L’Espresso
L'Espresso, 13/03/2003
Laboratorio per apprendisti stregoni
I più sottili esegeti della Rai hanno sempre sostenuto che le rotture d'assetto nella televisione pubblica costituiscono il preludio di crisi politiche incombenti: come se nel consiglio d'amministrazione e negli organi direttivi le tensioni politiche fra i partner di governo si scaricassero liberamente, indifferenti alle alchimie di alleanza, rivelando la portata conflittuale implicita negli equilibri di maggioranza. In effetti il mondo apparentemente piccolo della Rai rappresenta un laboratorio per apprendisti stregoni, dove le guerre politiche si svolgono senza la schermatura degli accordi fra i partiti. Fino a qualche settimana fa sembrava che il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, e il suo partito, l'Udc, si fossero malamente incartati. Anziché provocare la caduta del Cda, l'uscita del consigliere centrista Staderini aveva determinato uno stallo penoso; gli osservatori più realisti pensavano che alla lunga l'unica soluzione praticabile sarebbe stata quella del reintegro del consiglio, alle condizioni di Berlusconi e Bossi, non a quelle dei postdemocristiani. Ma i realisti non tenevano conto di due aspetti complementari. Da un lato la pazienza temporeggiatrice di Casini, dall'altro il cupio dissolvi attivistico del duo Baldassarre-Albertoni. Al presidente della Camera è stato sufficiente dare retta alla sua indole politica, aspettando con fiducia l'incidente che avrebbe fatto cadere il Cda; mentre i due consiglieri residui hanno inanellato una serie di gaffe stralunate, ultima la decisione estemporanea di trasferire a Milano la direzione di Raidue, offrendo di fatto la propria testa. Una volta risolta la vicenda del Cda, resteranno nel corpo del centrodestra le ferite inferte da una battaglia cruenta. Non tanto l'incomunicabilità infastidita che ormai caratterizza i rapporti fra Casini e Pera, e nemmeno l'insofferenza aziendalistica di Berlusconi per le manovre dell'Udc: in termini politici, la battaglia della Rai ha messo in luce, più che la fisiologia dei rapporti contraddittori dentro la Casa delle libertà, la patologia dell'equilibrio complessivo con la Lega. Questa è l'eredità vera della partita-Rai. Lasciato a gestire da solo il patto con Bossi, Berlusconi (con la sua longa manus Tremonti) tende a concedergli praticamente tutto, squilibrando gravemente la coalizione agli occhi dell'Udc e di An. Bossi si ritrova un potere di ricatto fuori misura, temperato faticosamente solo dalle cene con il premier. Sotto questa luce, la Rai è stata solo un lungo episodio. Un'altra vicenda intricata la si vede nelle estenuanti trattative per le candidature alle amministrative. È già innescata anche la mina della legge costituzionale sulla devolution. Ed è verosimile che sulla Convenzione europea Bossi, l'uomo che accusò l'Unione di essere una "Forcolandia", possa aprire un contenzioso ad alto potenziale ideologico. Ciò non significa che la Casa delle libertà sia un'alleanza in attesa di demolizione. Significa tuttavia che la solidarietà interna della coalizione di maggioranza non è una certezza teologica, bensì il risultato di una situazione continuamente patteggiata. È vero che Bossi controlla forze elettorali troppo esigue per poter rischiare avventure politiche distruttive come nel 1994. Ma è altrettanto vero che proprio per la sua debolezza numerica deve anche procedere a strappi, per riuscire a mostrare al suo "popolo" i trofei politici che riesce ad aggiudicarsi. Tutto sta nel vedere fino a che punto le forzature bossiane (come il tentativo di imporre in Rai un direttore generale leghista ignoto anche ai più strenui conoscitori del mondo televisivo) potranno essere tollerate dagli alleati. Fra i consiglieri più intimi di Berlusconi, qualcuno già da qualche tempo segnala che il ricatto della Lega dovrebbe essere messo allo scoperto con fermezza, anche senza escludere scenari politicamente audaci come un ribaltone a rovescio, un attacco preventivo, un 1994 anti-leghista. Che non sia fantapolitica lo dimostra proprio la guerra dei nervi, delle mezze verità, dei mezzi agguati e delle ritorsioni intere che ha segnato la defenestrazione del vertice Rai.
L'Espresso, 06/03/2003
Al centro con Nando Meniconi
È stato l'americano, il vitellone, il vigile, il magliaro, l'antidivorzista, il medico della mutua, il detenuto, il tassinaro. Ma forse nell'intimo Alberto Sordi è stato soprattutto il "compagnuccio della parrocchietta", il democristiano di quartiere che si prepara a una carriera di terza fila nello Scudo crociato. Sicché non è proprio agevole stabilire se il Nando Meniconi che distrugge il maccarone sia di destra o di sinistra. È come chiedersi se fosse di destra o di sinistra la Dc, e se è di destra o di sinistra Giulio Andreotti: di centro, di centro, echeggerebbe dall'oblio una folla di democristiani. Avrebbe mai potuto Sordi smentire questo centrismo consustanziale? La sua immagine era quella di un conformismo totale, temperato dall'inclinazione scettica. Grandi princìpi, pochi. La morale convenuta, una maschera per dissimulare peccati tutt'altro che imprevedibili. Il cattolicesimo, un clima respirato fra tonache, porpore, sacrestie. Risultato, l'esatta personificazione di ciò che è "cattolico e romano", sottolineando romano e aggiungendo trasteverino. Per lui, in quanto simbolo dei 12 milioni di albertosordi che assicuravano l'apparente eternità dc, il voto doveva essere semplicemente un automatismo, con il peso della scelta che si scioglieva attraverso una liberatoria croce sulla "Libertas". La cabina come un confessionale; più che una preferenza politica, un ex voto. Alla fine, non era più neanche il borghese piccolo piccolo: era l'uomo qualunque talmente qualunque da non suggerire vocazioni politiche neppure qualunquiste. Del giovane mattatore con i suoi exploit cinici e patetici, sentimentali e ricattatori, restava talvolta un'occhiata di sbieco: e a quell'occhiata bisogna rifarsi per immaginare che cosa avrebbe detto, in privato, dell'Italia che crede in tutto, nelle "tre i", nella mentalità "vincénte" e perfino, come avrebbe detto lui ai tempi dell'avanspettacolo, nella "devolusciòn".
L'Espresso, 13/02/2003
Il prezzo dell’avventura
Nel programma della Casa delle libertà la separazione delle carriere non c'è. E se anche ci fosse è tutto da dimostrare che il sempre evocato popolo, votando per il centrodestra, avrebbe dato il suo imprimatur a quello specifico tema, "ungendo" di consenso la riforma del sistema giudiziario. L'idea che il voto dei cittadini possa tradursi direttamente in leggi è infatti uno dei capisaldi dell'azione populista. Ora, l'accusa di populismo non piace al centrodestra, anche se al suo interno ci sono partiti come la Lega e Alleanza nazionale, nonché alcuni settori di Forza Italia, che hanno sempre manifestato un'esplicita vocazione in questo senso. Ma nel caso delle riforme annunciate o minacciate contro la "corporazione" dei giudici il populismo è al massimo uno sfondo, non il motore politico dell'azione di Berlusconi. L'aspetto implicitamente più distruttivo è reso evidente dalla successione degli avvenimenti. La Cassazione, interpellata in base alla legge Cirami, si riunisce, esamina e sentenzia respingendo la richiesta di legittimo sospetto su Milano. Immediatamente, la suprema corte, a cui prima si riconosceva da destra un'altissima competenza giurisprudenziale, viene ridimensionata a semplice componente di un blocco corporativo. L'offensiva berlusconiana non si ferma davanti a nulla: se non c'è un giudice neppure a Berlino, ci sarà a Helsinki, o a Capo Nord; oppure in un sistema giudiziario alternativo, ancora tutto da costruire. Ciò che non smette di sorprendere è il riflesso collettivo che afferra l'intera Casa delle libertà allorché risuona lo squillo di tromba berlusconiano. Nel volgere di poche ore tutto il personale politico di maggioranza si è schierato a tutela del capo, presentandolo come la vittima di un potere irresponsabile. Su questi argomenti il leader supremo non consente defezioni: quindi scatta un coro di sostegno indiscriminato, esente dalla minima obiezione. La Casa delle libertà diventa una macchina da guerra. L'effetto distorsivo sull'equilibrio istituzionale è patente. Ma anche le conseguenze politiche sono pesantissime: se, come un sol uomo, il centrodestra dichiara che è ora di risolvere una volta per tutte il "problema" giudiziario, la prospettiva che viene agitata è quella di uno sfondamento costituzionale; e nel medesimo tempo la controparte di centrosinistra viene consegnata a un mesto ruolo di conservazione. Lo stesso meccanismo era stato innescato con il progetto della riforma presidenzialista: con una indubbia efficacia sul piano pubblico, ma con palesi forzature strumentali. È perfettamente comprensibile infatti che Berlusconi avverta la necessità di mobilitare di continuo il consenso intorno alla propria figura, soprattutto se i risultati dell'esecutivo, fuor di propaganda, appaiono mediocri; e ciò anche se non si capisce bene che cosa manchi ancora alla Casa delle libertà per poter esprimere una chiara capacità di governo. Non i numeri alle Camere, non la coesione parlamentare, quando occorre; non c'è la minima possibilità, fra l'altro, che possano verificarsi ribaltoni (per il presidente della Camera saranno un «cancro della democrazia», ma al momento la salute della maggioranza, da questo punto di vista oncologico, non corre alcun rischio). Si vede piuttosto una strategia unilaterale, tesa a determinare una divisione manichea fra i riformatori presunti, i grandi innovatori istituzionali, e gli avversari delle riforme, cioè i conservatori, se non i reazionari, dell'opposizione. Le conseguenze saranno formidabili per tutta la Casa delle libertà, che verrà investita dal soffio vitale della mobilitazione politica permanente, mentre il derelitto Ulivo di questi tempi dovrà rassegnarsi a svolgere un faticoso e frustrante ruolo di interdizione. Solo che tutto questo ha un nome e un prezzo: il nome è avventurismo, e il prezzo è l'avvio di una stagione di distorsioni istituzionali. Cioè di "sbreghi" costituzionali, come a suo tempo li chiamava Gianfranco Miglio, auspicandoli; di inquietanti concentrazioni di potere, per coloro che temono l'uso improprio, cioè tutto politico, delle riforme dettate dal leader.
L'Espresso, 30/01/2003
Cattolici, indietro tutta!
Fra le molte dichiarazioni ovvie, o almeno facilmente prevedibili, contenute nelle 15 pagine della "Nota dottrinale" emanata la settimana scorsa dal cardinale Joseph Ratzinger, se ne trova almeno una che proprio ovvia non è. E che anzi potrebbe avere conseguenze profonde sia sull'atteggiamento della Chiesa verso la politica sia, simmetricamente, sul modo in cui i cattolici si schierano politicamente. È inutile ricordare che la Chiesa fa il suo mestiere quando conferma le proprie posizioni su materie come la bioetica, la difesa della vita umana, la salvaguardia della famiglia «fondata sul matrimonio tra persone di sesso diverso». A molti potrà apparire anacronistico il rifiuto delle leggi sull'aborto e soprattutto sul divorzio: ma d'altra parte sarebbe grottesco chiedere al cardinale Ratzinger, che pure è un uomo ricco di spirito e ironia, di rinunciare con un couplet intellettuale ai cardini del magistero cattolico. Ciò che invece colpisce, nel documento del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, è una sottolineatura pesante sul ruolo delle organizzazioni cattoliche. Ratzinger infatti sanziona come «non compatibile con l'appartenenza ad associazioni cattoliche» esprimere «orientamenti a sostegno di forze politiche che su questioni etiche fondamentali hanno posizioni contrarie all'insegnamento della Chiesa», riferendosi in particolare alle strutture associative, ma anche a periodici e riviste che «hanno orientato i loro lettori in occasione di scelte politiche in maniera ambigua e incoerente». Sembra di risentire sullo sfondo l'eco di un "non expedit". Vale a dire che se si dogmatizzano i nodi etici, del rapporto fra credenti e politica, ai cattolici coerenti non è lasciata nessuna autonomia di giudizio e conseguentemente di azione. Per la situazione italiana le conseguenze possono essere dirompenti, e non solo per il centro-sinistra. È vero infatti che i cattolici nell'Ulivo si trovano spesso a misurare in modo conflittuale le proprie convinzioni con quei settori laici che sulle materie più controverse della bioetica e della libertà individuale sostengono posizioni non compatibili con il magistero ecclesiastico. Ma finora, anche sulla scorta di documenti conciliari come la "Pacem in terris" (la prima enciclica che distingueva fra "errore" ed "errante", offrendo le premesse per il dialogo), i cattolici avevano potuto appellarsi alla possibilità di ridurre il danno di leggi non accettabili dal precetto religioso. Oggi invece Ratzinger, attestando che la democrazia implica «una retta concezione della persona», stabilisce che su questo punto non è possibile alcun compromesso. Che la "Nota" dell'ex Sant'Uffizio sia rivolta al mondo intero, e non solo all'Italia, non cambia il suo significato e le sue implicazioni. Semmai li dilata a dismisura. Lo ha colto con nettezza Massimo Cacciari, che ha immediatamente segnalato come il richiamo del cardinale Ratzinger contro il relativismo etico metta in secondo piano il potere di un «pensiero unico dominante» fondato sull'individualismo, la fede cieca nella tecnica, la dittatura dell'economia. (Per restare al cortile domestico, e a voler essere radicali, l'ossequio formale di Umberto Bossi sulla famiglia tradizionale, o i progetti berlusconiani e morattiani a favore della scuola privata, rappresentano solo un maquillage cattolicizzante rispetto a una concezione largamente secolarizzata). E allora, a che cosa ci si può preparare, in base ai dettami del cardinale Ratzinger? A una nuova separatezza dei cattolici rispetto alla partecipazione politica? A una specie di nuovo patto Gentiloni, attraverso il quale il cattolicesimo agirebbe sostanzialmente per delega, restando ai margini della vita pubblica, e limitandosi a contrattare di volta in volta il proprio appoggio a un partito o a uno schieramento? Considerate alla lettera, le parole di Ratzinger implicano solo due possibilità: la presa di distanza dei cattolici dalla politica, per un verso; oppure la ricostituzione di una presenza unitaria di tipo confessionale. In entrambi i casi, la soluzione ha tutto l'aspetto di un passo a ritroso.
L'Espresso, 10.04.2003
Il divorzio breve nella Casa delle libertà
Sono passati sedici anni da quando la legge sul divorzio fu modificata, portando da cinque a tre gli anni che devono passare fra la separazione e il divorzio stesso. Dal 1987 a oggi, cioè da quando la riduzione del periodo di attesa venne approvata (con il voto favorevole della Dc), la società italiana ha vissuto una specie di rivoluzione, nei valori, nel costume, nelle abitudini. Quindi, l'ulteriore modificazione, avanzata dalla parlamentare ds Elena Montecchi, che riduce a un anno il periodo fra separazione e divorzio, ha l'aspetto di una semplice iniziativa di adattamento delle norme alla realtà e alle esigenze delle persone. Tutti i motivi che vengono segnalati a favore del nuovo intervento legislativo appaiono ispirati alla ragionevolezza: la durata teorica dei tre anni di attesa si allunga a dismisura nella prassi, fino a toccare i sei-otto anni; le coppie disintegrate sono costrette a sopportare il peso di una sofferenza psicologica e materiale che nel caso della parte generalmente più debole, le donne, si può tradurre in ingiustizie e autentiche vessazioni; i labirinti burocratici impediscono la stabilizzazione delle nuove coppie formatesi dopo la separazione, e i ritardi si ripercuotono in modo umanamente critico sulla possibilità di avere figli nell'ambito di una nuova unione civilmente regolata. Tutto ciò considerato, è ovvio auspicare che la trasformazione legislativa avvenga con rapidità, e anzi si può presumere che in sede parlamentare la nuova norma trovi un'ampia maggioranza trasversale. Eppure l'iniziativa di legge ha incontrato immediatamente davanti a sé un muro di obiezioni. In parte prevedibili, come nel caso delle critiche provenienti dall'"Osservatore romano", puntate sull'"assurdità" del cambiamento legislativo, o da parte del presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, che ha denunciato il tentativo di rendere «ancora più fragile la tutela giuridica della stabilità del matrimonio». Le parole di Ruini sono studiate con accortezza, nel senso che reclamano la protezione non di un valore religioso (l'indissolubilità), bensì un bene sociale (la stabilità delle famiglie). In questo senso, risulta difficile accusare il presidente della Cei di integralismo. Tanto più che in Parlamento l'opposizione alla legge-Montecchi è rappresentata non tanto dal partito di esplicita ispirazione cattolica, l'Udc, quanto da esponenti politici appartenenti ai due partiti estremi della Casa delle libertà, ossia Alleanza nazionale e la Lega, da cui si alzano voci che invocano la difesa della famiglia. Ora, che esistano ancora punti di vista secondo cui la famiglia va difesa mantenendo la difficoltà di divorziare, magari fino al punto di difendere famiglie già disintegrate, sembrerà una bizzarria. Ma è una bizzarria apparente, che rivela qualcosa di significativo sulla concezione della società e della libertà che alligna in alcuni settori del centrodestra. Al punto che l'ipotesi di riduzione dei tempi, e del danno postmatrimoniale, non è nemmeno un test di laicità a cui viene sottoposta la classe politica italiana. È più semplicemente un test di saggezza comportamentale, una prova della sua capacità di leggere e comprendere la realtà sociale del nostro paese. Certo, risulterebbe paradossale se un'alleanza politica propostasi come l'interprete della modernizzazione italiana scegliesse su questa materia una posizione reazionaria, magari neanche palese, semplicemente facendo attrito, introducendo emendamenti, paralizzando tortuosamente l'iter legislativo. Elena Montecchi ha parlato di una misura di civiltà; ma può darsi che non sia nemmeno il caso di richiamare parole così impegnative. Basterebbe richiamarsi alla razionalità, alla trasparenza, all'efficacia intrinseca delle norme. Mentre i suoi oppositori dovrebbero spiegare quale idea dell'Italia hanno in mente: un paese che cura gelosamente l'idea organica dell'indissolubilità famigliare? Una società di valori antichi da custodire in una specie di serra? L'impressione è che fra le mura della Casa delle libertà, a dispetto di Popper e nonostante tutto, ci sia ancora qualche occhiuto sostenitore della società chiusa
L'Espresso, 10.04.2003
Il divoorzio breve nellla Casa delle libertà
Sono passati sedici anni da quando la legge sul divorzio fu modificata, portando da cinque a tre gli anni che devono passare fra la separazione e il divorzio stesso. Dal 1987 a oggi, cioè da quando la riduzione del periodo di attesa venne approvata (con il voto favorevole della Dc), la società italiana ha vissuto una specie di rivoluzione, nei valori, nel costume, nelle abitudini. Quindi, l'ulteriore modificazione, avanzata dalla parlamentare ds Elena Montecchi, che riduce a un anno il periodo fra separazione e divorzio, ha l'aspetto di una semplice iniziativa di adattamento delle norme alla realtà e alle esigenze delle persone. Tutti i motivi che vengono segnalati a favore del nuovo intervento legislativo appaiono ispirati alla ragionevolezza: la durata teorica dei tre anni di attesa si allunga a dismisura nella prassi, fino a toccare i sei-otto anni; le coppie disintegrate sono costrette a sopportare il peso di una sofferenza psicologica e materiale che nel caso della parte generalmente più debole, le donne, si può tradurre in ingiustizie e autentiche vessazioni; i labirinti burocratici impediscono la stabilizzazione delle nuove coppie formatesi dopo la separazione, e i ritardi si ripercuotono in modo umanamente critico sulla possibilità di avere figli nell'ambito di una nuova unione civilmente regolata. Tutto ciò considerato, è ovvio auspicare che la trasformazione legislativa avvenga con rapidità, e anzi si può presumere che in sede parlamentare la nuova norma trovi un'ampia maggioranza trasversale. Eppure l'iniziativa di legge ha incontrato immediatamente davanti a sé un muro di obiezioni. In parte prevedibili, come nel caso delle critiche provenienti dall'"Osservatore romano", puntate sull'"assurdità" del cambiamento legislativo, o da parte del presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, che ha denunciato il tentativo di rendere «ancora più fragile la tutela giuridica della stabilità del matrimonio». Le parole di Ruini sono studiate con accortezza, nel senso che reclamano la protezione non di un valore religioso (l'indissolubilità), bensì un bene sociale (la stabilità delle famiglie). In questo senso, risulta difficile accusare il presidente della Cei di integralismo. Tanto più che in Parlamento l'opposizione alla legge-Montecchi è rappresentata non tanto dal partito di esplicita ispirazione cattolica, l'Udc, quanto da esponenti politici appartenenti ai due partiti estremi della Casa delle libertà, ossia Alleanza nazionale e la Lega, da cui si alzano voci che invocano la difesa della famiglia. Ora, che esistano ancora punti di vista secondo cui la famiglia va difesa mantenendo la difficoltà di divorziare, magari fino al punto di difendere famiglie già disintegrate, sembrerà una bizzarria. Ma è una bizzarria apparente, che rivela qualcosa di significativo sulla concezione della società e della libertà che alligna in alcuni settori del centrodestra. Al punto che l'ipotesi di riduzione dei tempi, e del danno postmatrimoniale, non è nemmeno un test di laicità a cui viene sottoposta la classe politica italiana. È più semplicemente un test di saggezza comportamentale, una prova della sua capacità di leggere e comprendere la realtà sociale del nostro paese. Certo, risulterebbe paradossale se un'alleanza politica propostasi come l'interprete della modernizzazione italiana scegliesse su questa materia una posizione reazionaria, magari neanche palese, semplicemente facendo attrito, introducendo emendamenti, paralizzando tortuosamente l'iter legislativo. Elena Montecchi ha parlato di una misura di civiltà; ma può darsi che non sia nemmeno il caso di richiamare parole così impegnative. Basterebbe richiamarsi alla razionalità, alla trasparenza, all'efficacia intrinseca delle norme. Mentre i suoi oppositori dovrebbero spiegare quale idea dell'Italia hanno in mente: un paese che cura gelosamente l'idea organica dell'indissolubilità famigliare? Una società di valori antichi da custodire in una specie di serra? L'impressione è che fra le mura della Casa delle libertà, a dispetto di Popper e nonostante tutto, ci sia ancora qualche occhiuto sostenitore della società chiusa
L'Espresso, 26/12/2002
Libri di testo questione di testa
La questione dei libri di storia "faziosi" è un argomento che all'interno del centrodestra solleva una grande eccitazione. Al punto che viene istintivo considerarla la spia di un atteggiamento più generale: per quale motivo, infatti, dentro la Casa delle libertà qualcuno insorge periodicamente indignandosi per l'impronta di sinistra che certi manuali scolastici manterrebbero, nonostante tutte le "revisioni" dettate dal dibattito storiografico e soprattutto dal mutamento di clima politico-culturale dovuto al successo della linea anticomunista? Il fatto è che il centrodestra ha molte risorse politiche e di potere, ma non possiede una dotazione culturale coerente. Nella Cdl i portatori ufficiali della cultura liberale (i Pera, gli Urbani, i Del Debbio) sono una minoranza schiacciata dal liberalismo fondamentalista di tutti quegli altri che considerano la visione liberale semplicemente come un espediente utile per prendere a bacchettate il centralismo-dirigismo-socialismo-comunismo della sinistra. L'uso strumentale della cultura risulta efficace per mascherare eventuali deficit. Come si è visto in passato, richiesto di quali sarebbero gli intellettuali esclusi dal giro, un uomo come Maurizio Gasparri non ha avuto esitazioni, dopo qualche considerazione sugli uomini non allineati, a fare il nome di Mogol. Per ora in effetti lo sforzo più intenso esercitato dai settori più robusti e animosi della destra è consistito nell'occupare con estrema determinazione le postazioni considerate strategiche, e la Rai ovviamente rappresenta il cuore della possibile egemonia politico-culturale del paese. A patto di sapere a che cosa serve l'eventuale egemonia. Uno storico prestigioso, e culturalmente spregiudicato, come Massimo L. Salvadori ha dichiarato che la destra si prefigge «una guerra civile culturale», a dispetto dei distinguo delle componenti centriste. È un giudizio catastrofico, che tuttavia coglie un aspetto cruciale. Perché in questo momento il centrodestra non sembra interessato a presentare un proprio modello culturale, quanto ad attaccare ogni posizione che a suo avviso sia colpevole di complicità con filosofie di sinistra. Pur avendo vinto le elezioni, e godendo di un governo garantito da un'amplissima maggioranza parlamentare, larghi settori della Casa delle libertà si comportano in campo culturale come se si trovassero ancora all'opposizione, e avvertissero la necessità di smantellare i capisaldi del predominio della sinistra. Se ciò avvenisse attraverso la proposta di riferimenti intellettuali, non ci sarebbe niente di male. Sarebbe anzi interessante se i vari spezzoni del centrodestra trovassero una piattaforma comune, riuscendo a fondere le loro contraddittorie ispirazioni in un modello comune. Ma per ora si assiste soltanto alle dichiarazioni di una cultura dell'ostilità, accomunata più che altro dal desiderio di denunciare i vizi ideologici, veri o presunti, della cultura di sinistra. Proprio questo atteggiamento è un segnale rivelatore del fatto che la Casa delle libertà avrà forse ricomposto un blocco sociale, ma non è riuscita a fissare un blocco culturale, cioè le coordinate di un pensiero politico condiviso. È il vero segno della debolezza intrinseca al centrodestra: una fragilità che viene supplita dal piglio polemico di cattolici conservatori come Antonio Socci, o dal riemergere provocatorio di minoranze intellettuali di destra estrema, ma che non sa esprimersi come messaggio corale, proponibile nel suo insieme alla società italiana. È un fatto che gli intellettuali berlusconiani più esposti, da Giuliano Ferrara a Ferdinando Adornato, costituiscono una pattuglia in prestito alla destra. Sono nati altrove, e hanno trovato una chance anche grazie allo scarso affollamento. Vari esponenti del "partito dei professori" arruolato a suo tempo da Forza Italia, da Giorgio Rebuffa a Saverio Vertone, hanno preso il mare per altre spiagge. Forse, anziché di iniziative shocking, la destra avrebbe bisogno di un laboratorio culturale, per uscire dalla polemica stridula e cominciare a pensare in primo luogo a se stessa.
L'Espresso, 17/12/2002
Il Cavaliere bossizzato
Durante le cene ad Arcore, Silvio Berlusconi si è accorto che Umberto Bossi non è semplicemente un alleato da tenere alla briglia. Dicono gli intimi che il premier nutra perfino un'ammirazione per le trovate politicanti del Senatur, per le sue affabulazioni, per le sue dietrologie. Proprio il tipo da "seconda media, ultimi banchi" che è il target di Berlusconi. Lentamente, agli occhi del leader di Forza Italia la figura di Bossi è cambiata. Prima era il ribaltonista, poi si è trasformato nell'arma per la rivincita elettorale. Infine è bastata una luce flou nel salotto, le chiacchiere davanti alla pietanzina, e Berlusconi ha capito che l'uomo della Lega non è più un socio insidioso, innocuo solo perché temporaneamente incapsulato in un patto di ferro. Il Cavaliere legge le psicologie e i caratteri, si fida del suo fiuto e ragiona secondo il criterio alternativo "è uno di noi, non è uno di noi". Come dimostra il sondaggio che pubblichiamo in queste pagine, sulla devolution la pensa esattamente come la maggioranza degli italiani: una partita di scambio con il suo alleato. Allorché Bossi ha preteso il varo della riforma, cioè il prezzo politico su cui era stata contrattata l'alleanza, i suoi consiglieri più vicini lo hanno invitato a minimizzare. Che saranno mai quelle 11 righe del comma aggiunto all'articolo 117 della Costituzione?, gli ha sussurrato Giuliano Ferrara. Invece Berlusconi non aveva nessuna voglia di abbassare il tono: anzi, ha approfittato del fragore sulla devolution per gettare allegramente il petardo della super-riforma presidenzialista e proporzionalista nel congresso dell'Udc. Il fatto è che gli uomini raccolti intorno a Marco Follini e a Pier Ferdinando Casini costituiscono una pattuglia minuscola quanto a numeri elettorali, ma rappresentano un disturbo politico e culturale. È vero che una farfalla non può sfidare un elefante, ma i centristi se ne stanno lì a testimoniare che gli unici eredi della tradizione sturziana e degasperiana sono loro, non l'esercito secolarizzato e déraciné degli uomini di Forza Italia. È inutile quindi che nei momenti di tensione politica i suggeritori di Berlusconi gli mormorino che la Lega è un'entità residuale, e che in base gli ultimi dati sarebbe decisiva solo in sette collegi del Nord. Va da sé che il Cavaliere pensa che nel lungo periodo Forza Italia è destinata a erodere ulteriormente gran parte del voto leghista; e non lo inquieta certo un partito reduce dallo smacco delle elezioni del 2001, quando mancò la soglia di sbarramento nel proporzionale, nonché privo di risorse comunicative efficaci (anche nella struttura delle reti e dell'informazione Rai, la neo-lottizzazione ha neutralizzato il peso degli uomini della Lega ponendo in postazione simmetrica altrettanti esponenti di Alleanza Nazionale). Ma in attesa che il pesce grosso mangi il pesciolino, Berlusconi vede la Lega come un partito cugino dal punto di vista della composizione sociale; e considera Bossi come un alter ego popolano, incapace di distinguere fra le complicazioni della posateria, ma singolarmente in sintonia con la sua visione politica. Questione d'istinto: entrambi infatti, Berlusconi e Bossi, sono i battistrada di un processo politico che Giuseppe De Rita nel suo ultimo saggio ("Il regno inerme", Einaudi) ha definito "de-istituzionalizzazione". Ciò significa che, in quanto lombardi, pragmatici fino alla spregiudicatezza più estemporanea, rodomonteschi quel tanto che occorre per fare la faccia cattiva agli avversari esterni e interni, e soprattutto largamente indifferenti alle convenzioni istituzionali e protocollari, Bossi e Berlusconi condividono in primo luogo un'idea semplificatoria della politica: esiste il leader, ed esiste il popolo che ne legittima il carisma. Nessuna articolazione intermedia fra il capo e la moltitudine atomizzata che assicura il consenso. L'Umberto mobilita i suoi con le ricostruzioni fantapolitiche sbraitate a Pontida; il Cavaliere riassume nelle sue ricorrenti boutade i sentimenti popolari come il rancore per la grande impresa in crisi, oppure il lassismo benevolo e "pratico" per i lavoretti in nero e i giochi di prestigio con le fatture e l'Iva. Non si può certo dire che Umberto Bossi si sia berlusconizzato: piuttosto è Berlusconi a essersi "bossizzato", grazie anche ai buoni uffici di Tremonti e ai suoi exploit filosofici. Tuttavia il risultato non cambia: una parte di Colbert, due parti di deregulation brevi manu, un annuncio di New Deal, una trovata sui conti pubblici, un federalismo o la va o la spacca. C'è un nuovo partito, forzista e leghista insieme, sguaiato e manageriale: e tutti gli altri, da Fini a Follini, sono avvisati.
L'Espresso, 28/11/2002
S’avanza il cattolico da combattimento
Di nuovo, nel panorama culturale italiano, non ci sono solo i "new" global. C'è anche una figura particolare di cattolico, il quale è "new" nel senso che in precedenza non ha mai avuto un rilievo particolare sulla scena pubblica. Nella nostra storia politica, la figura culturalmente prevalente del cattolico è stata identificata quasi sempre nell'esponente della sinistra: vuoi nella variante del democristiano progressista, il "cattolico democratico" o il dossettiano, vuoi nell'espressione del cattolico del dissenso, vicino al Pci, spesso inquadrato nella pattuglia degli indipendenti di sinistra. Negli ultimi anni invece, dopo il tramonto della Democrazia cristiana e il rattrappimento del Partito popolare, è emersa una figura inattesa: cioè il portatore di una specie di orgoglio cattolico, rivendicato come un'identità che si nega alle mediazioni. Un cattolico esplicitamente di destra, o almeno connotato da una fortissima opposizione alla sinistra. L'anticomunismo democristiano, che in precedenza si era sviluppato soprattutto in chiave di concorrenza al Pci sul piano sociale, è divenuto progressivamente uno stigma in sé. Chi ha assistito almeno a qualche passaggio del programma di Antonio Socci, "Excalibur", è rimasto colpito dall'intenzione esplicitamente revanscista di certe concatenazioni di pensiero. Il clima della trasmissione è stato intonato dall'illustrazione di aspetti fideistici, quando non miracolistici, come nell'ormai celebre introduzione sulla madonna di Medjugorie; nella seconda puntata è apparsa formidabile la conclusione dettata da Socci, che praticamente ha chiesto agli ospiti in studio, da Giuliano Ferrara a Pietrangelo Buttafuoco e ad Antonio Polito, quale fosse il loro rapporto con la fede. Vale a dire se credevano in Dio. Il cortocircuito fra trash televisivo e fede individuale è una novità assoluta, almeno al livello del talk show politico. Ma questo aspetto che tenta di spettacolarizzare la dimensione più intima della relazione fra immanente e trascendente è forse secondario rispetto alla rivendicazione continua del cattolicesimo come metro di giudizio mondano. La combinazione di pensiero di destra e di cattolicesimo conservatore, se non autenticamente reazionario, conduce infatti all'individuazione della connection fra ideologie anticristiane (in primis naturalmente il comunismo) con il pacifismo no global. Ora, che possa esistere un legame fra il massacratore comunista Pol Pot e il pacifismo dei movimenti antiglobali è una tesi sostenibile solo a un patto: cioè che il mondo contemporaneo sia in piena guerra civile globale, e che il cristianesimo si trovi sulla linea del fronte, attaccato da nemici determinatissimi a imporre la propria identità. È vero che i cristiani sono attaccati e combattuti, spesso uccisi, dalle frange radicali di alcuni movimenti islamici. Ed è altrettanto vero che non si può essere pacifisti a senso unico. Ma ciò che risulta perlomeno singolare, hic et nunc, in Italia, è l'uso pubblico del cattolicesimo come ideologia di revanche. Con il risultato eccentrico che i sostenitori di una fede simil- vandeana, nel nome dell'anticomunismo, risultano tra i fautori più convinti dell'esperienza politica di Silvio Berlusconi. Sotto questa luce il capolavoro sincretistico di mettere insieme la fede cattolica con il sostegno al grande scristianizzatore è uno dei più audaci tentativi culturali praticati nell'ultimo decennio. Si capisce che una personalità con l'intelligenza capziosa di Gianni Baget Bozzo possa vedere in Forza Italia la reincarnazione del "partito cristiano al potere", e in Berlusconi il continuatore di De Gasperi. Ciò che si capisce meno è dove sia invece l'attualità di una posizione cattolica che agisce brandendo la spada contro gli infedeli: a meno che non si percepisca l'Italia come un paese ancora attraversato dalle lacerazioni di una guerra di civiltà, e che le sinistre anticristiane o secolarizzate costituiscano davvero una minaccia contro la cristianità. Nel qual caso, è giusto estrarre la spada dalla roccia: quanto al Graal, niente paura; è in offerta speciale nel primo supermarket raggiungibile.
L'Espresso, 28/11/2002
Ue che frenata
Germania motore immobile, locomotiva sul binario morto. Il cuore dell'Europa paralizzato dalla combinazione di bassa crescita, alta disoccupazione, deficit in ascesa. Con l'intera Unione europea che risente della linea piatta del Pil tedesco. Che cosa sta succedendo nella patria del modello renano, e che cosa accadrà alla ripresa europea? Nella sua casa di Bologna, Romano Prodi cerca le parole, un concetto da comunicare. Proprio in coincidenza con la conclusione del Social Forum di Firenze ha dichiarato che il "pensiero unico" è tramontato, e che in Europa c'è un clima intellettuale nuovo. Eppure qualcuno sta parlando di "trappola della liquidità", come in Giappone, e i tempi della ripresa sono imprevedibili. «Che l'Europa abbia un tasso di crescita inferiore agli Stati Uniti è un dato di fatto, ma bisogna sforzarsi di riflettere su orizzonti più ampi». Vale a dire che verosimilmente non c'è una ricetta immediata per ridare competitività e impulso alle economie europee. Il formulario delle riforme è una strumentazione troppo meccanica per essere convincente. E il presidente della Commissione europea lo rileva con nettezza: «Le riforme del mercato del lavoro, e anche dei mercati finanziari, così come su un altro piano gli interventi nel sistema dei trasporti sono una condizione necessaria, assolutamente necessaria, ma non sufficiente per una ripresa economica di lungo periodo». Sia per la Germania sia per l'Europa nel suo complesso «occorre interpretare a fondo il momento storico attuale», cogliendone le particolarità. Secondo Prodi, le riforme vanno realizzate o completate perché sono rese ineludibili dal cambiamento della struttura della popolazione. L'invecchiamento e lo stallo demografico impongono un ripensamento del welfare state: «Ma il problema di fondo, prendendo la Germania come esempio europeo, è che occorre ridare dinamismo a una società rinsecchita, chiusa, ripiegata su se stessa». Quindi non c'è soltanto l'urgenza delle riforme economiche: «Il problema è l'adattamento alla realtà nuova, e l'adattamento non investe solo alcuni aspetti specifici ma tutto l'insieme. Ciò significa che occorre trovare la capacità di rimobilitare le risorse di tutto il sistema Germania e del sistema Europa». Sembra di risentire il Prodi professore che seduceva le platee con la sua intensità di visione, con riflessioni tutte rivolte al futuro, fuori dalle contingenze politiche. Sostiene infatti che il punto cruciale consiste nel ritrovare una frontiera, e soprattutto innescare una nuova «fermentazione» della società, attraverso la quale si mettano nuovamente in circolo energie nel corpo europeo. Proviamo ad approfondire. «Da noi, in una società chiusa, la società non fermenta, non è percorsa da innovazioni significative. Uno degli indizi più esemplari di questa bonaccia senza prospettive è che l'Europa non attrae cervelli dal resto del mondo. Non c'è immigrazione qualificata. L'immigrazione qualitativamente migliore si rivolge agli Stati Uniti. Si guarda con sospetto, ad esempio, agli immigrati di cultura islamica, ma non c'è invece la consapevolezza del fatto che, anche nel caso dell'immigrazione islamica, la migliore va negli Usa, e aiuta la crescita del sistema americano». Ciò significa che in Europa manca una politica dell'immigrazione, e che anzi talvolta si fraintende il ruolo possibile degli immigrati: trattandoli come manodopera di basso livello, vincolandone la presenza a un lavoro che quasi sempre è un lavoro sottoqualificato, si perde di vista l'apporto che essi possono dare allo sviluppo. Ma è difficile pensare che il problema del deficit di sviluppo europeo possa essere risolto con il ricorso all'immigrazione. No, dice Prodi, ma è uno degli elementi potenziali per fare ripartire la società europea: «Come l'allargamento. Di cui sono state comprese le ragioni storiche e politiche, ma che non sempre viene considerato nelle sue potenzialità empiriche. L'allargamento è una fonte di sviluppo possibile. In ogni caso l'occasione per una grande azione collettiva che restituisca consistenza e peso alla presenza europea nel mondo, e che anzi trasformi il nuovo dinamismo europeo nella chance per la leadership mondiale». Tuttavia, insiste Prodi, sull'argomento dell'immigrazione occorre una riflessione molto più approfondita: a cominciare dal fatto che mentre avremmo bisogno di cervelli, di agenti dell'innovazione, di fatto poi prendiamo soprattutto le badanti e i lavoratori di bassa qualificazione: un simbolo della difesa, da parte nostra, della ricchezza esistente. In questo modo si risolve un problema sociale, ma è l'opposto di ciò che serve per rimobilitare la società: «Non solo non riusciamo ad attrarre i nuovi cervelli, ma lasciamo soprattutto andare via i nostri. È un dramma italiano ma riguarda in buona misura anche gli altri paesi europei: ed è l'indicatore più visibile di un fenomeno impressionante, cioè la caduta dei livelli di ricerca, anche nel settore privato». Sembrerebbe in sostanza che in Europa non esista solo una questione economica, ma che invece ci troviamo di fronte una questione sociale. Ma Prodi specifica: «Anche se le disparità sono fortemente aumentate nel quindicennio del "pensiero unico", c'è soprattutto un problema di slancio, di dinamismo vitale. La questione sociale esiste infatti in misura maggiore in America, dove si è estremizzata: pensiamo alla disuguaglianza retributiva fra lavoratori e manager, che è addirittura esplosa. In realtà il sistema americano sta covando problemi enormi, proprio perché la sua società contiene troppi elementi disgregatori». L'idea di Prodi, quando parla della chance europea di leadership mondiale, è che le potenzialità europee sono più forti di quelle americane perché la società europea (almeno fino ad ora) non contiene gli stessi effetti disgregatori: il capitale sociale si può trasformare in capitale economico, senza gli attriti provocati da fenomeni diffusi di esclusione. «Quando si parla della crescita americana, occorre pensare che il suo tasso è stato sempre influenzato dalla crescita della popolazione, intorno all'1 per cento l'anno. Depurato da questo aspetto, l'aumento del reddito pro capite, non è molto dissimile da quello europeo. Forse in Germania la situazione appare più complicata perché oggi si è assistito a una caduta degli investimenti». È un serpente che si morde la coda. Una trappola, appunto. L'economia va male perché l'economia va male. La gente non spende perché è incerta nelle aspettative. I consumi non ripartono perché la gente non spende. Sembra una combinazione micidiale, un circuito perverso che non si riesce a spezzare. «E allora», dice Prodi, «converrebbe tentare di fare un passo avanti». Cioè ragionare in modo ambizioso. «Si può continuare a crescere secondo i parametri tradizionali, con le opere pubbliche a fare da volano? Oppure è meglio ripensare alla struttura dei consumi, al rapporto fra pubblico e privato, alla qualità dello sviluppo, vale a dire a tutte le implicazioni sull'ambiente e su alcune sfere di comportamento che fuoriescono dagli schemi classici dell'economia?». Ma per rivolgersi al futuro occorre un'economia sicura, e finora l'America ha dimostrato una forza maggiore. Secondo Prodi le sue istituzioni economiche sono state più forti: il sistema ha retto allo shock dei casi Enron e WorldCom, superando la situazione che ha fatto saltare la bolla, l'euforia irrazionale di Wall Street, cioè la combinazione di valori di Borsa in crescita perenne, processi individualistici di aspettativa di arricchimento, e alone mediatico sulla ricchezza così ottenibile. Se il sistema regge a un disastro come quello delle società di revisione implicate nei grandi fallimenti, come per il caso Arthur Andersen, se si è evitata la catastrofe dopo che «i titolari del giudizio etico, quelli che davano le pagelle», avevano fatto bancarotta morale, vuol dire che gli Stati Uniti conservano gran parte della loro forza, dei loro spiriti animali e della fiducia che fa da mastice, anche perché il loro sistema politico è stato in grado di produrre utili innovazioni legislative nello spazio di pochi mesi. «Ma se vogliamo restare all'industria manifatturiera», sostiene Prodi, «e considerare l'attuale posizione dell'economia europea, sono convinto che la domanda principale sia come ci posizioniamo rispetto all'Asia. La crescita del "capitalismo di comando" cinese è un fenomeno che non mancherà di investire i nostri sistemi, e che modifica tutto l'orizzonte della globalizzazione. Io credo che si possano facilmente spiegare a tutti i rapporti di forza fra Asia ed Europa con la semplice constatazione che il trasporto di un container da Singapore a Genova costa più del doppio di un analogo container che va da Genova a Singapore. Questo perché la merce che viene da noi è molta di più di quella che va verso l'Oriente». Un pessimista direbbe che non ci sono speranze per il vecchio mondo, e che le economie nuove schianteranno quel piccolo promontorio dell'Asia che è l'Europa. «Al contrario», ribatte Prodi: «Bisogna pensare a tutte le opportunità che si creano. Per esempio, il nostro Mezzogiorno potrebbe diventare uno straordinario tramite con l'Asia: anzi, avrebbe possibilità enormi come trasformatore finale delle produzioni asiatiche, che arrivano nel Mediterraneo attraverso Suez». Insomma, bisogna rendersi conto che stiamo attraversando non tanto una fase di assestamento, ma un passaggio d'epoca. Nelle grandi trasformazioni, tutti gli elementi della realtà vengono mobilitati dai vettori del cambiamento: «Per questo sottolineo in modo esasperato la necessità di innalzare il livello della ricerca: perché altrimenti l'Asia è irresistibile. Non è possibile iniettare sviluppo, per dire, in Germania e poi sperare che la crescita riparta in tutta Europa. Non esiste la ripresa in un solo paese. L'Europa è in ritardo: è stata capace di inserirsi nel mercato automobilistico americano, cioè su una tecnologia matura, ma nel frattempo l'America ci ha mangiato la farmaceutica e la chimica, il complesso delle scienze della vita. E oggi il fenomeno nuovo è la velocità di assorbimento tecnologico e scientifico da parte dell'Asia, a cominciare dalla Cina. È bene capirlo alla svelta».
L'Espresso, 21/11/2002
Corto circuito globale
I no global contro la guerra: già, ma quale guerra? In poco più di 100 pagine Carlo Galli ha proposto una delle interpretazioni più incisive dopo l'11 settembre. Un exploit intitolato "La guerra globale" (Laterza) che si apre con una visione dell'impero romano assediato dai barbari. Un'allegoria dell'America nel mondo contemporaneo? Solo in parte: nella dimensione geopolitica attuale non c'è un dentro e un fuori dall'Impero. Ogni punto dello spazio globale fa corto circuito col mondo intero. La perdita dei confini porta al tramonto degli Stati e al depotenziamento dei sistemi liberali o socialisti. La guerra asimmetrica, senza fronti, non usa «armi di nuova concezione» quanto «nuovi concetti di armi». Per questo il ripristino dell'ordine è un'illusione. La globalizzazione è la guerra, con il disordine come una tragica normalità. Poiché il nemico è una nebulosa e il guerrigliero nichilista si confonde col partigiano, «il compito di una generazione» consiste nel strappare spazi di libertà alla contemplazione inerte del caos. Che ci si riesca con la politica classica è escluso. E una politica "new global" per reagire all'asimmetria permanente è ancora da pensare.
L'Espresso, 31/10/2002
La finanziaria del patto col diavolo
Sono bastate poche bordate, in parte dal centro della maggioranza e in parte da destra, per liquidare la legge finanziaria "di rigore e di sviluppo". Prima il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, ha fatto sapere che i deputati hanno tutte le carte in regola per cambiare la legge di bilancio, «e la Camera lo farà», poi il vicepremier Gianfranco Fini ha intravisto il pericolo che segmenti del centro-sinistra possano votare gli emendamenti dell'Udc, a partire dalle misure per il Mezzogiorno, e ha annunciato una mezza rivoluzione nei provvedimenti economici, in modo da ripresentarli come un pacchetto di governo e non come un'infiltrazione ulivista nella politica del centrodestra. Ma sia nel caso che le misure "centriste" della finanziaria vengano inquinate da sinistra sia che il governo se ne appropri per non lasciarle contaminare, il risultato cambia di poco: la finanziaria di Tremonti è un pezzo di modernariato. Prima era un'illusione, dato che tutti i conti erano impiccati a quel dato, la crescita del Pil nel 2003 al 2,3 per cento, che tutti-tutti-gli istituti di ricerca economica giudicano ampiamente sovrastimato; adesso è più che altro un caro ricordo. In sostanza, dietro la guerra di parole fra la Lega e i postdemocristiani non c'era solo l'onore offeso di questi ultimi: le parole erano piuttosto il sintomo di una seria sfasatura politica tra le componenti della Casa delle libertà. Non ci volevano capacità profetiche per capire che il centrodestra è un condominio, in cui gli inquilini sono divisi culturalmente su ogni scelta di governo. La Cdl è sempre stata tenuta unita dall'idea del potere, non da un comune sentire politico. Prima che con i cittadini, il "patto" berlusconiano è stato sottoscritto dai soci della coalizione: prevede che l'alleanza sia irreversibile, costi quello che costi in termini di coerenza politica e governativa. Rispetto al controllo delle posizioni, le misure di governo sono una subordinata. In questo senso, il Patto per l'Italia, il salvataggio della Fiat, il concordato fiscale, il condono tombale, i tagli di spesa agli enti locali sono semplici oggetti pubblicitari o materiale di contrattazione e di scambio. Ciò che conta è che l'alleanza politica tenga, malgrado tutto. Il patto principale riguarda i contraenti della coalizione, e deve essere ferreo, a dispetto dei funambolismi e della contabilità irrealistica che caratterizzano l'azione di governo. Ottimo. Ma non si avverte una certa aria di déjà-vu? Non abbiamo già sperimentato un'alleanza politica in cui la stabilità e la continuità, con il legame di ferro tra i soci, erano assolutamente prevalenti rispetto ai contenuti del governare? Ma certo che lo si è già visto. Si chiamava Caf, e rappresentava l'unione anche questa considerata irreversibile fra i protagonisti della fase finale e drammatica della Prima Repubblica. Con una differenza sostanziale, come accennano confidenzialmente, più sconsolati che cinici, gli esponenti più consapevoli della Casa delle libertà, cioè gli eredi della tradizione democristiana: che questo è un Caf di serie B. Vale a dire senza nemmeno il piglio perentorio di Craxi, la professionalità scaltra di Andreotti, la sapienza elusiva di Forlani. Ciò significa che la Casa delle libertà si basa su un contratto nefasto: è stato sottoscritto un patto col diavolo, ma a questo punto qualcuno comincia a temere che il prezzo richiesto dall'incarnazione contemporanea di Belzebù sia troppo alto. Si potrebbe trattare tutto questo come "problema loro", se non fosse che è il paese nel suo insieme a rischiare di pagare un prezzo troppo doloroso. Incapacità di governo da parte del centrodestra e irreversibilità del patto politico che lo sorregge sono una combinazione virtualmente micidiale. Fino a ieri si è sempre sostenuto che chi ha vinto "deve" governare, per tutta la legislatura. Benissimo: ma se il nuovo Caf provoca danni gravi, che si fa, un bel viso a cattivo gioco in nome del bipolarismo? Oppure sarà bene che qualcuno cominci a preparare una via d'uscita?
pagina
di 66