razzismo, del programma antisemita. «Ma, vede, anche qui occorre distinguere. Il razzismo fascista non era copiato dalla Germania. Le prime espressioni si trovano già nel Mussolini del 1919. Ce n'è traccia nel Codice Rocco. La "difesa della stirpe" trova i suoi primi provvedimenti in Africa orientale, a causa del proliferare dei rapporti con le donne africane: furono richiesti dal Vaticano, sollecitati dai parroci. Eh sì, c'era un milione di giovani lontani da casa, che trovavano la faccetta nera per due lire, mentre le mogli restavano a casa in Italia, erano gelose, e si lamentavano con il prete. Si rischiava di avere centinaia di migliaia di meticci...». Secondo lei era un razzismo all'italiana, familista. Ma se si fosse trattato solo di un problema di filologia, o di interpretazione storiografica, lei avrebbe potuto restare in An a fare l'opposizione interna. «Neanche per sogno. Fiuggi aveva posto le premesse di una svolta per me insostenibile, anche se allora perlomeno non si sputò addosso alla propria storia. Comunque la rottura era inevitabile, da parte mia. La sera prima, Ignazio La Russa e la vedova Almirante mi dissero: "Non te ne andare", lasciando capire che in seguito una soluzione si sarebbe trovata. Ma io ho risposto che per me non c'era soluzione. Signori, ho detto, voi avete fatto dei discorsi, io ho scritto dei libri. C'è una differenza. Il resto è cronaca, con Fisichella, l'ispiratore del progetto di Alleanza nazionale, che dice: "Il collo della bottiglia è stretto, Rauti non ci passa". Tutti piangevano, ma poi sono rimasti là, anche il più affranto di tutti, Teodoro Buontempo. No, non potevo restare dentro An a fare l'opposizione interna. Tanto più che Tatarella disse che la scissione faceva comodo. La posta in gioco era altissima, se è vero che Rocco Buttiglione alluse a un rilievo strategico non solo italiano. A chi gli chiese se il passaggio dal Msi ad An era stato favorito, diciamo così, da risorse esterne, rispose non troppo sibillinamente: "Chiedete a Kohl". Lasciando intendere che i cristiano-democratici tedeschi non erano stati inerti». La metamorfosi di An rispondeva anche alla logica delle alleanze imposte dal sistema maggioritario. E oggi la corsa al centro di Fini risponde alla necessità di prepararsi all'eventualità del post-Berlusconi. «Ma per correre al centro bisogna essere qualificati. Per quanto Fini si dia da fare, non avrà mai la guida del centro-destra. Al momento buono, nel dopo Berlusconi, daranno l'incarico a Casini, non al capo di An, per quanto il suo partito sia stato revisionato. E si capisce: ci sono più democristiani in Parlamento adesso che non ai tempi di Andreotti. Tutto questo travaglio, il maggioritario, la transizione, la Seconda Repubblica, non serve ad altro che a far tornare la Dc sotto altra forma». Eppure la Fiamma di Rauti qualche accordo con il centro-destra lo ha fatto. «Al nostro ultimo congresso si è deciso che, pur mantenendo la nostra specificità, che ci distingue nettamente dal liberismo di Berlusconi e di molti suoi alleati, siamo costretti a fare accordi con il centro-destra». Nel 1996 il mancato accordo costò caro al Polo delle libertà. «Una trentina di seggi perduti. Berlusconi disse: è colpa di Fini, che ha sottovalutato la presa della Fiamma. Mentre adesso due regioni hanno una maggioranza di destra grazie al nostro contributo». Un fascista movimentista come lei che si accorda con il liberista Berlusconi. Qual è il suo giudizio sul governo di centro-destra? «Questi non sanno governare, né comunicare le poche cose positive che fanno». Dal suo punto di vista quali sarebbero le cose positive, la liberalizzazione del mercato del lavoro? «Ma no, qualcosa sulla famiglia, poco ma qualcosa. Invece le misure sul mercato del lavoro sono antisociali e antieuropee. C'è una cultura europea che è stata modellata dai sindacati, dal pensiero sociale cattolico e dal corporativismo fascista: non siamo in America, vogliamo rendercene conto? Da noi non si possono licenziare via Internet le persone. Il liberismo ci porta al declino industriale. Ero a Barletta, c'erano diecimila disoccupati potenziali, perché la maglietta che loro producono costa 3 euro, contro un solo euro in Cina. Si fa finta di non vedere che gli imprenditori italiani vanno a produrre dai comunisti cinesi perché il lavoro costa venti volte meno che da noi, e intascano la differenza. La Fiat produce 225 mila fra auto e camion in Polonia, con salari operai che sono un sesto del salario italiano, e questo va a beneficio dell'Ifi». Solito Rauti, anticomunista, anticapitalista, antiborghese. Ma se in Italia si fosse sviluppato un partito non liberista, popolar-conservatore come la Cdu-Csu in Germania, lei sarebbe stato ai margini della politica, irriducibile come sempre? «Forse avrei potuto essere un compagno di strada di quell'aggregazione politica. Ma non si può dire, è un discorso astratto. Perché noi abbiamo un retroterra fortissimo di vissuto: nella Rsi io ho fatto la guerra sino alla fine, facevamo i rastrellamenti nel basso Polesine, e vedevamo l'odio nei nostri confronti. C'era l'odio, ma c'era anche una miseria spaventosa. Non ci capivano. E allora io pensavo, e lo dicevo, la colpa è nostra. Mai più non farci capire, mai più. L'intera mia vita politica è stata basata su questa convinzione, su questa intenzione. E tutto questo, mi creda, non si svende».
L'Espresso, 04/12/2003
Ponti d’oro a chi entra nel partito
Prove di partito riformista con Michele Salvati, nel suo studio milanese. Soddisfattissimo per il lancio della lista unica. «E non è finita qui, ovviamente. Perché io auspico in maniera selvaggia e feroce che vengano dentro tutti. Tutti». Oggi esce il suo libro-manifesto, "Il partito democratico" (Il Mulino, 138 pagine, 8 euro), che raccoglie gli interventi con cui Salvati ha elaborato questo progetto politico, a partire dall'articolo pubblicato sul "Foglio" nell'aprile scorso, che aprì la discussione sulla ristrutturazione del centrosinistra. Il volume esordisce con una dedica a Nino Andreatta, «che all'idea del partito democratico arrivò partendo da un'altra tradizione politica». Questa è una sorpresa: chi ha conosciuto Andreatta sa che la sua lealtà democristiana era fuori discussione. «Non c'è dubbio. Ma è anche l'uomo che nel 1995 evocò medianicamente Prodi e quindi l'Ulivo. E dopo le europee del 1999 mise su un'associazione con Occhetto per riunire tutti gli ulivisti più accaniti». C'era anche lei. Da che cosa nasceva questa iniziativa? «Dalla convinzione che i partiti della Prima Repubblica erano finiti, e che occorresse un rimescolamento vertiginoso. Ricordiamoci che allora a capo del governo c'era D'Alema, che era considerato il campione dell'anti-ulivismo». D'Alema ha sempre negato questa etichetta. «L'idea di D'Alema era quella del "paese normale". In un paese normale occorreva un forte partito socialdemocratico che non delegasse a nessuno la rappresentanza dei ceti medi. Vedeva la competizione fra centro e sinistra nel senso di "chi ha più filo tesse più tela". Attraverso i passaggi successivi delle elezioni regionali e politiche si sarebbe individuato un candidato Ds alla guida della coalizione. Avesse funzionato questo modello, dell'Ulivo non si sarebbe parlato più». Non era un calcolo irrazionale. «Personalmente non avevo nulla contro questo punto di vista. Se funzionava, funzionava. Ma non ha funzionato. E a mio giudizio non poteva funzionare in Italia a causa della storia del Pci, della sua vocazione egemonica, vera o paventata. I socialisti rimasti nel centro-sinistra, a cominciare da Boselli, la temevano moltissimo: mentre oggi sono esplicitamente a favore del partito riformista proprio perché non si profilano egemonie postcomuniste». Nell'introduzione al suo libro, lei enuncia una «tesi forte», a proposito del partito democratico. Secondo cui oggi le differenze culturali e ideali fra i partiti riformisti del centro-sinistra non hanno più senso. «Penso che queste differenze e la separatezza organizzativa erano significative nel passato, mentre oggi derivano da ragioni di inerzia e di trascinamento». Non la pensano così Cossiga e Mancino, per citare due personalità della tradizione politica cattolica. «Se è per questo, la contestano in chiave socialista o socialdemocratica anche figure come Salvi o Macaluso. Tutti coloro che pensano ancora alle identità politiche come una risorsa da mantenere all'interno delle sigle di partito. Oppure, il caso più estremo, quelli come Martinazzoli e Mastella, che puntano alla scomposizione del formato bipolare». Qualcuno ci ha provato, con esiti trascurabili, come Sergio D'Antoni. «E qualcuno continua a pensarci. Una volta Carlo Giovanardi mi ha detto: "Michele, sei sempre per l'alternanza? Ma non capisci che questo nostro paese fa fatica a esprimere un ceto dirigente? E come può fare a esprimerne due?"». Quindi si culla l'alternativa al bipolarismlo: sistema proporzionale, Costituzione immutata, stabilizzazione al centro. «Questa visione muove dalla convinzione che l'Italia è un paese caotico, tendenzialmente ingovernabile, e che dunque occorre una classe dirigente che lo disciplini. Però così torneremmo a un'oligarchia immutabile. Ai tempi in cui sempre Andreatta sosteneva che in Italia non cambiavano i governi, ma solo i ministri». Confessi che in passato ci ha pensato anche lei. «Certo che ci ho pensato, e spesso: ma solo perché questa prospettiva, che ha una sua forza pessimistica, è il nemico. Ah, che piacere, formare un monoblocco ed eliminare dal gioco leghisti e rifondazionisti. Chi pensa che la nostra società è un conflitto permanente di guelfi e ghibellini è attratto dal richiamo oligarchico». Mentre lei coltiva la speranza. «So che l'alternanza, e quindi la prospettiva del partito democratico, è una scommessa. Tuttavia ci sono alcuni aspetti che suggeriscono di buttarsi sulla strada nuova e di accettare l'azzardo». Fra questi aspetti, il fatto che all'elettorato minuto non interessa più nulla delle identità di partito. «Non solo. Gli innamorati dei partiti storici sembrano non rendersi conto che i due partiti principali erano profondamente anomali. Il Pci non aveva potenzialità di sviluppo in un paese capitalistico avanzato, e inseguendo se stesso ha perso tutte le occasioni: l'ultima, tra la fine degli anni Settanta e l'avvio degli Ottanta». La condizione della Dc era diversa. Avrebbe potuto trasformarsi in un partito popolar- conservatore come la Cdu tedesca. «Già, il suo ruolo oggettivo era di essere il baluardo anticomunista. Ma proprio per questo i due giganti erano avvinti l'uno all'altro. Inoltre da noi c'era la presenza della Chiesa, e l'impossibilità pratica per un cattolico di situarsi in un partito socialista. Un Delors italiano era inconcepibile». Quindi quando cade il Muro... «La Dc si trova aggrappata a quei mattoni che cadono. Viene fuori Berlusconi perché la Dc non si trasforma in una destra moderata e il Pci non riesce a diventare socialdemocratico, non si unisce al Psi. Per questo ora c'è da guardare con interesse all'azione di Gianfranco Fini: vuole fare lo Chirac italiano, occupare uno spazio moderato? Bene, disegno alto, barriera anti- populista: viva Fini». In conclusione, anche D'Alema se n'è fatto una ragione e ha cambiato idea. «Ha preso atto della sconfitta di una grande e bella prospettiva. Di fronte a un paese "non normale" si è convinto che ci vogliono soluzioni non tradizionali». Nel suo libro lei afferma che insieme al processo di ristrutturazione politica occorre anche un'operazione culturale "revisionista". «È vero, ma per me la revisione non va effettuata sul fascismo o sulla Resistenza. Va rivista o revisionata la storia della Repubblica. In primo luogo per rendersi conto che l'autoesclusione della sinistra ha impedito la normalità democratica, e ha favorito il "governo unico" di cui parlava Andreatta, e quindi l'immobilismo». Sa qual è l'obiezione? Questo è senno di poi. «Il senno di poi è inevitabile perché siamo nel "poi". Altrimenti ricadiamo nelle buone intenzioni, in cui il Pci era maestro: abbiamo combattuto, sofferto, abbiamo scelto la strada della moderazione, non abbiamo fatto come il partito comunista greco e abbiamo salvato l'Italia dall'autoritarismo. Tutto vero, ma di buone intenzioni è lastricata la strada della palude». Altra obiezione: quando lei fece l'appello per il partito riformista il suo disegno era un altro, rispetto alla lista unica. Esprimeva l'intenzione di separare i riformisti dagli antiriformisti, spezzando i Ds. «L'appello dell'aprile scorso nasceva anche dalla consapevolezza che Sergio Cofferati appariva come il potenziale riunificatore della sinistra-sinistra. Aveva fatto la battaglia sull'articolo 18, sui diritti, si era rivolto ai movimenti e ai girotondi: era il ritorno in campo, con il prestigio del leader della Cgil, di un programma che puntava a riorganizzare tutta la sinistra radicale, dal Correntone ai No global, in un unico soggetto politico. Per cui a mio avviso occorreva una risposta immediata sul versante riformista». Il progetto di Cofferati è rientrato. «Già. Ma si è chiesto perché fallisce?». Perché Cofferati non va fino in fondo. «Perché è un vero militante, convinto, intriso di identità, e giunto alla resa dei conti non vuole rompere il suo partito». A questo punto come si misura il successo della lista unica sul piano elettorale? «Si misura nel confronto con il 2001, osservando se l'insieme produce più voti dei partiti singoli. E anche se supera di un voto Forza Italia». Qualche rischio per Prodi c'è, candidato o no? «È la prova decisiva: si gioca il suo futuro politico». Ma è sufficiente, pensando al futuro, l'unificazione fra Ds, Margherita, Sdi e Repubblicani europei? «Spero con tutto il cuore che un'area esterna entri, in vista delle europee. Qualcuno deve entrare, in qualche forma: ponti d'oro, bisogna fargli. Ponti d'oro». Secondo alcuni centri di ricerca la lista unica porta valore aggiunto perché sgrava gli elettori di centro-sinistra dal problema di scegliere l'identità smarrita. «Questo è il motivo per cui selvaggiamente e ferocemente auspico che vengano dentro tutti».
L'Espresso, 04/12/2003
Terzista del piccolo schermo
A chi piace distorcere i cognomi viene facile trasformare il piccolo Bonolis nel grande Banalis. Ma non è così semplice iscrivere il protagonista di "Affari tuoi" e "Domenica In" nella categoria televisiva dell'ovvio. Chi vede i suoi programmi si accorge che questi esistono e prosperano soltanto e semplicemente perché c'è lui. Lui, adrenalinico, elettrizzato, vociante. Lui il partner pubblicitario di Luca Laurenti, che smitizza il paradiso molto meglio di qualsiasi barzelletta con protagonisti Berlusconi e san Pietro, grazie all'esorcismo della tazzina fumante. Lui che esprime tutta la sua statura e natura nazionalpopolare senza però riuscire a nascondere del tutto certe caratteristiche eccentriche che si intuiscono per via indiziaria, dopo visioni ripetute: un lessico decisamente più ampio rispetto ai cloni di Pippo Baudo che appaiono sugli schermi della Rai; e un eloquio che pompa energia nella voce ma rifugge generalmente, con qualche passo di dribbling e qualche ammiccamento, dalle volgarità romanesche più esplicite. Se Baudo era (e per alcuni versi è ancora) l'identità democristiana trapiantata in tv, mentre Mike Bongiorno si è via via spostato su una senescente immagine forzista, Bonolis sembra il perfetto creatore di una televisione terzista: capace di padroneggiare con prontezza l'incidente comunicativo che sistema Berlusconi al vertice della classifica dell'insopportabilità, così come di fare inopinatamente concorrenza ad Antonio Ricci e a Mediaset. È la nuova immagine dell'Italia che crede di essere moderata, e magari lo è, trovando una media accettabile fra una serie di eccessi: e trasmettendo l'idea che per essere il mattatore è sufficiente esaltare l'uomo qualunque che è in noi.
L'Espresso, 27/11/2003
Un popolo di eroi, mamme e telegiornali
Può anche sorprendere l'ondata di commozione che si è alzata in Italia in seguito alla strage di Nassiriya: non tanto perché non sia comprensibile, ma per le modalità insieme antiche e moderne con cui la costernazione per la morte di carabinieri, soldati e civili in Iraq si è manifestata. Mazzi di fiori, lettere, disegni, slogan; una inedita partecipazione popolare ha riempito quasi tutto lo spazio pubblico. Con le note del silenzio fuori ordinanza nei programmi televisivi di intrattenimento, che si sono mischiate alla ritualità patriottica, quasi risorgimentale, all'Altare della Patria. Si è avuta quasi l'impressione che il cordoglio per i 19 morti della spedizione irachena contenesse in sé un esorcismo verso la guerra. La stessa sostituzione della parola "vittime" con l'espressione "eroi" conferiva un significato di intenzionalità al ruolo degli italiani in Iraq, come se la loro presenza su un teatro di guerra, o di guerriglia, costituisse la somma di decisioni individuali, più ancora che l'esito di una scelta politica venuta dall'alto. Il dolore che si è manifestato nei giorni scorsi sembra rappresentare, dunque, il convincimento che i militari della spedizione interpretassero esplicitamente una funzione di "costruttori di pace". Per questo il sentimento diffuso è stato così corale. Perché quelli che vengono chiamati con qualche artificio linguistico "i nostri ragazzi" sono percepiti come i rappresentanti di una buona Italia, impegnata per favorire la rinascita della democrazia e della vita civile in un paese segnato mortalmente dalla dittatura e dalle guerre. Tutto questo è giusto, e non è il caso di sottilizzare scetticamente sui sentimenti che si sono manifestati. In ogni tragedia nazionale l'emozione collettiva entra ormai in cortocircuito con la retorica mediatica. Si è chiamati a partecipare allo spettacolo della commozione, amplificato ora dopo ora dai volti dei conduttori televisivi, dalle immagini dei telegiornali, dalle dichiarazioni dei leader politici, dalle interviste ai congiunti delle vittime. È la nostra civiltà, bene o male, e nessuno se ne può tirare fuori. Ma viene da chiedersi: tutto questo non contribuisce per caso a mettere sullo sfondo la durezza tutta politica di ciò che è avvenuto? Solo una mentalità incline all'utopia può pensare davvero che carabinieri e soldati italiani si trovassero in Iraq al seguito di un'idea pacificatrice e dettata da una vocazione umanitaria. In realtà, la presenza italiana è il frutto di una decisione politica, che si colloca entro una scelta strategica altamente impopolare e in rottura con le tradizionali linee diplomatiche italiane. Che alla fine di un percorso tortuoso il governo di centrodestra abbia poi dovuto chiudere su una posizione di appoggio "non belligerante" all'unilateralismo americano è poco significativo. È più importante registrare le parole che il "Corriere della Sera" ha attribuito a uno sbigottito Silvio Berlusconi, prima del suo breve intervento al Senato, il giorno dopo l'eccidio: «L'Italia è un Paese di mamme e figli». Non smentita, questa espressione significa che risulta difficile contemperare la durezza delle operazioni militari, cioè la brutale realtà dei fatti, con il pacifismo familistico della nazione. Di qui si capisce meglio, allora, il sostanziale ammutolimento del governo dopo le comunicazioni ufficiali del ministro Antonio Martino. La politica estera italiana è stata delegata di fatto al presidente della Repubblica, il quale nel suo viaggio americano ha interpretato una linea multilateralista, tutta centrata sull'impegno e la copertura dell'Onu. Mentre il capo del governo è intervenuto per telefono a "Buona domenica", sostenendo che la missione in Iraq onora tutto il paese. Cercare di capire se oggi c'è un disegno strategico della diplomazia italiana rispetto alla questione irachena assomiglia a un rebus. Si ascoltano proclami che annunciano l'intenzione di "andare avanti", nonostante il trauma subito dall'intera nazione. E nello stesso tempo si prende atto della commozione generale per la morte ingiusta dei nostri connazionali a Nassiriya. Ma la commozione è un sentimento, e la politica è un intreccio di decisioni. Dopo le lacrime, sarebbe il caso di sapere quali scelte ci attendono. Quali orientamenti, quali risoluzioni. Altrimenti, il clima del cordoglio servirebbe solo a occultare l'automatismo di una politica gregaria.
L'Espresso, 27/11/2003
Ma il lavoro è ancora tutto da fare
Il volto del parroco, della mortadella, del dossettiano, contro la faccia dell'antipolitico, del populista, del magnate prestato al Palazzo. Vecchia storia: Prodi contro Berlusconi è un remake dieci anni dopo, con i due protagonisti assimilabili ai duellanti di Ridley Scott. Vince Prodi? È il postulato dell'ottimismo ulivista. Il Cavaliere si è incartato nei suoi contratti miracolistici, mentre il Professore se ne torna ancora piuttosto vergine da Bruxelles, testimone vivente di come il centro-destra abbia dissipato l'eredità dell'azione europea da lui realizzata in coppia con Ciampi. Hanno provato a incastrarlo, "Mortad.", con Telekom Serbia, rastrellando rottami di P2 e brasseur pronti per l'uso. Non ha funzionato. E il confronto politico a questo punto non avverrà fra due immagini, il sorriso di Berlusconi e la bonomia presunta di Prodi. Si misureranno due Italie, due establishment, due élite culturali e politiche. Al momento buono si metteranno muro contro muro due proposte di governo, e i mondi al loro seguito. Da questo punto di vista Prodi è avvantaggiato perché rappresenta ancora adesso l'alterità assoluta: "L'Europa: il sogno, le scelte", cioè un programma ancora virtuale, tutto da precisare. Mentre Berlusconi è impicciato con il Ponte che non si fa, le tasse che non calano, i condoni estemporanei, la creatività celibe di Tremonti, la ripresa che è un miraggio, una questione salariale resa silenziosamente drammatica dall'inflazione non controllata. Più che il tratto vincente del prodismo, il responso del sondaggio sembra mostrare la delusione procurata dal governo. Non è un'ovvietà, è l'abbozzo di un'offerta politica: quando sarà ora, da una parte si dovrebbe vedere la compagine dei Bersani, Amato, Enrico Letta, e sullo sfondo dei Padoa-Schioppa e dei Profumo; dall'altra parte, una "band" con i Previti, gli Schifani, i Bondi. Non si tratta di un verdetto anticipato sulla superiorità antropologica dell'Ulivo: piuttosto è l'anticipazione di come dovrà essere condotto il match politico-elettorale. Di fronte al caos fattuale della Casa delle libertà, incerta fra devolution e colbertismo, xenofobia e concessioni agli immigrati, liberismo dichiarato e proibizionismo hard, Prodi e il suo ambiente politico e accademico rappresentano ancora adesso un'alternativa secca. Il che vuol dire: c'è un patrimonio politico ancora tutto da sviluppare, da presentare in modo adeguato a quei settori del potere italiano che fanno del terzismo una pratica continuamente elusiva, e istintivamente conservatrice. E c'è una proposta da elaborare verso l'opinione pubblica, per segnalare che esiste una chance di modernizzare il paese rispettandone le inquietudini. Può darsi che ci sia anche il tempo per argomentare tutto ciò: di sicuro c'è anche il modo di sperperare nella praticuzza politica il vantaggio guadagnato nella realtà volatile dei sondaggi.
L'Espresso, 20/11/2003
E spuntò un arcipelago azzurro
Una scena politica senza Berlusconi. Dramma per metà dell'Italia politica. Utopia per l'altra metà. Nei corridoi dei partiti non si parla d'altro. Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini che sono pronti a giocarsi a dadi le vesti dell'Unto. Umberto Bossi che potrebbe giocare d'anticipo e demolire il muro portante della Casa delle libertà. Il líder máximo che interroga gli oroscopi sul risultato dell'eventuale plebiscito. Scherzi della politica, quelli che avvengono dentro un'alleanza numericamente blindata e ideologicamente schizofrenica. Partiti tenuti insieme dal potere e divisi dalle ispirazioni culturali, dalle idiosincrasie sociali, dalle insofferenze reciproche, dai risentimenti personali. Prima di dare per abbattuta la Casa delle libertà, conviene chiamare un tecnico e scrutare lo stato delle sue fondamenta. Cioè di Forza Italia. Il tecnico si chiama Ilvo Diamanti, è uno dei più accreditati scienziati politici italiani, ed è il primo scopritore e depositario della "questione settentrionale". Con alcuni suoi libri ("La lega", 1993, e "Il male del Nord", 1996) ha studiato in profondità il cataclisma che ha mandato a catafascio la Repubblica dei partiti. Soprattutto, è uno studioso che tiene vivo il legame fra l'analisi e la ricerca empirica, come traspare ogni domenica nelle sue "Mappe" sul quotidiano "la Repubblica". Poche opinioni personali, quindi. Piuttosto, una pioggia infinita di dati, ordinati con uno sforzo ricostruttivo estenuante. Pennellate sulle tradizioni politiche locali integrate da approfondimenti essenziali sulla sociologia economica del territorio. Docente di scienza politica a Urbino, di casa a Parigi con il suo amico e interlocutore Marc Lazar, Diamanti pubblica ora un saggio che promette di essere uno dei libri inevitabili per tutti gli osservatori della politica. Si intitola "Bianco, rosso, verde... e azzurro. Mappe e colori dell'Italia politica" (Il Mulino, 182 pagine, euro 11,80) ed è in libreria da oggi. Si tratta di una sintesi complessiva della vicenda politica dell'Italia repubblicana, fotografata attraverso una quarantina di cartine colorate che descrivono anche visivamente come è cambiata la composizione territoriale della politica nazionale. All'inizio si vede l'Italia bianca della Dc, fronteggiata dall'Italia rossa del Pci (Pds, Ds); poi emerge la fascia verde dell'insorgenza leghista. E infine campeggia l'Italia azzurra di Berlusconi e di Forza Italia. Per decenni, spiega Diamanti, il territorio è vissuto in simbiosi con la politica: il Pci prosperava nelle roccaforti rosse dell'Emilia-Romagna e dell'Italia centrale, caratterizzate da un ricco contesto economico, dal civismo delle popolazioni, da amministrazioni efficaci. Nelle zone bianche, e soprattutto nel Nordest plasmato da una marcata impronta cattolica, la Dc esercitava la sua fitta mediazione fra il governo centrale e il municipio. Tutto si teneva. Con la nascita delle leghe, e in seguito con la Lega Nord, si è avviata invece la fase esplosiva del «territorio contro la politica». Prima contro la Dc; poi, a intermittenza, contro il neo-partito di Berlusconi. Siamo nell'Italia del localismo e della piccola impresa; nella Padania, «non più solo luogo di produttori», scrive Diamanti, «ma nazione, che unifica ciò che, in realtà, per economia, società, orientamento politico, appare diviso». In questa «patria immaginaria», sede dell'identità della «Lega degli uomini spaventati» (i ceti periferici storditi dalla globalizzazione), il movimento leghista deve fare i conti con la concorrenza sul campo del partito nuovo, il partito azzurro, Forza Italia. Un altro «partito antipartito», che però si muove in uno spazio politico indefinito: «Evoca non la nazione ma la nazionale... suggerisce la fine della politica che affonda le radici nella storia e nel territorio». Di più: Forza Italia rappresenta il preludio a una «politica senza il territorio». È vero che la nostra geografia politica «si dualizza, riproducendo, in fondo, la struttura del passato. Si ripropone, cioè, un'Italia rossa, che si addensa nelle province dell'Italia centrale, circondata, quasi assediata dall'Italia azzurra, che occupa il resto del paese». Con una conseguenza rilevante: che l'alleanza fra Berlusconi e Bossi diventa inevitabilmente una partnership rivale. Perché l'elettorato è il medesimo, dal momento che Forza Italia è un arcipelago: «Meglio: una catena di arcipelaghi: grappoli di isole, isolotti e scogli», che si articola al Nord lungo le aree della new economy, della finanza, dell'informazione, del lavoro postfordista, della piccola impresa, del commercio e della rendita immobiliare; nel Sud, raccoglie il voto del ceto medio di pubblico impiego, pensionati, casalinghe, studenti. Una nuova Dc? Non proprio: forse un suo replicante più «materiale», senza radici confessionali, e neppure culturali; con una struttura organizzativa così composita che «anche se garantisce molti legami con la società, tende a produrre conflitti endemici, difficili da comporre perché, a differenza dei partiti di massa del passato, non c'è l'identità a soccorrere». Nell'insieme, Forza Italia contiene in sé le ragioni della propria tenuta e a un tempo quelle della propria disgregazione. Nelle aree settentrionali propone un modello individualistico, legato agli interessi; nel Mezzogiorno fa leva sul legame personale. Si presenta come il partito della modernità e dell'impresa innovativa, ma assorbe i ceti marginali (pensionati, casalinghe, disoccupati) e il lavoro autonomo tradizionale: «Per questo, Forza Italia appare un partito dalle radici fragili, anche se in alcune zone ancorato saldamente». Anziché un partito di massa, potrebbe assomigliare a una «massa senza partito», garantito prevalentemente dalla retorica comunicativa al cui centro si staglia il leader Berlusconi. E qui potrebbe scattare la "trappola del territorio". Perché nell'Italia di Forza Italia «coabitano componenti territoriali e sociali distinte... alcune tensioni, alcuni contrasti che non è facile comporre e controllare troppo a lungo». Che potrebbero, «in prospettiva, porre seri problemi a Forza Italia e alla sua pretesa di fare politica senza il territorio». C'è una tensione fra il Nord metropolitano e il Sud protetto. Fra la domanda di protezione e la spinte imprenditoriali e liberalizzatrici. Anche nel Nord, si esprime una tensione forte tra la società emancipata delle città e le fasce più deboli delle periferie, in balia dell'incertezza. Inoltre la classe politica forzista, frammentata localmente, è essenziale per il mantenimento del consenso, ma risulta portatrice di richieste politiche contraddittorie o addirittura conflittuali. Non è un caso che il "partito senza territorio" divenga «tanto più competitivo alle elezioni quanto più ci si allontana dal contesto locale, quanto più l'arena elettorale si allarga e si allontana dalla realtà quotidiana». Forza Italia vince alle europee e alle politiche, se la cava alle regionali, mentre va peggio alle provinciali e alle comunali. Da qui viene il rischio di un'instabilità continua, in quanto «in Italia il voto locale tende a venire letto in chiave politica nazionale e a determinare, per questo, effetti politici nazionali. Com'è avvenuto dopo le elezioni del giugno 2003, i cui risultati hanno innescato un conflitto lacerante fra i partiti della Casa delle libertà». Viene il sospetto, leggendo Diamanti, che il confronto attuale con la Lega non sia solo un episodio minore della lotta fra un movimento residuale e un partito virtualmente egemone. I colpi di coda di Bossi, le risse fra alleati, rappresentano la sintesi della contraddizione intrinseca alla Casa delle libertà e a Forza Italia. Per un soggetto politico che ha come icona pop della propria fede l'immagine di Berlusconi, l'identità leghista costituisce l'antitesi più netta. Per un partito esplicitamente nazionale e de-territorializzato, il federalismo appare un sovraccarico inutile. Più in prospettiva, la defezione della Lega potrebbe essere la miccia che fa esplodere le tensioni tenute finora sotto controllo, dilatando a dismisura la distanza fra l'Italia del privato e l'Italia assistita, fra i protagonisti del successo sociale e i marginali, fra i surfisti della comunicazione e gli esclusi. Impedendo a Berlusconi, come diagnostica Diamanti, di governare l'Italia: ma anche, più radicalmente, di governare il suo partito-arcipelago e la Casa delle litigiosità.
L'Espresso, 06/11/2003
Il Grande Paroliere
Questa è la storia di uno che forse avrebbe voluto essere Celentano, che ha fatto l'intrattenitore nelle crociere, che ha improvvisato al pianoforte "La vie en rose" davanti a Mitterrand, e che è diventato capo del governo anche per poter sfogare la sua vena canzonettistica. Oggi infatti si materializza nei negozi di tutta Berluscolandia, pubblicato dalla Universal, "Meglio una canzone", l'album di Mariano Apicella che si avvale della collaborazione del super-paroliere Silvio Berlusconi. Fatte le debite proporzioni, è come se si ritrovasse un reperto con De Gasperi impegnato a cantare "La montanara uhè". Ora, siccome Apicella è un buon comprimario, sconosciuto alle cronache fino a quando non apparve in coppia con il premier nelle serate sarde in villa, l'evento è dato com'è ovvio dai frammenti del discorso amoroso del premier. Sono 14 canzoni, metà in italiano e metà in lingua napoletana, in cui il capo di Forza Italia lascia sgorgare il sentimento. Bontà e purezza sono le doti di Berlusconi, secondo il suo cantore Sandro Bondi; ma in quest'opera il leader apre le porte soprattutto all'amore, anzi all'"ammore". Il Cavaliere implora baci, anela labbra da baciare: «Vasa 'sta vocca bella ca cchiù bella nun ce sta», «tenevo 'a voglia pazza 'e te vasà», e lo ripete anche in italiano, «ho sulla bocca tutti i baci tuoi», «ma come fai a darmi questi baci che mi dai». Baci, baci, baci. E ammore. Ma sotto sotto il pensiero dominante è "'A gelusia", quella che «'a notte me turmenta... E sto perdendo 'o suonno». «È un pensiero che non vuole andarsene, sto male quando penso che... che tu... forse ora tu...». Non esiti, Cavaliere, direbbe uno Schifani, faccia sentire tutta la sua umanità: qual è l'angoscia, qual è il sospetto, che tu, che tu... «mi puoi mentire». Ecco, l'ha detto. Il leader ha confessato. Idea dominante, quella del tradimento possibile, angoscia lancinante, che erompe in brani come "Ammore senza ammore", i cui versi sono altamente indiziari: «Me tiene 'a mano mmano, ma nun me pienze maie, e finge 'e me penzà, ma pienze a chillu llà». E chi sarà mai il rivale? Potrà essere il gelido Fini, il neoguelfo Follini, l'istituzionale Casini? O, Dio non voglia, il barbuto e sinistro Cacciari, povera donna, ma povero anche il Cavaliere, roso dal tarlo, estenuato dal dubbio? Cose normali, quando l'amore è ammore, e il cuore diventa «geluso pure si te tocca 'o viento». Sì, ma se poi lei, quella femmena bugiarda, immaginabile nella spontaneità vesuviana e nelle forme eruttive di Sophia Loren, vuole lasciarlo, che fare, che dire? Il Cavaliere non ci crede, non vuole farsene una ragione: «Dimmi che non è finita qui, che non vuoi gettare via così questo nostro strano amore». L'orchestra ci mette il clima, grazie agli arrangiamenti di gente del mestiere come Renato Serio, passato alla storia come autore dell'inno di Forza Italia. Apicella ci mette le musiche e 'na voce e 'na chitarra. Singolare storia, la sua, trattato dalle cronache come «l'ex posteggiatore napoletano" miracolato dalla vocazione canora del Capo. I repertori della musica leggera lo ignorano, e le note biografiche ufficiali segnalano solo che per lui, chitarrista già a dodici anni, la musica è un affare di famiglia: il nonno era «un tassista poeta», mentre il padre (anche lui di casa nelle tenute del premier) negli anni Settanta ha spopolato nell'ambiente musicale napoletano, grazie a uno stile interpretativo "alla Aznavour". Di Apicella circolavano in realtà precarie musicassette antologiche con i classici partenopei, da "Cerasella" a "Malafemmena". Ma adesso, a 39 anni, giunto finalmente al suo primo cd, gli è toccato il compito supremo di vestire di note il lato sentimentale dell'uomo più potente d'Italia. Potente, ma anche malinconico, quando ha da passà 'a nuttata senza l'amor suo: «La notte senza te non passa mai, anche se so che stai pensando a me, ti stringo e ti accarezzo come se fossi qui». E ancora, al colmo della mestizia: «Notte ca nun vuò passà, notte ca me faie suffrì», perché ha perduto la sua bella fatalona, e la seratina in villa con Fedele e gli altri è stata un succedaneo modesto, con la musica che è filata via triste triste: «Aggio cantato 'e ccanzone c'a vocia velata e 'a chitarra stunata». Restano gli amici, certo: no, non l'amico Putin e l'amico Bush, e forse neanche l'amico Tony Renis. Gli amici veri, che si raccolgono intorno all'infelicità amorosa: «Nuie ca facimmo 'e nuttate cantanno l'ammore pe' l'innamurate». E finisce subito nell'autobiografia di gruppo, con questi uomini veri e duri che non esitano a confessare la loro vocazione sentimentale: «Nuie, pure a nuie succere accussì, ca ci annamurammo overo». Overo! «Nuie ca cantammo co' core che chiagne», perché quelle femmene belle accussì dentro l'anima non tengono ammore. E loro, i maschietti, alle Bermuda o a Villa La Certosa, in quella Camelot virile, loro, Confalonieri, Galliani, Letta, Dell'Utri, si guardano int'all'uocchie e confessano che «nuie simme 'e prime a suffrì, ma pecché, ma pecché ce credimmo ancora!». Creduloni. Si sa che quasi sempre gli amori finiscono male, con un tradimento, con un'infedeltà, con una fuga. E allora? E allora «cerco 'na distrazione... 'nu prestesto... 'n'occasione pe' nun te penzà». Fosse facile. «Leggo tutt'o ggiurnale» (sarà "il giornale" di Belpietro?), «guardo 'a televisione» (e qui non c'è che l'imbarazzo della scelta duopolistica). Ma l'unica consolazione è nella fantasia, «e me vene 'e immaginà ca ce staie pure tu, proprio vicino a me!». Perché in questo caso «'o cielo se fa blu». Cioè Azzurro. Come i cieli di Forza Italia. Oppure, e il cerchio si chiude, come Celentano, tanti anni fa.
L'Espresso, 30/10/2003
Sindrome svizzera
La vittoria elettorale del miliardario xenofobo Christoph Blocher è la fotografia perfetta della sindrome svizzera, un'isola immune accerchiata dall'Europa contaminata di Schengen. Nello stesso tempo, il successo dell'Unione democratica di centro appare come l'altrettanto perfetta metamorfosi del populismo di destra: abiti perbene, «non abbiamo niente contro gli immigrati regolari e con un contratto di lavoro, ma la gente ne ha piene le palle dei clandestini e dell'illegalità»; con una sbrigatività che sembra confermare a puntino le analisi di politologi come Piero Ignazi, che avevano diagnosticato per tempo la trasfigurazione della destra europea. Ecco, niente più folklore nazista, revival hitleriani, razzismo esplicito, intolleranza verso tutto ciò che è altro: piuttosto, una miscela di legalitarismo e mano dura, con la mobilitazione elettorale delle fasce sociali più impressionabili dal "disordine sociale" introdotto dall'immigrazione. Dopo di che, l'altro termine di confronto è dato dai viaggi della morte, i barconi che arrivano nelle acque di Lampedusa offrendo spettacoli raccapriccianti, cadaveri in coperta, gente allo stremo delle forze, bambini gettati in mare in quanto «erano già freddi». Tutto questo aiuta a comprendere che il fenomeno immigratorio non è, o non è tutto, controllabile attraverso la legislazione e le misure di ordine pubblico. Così come il problema non si risolve configurando gli immigrati come lavoratori ospiti, "Gastarbeiter" alla tedesca. La legge Bossi-Fini connette la regolarità dell'immigrazione alla condizione lavorativa dell'immigrato. Una scelta apparentemente ragionevole, in realtà una fonte implicita di diseguaglianza etica e civile. Se io, io ghanese, magrebino, senegalese, pachistano, vengo qualificato prima di tutto in base alla mia qualità di lavoratore ospite, ciò significa che la mia è una cittadinanza di serie B, se non meno. E sotto questo profilo la proposta di Gianfranco Fini sull'estensione del diritto di voto amministrativo agli immigrati regolari non è stata discussa come meritava. Fuori dalla Casa delle libertà molti hanno rilevato la strumentalità del contropiede finiano, che ha inserito un cuneo tra Forza Italia e la Lega portando a una tensione mai osservata finora i rapporti politici nel centrodestra. Tuttavia il problema sollevato da Fini è più sottile. Perché non si capisce in base a quale criterio la cittadinanza deve essere divisa in due: se un immigrato lavora in Italia, paga le tasse in Italia, rispetta le leggi italiane, iscrive se stesso in un circuito di diritti e doveri che lo qualificano come cittadino, e non come ospite, non si capisce perché avrebbe il diritto di mettere becco nell'elezione del sindaco e invece non nell'elezione della Finanziaria, e delle leggi generali dello Stato, con il voto alle elezioni politiche. Vale a dire che più che qualche forma di chance elettorale, limitata e circoscritta, l'obiettivo semmai è quello di definire il momento e le forme in cui un lavoratore ospite diviene a tutti gli effetti un cittadino di questo nostro paese. Altrimenti, c'è una piccola sindrome Svizzera anche per noi, e per tutti quelli che pensano che l'immigrato possa essere esclusivamente un cittadino transeunte, figlio di divinità minori, inabilitato a contribuire alla vita politica di un paese moderno e civile. Di sicuro noi sappiamo solo che da un lato vediamo le barche dell'orrore, segno che le migrazioni sono fenomeni estremamente complessi e sostanzialmente irriducibili al "law and order" marittimo; e dall'altro lato vediamo la risposta irriflessa di fasce sociali che ripiegano nella xenofobia intendendola come un'autodifesa. Fra questi due estremi, c'è una varietà di condizioni: l'immigrato come forza lavoro, come risorsa per le aziende e l'economia, e come marginale attratto dai circuiti illegali. Manca solo l'immigrato in quanto cittadino. E solo un moderatismo convenzionale e ottuso può pensare di evitare questo tema e di ritenerlo accessorio o superfluo: quando in realtà è l'unico che introdurrebbe una principio radicale di razionalità nei processi sempre più difficili della convivenza.
L'Espresso, 23/10/2003
Cento fotografi per fare l’Italia
Queste foto le abbiamo già viste. Sono il portfolio di un'identità. Se non le abbiamo viste possiamo riconoscerle. C'è dentro la realtà profonda della storia (meglio, dell'esperienza) italiana dal 1943, a partire da quando Robert Capa fissa per sempre con l'obiettivo l'immagine di un soldatuzzu che smobilita in via privata, sullo sfondo di una Sicilia aspra e riarsa, con al suo fianco un'ausiliaria che gli conduce a mano la bicicletta da uomo, e tutti a casa. Le fotografie le ha raccolte una specialista come Giovanna Calvenzi, in un volume pubblicato da Contrasto. Si intitola semplicemente "Italia". sottotitolo: "Ritratto di un Paese in sessant'anni di fotografia". È una galleria della grande, vertiginosa trasformazione della nostra società. Ed è difficile aprire le pagine del volume senza avvertire una specie di involontario tuffo al cuore. Per la bellezza delle immagini, non c'è dubbio. Ma soprattutto perché la prima emozione viene procurata dalla contrapposizione immediata e violenta fra un'antropologia che appare ancora arcaica e un paesaggio che rimanda già i riflessi della società contemporanea. L'icona rivelatrice può essere lo scheletro di un aereo incenerito nella campagna laziale, fotografato da Federico Patellani, un relitto della tragedia mondiale osservato da una ragazza ciociara sdraiata sul prato; o la figura di una contadina che si staglia sul profilo apocalittico, sui crateri lunari di Montecassino; ma anche, sempre di Patellani, la distesa di teste che raffigurano con un forte contenuto anche simbolico e sociale, oltre che politico, la dimensione autenticamente sterminata della Milano post-bellica, con la folla ripresa dall'alto durante il comizio di Achille Grandi. Comincia subito a trasformarsi, l'Italia, e l'impressione è che cambino prima le persone che non gli ambienti, i luoghi, le case. Nelle vie e nelle piazzette di Trastevere raffigurate da Herbert List la gente sperimenta una sua prima modernità, negli abiti e negli atteggiamenti, mentre il porfido e le mura della città storica vengono a malapena segnate dai manifesti politici, dai manifesti che annunciano il comizio di Togliatti per la festa della Repubblica. A quel tempo l'Italia è effettivamente un paese, e un paese diviso. Al Nord sembra di assistere davvero ai primissimi passi di un'area europea, dove i treni e le Topolino sono l'indizio della grande immigrazione e di una industrializzazione tardiva quanto furibonda nei suoi ritmi e nelle sue conseguenze anche comportamentali: sicché ancora prima del miracolo economico le coppie fotografate nelle strade delle periferie mostrano qualcosa che ricorda nel bianco e nero della pellicola l'estetica popolare e radicalmente intellettuale di Ermanno Olmi. Mentre l'aula poverissima di una scuola nel Mezzogiorno rimanda l'immagine di un villaggio che si sta "nazionalizzando" con estrema fatica, riemergendo da una miseria secolare; il Sud è un catalogo irripetibile di marginalità maschili, con gli uomini che ballano fra loro, i cantastorie per strada, gli asini nelle vie di Corleone, i bambini che mimano con irresponsabile felicità e furente realismo una esecuzione a Palermo. E così le aree depresse, come il Delta padano e il Polesine, mostrano i volti e le radici materiali di un'Italia contadina che fa da controcanto implicito alle opere civili e alle prime infrastrutture moderne. Siamo ancora in quegli anni Cinquanta così ambigui, nel pieno della stabilità centrista, sbarcati i comunisti nel 1947 e goduto del Piano Marshall, che già prelude a qualcosa di politicamente diverso e inevitabilmente innovatore. Allorché nel 1958 Arno Hammacher immortala un operaio che sta lavorando sui ponteggi più alti del grattacielo Pirelli, la sua istantanea sembra rappresentare la cuspide del boom, esemplificato visivamente da un'epopea dei tubi Innocenti; ma a guardare con più attenzione, ciò che colpisce di più è il panorama della Milano che si disegna in basso durante quei venti mesi di crescita furibonda, ai tempi dell'Oscar delle monete per la lira. Perché è una Milano già moderna, proiettata verso il benessere, l'industria, la finanza, le sfilate di moda a cielo aperto e on the road in via della Spiga, con la folla che gode dell'eccitazione che si diffonde nell'aria. Miracolo. Il paese non si modernizza solo con l'Iri e con l'Eni, le partecipazioni statali, l'economia mista, Enrico Mattei e la tecnocrazia post-dossettiana. Cresce con la luce azzurrina della televisione, con tutta la città di Carpi che si raccoglie davanti al nuovo totem per assistere alle prestazioni del professor Degoli, l'"eroe del controfagotto" a "Lascia o raddoppia?". Osserva se stessa nella foto di Mario De Biasi che inquadra di spalle una specie di top model ante litteram, e inevitabilmente formosetta comme-il-faut, davanti a una schiera di operai e impiegati, fra biciclette, lambrette e il muso di un'utilitaria. E si rispecchia nella foto di Giovanna Falck, in cui si vedono gli operai delle acciaierie Falck, a Sesto San Giovanni, che sciamano di corsa fuori dalla fabbrica per la pausa pranzo, in una scena che è insieme fordista e paesana, antica e carica di una modernità impressionante. Come segnala Carlo Bertelli in uno dei saggi che accompagnano il volume, l'uso della macchina è concepito dai maestri contemporanei americani ed europei come un'"azione" che prosegue per intrinseca forza propria dopo lo scatto e lo sviluppo; mentre per gli italiani la fotografia è un evento "a lato" della realtà. Qual è allora il significato a suo modo politico della fotografia, «sottrazione, arresto, sosta», e quindi assenza di storia? Forse la storia si ricostruisce osservando queste interruzioni del flusso degli avvenimenti, quasi un lascito delle catastrofi meridiane della pittura metafisica, sistemandole una di seguito all'altra, ricomponendo così la successione storica. In questo modo, gli immigrati di Walter Battistessa alla Stazione centrale di Milano, con le valigie di cartone piene di arance e le irriducibili camicie fantasia, possono restituire un frammento di storia così come lo fanno le immagini di Aldo Bonasia che testimoniano con intrinseca urgenza lo scontro politico degli anni Settanta, o il postmoderno di Olivo Barbieri che iscrive una Citroën Ds nella cornice neoclassica di Sabbioneta; oppure anche una mimesi di Tomb Raider allo Smau di Milano, che mostra tutte le risonanze della globalizzazione techno. Eppure non è un caso che uno degli aspetti più significativi dei questa raccolta sia data dal confronto fra quegli artisti italiani e internazionali che si sono esercitati sugli stessi luoghi o su soggetti simili. Si può notare la nitidezza di Henri Cartier-Bresson nella raffigurazione degli esterni di Scanno in avvio di anni Cinquanta, mentre Mario Giacomelli negli stessi luoghi muove l'aria intorno alle persone, le soffonde di invenzione, perché «Scanno è un paese da favola, di gente semplice, dove è bello il contrasto fra mucche, galline e persone; tra strade bianche e figure nere, tra bianche mura e neri mantelli». Allo stesso modo è suggestivo il confronto fra Paul Strand e Gianni Berengo Gardin. Si ricorderà che Strand, fotografo già celebre a livello internazionale, aveva conosciuto nel 1949 Cesare Zavattini, e gli aveva proposto di collaborare alla realizzazione di un volume su un paese italiano «nel quale sopravvivessero consuetudini e ritmi legati alla terra e alla natura». La scelta era caduta sul paese natale di Zavattini, Luzzara, e il volume che ne uscì, «una sorta di Antologia di Spoon River visiva», divenne una sorta di libro di culto, in parte poema fotografico, in parte «spaccato di storia locale». Più tardi Berengo Gardin raccolse la sfida del confronto, e ripercorse le orme di Strand ("Un paese vent'anni dopo"): «Strand racconta Luzzara attraverso l'analisi attenta dei visi e delle cose, Berengo racconta il paese attraverso la vita e gli ambienti, e le due visioni, lontane e parimenti emozionanti, concorrono a fissare nel tempo un microcosmo». Altre suggestioni si possono trarre dal confronto fra William Klein e Mario Carrieri, fra gli "asylums" manicomiali di Carla Cerati e Raymond Depardon, fra la Sicilia marinara ed epica di Sebastião Salgado e la rivisitazione che ne ha fatto nei suoi exploit Giorgia Fiorio. Ma proprio perché ciascuno di noi può riconoscersi in queste fotografie, può riconoscere luoghi, fabbriche, manifestazioni pubbliche, reliquie religiose o reperti di superstizione, fondali di teatro-verità, scene di vita quotidiana, paragone fra il passato e il presente, si capisce anche che l'intenzione di questo libro è assai più sottile di quanto solitamente traspare dalle raccolte fotografiche più o meno accademiche, più o meno di maniera. Alla fine si tratta di fare i conti con la realtà, con la vertigine del cambiamento di un paese e della sua gente. Eppure in background c'è un problema di secondo livello, che consiste nel fare i conti con la tradizione realista, con il suo acme raggiunto durante il neorealismo. È una scommessa culturale impegnativa, che mentre parla di noi ci parla della fotografia, di un'arte applicata, e di come si riproduce, distorce, manipola il dato apparentemente oggettivo dell'immagine. Per raccontare come siamo, come siamo stati, e soprattutto come abbiamo creduto di essere.
L'Espresso, 16/10/2003
Giustizia partigiana
Su un argine del Piave, in un campo di erba medica, un cippo reca questa scritta: "In questo luogo il 1° e il 15 maggio 1945 vennero trucidati 113 militari italiani della Rsi. A vent'anni di distanza i sopravvissuti li ricordano". Quella pietra grigia può essere presa a simbolo del nuovo libro di Giampaolo Pansa, "Il sangue dei vinti", che Sperling & Kupfer manda in libreria il 14 ottobre (382 pagine, 17 euro). Quel cippo, e quella lapide, testimoniano in modo tragicamente dimesso i morti dimenticati, i morti della guerra civile, i morti del dopo-Liberazione. Sono morti più morti degli altri. Fascisti, «o ritenuti tali». Uomini, donne. Soldati, civili, ausiliarie. Uccisi nel vasto massacro delle giornate dopo il 25 aprile 1945, nei «lunghi mesi feroci» seguiti alla fine della guerra. Il libro di Pansa racconta questa storia con un realismo quasi insostenibile. Dominato da due parole che oggi destano la nostra ripulsa linguistica e morale, "prelevare" e "sopprimere"; parole che nelle notti della guerra civile significavano talvolta una vendetta, e talvolta una strategia. «Ho cercato di offrire un quadro sufficiente a restituire il clima del tempo, così come lo vissero e lo subirono gli sconfitti della guerra civile», scrive Pansa rivolgendosi al lettore. Ma il proposito così enunciato sembra quasi un eufemismo. "Il sangue dei vinti" infatti non è soltanto un libro prevedibilmente drammatico: è un libro terribile. Perché nel racconto di «quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile», si agita una moltitudine di uccisioni anonime e brutali, di torture, di sevizie, di stupri, di inganni, di violenze estreme e talora innominabili. «Fatti che la storiografia antifascista ha quasi sempre ignorato di proposito, per opportunismo partitico o per faziosità ideologica». Eccolo, il cortocircuito politico. Un'altra prova di revisionismo, questa volta praticata da sinistra? Sarebbe una definizione fuorviante. Pansa non è uno storico accademico e dichiara di aver voluto soltanto «contribuire a spalancare una porta rimasta sbarrata per quasi sessant'anni». Già, ma questo contributo è offerto come uno shock angoscioso al lettore contemporaneo. Uno sguardo sull'orrore, e con la coscienza che quell'orrore è nostro, della "nostra" parte, di coloro che hanno riconquistato la libertà, ripristinato la democrazia, e fondato la Repubblica. Il racconto vero e proprio comincia alla Biblioteca nazionale di Firenze, di fronte a quella che sarà la sua interlocutrice, Livia Bianchi, immaginata come figlia di un partigiano comunista vicino alla Volante rossa, il gruppo di quelli che "dopo" volevano fare giustizia a modo loro. E dal confronto con questa donna si dipana la narrazione, a cominciare dagli ultimi giorni di guerra. Mussolini e i gerarchi di Salò immaginano soluzioni sempre più illusorie, come l'estrema resistenza nel ridotto in Valtellina. Con lentezza, come il lembo di un corpo sfinito, i reparti tedeschi si ritirano verso il Nord, lasciando dietro di sé l'ultima scia di terrore: eccidi, fucilazioni di partigiani e di "traditori", rappresaglie sugli ostaggi civili. Non appena svanisce la protezione dell'esercito germanico, per i dirigenti di Salò, per i militi della Guardia nazionale repubblicana, per le brigate nere è la fine. Ma è la fine anche per molti civili, per chi aveva aderito al fascismo in tragica buona fede, per i fascisti della prima e dell'ultima ora. Dopo Dongo e piazzale Loreto comincia una tragedia immane. Milano, capitale di fatto della Repubblica sociale, rifugio dei fascisti in fuga dalle zone conquistate dagli alleati, si rivela un mattatoio: «Sino alla fine di maggio, non ci fu più alcun luogo sicuro per chi veniva considerato un fascista o in rapporto con la Repubblica sociale». Da Milano comincia un viaggio senza requie nel cuore della guerra civile. Con la scoperta immediata e stordente che i partigiani commettevano atrocità analoghe a quelle dei loro nemici (sbigottisce il racconto di come una decina di prigionieri vennero uccisi all'ospedale psichiatrico di Vercelli: «Con le mani legate da giri di filo di ferro, vennero fatti sdraiare sul piazzale del manicomio e schiacciati dalle ruote di due autocarri che passarono e ripassarono sui loro corpi»). Già, il racconto di Pansa è traumatico intellettualmente perché toglie i morti fascisti dagli automatismi della storia convenzionale che ci siamo raccontati per decenni. Le violenze dei liberatori come il frutto dell'indignazione popolare, o come vendetta di popolazioni straziate dalla spietatezza dei tedeschi e delle brigate nere. Sottratta al determinismo, alla necessità iscritta nella storia, ogni singola uccisione diventa qualcosa di intollerabile umanamente, un prezzo troppo alto preteso dagli sconfitti. Torino è «una specie di orrendo piazzale Loreto itinerante», in cui l'impiccagione del federale Giuseppe Solaro trasforma la forca in uno spettacolo di massa. Giorgio Amendola scrive sull'edizione torinese dell'"Unità" il 29 aprile parole spaventose, che sembrano l'incitamento al furore: «Pietà l'è morta... I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I criminali devono essere eliminati...». In Liguria la resa dei conti è sanguinosa. A Genova si assiste a «una strage compiuta notte dopo notte». Nel Veneto ecco una tragedia notturna fatta di torture, prelevamenti, eccidi, esemplificata dalla cartiera di Mignagola, nei pressi di Treviso, «un luogo infernale per i fascisti in fuga». Con la popolazione che sussurra, disillusa, «a sostituire le bande nere, sono venute le bande rosse». Queste vicende sono estratte a fatica da una storia rimossa o sedimentata nel rancore. Pansa le ha ricostruite attingendo e selezionando da pubblicazioni semiclandestine, dai martirologi della Rsi, da libri perduti e memorie dimenticate, da pamphlet revanscisti. E anche dalle ricerche di qualche storico antifascista, che non ha avuto pudori ideologici nel documentare gli avvenimenti e nell'esprimere il suo giudizio fuori dagli schemi politicamente ovvi. Sotto il profilo storico, l'acme della violenza, e il suo lato più significativo sul piano politico, è dato dalla situazione in Emilia. Se la Romagna in cui agivano i partigiani di "Bulow" (il dirigente comunista Arrigo Boldrini), è stata un esempio di come la guerra civile tendeva a trasformarsi in guerra di classe, contro agrari, possidenti e preti, contro la classe dirigente non comunista, il clou nefasto fu raggiunto nel Modenese e nel Reggiano. Vale a dire nei luoghi del "triangolo della morte", ma soprattutto dell'ora X, della spallata finale, della rivoluzione come completamento della resistenza, e del terrore come intimidazione verso i dirigenti dei partiti antifascisti moderati. Il punto politicamente più delicato è che le strutture del Partito comunista erano significativamente coinvolte nel "verminaio" popolato da ex partigiani violenti e ramificato attraverso le strutture del partito nel territorio. Così la partita la chiude in prima persona, in modo spettacolare, Palmiro Togliatti, che piomba a Reggio Emilia il 23 settembre 1946, e si chiude in una stanza con il sindaco comunista Campioli, insieme a due altri sindaci rossi, Giuseppe Dozza di Bologna e Alfeo Corassori di Modena. Togliatti fischia la fine con un celebre discorso al Teatro municipale, passato alla storia con il titolo "Ceti medi ed Emilia rossa", e poi con il siluramento alla muta della federazione reggiana. È il ritorno alla normalità. Ma è una normalità in cui i vincitori sanno di avere smarrito qualcosa di sé: «Chi vince, e soprattutto chi vince sotto le bandiere della libertà e della democrazia, avrebbe il dovere della clemenza, della generosità, non dovrebbe infierire sui vinti». Per 20 mila persone, «travolte dalla resa dei conti», il prezzo è stato il medesimo: «Un colpo alla nuca per il torturatore come per la casalinga che aveva preso soltanto la tessera del fascio». Un prezzo troppo alto e troppo uguale. «Sono i desaparecidos totali di una guerra brutale, tutta italiana». Il libro di Pansa lo leggeranno i vincitori e i vinti, nonché i loro figli, coloro che hanno visto pagare un prezzo e coloro che di quel prezzo sono gli eredi e hanno memoria. Rinnoverà un dolore antico, scuoterà certezze indiscutibili. Non c'è da perdere nulla a scommettere che il dibattito sarà furibondo.
L'Espresso, 09/10/2003
Istruzioni per post-schizzati
Chi è il professor Giulio Cesare Giacobbe, e perché si parla di lui? Semplice, è l'autore di un pamphlet (edito da Ponte alle Grazie), 124 pagine e 9 euro che promettono di rovesciarvi l'esistenza. Appena apparso in libreria ha bruciato la prima tiratura. Sarà per il titolo: "Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita". Letteratura trash? Manualistica cheap? «Una sciocchezza», secondo l'autore: «A giudicare dal titolo, questo libro sembra una belinata». Dal che si capisce che Giulio Cesare Giacobbe opera a Genova. A Genova si è laureato in filosofia, poi ha studiato psicologia in California, e adesso sempre all'Università genovese ha la cattedra di Fondamenti delle discipline psicologiche orientali. Belinata o no, il libro è «un manuale pratico di autoprevenzione e autoterapia delle nevrosi». E qui bisogna storicizzare. Perché la vicenda degli ultimi quarant'anni è costellata di autori eccentrici, sulle cui opere diverse generazioni hanno cercato e smarrito un equilibrio mentale. I pre e post-sessantottini si sono perduti nelle teorie di Wilhelm Reich, altri si sono divertiti con gli estremismi simbolici di Groddeck. Ma forse il testo più classico è quello di Robert Pirsig, "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta": il quale, con la scusa di raccontare viaggi, esperienze mentali e motociclette, divulgava tutta la storia della filosofia. Ma opere di questo tipo andavano bene allorché la figura sessantottesca del "giovane" era altamente culturalizzata. Ma con le generazioni di oggi, con gli "addict" della sega mentale che affollano le università, ci voleva un testo sacro diverso. Eccolo a voi. «Questo libro l'ho scritto sollecitato dai miei studenti», dice Giacobbe. E in effetti l'opera ha una storia singolare. Era circolata nelle librerie genovesi in forma di dispensa, vendendo semi-clandestinamente qualche migliaio di copie. Alla fine, richiamato dal tam tam, uno scopritore di talenti editoriali lo ha portato nel gruppo Longanesi. Il tempo di stamparlo e di farlo uscire, e il libro è stato preso d'assalto. Evidentemente le seghe mentali sono una malattia diffusa. Anzi, diffusissima. Il professor Giacobbe si rivolge a un target medio di studenti, le cui seghe mentali medie sono del tipo semplice. Lei me la darà? Lui mi tradisce? Di suo, Giacobbe ci mette una propensione per le spiritosate, una voglia goliardica esplicita, un retrogusto forse paternalista del tipo "istruisce e diverte". Che cosa siano le seghe mentali è presto detto. Pensare fa male. Il pensiero si rivela fin troppo spesso una sega mentale. È vero che ci sono seghe mentali positive, quelle che generano l'arte, la scienza, la letteratura. Ma sono rarità. In genere la sega mentale è malefica. È un pensiero ossessivo che genera sofferenza, è la concezione autistica secondo cui il mondo è un'illusione, e la realtà esiste solo in quanto noi la pensiamo. Diciamolo meglio: «Le seghe mentali non sono altro che la riproduzione iterata e automatica di pensieri portatori di una qualche tensione, cioè di sofferenza, generata da uno stato di paura, ossia di allarme nei confronti di qualcosa, che il nostro cervello ritiene pericoloso per la nostra incolumità, il più delle volte non reale, ma simbolica». Resta solo da vedere qual è la ricetta per smettere. Be', è facile. Bisogna fermare il pensiero. Ci si concentra su un oggetto, sulla realtà circostante, si diventa "osservatori", e l'ossessione si allenta. Dopo di che, ci sono passi successivi, che sono quelli classici della meditazione orientale. I mantra, la respirazione, l'ascesi spirituale buddista, lo Yoga. Sempre con una dose d'ironia, perché anche lo scopo ultimo della contemplazione può risultare controverso: «Se ti accanisci a raggiungerlo, crei tensione e ricadi nella trappola della nevrosi: cioè delle seghe mentali». Il successo del libro di Giacobbe implica un pubblico ricettivo. Si può quindi presumere che esistano larghe fasce di italiani, giovani e adulti, afflitti dalla varia fenomenologia delle seghe mentali. Tutta gente che sta cercando di sopravvivere nella turbolenza contemporanea, e nel tentativo di riuscirci si inventa fantasmi intellettuali e fissazioni neurotiche. Per questi soggetti clinici, "Come smettere di farsi le seghe mentali" risulterà un saggio imperdibile. Perché offre terapie in apparenza semplici, come se la felicità, o la cessazione del dolore, fosse a portata di mano. E poi, come ricorda proprio l'autore, tutti i mantra vengono potenziati se hanno un contenuto religioso o evocativo. Ripetere "Mio Dio" anziché "Coca-Cola" funziona meglio e produce migliori risultati, se ci si crede. E l'autore, per l'appunto ci crede. Logico allora che la verità trovi un pubblico. Se l'autore ha fede, avranno fede anche i suoi studenti. Ci crederà una platea più vasta di afflitti dalla sindrome della sega mentale. Ci crederanno coloro che pensano che la nostra civiltà deterministica è tutta sbagliata, i no global in chiave new age, gli spiriti romantici, gli ayurvedici. Magia che funziona. Perché l'importante è smettere di farsele, le seghe mentali. Oppure, aggiungerne una nuova. In attesa del prossimo manuale, e della prossima inevitabile ossessione.
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