L’Espresso
L'Espresso, 02/10/2003
Due o tre cose che l’Ulivo dovrebbe fare
I vertici del centrosinistra sono impegnati in una partita di movimento e stallo sulla questione sottilissima della lista unica, e dell'eventuale partito riformista. Affascinante per i corridoi di partito e, a essere ottimisti, per i militanti che affollano il lunghissimo settembre di feste di partito, il dilemma se uniti si vinca o si perda è già stato risolto dall'opinione pubblica. I dati dei principali istituti di ricerca mostrano infatti che gli elettori votano tendenzialmente per lo schieramento e non per il partito; il problema dell'identità rimescola i sentimenti di assessori, consiglieri comunali, funzionari di partito, e di una parte degli iscritti: ma l'onda dell'elettorato silenzioso e ragionevolmente distratto ha già mostrato la sua direzione. Lista unica e partito unico costituiscono in sostanza un approdo semi-obbligato. Si tratta di individuare tempi e procedure, ma non la sostanza. Piuttosto, il centrosinistra ha di fronte un problema concreto e insidioso, reso più complicato dal clima di lieve euforia riguardo alle future consultazioni elettorali. Se la vittoria è sicura, inutile darsi da fare. E invece no. Nel sistema bipolare all'italiana, non ancora secolarizzato, non ancora laicizzato, e caratterizzato da una perdurante animosità di una coalizione contro l'altra, non sono ipotizzabili spostamenti significativi di quote di elettorato. I risultati futuri saranno influenzati con ogni probabilità da fattori tecnici, da situazioni locali, dalla resa dei candidati nei collegi. E anche da un fattore tutt'altro che trasparente, ma importante e virtualmente decisivo per i riflessi che può avere sulle categorie produttive, sulle articolazioni dell'industria e della banca, sull'informazione, sulle aggregazioni professionali. Si tratta dell'atteggiamento dell'establishment. In particolare del potere economico e finanziario. Una ristretta fascia di persone che suggerisce o addirittura detta la tonalità politica ai piani alti della società italiana. Ora, è noto che i rappresentanti dell'élite economica fanno generalmente tutti lo stesso discorso, riassumibile nei termini seguenti: è vero che il governo della Casa delle libertà si è rivelato una chiara delusione; ma è vero che dall'altra parte il centrosinistra è una coalizione scarsamente affidabile, incerta, conflittuale, confusionaria. Questo verdetto negativo e simmetrico ha la forza di un automatismo infallibile. Sarebbe quindi il caso che gli esponenti di punta dell'Ulivo si dessero da fare per sbloccarlo, altrimenti il "quaeta non movere" potrebbe diventare lo schema fisso dell'establishment. Senza garanzie a sinistra, tanto vale tenersi la destra. Già, ma come interrompere questo riflesso pavloviano? Quali sono gli strumenti e le modalità per indurre il potere reale dell'Italia contemporanea a valutare un'alternativa possibile? Scartate le idee eroiche come il governo ombra, scarsamente praticabile da un'alleanza poco disciplinata in cui tutti continuerebbero a esibirsi in un cicaleccio continuo, varrebbe la pena di adottare strategie più modeste quanto potenzialmente efficaci. Ad esempio, non sarebbe incongruo pensare a un "road show" degli esponenti più accreditati nell'ambiente economico: figure, tra gli altri, come Enrico Letta, Pier Luigi Bersani, Giuliano Amato. Dai quali dovrebbe venire un messaggio ai "poteri forti": d'accordo, il centrosinistra è un bailamme, ma i suoi eventuali ministri sono altamente professionali; e in grado di comporre una compagine capace di rimettere in sesto il paese dopo il probabile definitivo fallimento del centrodestra. Non è solo un'operazione autopromozionale. Si tratta di incidere in un settore delicatissimo della vita nazionale, segnalando anche i rischi che le élite di potere possono assumersi appiattendosi su un governo dal destino incerto. L'obiettivo minimo è di ottenere, da Umberto Agnelli, da Marco Tronchetti Provera, da Cesare Romiti, e in ogni caso dai gangli principali del potere italiano, un atteggiamento equilibrato. L'obiettivo massimo è di vedersi riconosciuta una credibilità. In fondo alla strada, c'è il grande partito riformista; ma intanto, la politica ha sentieri intermedi che sarebbe ingenuo non esplorare.
L'Espresso, 11/09/2003
Vladimir e il Timoniere
Il dilemma dominante è che qualcuno prenda sul serio il Cavalier Berlusconi. Insomma che qualcuno della vipperia politica mondiale non smentisca il suo preteso ruolo internazionale e la sua statura diplomatica. Vabbé che il presidente di turno dell'Ue sfigura fisicamente in Sardegna, sarà lo stress, rispetto alla silhouette sfoggiata a luglio da George Bush nel ranch texano di Crawford, quando ricevette l'amico italiano. I glutei scolpiti di Dabliù l'Irakeno sono una meraviglia progettuale, mentre l'addome berlusconiano, sotto la camicia alla marinara con gli alamari, pare la sintesi di un disagio psicosomatico. Lo prende sul serio Vladimir Putin, il judoka dalle mammelline bianche e flosce. Si fa accompagnare nel parco dei cactus di Villa La Certosa, con il Berlusconi Driver alla guida della vetturetta da golf. La camicia del piccolo zar è un residuato dei grandi magazzini sovietici, e a vederli insieme i due Schwarzy formato mignon sembrano la prova di come si sostituisce la fitness con l'indulgenza sfrontata per il proprio declino fisico. Ecce homo, anzi eccone due. Eppure sulla diplomazia l'ex uomo Kgb non si tira indietro. Accetta l'incontro informale, in un luogo irrituale, con i turisti che vengono a vedere e a fotografare i rappresentanti del potere geopolitico davanti all'imbarcadero più o meno come andavano a veder scendere Flavio Briatore a Poltu Quatu. Solo che lì non c'è la barca briatorea, e non c'è neanche "Naiomi": a Santo Stefano staziona l'incrociatore Moskva, mentre a pochi metri dai due piccoli machos è in osservazione la motovedetta dei carabinieri. Lo Stato, cioè la Benemerita, e il Privato, ovvero i sei metri del gozzo del Capo, riuniti nell'istituzione-governo, con il Grande Timoniere che per l'appunto sta al timone, perché se non guida non è più lui. Si ha la sensazione che i post-sovietici siamo noi, altro che l'agente Vladimir. Noi che siamo venuti fuori faticosamente da una cinquantennale dittatura comunista (d'accordo, non una dittatura ma l'egemonia sì). Noi che possiamo alternare il doppiopetto da statista alla tenuta da svacco agostano, compreso il berrettino blu della marina che fa tanto Potemkin, e compresa la passeggiata a piedi nudi nel parco. Noi che possiamo invitare lo zarino a fermarsi per un Campari soda al bar del villaggio Palumbalza. E può mancare, mentre secondo le cronache «spira un ponente frizzante», un posticino tranquillo, nel golfo di Marinella, una caletta dove fare un bagno insieme? Sono amicizie fortemente virili, molto americane, molto russe. Ma evidentemente Putin gli dà corda, al piccolo timoniere. Così come gliene danno tutti quelli in lista d'attesa per Porto Rotondo dopo Putin: Aznar, Raffarin, Erdogan. Perché magari l'Italiano potrebbe essere uno che vende mercanzia altrui; ma se poi la transazione funziona? Dice a Putin che auspica un forte avvicinamento della Russia all'Unione europea. Fa comodo al judoka pensare che lo spirito italico possa favorire un'«intesa special», una entente molto cordiale con l'Unione europea, un colpo di prestigio internazionale capace di oscurare il dramma ceceno, le lotte fra gli oligarchi, le fazioni militari, e anche un'immagine in cui della Russia spiccano soprattutto i magnati della ricchezza post-comunista come Roman Abramovich, il padrone-spettacolo del Chelsea. L'uomo che a ventre in fuori indica i cieli di Sardegna si presenta come il Tessitore del riavvicinamento fra la Casa Bianca e il Cremlino, l'Auspice di un mandato dell'Onu sull'Iraq, condizione di un coinvolgimento russo sotto il comando americano. Tutto assai ipotetico, assai fragile, assai virtuale. E tuttavia all'ora di pranzo telefonano a Bush, «su iniziativa italiana», anche se non si capisce niente sul contenuto della telefonata a tre. Potrebbe essere andata male, dieci minuti irrilevanti di cui la metà per le traduzioni: ma se invece fosse il varo informale di una road map per dare peso alla "Comunità delle democrazie", una partnership in progress fra Usa, Ue e Russia? Oltretutto, l'autunno del geopolitico Berlusconi è frenetico. Deve andare a New York il 22 settembre per partecipare all'assemblea generale delle Nazioni Unite. In ottobre avrà il compito di presiedere l'inaugurazione della conferenza intergovernativa di Roma, quella che dovrà mandare al largo la costituzione dell'Unione europea. Si alzano i sipari di uno spettacolo continuo. Le gaffe come quella del kapò al socialdemocratico tedesco Schulz e l'accusa di "turisti della democrazia" al Parlamento europeo sono il passato. Adesso c'è la possibilità di trasformare in una successione di eventi glamour la politica estera, per esibire ogni giorno la credibilità internazionale di colui che i suoi nemici si ostinano a considerare come un vecchio chansonnier. Il fatto è che così come fa politica estera nella spiaggia di casa, indifferente alle forme e ai rituali classici, mischiato alle guardie del corpo e mostrando la soddisfazione incontenibile di considerarsi un giocatore planetario, allo stesso tempo non ha codici e schemi intoccabili. Ha già contribuito a spezzare la solidarietà europea convenzionale sull'Iraq, ha inventato la non belligeranza attiva, è largamente indifferente ai processi istituzionali dell'Unione, sprizza soddisfazione nell'essere accolto nel club dei potenti, e nel poterli invitare fra barche ed elicotteri, proponendosi come primattore e regista, presidente operaio, giardiniere e plenipotenziario dell'Occidente. C'è qualcuno che può smentirlo a priori? Certo, sullo sfondo della vecchia Europa rimane la distanza stilistica da Berlusconi rimarcata da Jacques Chirac, e la freddezza ribadita di Gerhard Schröder. Ma intanto da parte russa non ci sono rilievi sulla qualità dell'intrattenimento, né insofferenze estetiche per il lato tragicamente cheap delle seratine in villa. Pazienza per i fuegos y musica durante la cena del sabato. Ma poi, come si fa, uno invita il Moscovita e gli propina Tony Renis che dedica a Vladimir la riesumata "Quando quando quando", oltre al coautore napulitano Mariano Apicella, che coinvolge il premier italiano in certe loro creazioni (avranno cantato "'A gelusia"?). E di seguito arriva l'infortunato Andrea Bocelli, precettato sempre da Renis, che non va più in là di due strofe di "Tu ca nun chiagne" perché ha la bua dopo un incidente con il surf. E l'ultimo stenda un velo sull'esito di una serata che si conclude con un coro italo-russo sulle note di "Oci ciornie". Sicché nel disfarsi del protocollo si fissa una domanda strategica: qual è il tono dominante della tre giorni sarda e quale ne sarà il risultato? Se va male, il successo del progetto "global" di Tony Renis, ovvero l'incisione del cd Berlusconi-Apicella sotto il patrocinio dell'Unicef. Ma se invece si afferma la kitsch-diplomazia, lo show tipo Mirabilandia di chi ha vera pratica di mare, e soprattutto se il mondo va secondo le speranze di Berlusconi, tranquilli che il Cavaliere si appropria della geopolitica, se la infila nel taschino della camicia, esce dalla cronaca e si consegna alla storia. Dopo di che, qualcuno lo smentisca.
L'Espresso, 04/09/2003
E Fini ordinò: "Palla al centrodestra"
Secondo un osservatore come Ilvo Diamanti, è patetico lagnarsi delle interferenze della politica sul calcio: «Oggi il calcio "è" politica». Le società calcistiche si rivolgono ai partiti e ai loro uomini perché risolvano i problemi che esse non hanno saputo fronteggiare; uomini politici e governo si rivolgono al calcio «per catturare i consensi, che faticano a conquistare in altro modo». La sintesi del politologo è eccellente ma la sua obiettività "scientifica" rischia di renderla criptata. Mettiamola in chiaro, allora. Le istituzioni del calcio nazionale, Federazione e Lega, sono organismi di potere. In particolare la Figc, che per statuto raggruppa le associazioni che promuovono il gioco del calcio, è una specie di Coldiretti postmoderna, che fa gola per la sua capacità di plasmare consenso politico e ripartire potere. Non si spiegherebbe altrimenti la violenta polemica che il vicepremier e leader di An, Gianfranco Fini, ha aperto contro il presidente della Federcalcio, Franco Carraro: «Parlando da tifoso», cioè in chiave apertamente populista, e con il coro dei colonnelli del suo partito, Fini lo ha invitato alle dimissioni. Ora, Carraro non sarà una folgore, ma è un uomo legato a circuiti politici non proprio distanti dall'ambiente del capo del governo e di Forza Italia. L'errore del presidente della Federcalcio è stato di pensare che il tremendo bordello aperto dalla sentenza del Tar che riammetteva in serie B il Catania potesse essere gradito con i metodi tradizionali della Federazione, cioè di un'oligarchia abituata a trovare al proprio interno compromessi e risarcimenti in perfetto stile Prima Repubblica. Nell'impazzimento generale, e con la crisi calcistica accentuata dal caso delle fideiussioni truccate, si è capito che la soluzione sarebbe stata esclusivamente politica. Silvio Berlusconi ha pronunciato tutto compunto il suo «so che tocca a me» e il consiglio dei Ministri ha partorito la trovata del decreto "salvacalcio". Il ministro Giuliano Urbani, politologo anche lui, è apparso in tv per dire in modo non proprio convincente che la formula era stata trovata, e gli organi calcistici hanno capito alla perfezione quale fosse il messaggio governativo. Niente pasticci ulteriori, niente conflitti. Bisognava salvare Carraro e il Catania, Gaucci e la serie A, i bilanci e la pay-tv, le zone di influenza di Forza Italia e di An. Naturalmente, il decreto salvacalcio era un obbrobrio costituzionale, dato che interveniva sulla giustizia, fissando con un ukase il giudice naturale del calcio nel Tar di Roma; al punto che un liberale che di recente si ricorda spesso di essere tale, l'ex ministro del decreto "salvaladri" Alfredo Biondi (c'è sempre qualcosa da salvare, nel paese) si è dichiarato in disaccordo sul metodo e il contenuto del nuovo decreto di salvataggio calcistico. Dopo di che, nessuno sa quale sorte parlamentare avrà questo decreto; non si sa se la Lega voterà contro, come ha fatto nel Consiglio dei ministri, o se verranno introdotti emendamenti. Di sicuro il metodo di apparente ascendenza andreottiana adottato dal governo, con il decreto che decreta, e le strutture sportive (Federazione e Coni) che "autonomamente"agiscono, è già fallito. Restano le mezze frasi che sono circolate in queste settimane, quelle che attribuiscono a Berlusconi e alla maggioranza una preoccupazione acutissima per le questioni di ordine pubblico, nel caso di rinvio del campionato o di declassamento di alcune società per bancarotta. A questo punto, la complessità della situazione, con la rivolta della serie B, può giustificare anche il sacrificio azteco di Carraro. Nel frattempo, senza moralismi inutili, e senza richiamare l'attenzione ancora una volta sulla vistosa azione compiuta dal coordinatore di An Ignazio La Russa a favore del Catania (chi è senza peccato scagli la prima pietra), vale la pena mettere a fuoco l'interesse strategico del centrodestra verso il calcio. Ha ragione Diamanti, il "new football" è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Finora l'intervento del governo si è limitato alla cornice organizzativa. Ma che succederebbe nel caso di una striscia di decisioni arbitrali sfavorevoli a una certa squadra? Premier, vicepremier, ministri e coordinatori si limiterebbero a polemizzare, o additerebbero all'Italia intera, come nella fatal Verona, il "complotto dei fischietti"?
L'Espresso, 31/07/2003
Gli esami e le mazzette non finiscono mai
La vicenda degli esami comprati e venduti nella facoltà di giurisprudenza dell'università di Roma La Sapienza potrebbe sembrare una storia a suo modo classica, tradizionale, già vista decine di volte. Al massimo, rispetto ad altri casi analoghi, potrebbe colpire il numero elevato degli indagati e un aspetto organizzativo che suggerisce l'idea di una struttura corruttiva permanente e articolata, tale da coinvolgere docenti, apparati amministrativi, bidelli e studenti. Niente di nuovo sotto il sole, dunque, a parte la vastità ramificata dell'organizzazione? Chissà. Anche se è improprio trarre conseguenze generali da un caso singolo, dalla storiaccia dell'università romana sembra di percepire un sapore molto attuale, molto italiano e molto contemporaneo. A scorrere la cronaca degli ultimi mesi, infatti, si avverte che la vita pubblica è punteggiata da continui episodi di corruzione. Le tangenti di Luigi Odasso a Torino, le forniture delle valvole cardiache tarocche, le aste pilotate dell'Anas, le mazzette dell'Inail, il tutto fra intercettazioni telefoniche imbarazzanti e assessorati come centri di potere. Secondo alcuni, Antonio Di Pietro in testa, ciò significherebbe che Tangentopoli è viva e perdurante, e che c'è un "sistema" della corruzione soltanto scalfito dalle inchieste di Mani pulite. La diagnosi è infausta, ma non sembra congruente con la realtà. La grande corruzione, quella innestatasi sul mercato delle opere pubbliche tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, e messa allo scoperto dalle inchieste del pool di Milano, è stata stroncata. O perlomeno è stato abbattuto quell'oligopolio corruttivo fra grandi imprese e sistema politico che aveva provocato una drammatica distorsione del mercato, oltre a porre le basi del crollo della "Repubblica dei partiti". Ciò che si manifesta ora è qualcosa di diverso. Sembra di assistere infatti a un cedimento del tessuto civile, a strappi nella trama di regole che presiedono al funzionamento ordinato della società. Si tratta di indizi, naturalmente, e non vale la pena di gettare grida d'allarme apocalittiche. Eppure, questi indizi sono un sintomo. Segnano la traccia che la società italiana è stata esposta in modo tumultuoso al mercato, senza poter contare su quell'insieme di abitudini e di convenzioni che fondano le reti della convivenza e della fiducia collettiva. Il fatto è che oggi la nostra società è sottoposta a pressioni e a tensioni contraddittorie. Da un lato la concorrenza, e l'imperativo della competitività sotto ogni profilo, stressano le imprese, gli operatori, i lavoratori stessi. Per un altro verso, lo spettacolo del potere, del successo, del denaro espone le differenze sociali mostrando livelli inediti di ineguaglianza. Ancora: i modelli culturali prevalenti designano una sfasatura acuta fra i simboli del consumo e le possibilità reali degli individui. Per questo entrano in crisi i codici di lealtà: non si dovrebbe dimenticare il caso più vistoso, allorché gli assistenti di volo dell'Alitalia hanno "scioperato" presentando il certificato di malattia, con ciò rendendo esplicita una defezione formale dalle regole deontologiche e sindacali. Si ha la sensazione insomma che una comunità abituata al tepore dell'assistenza, ai particolarismi e ai rapporti clientelari dello stato sociale all'italiana, stia cominciando a ritrovarsi senza difese rispetto alla durezza del mercato, e incapace di reggere la spinta al consumo. Dentro questo quadro, in cui parole come "sobrietà" sono patrimonio solo di alcune minoranze, il tessuto civile si slabbra. L'individualismo sradicato dai valori condivisi deve fare i conti sia con la richiesta continua e faticosa di performance professionali crescenti, sia con la percezione sempre più diffusa che la diseguaglianza è un prodotto inevitabile della società "liberista". Prendere atto di questo contesto non è moralismo: significa piuttosto che sarebbe ancora utile mettere insieme programmi politici basati su alcune parole un po' vecchio stampo. Redistribuzione, per esempio. Coesione sociale. Se si vuole, anche solidarietà. Perché gli individui nel clima di lotta e di invidia sociale si arrangiano, ma le società devono governarsi con saggezza, guardando al proprio futuro e non solo al "qui e ora".
L'Espresso, 24/07/2003
Ci ritorni in mente
L'ombra del Maestro solitario aleggia ancora sulla Tribù. Manca qualche settimana al quinto anniversario della morte di Lucio Battisti, che cade il 9 settembre, ma la setta dei battistiani è già in fermento. Già, ma quale Battisti? Come si sa sul tema ci sono due partiti: da una parte la maggioranza rumorosa, gli adoratori del periodo Mogol e del mainstream battistiano, «le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi», cioè tutti quelli che associano Battisti alla propria educazione sentimentale, e in special modo ai primi petting in riviera; dall'altra i più viziosi, i sofisticati, gli idolatri del "corpus hermeticum", ossia i cinque dischi esoterici nati durante la collaborazione fra "Lucio" e il poeta imprevedibile Pasquale Panella, l'uomo che spiegò la sua estetica musicale con la dichiarazione: «Hegel è la canzone. È il pachiderma centrale, mediano, indeciso come la canzone». L'epicentro è il comune di Molteno, in cui si trova il Dosso di Coroldo, un complesso residenziale di 13 ville nella "Brianza velenosa" che era stato il protettissimo rifugio di Battisti con la moglie Grazia Letizia Veronese. Ma se le iniziative ufficiali e commemorative vanno sul classico, c'è un'invenzione spettacolare che non mancherà di sollecitare l'ormai infinita diatriba fra i sostenitori del primo e i fautori del secondo Battisti. Si deve all'inventiva di Franco Zanetti, 50 anni, professione "agitatore culturale" e direttore del quotidiano musicale online www.rockol.it. Zanetti ha inventato uno spettacolo basato su una selezione di canzoni del periodo ermetico, cioè da album come "Don Giovanni", "L'apparenza", "Hegel". Ha preso quelle 40 canzoni futuribili, ne ha scelte una quindicina, e ha costruito un concerto autenticamente radicale. Infatti i brani verranno eseguiti da un trio inedito di vocalist, denominati EquiVoci, due ragazze e un ragazzo provenienti da studi di conservatorio, mentre l'orchestrazione è affidata solo a un quartetto d'archi femminile. Lo spettacolo si intitola "Sinceramente non tuo" (da un verso di "Don Giovanni"), e si tradurrà in un disco che la Sony distribuirà ai primi di settembre. L'iniziativa di Zanetti è lievemente provocatoria, come lo spirito del suo inventore: che si era fatto conoscere qualche anno fa, il primo aprile del 1998, con un clamoroso scherzetto mediatico, annunciando una nuova opera di Battisti, disponibile solo su Internet e composta da pezzi semisconosciuti del suo repertorio, le cui iniziali componevano l'acrostico "pesce d'aprile". Lo stesso titolo dell'album, "L'asola", poteva essere inteso anche alla romana come "La sòla", quale in effetti era. Solo che i media ci si buttarono per l'appunto a pesce, tanto da ingannare anche un pontefice della critica pop nazionale come Mario Luzzatto Fegiz (il "Corriere della Sera" fu costretto a una precipitosa ribattuta nella notte). Questa volta la provocazione è più concettuale. Non fa perno su visioni medianiche, che sarebbero all'origine della canzone di Adriano Celentano "L'arcobaleno" («Io son partito poi così d'improvviso, che non ho avuto il tempo di salutare»: secondo le ricostruzioni meno controllabili il testo, una specie di lettera battistiana dall'aldilà, sarebbe stato suggerito a Mogol da una veggente di Sassuolo emigrata in Spagna). E non si affida nemmeno al tam tam sul presunto materiale inedito che la vedova Battisti conserverebbe gelosamente e di cui favoleggiano continuamente i newsgroup battistiani nel Web. Zanetti ha estremizzato forma e contenuto della produzione firmata Battisti-Panella: i suoni elettronici sono stati concettualizzati nell'atmosfera suggestiva degli archi; chi ha potuto ascoltare le prove giura che le parole misteriche di Panella si stagliano nel tessuto sonoro con una intensità inaspettata, addirittura "comprensibile". Ne viene fuori quasi un oratorio laico: «Non penso quindi tu sei / questo mi conquista / l'artista non sono io / sono il suo fumista». I versi di "Don Giovanni" e di "L'apparenza", che furono esaltati da Michele Serra («Dico solo che la parola "ossigeno" come la pronuncia Battisti, salendo di tono come l'aria fresca, non l'ho mai sentita pronunciare... Io credo che questo disco sia l'opera di un genio, o più probabilmente di due») compongono un mondo post-umano, fatto di detriti lessicali, «un oroscopo folle in cui brillano gemme in cui si condensa, raggelata, l'emozione di un tempo» (secondo un altro battistiano storico, Leo Turrini, autore di una delle prime biografie di Lucio Battisti). Ma il mondo battistiano è in subbuglio anche perché in coincidenza con l'anniversario della scomparsa la Tribù si aspetta sorprese e rivelazioni. Uno degli adepti più fondamentalisti, l'autore televisivo Michele Neri, sta finendo il suo monumentale libro su Battisti, centinaia di pagine di filologia accanita. Gli adoratori continuano a rileggere in qualche sito le pagine documentatissime che Mattia Feltri sul "Foglio" dedicò subito dopo la morte agli ultimi giorni di Battisti. Ci si aspetta un botto da Michele Bovi, l'archeologo della tv che su Raidue ha proposto diversi speciali battistiani, ogni volta rintracciando qualche reliquia filmata, uno spezzone dal vivo, un reperto scovato negli archivi televisivi di tutta Europa. I cultori della nostalgia sono disposti a cercare le tracce e gli echi di Battisti dappertutto. Si sono riuniti in un'associazione informale chiamata "I cavalieri del mare". Fanno raduni tematici qua e là per l'Italia. Qualche anno fa si erano appassionati agli Audio 2, una coppia patrocinata da Mina e Massimiliano Pani che clonava il magistero di Lucio in canzoncine futili e divertenti. Di recente sono stati sopraffatti sentimentalmente dall'apparizione di Roberto Pambianchi, un ex rappresentante romano che ha la voce praticamente indistinguibile da quella battistiana. Scoperto da Bovi, che l'ha utilizzato in tv per alcuni frammenti «più veri del vero, e più falsi del falso», Pambianchi è stato adottato da Ignazio La Russa, che l'aveva ascoltato alla festa per l'insediamento al Tg2 di Mauro Mazza, restandone sbalordito. Adesso, Pambianchi spopola nelle feste di Alleanza nazionale, dove gli ex camerati vengono presi da un soprassalto emotivo ogni volta che risentono il verso di "La collina dei ciliegi" che dice «planando sopra boschi di braccia tese», nella eterna autoillusione che Battisti fosse di destra, e che quelle mani levate rappresentassero una selva di saluti fascisti. Si vive comunque nell'attesa: di risolvere l'annosa questione del confronto tra la fase Mogol e la fase Pannella; che arrivi l'annuncio che il fantomatico album di inediti è sbucato miracolosamente intatto dalle segrete stanze della villa di famiglia; che il formidabile Vasco Rossi decida finalmente di realizzare il suo progetto di un disco tutto composto da cover battistiane. Nel frattempo, il gossip iniziatico fa filtrare la notizia che il figlio di Battisti, Luca, avrebbe consegnato alla Bmg un provino di canzoni eseguite in inglese, nelle cui melodie sembrerebbe indubitabile l'impronta del padre. Ed è prevedibile che nell'avvicinarsi della data fatale del 9 settembre ricominci la sagra della nostalgia. Destino singolare per un musicista ampiamente detestato dalla critica quando era in vita, e venerato post mortem con una partecipazione talmente unanime da risultare alla fine paradossale. L'iniziativa di Zanetti nasce con l'intenzione di recuperare proprio il Battisti più oltranzista e frainteso: con la convinzione che in quelle 40 canzoni-non-canzoni ci sia sepolta almeno una quindicina di exploit, capolavori misconosciuti che potranno essere portati in giro per l'Italia, nei piccoli teatri, negli auditorium, nelle chiese. Uno spettacolo minimalista ma a suo modo estremo. Per ricordare a tutti che il Maestro solitario non era più il cantante riccioluto dell'acqua azzurra, ma una sorta di intellettuale irriducibile, travolto in un suo progetto, perfettamente distante dal se stesso che era stato, e anche dal ricordo che ne hanno di lui, e della sua musica, quasi tutti.
L'Espresso, 17/07/2003
Silenzio nessun straparli
L'ordine di scuderia non si discute: sobrietà, labbra tirate nel silenzio. Non ci dev'essere nessun incidente fra la Commissione e la presidenza italiana del semestre. Da Romano Prodi in giù, a Bruxelles e nel Parlamento italiano, tutto il circuito prodiano è blindato. Ogni parola in più rischia di essere una mina, perché "Romano" non è solo il vertice della Commissione, ma è anche il candidato potenziale dell'Ulivo, l'unico uomo politico che Silvio Berlusconi confessa di temere alle elezioni del 2006. Quindi la parola d'ordine è: sterilizzare, minimizzare, troncare, sopire. Mordersi la lingua e alzare gli occhi al cielo. Salvo poi sospirare. Allorché a Strasburgo la situazione precipita con il "discorso del kapò" contro il socialdemocratico Martin Schulz, l'effetto è sconsolante. «L'avete visto tutti»: Prodi è allibito, Prodi è sconcertato. Altro che riscossa italica contro l'arroganza tedesca, come scrivono i giornali allineati: «Bastava osservare il tremendo imbarazzo di Gianfranco Fini», che ha visto andare in fumo il credito guadagnato nel lavoro della Convenzione. Sospiri, mormorii esalati a mezza voce dai fedelissimi. «A Bruxelles tutti hanno capito che il semestre è finito prima di cominciare». Fra l'altro in Italia si è avuta l'impressione, grazie alla compiacenza dei media, che l'exploit del Cavaliere fosse una reazione a caldo all'attacco di Schulz. Perfettamente sbagliata ma comprensibile. In realtà, sottolinea ancora incredulo chi era presente nell'emiciclo di Strasburgo, Berlusconi ha avuto due ore di tempo e ha ascoltato numerosi noiosissimi interventi prima di prendere la parola e di uscirsene nell'infausta storiella del film sui lager. Risultato? Pieno discredito per lo stile italiano. L'amicizia esibita dal premier con i leader confonde la goliardia con i rapporti istituzionali. «Ma ti pare possibile, "quello là" ha raccontato di nuovo la barzelletta del malato di Aids». Ha giustificato il suo facinoroso intervento a Strasburgo dicendo addirittura che in Italia si scherza da decenni sull'Olocausto. «Non male, come Weltanschauung». E come comprensione dello spirito tedesco: «Oltretutto, negli ultimi mesi, se c'era un partner che ci aveva dato una mano era proprio la Germania». Ma ammesso che il semestre sia fallito all'esordio, che farà in questi mesi Berlusconi? Poco, dice il coro prodiano. La presidenza greca aveva già tolto di mezzo due dossier importanti, quelli sulla politica agricola e il cosiddetto "pacchetto finanziario". Adesso i leader come Chirac e Schröder si impegneranno silenziosamente per far diventare quello di Berlusconi un semestre interlocutorio. Magari - à la guerre comme à la guerre - fino a rimangiarsi l'idea della scelta di Roma come sede per la firma del nuovo trattato. Molto dipende anche da come "quello là" gestirà la bozza della Costituzione europea nella conferenza intergovernativa. La Commissione punta a estendere la sfera del voto a maggioranza: come giocherà il Cavaliere? Si schiererà sulla linea minimalista inglese e sul filoamericanismo spagnolo? «Ma anche Aznar lo ha mollato». E l'Europa della destra classica prende le distanze: «Chirac ha detto con chiarezza a Berlusconi che rispetta chi era contro la guerra per ragioni etiche e politiche, così come chi era per l'intervento in Iraq per convinzioni morali e strategiche, ma che non rispetta chi ha scelto l'America per un calcolo di convenienza». Soprattutto, occorrerà osservare come Berlusconi si muoverà fra le coalizioni di interessi consolidate in Europa. Prodi lo ha invitato alla generosità politica, citando non proprio per caso Mitterrand e Kohl, che sull'Unione hanno messo in gioco la loro carriera politica. Obiezione: è il vecchio asse franco-tedesco. Risposta: Berlusconi faccia capire su quale schema agisce. Perché Schröder ha chiuso l'incidente italo-tedesco, e non l'ha riaperto dopo che le scuse erano diventate unilateralmente un «rincrescimento»; forse Romano «si augurava che il Cancelliere riaprisse il caso», perché per Prodi quella della Costituzione è una partita risolutiva per il futuro europeo, sicché ogni mezzo è buono per spostare equilibri verso un assetto federale e neutralizzare gli euroscettici. Fatto sta che per il momento Berlusconi continua a recitare a soggetto. Sull'allargamento insiste con le trovate sull'ingresso di Russia e Israele, al di fuori di qualsiasi procedura istituzionale. Il modello di Prodi rispetto ai paesi esterni all'Unione è sintetizzato dall'espressione "everything but the institutions", mettere in comune tutto, a partire dal mercato, fuorché le istituzioni. Il premier, invece, salta a piè pari queste sottigliezze: anche sul Piano per il Mediterraneo, che comprende l'istituzione della Banca mediterranea (un possibile motore dello sviluppo di un'area cruciale, con ovvie ricadute sul Medio Oriente), manifesta il disinteresse di chi si sente il portatore del verbo di George Bush. In sostanza, quale sarà il modello di Berlusconi? «Uno spot permanente». Chi ha potuto sbirciare nella cartellina dell'ambasciatore all'Ue Umberto Vattani giura di avere visto un titolo: "Eventi". Ecco, i prodiani sono convinti che l'interpretazione berlusconiana del semestre avverrà tutta in chiave estemporanea e spettacolare. Un semestre di coreografie sul teatro europeo. Con il commissario Prodi che dovrà interpretare la parte ingrata dell'uomo in grigio, di fronte al varietà di un Berlusconi convinto di poter ridimensionare la Commissione a ufficio di segreteria. E con il Cavaliere che si muove a tenaglia: mentre cercherà di prendere la scena in Europa, fra i confini domestici proverà a disintegrare il centrosinistra con la proporzionale. Anche se è fatta di sussurri, la guerra continua.
L'Espresso, 03/07/2003
Chi non vuole la discoteca delle libertà
La polemica sulla chiusura anticipata delle discoteche è uno dei tormentoni che periodicamente riappaiono sulle pagine dei giornali. Funziona più o meno così. Di fronte all'ennesimo caso di "strage del sabato sera", viene fuori la proposta di porre limiti alla notte da ballo e da sballo. Subito dopo intervengono gli operatori del settore che negano l'utilità dell'eventuale provvedimento, e sostengono invece la necessità di controlli più accurati ed efficaci da parte della polizia stradale e autorità varie. Subito dopo, ecco il parere di sacerdoti impegnati nel sociale e nel mondo giovanile, i quali affermano che va bene la misura coercitiva, ma si tratta al massimo di un tampone, perché il problema vero è una questione di cultura: finché prevale il desiderio dell'eccesso, cioè un atteggiamento che cerca nella notte una trasgressione brada, i divieti avranno soltanto una funzione repressiva, che non tocca la struttura dei comportamenti giovanili. Dopo di che, di solito non avviene niente. Al massimo si parla di campagne di sensibilizzazione, cercando di trasformare i cultori dello sballo in altrettanti boy scout della notte, e tutto finisce in una vaga dichiarazione di intenti buonisti. Ma la settimana scorsa il consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge piuttosto impegnativo, che contiene aspetti di qualche utilità presumibile (come il divieto di vendere alcolici dopo le due, e l'obbligo per i gestori di attenuare, dopo quell'ora, luci stroboscopiche e decibel) e il provvedimento più duro, vale a dire la chiusura delle discoteche alle tre. I difensori della notte libera sostengono naturalmente che il nuovo limite non serve a nulla: espulsi dai locali a metà del divertimento, fiumane di giovani invaderanno strade, spiagge, parcheggi, facendo comunque durare la loro notte fino all'alba, in condizioni ancora più precarie e disordinate. I proibizionisti dicono con chiarezza che se la repressione servirà a salvare anche una sola vita dal mattatoio stradale, vale la pena di vietare. Hanno dalla loro parte le statistiche, secondo cui in dieci anni la febbre della notte ha portato via seimila ragazzi. Posta in questi termini, la questione è indecidibile. Rappresenta un classico caso di contraddizione fra una visione libertaria, o semplicemente "liberista", secondo la quale è insensato che le istituzioni mettano il becco nei comportamenti individuali, e una posizione che sostiene di privilegiare un bene comune. La decisione a cui è giunto il governo si inserisce con nettezza in questo conflitto fra intento pedagogico e rispetto delle libertà private. Fra proibizionismo e laissez-faire. Insomma fra le due anime che continuano a esistere nello statuto ideologico del centrodestra. Di fronte allo strazio delle famiglie colpite negli affetti più cari, e di fronte all'inquietudine dei genitori che a ogni weekend aspettano ansiosamente il ritorno dei ragazzi, non è il caso di rilevare se il provvedimento sulla chiusura anticipata abbia anche un'intenzione volta alla ricerca di consenso. Piuttosto, ci si può chiedere se abbia davvero un senso razionale un provvedimento che si situa sull'ultimo anello della catena dei comportamenti giovanili. Cioè un messaggio implicito che dice: siete liberi di fare quello che volete, ma a una cert'ora tutti a letto. Il pragmatismo forse suggerirebbe di intervenire al margine, ovvero sui controlli nelle strade, anziché con una grida sull'orario. Anche perché non si vede per quale motivo occorrerebbe impedire a giovani maggiorenni di spendere la notte come desiderano. Sono faccende loro. Quanto ai minorenni, il controllo delle loro notti spetta alle loro famiglie, ma non ci sarebbe niente di strano e di irrealistico in provvedimenti restrittivi nei loro confronti. In sostanza: il disegno di legge sulle discoteche ha un sentore di moralismo, che sfuma nella demagogia, e in una concezione paternalista e poco tollerante. L'imperativo dominante è liberalizzare il lavoro, i consumi, l'economia: per quale motivo si dovrebbe allora irrigidire la sfera del divertimento? Non si avverte in ciò una contraddizione "ideologica"? Come tutti i mercati, anche il mercato della notte ha bisogno di regole: ma l'ultra-regola della chiusura alle tre, "il divieto per il vostro bene", non appare in linea con lo statuto della Casa, e della Discoteca, delle libertà.
L'Espresso, 05/06/2003
Chi ha paura del rocker cattivo
La piccola storia milanese e stupida su Marilyn Manson è finita come doveva finire, cioè in una bolla di sapone. La mozione presentata in consiglio comunale da alcuni esponenti di Forza Italia "di area ciellina" (come dicono le cronache) non è neppure stata discussa, e quindi il 7 giugno il rocker satanico si esibirà, salvo nuovi imprevisti, al Mazda Palace di Milano, per la soddisfazione dei suoi fans italiani. La vicenda è del tutto inessenziale, ma come molte storie inutili possiede un suo accertabile valore simbolico. Marilyn Manson sarà un cantante in odore di dannazione, un performer cattivista, un cattivo esempio sul filo dell'horror, soprattutto quando si esibiva con i denti d'acciaio e la benda nera sull'occhio sinistro, e se si vuole anche un individuo che gioca sinistramente con l'ambiguità sessuale ed erotica: insomma l'emblema di una trasgressione mercantile e programmatica, dichiarata esplicitamente a cominciare dallo pseudonimo, che richiama volutamente la figura di Charles "Satana" Manson, il massacratore di Sharon Tate. Ma detto tutto questo, il suo successo e i suoi tour sono una faccenda che riguarda il mercato e il suo pubblico, e non la tutela dei minori o la pubblica moralità. Se mercato e pubblico amano quella prevedibile miscela di trash e di kitsch, affari loro. Soltanto un residuo di pedagogismo lievemente autoritario, o più semplicemente fessacchiotto, può indurre la politica a metterci il becco, a prospettare mozioni di censura, per preservare la purezza etica dei giovani lombardi e italiani. Il che però rivela qualcosa della presunta egemonia liberale che avrebbe ormai educato in profondità l'Italia contemporanea. Va bene che il sindaco di Milano, Gabriele Albertini, ha avuto il buon senso di dichiararsi subito per «la libertà di pensiero, di opinione e di stile di vita se non ci sono violazioni di legge», contribuendo così a sgonfiare il tremendo caso Manson, ma la prima conseguenza che se ne può trarre è che il liberalismo non è una proprietà privata di uno schieramento politico. Vale a dire che nella Casa delle libertà allignano ancora numerose figure che al liberalismo sono arrivate con un corso troppo accelerato, e quindi con notevoli buchi nel curriculum. Potrà sfiorare la comicità che il concerto diabolico abbia poi ricevuto il patrocinio di Rifondazione comunista, dal momento che Marilyn Manson ha tutto l'aspetto, dal satanismo all'ambiguità sexy, e anche per essere il prodotto di una spregiudicata pianificazione commerciale, di non risultare particolarmente congruente con lo statuto ideologico neocomunista. Sono incerti della cultura postmoderna. Tuttavia nello stesso tempo si può anche mettere a fuoco che a Bologna il sindaco Guazzaloca ha dato il suo via libera al rave antiproibizionista che per il settimo anno attraverserà le strade di Bologna. In attesa di sapere se il suo avversario alle comunali dell'anno prossimo sarà effettivamente Sergio Cofferati, Guazzaloca si è comportato come si comporta un liberale senza fisime: prendendosi anche il rischio di qualche contraccolpo politico, dato che gli esponenti di Alleanza nazionale, suoi alleati in consiglio comunale, hanno parlato subito di "grave errore" del sindaco. Conclusione. Sarebbe il caso di piantarla con i proclami di liberalismo unilaterale. Dovrebbe essere chiaro che la patente liberale non viene rilasciata in seguito a pronunciamenti epocali contro il comunismo e i comunisti, e a esorcismi sulla minaccia alla democrazia portata dalle sinistre, bensì in seguito a comportamenti pratici sul campo. Il significato di piccole storie come quelle di Milano e di Bologna è che il gusto per la libertà non dipende dalle collocazioni d'area politica. Ogni decisione che implica tolleranza comporta anche modesti sacrifici politici, e un gusto per la convivenza civile che trascende l'enfasi dei valori irriducibili. I valori si praticano giorno dopo giorno. E sono proprio le scelte quotidiane che offrono ai cittadini la possibilità di giudicare se i liberali sulla scena politica sono autentici, o se sono taroccati, come talvolta sembra.
L'Espresso, 22/05/2003
Tutto è crollato tranne il cattivo gusto
Di volgarità non si può parlare, dato che gli schemi dell'eleganza imposta dall'alto sono saltati. L'establishment è volgare come il popolo, e il galateo si è ridotto al manuale di sopportazione reciproca fra esponenti dello stesso clan, prima di passare alla caciara del dopocena e al trenino della Mara Venier di turno. Inutile cercare di definire un'Italia coatta, marginale, esclusa per ignoranza delle buone maniere, ignorante dell'estetica: conviene piuttosto identificare quell'aggregato sociale e culturale interclassista che fa sfoggio della sua autenticità. Cioè il Paese autentico, reale, esatto, tautologico, uguale a se stesso nei quartieri di classe come nell'hinterland, negli atelier del lusso come nelle periferie sottoumane. La comunità è crollata, visto che i partiti sono evaporati, le ideologie sono svanite, la cornice etica si è scassata. E quindi, come dicono i sociologi, quando la comunità collassa viene fuori l'identità. Non importa come si è, quanto esserne orgogliosi. Se prima l'essere emarginati era una privazione, adesso è una possibile rivendicazione. Siamo così, senza schermi. Pronti a rubare la fidanzata al magistrato cattivo, come predica il Cavaliere. O a suggerire alla strafiga candidata bresciana Viviana Beccalossi: "Fagliela vedere". Questo è lo stile di palazzo Chigi subito recepito con sghignazzi dal popolo implicitamente forzista. O comunque dotato di sfrontatezza innata come Floriana del "Grande fratello". Animato da un craxismo fiammeggiante come quello dell'Elefantino tornato "Cicciopotamo, socialista islamico". Un popolo ora di iene, ora di corvi, ora di avvoltoi, un po' Platinette, un po' Cristiano Malgioglio, con un pizzico di Antonio Socci. Non c'è più un Altrove, un Oltre, un Eventualmente. Il Paese eccolo qua, hic et nunc, e se è un Paese "e'mmerd" va calpestato con tutta la suola, in modo da sollecitare la porca fortuna. Si potrebbe sostituire il vecchio simbolo, lo Stellone, con una materia più bassa, più terrestre (salvo che se poi qualcuno, un Luttazzi o un altro, la mangia, è disfattismo e sabotaggio, se non vilipendio al simbolo). Autentici, dunque. Con il petto depilato, con le tette figurative, con la tinta e il riporto: autentici e autentiche anche con il piercing, il vintage avariato, il muscoletto scolpito, ma anche la ciccia che deborda, chissenefrega. Non è l'acme del kitsch e nemmeno del trash, che sono parametri troppo intellettuali: piuttosto è il ritorno in incognito del vecchio Hegel, ciò che è reale è razionale. Esisto, quindi sono. Così è se mi pare. E alla fine, del tutto disinibiti, possiamo cantare di nuovo il nostro inno nazionale, l'inno del signor Rossi, dei fratelli d'Italia qualunque: «Siamo solo noi».
L'Espresso, 15/05/2003
Cgil, amore e tormento
Quando la lotta si fa più aspra, la vita sindacale è una strana miscela di passione, sudore, vertenze infiammate, cortei e picchetti, faccia a faccia con industriali e poliziotti: «Per settimane ho viaggiato con una ventina di bandiere rosse, cartelloni bianchi, pennelli e un bidoncino di vernice rossa nel portabagagli della mia R4». Sono parole di Adele Grisendi, la "bellezza in bicicletta" del suo fortunato libro precedente, che raccontava un'infanzia e un'adolescenza in un paese dell'Emilia più profonda e vera. Questa volta invece sono storie di sindacato, raccolte in un nuovo libro, "La famiglia rossa", che Sperling & Kupfer manda in libreria il 13 maggio (320 pagine, 14 e). Si può raccontare la vicenda della Cgil guardando al vertice. L'organizzazione di Lama, Trentin, Cofferati, oggi di Epifani. I loro dilemmi, le loro strategie. Grisendi ha scelto invece di raccontare una storia volutamente minore, in cui una donna descrive «passioni, contrasti, vendette» in cui è stata coinvolta. Vendette: una parola cattiva. Già, talvolta le traiettorie individuali si scontrano con le logiche di potere presenti anche nella massima organizzazione dei lavoratori: «Per motivi politici e di politica sindacale, e poi per ragioni di potere interno, per antipatie e inconciliabilità caratteriali o per gelosie reciproche». E anche perché nel sindacato a volte «gli scontri sono duri e non sempre vengono combattuti in modo leale, tanto da creare grandi sofferenze». Qualcuno ci lascia un po' di sé, della propria vita, del proprio sentimento, delle proprie speranze. Da poche settimane Grisendi è fuori dalla Cgil. «Ne sono uscita in pace, con serenità», confessa agli amici con un sussurro. Era entrata nella "famiglia rossa" giovanissima, dopo avere rinunciato all'idea di frequentare l'Isef, con il padre che aveva sbottato: «Ho cominciato a tirarmi il collo come un grande che non avevo ancora sette anni, e dovrei mantenerti ancora?». E allora, «al diavolo la ginnastica»: per orgoglio, per rabbia, per mettersi in gioco entra subito in fabbrica. Lo sfondo è la "Città rossa", cioè Reggio Emilia, l'anno è il 1968: mentre una generazione prova a immaginare la rivoluzione, la ventenne Grisendi, apprendista operaia, si ritrova a ritagliare con le forbici modelli di abiti per bambine, 11 ore di lavoro al bancone, le mani che «facevano un gran male». Però niente piagnistei. C'è piuttosto un minimalismo narrativo che non nasconde la durezza del lavoro, ma la assimila come una prova costante per la propria volontà. E che con pochi tratti riesce a dipingere il clima di quella stagione, mentre incombe l'autunno caldo, in cui uomini e donne, nelle aziende, cercano insieme di sfuggire a «un retroterra di sfruttamento e di fatica». L'ingresso nella Cgil arriva quasi subito, con l'assunzione in ospedale come «impiegata archivista del reparto di radiologia, ma con la qualifica di inserviente». Dequalificata, insomma. Senza tessera di partito, che arriverà poco più tardi con l'iscrizione al Pci di Enrico Berlinguer, ma già combattiva; e subito appassionata all'idea di condividere le angosce e le speranze della sua comunità, la vicinanza con le persone che rivendicano gli stessi diritti. Perché «c'è chi nasce con la propensione per gli affari, chi con la vocazione religiosa e chi con il genio dell'artista. Ma c'è anche chi scopre di provare interesse per i problemi degli altri, per farsene carico senza perseguire utili personali», nel nome di un «comandamento laico» che si oppone alle ingiustizie. Scritte oggi, nell'età della felicità privata, dell'egoismo esibito, espressioni come questa sembrano un anacronismo. Archeologia della moralità del lavoro. Sentimenti usurati dalla modernizzazione vertiginosa dell'Italia dell'anti-politica. Ma è inutile indulgere al rimpianto per quegli anni in cui la solidarietà collettiva rappresentava un terreno su cui praticare la politica direttamente, con la percezione immediata dei ruoli e degli schieramenti. Era un mondo più semplice, certo. Destra, sinistra, padroni, lavoratori. Tuttavia anche quel mondo era difficile, irto, ricco di continue sfide anche personali. Basta seguire la "carriera" dell'autrice, divenuta nel 1976 sindacalista a tempo pieno, per condividere talora con commozione le sue ansie, il desiderio di mettersi alla prova, il tremore ma anche la consapevolezza con cui accetta incarichi che le appaiono superiori alla sua preparazione, e quindi la dedizione assoluta verso la "famiglia rossa" e le persone da essa riunite. Il suo soprannome è Niki Lauda, per la sua velocità nella pista cigiellina. Funzionario a tempo pieno nella Val d'Enza, dopo un corso di formazione di 20 giorni nel centro della Cgil ad Ariccia. Comizio d'esordio, il Primo maggio del 1977, dopo giorni di terrore al pensiero di salire su un palco. L'impegno femminista, nello sforzo di aprire il sindacato ai problemi delle donne, la lotta contro i turni di notte, la battaglia per la legge sull'aborto anche contro le prudenze del Pci. La crescita nei ranghi del sindacato, fino all'assunzione di un ruolo di rilievo nella Fiom locale: una donna (una donna!) a capo dei metalmeccanici. Poi succede qualcosa. Qualcosa di indefinito. Un dito lasciato inavvertitamente nel rapporto fra la componente comunista e la minoranza socialista della Cgil. Mezze calunnie come refoli di vento fra i corridoi del sindacato. Troppo "di destra", la Grisendi? Un capo che le nega la fiducia, l'emarginazione, gli sguardi distolti dai compagni, il saluto dissimulato. È la parte del libro destinata a suscitare più discussione, forse fastidio: per la sincerità con cui è raccontata, ma anche perché apre uno squarcio su una realtà di gelosie, di acredini, di giochi e trappole che colpiscono non solo una sindacalista ma una persona. Se nei primi capitoli il libro non si negava qualche ricordo scanzonato, venato di simpatia e di ironia sulle amicizie, sulle donne conosciute nel sindacato, sulle giornate passate alla libreria Rinascita della Città rossa, sulla grande politica e gli esponenti nazionali che illuminano con il loro carisma le feste dell'Unità (le figure di Amendola, Nilde Iotti, Lama, Bertinotti), dopo c'è solo il buco nero del conflitto interno, qualcosa che assorbe tutte le energie, che umilia e svuota. Verso la fine del suo racconto, Grisendi è sopraffatta da una sconfitta immeritata, anzi, insensata: «Non avevo più nulla a cui aggrapparmi. Il capo della Cgil della Città rossa aveva vinto la sua guerra contro di me. Una piccola dirigente che contava poco, che non poteva fargli ombra, ma che si rifiutava di prendere ordini e che, infine, era una donna». Già, una donna. Ma una donna ambiziosa, "frazionista", sotto accusa perché additata come segno di divisione. «Tutto questo», scrive Grisendi, «non si vede quasi mai (...). Vige la ferrea legge del silenzio, perché l'interesse della famiglia viene prima di tutto, a volte prima del rispetto che si deve a ogni persona». Qualcuno potrebbe usare la parola "stalinismo". L'autrice non lo fa. Il suo libro si chiude con il 1983, l'anno in cui lascia l'Emilia per un ruolo con la Cgil nel Veneto: «A restituirmi la mia casa, fu la serenissima Venezia». Oggi, con questa confessione pubblica, una piccola storia può gettare luce anche sulle regole e le abitudini di una grande organizzazione, sulle sue incoerenze, sulle «umane debolezze di molti suoi dirigenti»: e sulla speranza non completamente tradita né perduta di una ragazza rossa che nonostante tutto non ha smesso di appartenere al suo mondo.
L'Espresso, 08/05/2003
Abolire il 1° maggio?
L'hanno già detto che alle manifestazioni del Primo maggio sono previste troppe bandiere rosse? Ce n'erano troppe nelle manifestazioni pacifiste, secondo l'acuta sensibilità cromatica della Casa delle libertà, e quindi è logico aspettarsi che anche la festa dei lavoratori sia inquinata dalla criminalità del comunismo e dei suoi residui. Il 25 aprile è soggetto ormai da tempo a un attacco "revisionista", ispirato dall'idea di equiparare anche politicamente le vittime dell'una e dell'altra parte. Quanto alla Costituzione, l'arguzia interpretativa di Silvio Berlusconi ne ha già messo in luce le infezioni sovietiche. Sembrerebbero boutade non perfettamente riuscite. Oppure pulsioni revansciste da parte della destra più pugnace. In realtà sono il frutto di un disegno politico, e anche piuttosto scoperto. Perché l'aggressività verso le date e i simboli della sinistra non risponde all'intento di ripristinare verità storiografiche su cui si sono inevitabilmente impressi retoriche e stereotipi: in sé non c'è nulla di sacrilego nel ripercorrere i momenti di frattura nazionale, di guerra civile, di scontro di classe, di crudeltà politica o privata che hanno costellato le vicende cruciali del nostro Novecento, di cui la lotta di liberazione è un esempio. Così come è perfettamente legittimo riconsiderare il confronto fra democristiani, laici e comunisti che portò alla stesura della carta costituzionale («Il primo compromesso», secondo Norberto Bobbio). Solo che la storia va interpretata e compresa, non brandita e usata. Mentre alcuni settori del centrodestra ne fanno un uso politico spregiudicato. Più ancora alcune frange di Forza Italia che non Alleanza nazionale. Il fatto è che dentro An il risentimento anticomunista e antipartigiano trova una sua origine nelle vicende che hanno coinvolto i progenitori di quel partito, e nel lascito di memorie e rancori di una guerra civile combattuta dalla parte sbagliata, che Gianfranco Fini cerca di coprire con il silenzio. E non va dimenticato che il Movimento sociale è stata l'unica forza politica esclusa, salvo imbarchi strumentali, dall'arco costituzionale e dalle tessiture politiche "consociative", cioè dalla fondazione e dalla prassi politica della Repubblica: e anche su questo argomento An non ama passare per un plotone di guastatori. Risulta più interessante sul piano politico l'anticomunismo di Berlusconi, che ormai assomiglia sempre più all'antisemitismo dei giapponesi. Eppure sarebbe sbagliato attribuire l'animosità permanente del capo del governo contro un nemico scomparso a una sua nevrosi culturale. Tutt'altro. È più probabile che si tratti di un calcolo a freddo. Il leader di Forza Italia infatti ha un interesse primario nel fissare in chiave ideologica la divisione politica fra gli elettori. Di qua ci siamo noi, la Casa delle libertà. Dall'altra parte c'è tutto quello che noi odiamo: lo statalismo, il professionismo politico, i funzionari sindacali, il richiamo irritante alle regole, i giudici, il settore pubblico, il sociale. Basta riunire tutto questo sotto l'etichetta del "comunismo", per scavare una trincea nel bipolarismo. Si tratta di lanciare un messaggio martellante ai cittadini, per rievocare vecchie pregiudiziali e per rinfocolare l'idea che da una parte c'è il culto e la virtù della libertà, e dall'altra il vizio dottrinario. D'altronde, è vero o no che nel centrosinistra sono rimasti soltanto quei cattolici che erano più disposti a patteggiare con il Pci? È vero o no che partigiani comunisti si sono macchiati di imprese esecrabili? È vero o no che la Costituzione risente di mediazioni sociali tali da renderla un documento non ascrivibile all'integralismo liberale? È tutto quasi vero. In quel "quasi", tuttavia, è racchiusa la pesantezza e la drammaticità della storia. Nella verità rivendicata dai berlusconiani è implicita la strumentalizzazione del passato per rovesciarlo sul presente. Hanno ragione loro, naturalmente: è utile e conveniente ricordare che il movimento operaio non è mai stato un campione di liberalismo: troppo rossi, i lavoratori, troppo legati a un'idea di riscatto egemonizzata dai comunisti. E allora, se riscrivere la Costituzione è un'impresa troppo complicata, se riadattare i libri di storia richiede tempo, forse è il caso di abrogare il Primo maggio. O almeno di trasformarlo in una parata di reduci e di sconfitti, insieme a quell'Italia minoritaria che si ostina a non credere alle grandi ricette ideologiche della destra superliberale.
L'Espresso, 30/04/2003
Divisi si può resuscitare
L'aveva confessato a qualche amico: vorrei fare un piccolo botto nel centro-sinistra. Michele Salvati, docente di Economia politica a Milano, ex deputato ds, intellettuale di riferimento e militante della sinistra moderata e mugugnante, ha scritto in un pomeriggio le 14 cartelle del suo appello politico. Ha telefonato a Giuliano Ferrara, gli ha spiegato di che cosa si trattava, e il giorno dopo il manifesto "salvatico" per la ristrutturazione del centro-sinistra e il lancio del partito democratico campeggiava in una pagina del "Foglio". Tesi: bisogna spostare al centro l'equilibrio della coalizione. Sintesi: aggregare i riformisti moderati della Margherita e di una parte dei Ds, lasciare a sinistra i riformisti radicali, con cui stringere un accordo politico- elettorale successivo. Dopo di che, è cominciato il diluvio. Salvati, ma che cosa le è saltato in mente? Non si fa così, si coinvolgono gli organi, si presentano le mozioni, si discute nelle sedi dovute. «L'appello per il partito democratico è nato da un'irritazione formidabile, nata dalla percezione di un'impotenza. Avevo visto il documento preparato da Bruno Trentin per la conferenza programmatica dei Ds a Milano, e mi erano cadute le braccia. Non per la qualità del lavoro di Trentin, ma perché era il solito tentativo di tenere insieme tutto. Cioè fare sul piano del programma quello che Fassino fa sul piano del partito. Inoltre, secondo motivo, c'era stato il rinvio dell'assemblea ulivista del 13 aprile, e la rabbia è aumentata». E allora si è detto: squilli la tromba. Ma la politica non si fa con gli stati d'animo. «Tuttavia di fronte all'impotenza della coalizione ci voleva un cireneo che provasse ad alleviare il Calvario. Vede, la condizione del centro-sinistra è disastrosa per una quantità di ragioni, che interagiscono tutte: se manca il leader, e il leader in effetti è lontano, restano solo partiti e partitini, con le relative rendite di posizione. Prevale una logica da sistema proporzionale». Ammetterà che è difficile convincere il proprio partito che deve scindersi. «Gliel'ho detto, è stata una decisione d'impulso. Se avessi avuto modo di pensarci di più, se mi fossi consultato con qualche politico amico, se, se se: non l'avrei più scritto, il mio documento». Ma i dietrologi sostengono che dietro la sua operazione ci sia la mano del grande assente. «Chi, Romano? Prodi? Ma per carità. Se vogliamo parlare seriamente, le dico quali sono le ragioni politico-culturali che stanno dietro la mia riflessione». Era più stuzzicante se c'era la manina. «Preferisco parlare di storia. E di architettura. Dunque, sul piano storico il documento sul partito democratico nasce da una lettura della crisi italiana dal 1992 in poi. Ma anche dalla mia storia personale. Da ragazzo ero un seguace di Lelio Basso, poi sono stato operaista, ho partecipato alla vicenda dei "Quaderni rossi", poi mi sono dato al radicalismo dei "Quaderni piacentini"...». Tutti sforzi tipici di stare a sinistra senza identificarsi con il Pci. «Può darsi. Sta di fatto che il Pci ha avuto un pesante ruolo storico nell'impedire la nascita di un partito socialista riformista. Era proprio la sostanza del partito comunista a impedire un'evoluzione socialdemocratica ragionevole e proponibile alla società italiana come alternativa elettorale e politica». Il Pci non c'è più, se quello era il problema. «Ma la storia lascia eredità importanti. Dobbiamo pensare che mentre Craxi tra la fine degli anni Settanta e l'avvio degli Ottanta abbandona il massimalismo, lancia il "progetto socialista", ovvero un'ipotesi di modernizzazione da sinistra, il Pci fa consociativismo, e nello stesso tempo difende le ragioni della propria diversità e si autoesclude». Vuole dire che oggi scontiamo ancora gli effetti di quello che Giuliano Amato e Luciano Cafagna chiamarono "duello a sinistra"? «Ma non c'è dubbio. Comunisti e socialisti arrivano al redde rationem mentre sono entrambi in sfacelo. Il Psi evapora, mentre Achille Occhetto sposa il populismo». Si riferisce a Tangentopoli? «Agli inizi dei Novanta nel sistema politico c'era un'autentica nevrosi, e si è scatenata una canea populista. Ora, nel populismo sai come entri ma non sai come esci: può andarti bene ma possono venirne fuori anche Berlusconi e Bossi. La divisione nella sinistra attuale è il frutto di un modello analogo: la contrapposizione fra riformisti e radicali rappresenta l'irriducibilità di alcune matrici politiche che tendono a perpetuarsi». Vada per la storia. Ma per quanto riguarda l'architettura? «Bisogna valutare fino in fondo se abbiamo capito il sistema maggioritario, anzi, il sistema dell'alternanza. Primo punto: si compete per vincere le elezioni, non per incrementare i propri voti al proporzionale. Secondo, sono convinto che il formato del centro-sinistra è anomalo perché ha il baricentro fuori asse. Perché il centro-sinistra possa vincere occorre un partito che sia un grosso dirimpettaio del partito di Berlusconi. Guidato da una personalità che non si sia formata nel vecchio partito comunista. In modo che il centro-sinistra non appaia l'ennesima metamorfosi del Pci». Detto così sembra che occorra solo una dichiarazione di resa. «No. Alcuni processi sono avvenuti. Il Partito popolare il suo sforzo lo ha fatto: è confluito nella Margherita e si è schierato a sinistra, nella massima chiarezza. Nei Ds invece non c'è stato nessun processo di rinascita, di cambiamento di sostanza. D'Alema aveva un progetto, ma era quello di tenersi il corpaccione del partito, con tutte le sue anime, pensando di risolvere i problemi in chiave di leadership e di azione governativa. È andato nel Kossovo, alla City ha annunciato una rivoluzione liberale, si è scontrato con il sindacato e Cofferati sullo stato sociale. Soprattutto il Kossovo, è stato importante perché i socialdemocratici con la guerra maturano dei crediti...». Fin da quando i socialisti tedeschi votarono i crediti per la Grande guerra. «C'è sempre una certa ironia nella storia: corsi e ricorsi. Ma se ci si illude di poter proseguire passo dopo passo, oggi un successino alle amministrative, domani il 22 per cento alle europee, dopodomani l'immancabile trionfo, si fa la fine della contadina che va al mercato con la ricottella sulla testa, immaginando di venderla e di diventare ricca con una serie immaginaria di successi commerciali a catena. Poi la ricotta si spiaccica per terra, e tanti saluti ai sogni». Fine del partito ricotta. «C'era una razionalità presunta, nei calcoli dalemiani, ma era tutta ipotetica: se mia nonna ha le ruote, D'Alema dura vent'anni e di Ulivo non si parla più». E si deve ricominciare da capo. Il leader, il formato della coalizione, il programma. Con Cofferati che invece dice: prima il programma, poi il resto. «Guardi, non per cinismo, ma nel mio giudizio il programma è piuttosto indifferente. Ciò che conta è il messaggio. E la leadership. Sapere che cosa si vuole dire al Paese, e farlo dire a un leader che risulti persuasivo». Lei sostiene che Prodi deve diventare il segretario del partito democratico futuro, e di riflesso il capo dell'alleanza di centro-sinistra. Ma come si fa a impostare una politica su una sola carta, su un solo uomo? «È un rischio, come no. Ma le nostre carte al momento sono queste. D'altronde, le reazioni nel centro-sinistra sono state semiautomatiche. Rutelli per ora non si è fatto vivo. La base diessina come al solito parla della "fuga in avanti di Salvati". Cofferati sta zitto e sornione perché il mio appello gli va benissimo, dato che gli lascia in amministrazione tutto il patrimonio del radicalismo politico-sociale». E se non il programma, il messaggio quale sarebbe? «Meglio che non dica nulla, perché se fosse per me tirerei fuori un messaggio "azionista", e quindi perdente. No, credo che occorra essere capaci di enunciare un ventaglio di scelte radicali nell'impostazione e intelligentemente moderate nell'applicazione». In sostanza, i Ds si spaccano o no? «Ma neanche per sogno. Come succede spesso nei partiti, la leadership diessina è molto più sensibile ai militanti che non ai votanti. Il problema, forse, è tutto qua».
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