L’Espresso
L'Espresso, 31/10/2002
Quando le mutande servono da paravento
Ci sono fior di studiosi della televisione che hanno dimostrato come la ricerca dell'audience coincida con la morte della qualità. Non ci vuole la scienza di Giovanni Sartori per capire che il telespettatore medio usa la tv come un pretesto per fare ginnastica sul telecomando; e interrompe lo zapping solo se intercetta un exploit. Che può essere lo spogliarello di Gianni Morandi, oppure Luciana Littizzetto che da Maria De Filippi depila il polpaccio di Mario Cipollini. Nella programmazione della tv generalista, i boxer o un muscolo valgono non in quanto tali, bensì come pubblico conquistato. Si capisce facilmente allora quale sia la logica del confronto fra la trasmissione di Gianni Morandi, "Uno di noi", e il reality show della De Filippi su Canale 5, "C'è posta per te". Entrambi devono allestire una serie di eventi che scandiscano lo spettacolo. La moglie di Maurizio Costanzo una serie di casi emozionanti, mischiati con l'apparizione di qualche divo involontario come Francesco Totti; Morandi una quantità di ospitate, di euro in premio, di performance varie. Fa sorridere quindi il proclama di uno degli autori dello show di Morandi, Giampiero Solari: «Mai perdere di vista la qualità. Con Morandi, Cuccarini e Cortellesi è possibile portare avanti un discorso in cui la civiltà vince». In realtà la battaglia della civiltà nasconde un problema più prosaico: in questo momento, con il confronto fra "c'era un ragazzo" e la "domina" di Canale 5 si misura la credibilità residua della Rai in età berlusconica come concorrente della corazzata Mediaset. Vale a dire: se perfino Morandi viene battuto, non rimane più nessuno a dimostrare che non è vero che la Rai è "complementare" alle reti berlusconiane. La vittoria della civiltà nel weekend è la foglia di fico per non dover ammettere il disastro di Baldassarre e compagni. Santo Gianni Morandi delle Mutande è l'icona che deve occultare la radiazione dei giornalisti criminosi, ma anche l'impresentabilità di un'azienda che la sera, dopo il tg delle 20, schiera contro "Striscia la notizia" vecchi amarcord funerari. Così, Morandi si batte, e si battono pure la Cuccarini e la Cortellesi, ma la partita è segnata: basta fare zapping negli altri orari e si vede che la Rai è già in linea con il progetto di berlusconizzazione. E che lo scontro di civiltà è un accordo totale. Il berlusconismo è riuscito a suo tempo a trasformare le platee Mediaset in elettorato puro: passivo, plasmabile, condizionabile. Adesso, con la conquista della Rai, non resta quasi nulla fuori dall'impero mediatico del Cavaliere. E non ci si può stupire se la "underclass" è diventata riserva di caccia elettorale di Forza Italia. Quanto a Gianni Morandi, la sua dedizione è commovente. Purché sappia che la sua è una battaglia di bandiera: ma che la politica le sue operazioni sullo share le ha già fatte.
L'Espresso, 17/10/2002
La guerra perduta dei figli dell’Aquila
È una telefonata, e una parola, "Salò", a mettere in moto la narrazione: «Il mio nome è Alba M., sono un medico pediatra, il mio indirizzo di Padova è questo, e questo è il telefono. Sono sicura che mi chiamerà». Comincia così l'ultimo libro di Giampaolo Pansa, "I figli dell'Aquila". L'aquila è il simbolo della Repubblica di Salò. I suoi figli sono una generazione che ha scelto la parte sbagliata e sconfitta, in un Paese «che ama soltanto i vincitori, e adesso più che mai». Se nel suo libro precedente, "Le notti dei fuochi", Pansa aveva narrato la nascita del fascismo, in quest'ultima opera si inoltra nel lato più buio della nostra storia. Forse è il suo libro più duro; probabilmente sarà il più controverso e discusso. Perché è la storia della guerra civile, chiamata così, senza abbellimenti: e per molti, anche dopo il grande libro di Claudio Pavone, parlare di guerra civile comporta ancora una intonazione inaccettabile, l'infrazione rispetto a un'ortodossia, al monumento resistenziale, tragico ed eroico, che "fonda" la Repubblica. La trama è presto detta: una signora ottantenne racconta all'autore i mesi sconvolti dopo il colpo di Stato del 25 luglio e l'8 settembre. Lo fa attraverso la storia del suo fidanzato, Bruno A., un figlio della piccola borghesia parmigiana: uno dei tanti che scelsero l'onore, la fedeltà, la "patria", contro il "tradimento" e il disonore. Ecco allora che un ragazzo ventenne si arruola nella X Mas, nei reparti del teschio con la rosa in bocca, agli ordini di un soldato eccezionale, il principe Junio Valerio Borghese, in una formazione dominata dalla rigorosissima ed egualitaria disciplina imposta dal suo capo. Ma non si pensi che uno scrittore come Pansa abbia semplificato la storia attraverso un personaggio. Bruno è soltanto un simbolo vivente, una specie di segnale colorato che si staglia nel fluire degli avvenimenti: i combattimenti nel mattatoio di Anzio, il trasferimento in Germania nel campo di Grafenwöhr, dove si raccolgono i 15 mila uomini della Divisione San Marco. Un addestramento affrettato, e poi il trasferimento fra la riviera ligure di Ponente e l'Appennino, in una zona di guerra informale, aspettando un nemico, gli Alleati, che fino all'ultimo non verrà e cullando la speranza di andare a combattere a viso aperto sulla Linea gotica. La San Marco è una "balena arenata", condotta a proseguire una guerra già perduta senza la guida di un pensiero strategico, fra la diffidenza dei comandi tedeschi e sottoposta ogni giorno alle fiocine delle bande partigiane. È qui il vero corpo del racconto: nella descrizione minuziosa di una "normale" quotidianità militare che di normale non ha più nulla. Pansa evita deliberatamente i grandi dilemmi che presiedevano alle decisioni individuali e collettive di quei giorni, e soprattutto si sottrae al senno del poi. Non ci sono da una parte gli alleati dello sterminio e dall'altra i complici del Gulag. Non è affatto di queste contrapposte filosofie della storia che è intessuto il libro. Bensì nella descrizione meticolosa di come la guerra civile, fra italiani, diventa via via un meccanismo inesorabile, al quale nessuno riesce a sottrarsi. Se qualcuno prova a esimersi da quella logica feroce, come fa il comandante della San Marco, il generale Amilcare Farina, che si sforza di imporre il rispetto del codice d'onore militare, diviene forse lo sconfitto più sconfitto di tutti. Perché la guerra civile è un insieme anonimo, brutale, dove tutto è praticabile, in cui la rappresaglia diventa vendetta, e le ritorsioni uno stillicidio di disumanità atroci. La forza a suo modo terribile del libro di Pansa è nell'accelerazione continua di quella macchina impersonale che macina diserzioni, torture, fucilazioni; e nel suo sguardo che osserva e registra con secca esattezza documentaria ogni singolo atto, ogni tradimento, ogni morte. Senza giudicare. O meglio: è chiaro fin dall'inizio del libro che i due protagonisti del dialogo, l'autore e Alba, sono intellettualmente dalla stessa parte. Tuttavia l'orrore quotidiano della guerra civile viene sottoposto a un esame senza pregiudizi. La guerra di liberazione vista dall'"altra parte" non viene guardata come una lotta ideologica, condotta da bande di fascisti invasati, di briganti e assassini; e l'epopea partigiana viene analizzata senza nascondere nessuna delle viltà, delle discordie, dei tradimenti compiuti da quelli della parte giusta. Alla fine, è un corpo a corpo continuo. Per quelli della San Marco, il tradimento tedesco, la rotta verso il Po, la resa finale sono solamente corollari: «Ormai», dice Alba, «l'impressione era quella, terribile, di vedere due torrenti in piena che s'infrangono l'uno contro l'altro: il primo per arrivare presto alla vittoria, il secondo per far pagare cara la propria sconfitta». Di quei due torrenti che confluirono nel fiume della guerra civile, Pansa ha voluto trovare anche le "anse quasi sconosciute", gli eventi non detti, perfino quelli indicibili. Lo ha fatto con una passione fredda, in un dialogo che per sovraccarico emotivo, per tragicità intrinseca, diventa nelle ultime pagine quasi insostenibile. Eppure il coinvolgimento è appassionato ma allo stesso tempo sorvegliato: forse affinché la memoria non diventi, o non resti, furore.
L'Espresso, 03/10/2002
Cosa nasconde il crocifisso
Una delle tecniche più sperimentate del governo Berlusconi consiste nel sollevare polveroni allorché si prospettano problemi. Il ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, ha capito benissimo lo schema, e non appena si è resa conto che le sue proposte di riforma della scuola si erano ridotte al piccolissimo cabotaggio, si è appropriata del disegno di legge leghista sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici e ha lanciato l'offensiva pseudoculturale. Con qualche risultato: grandi e approfonditi dibattiti, discussioni sulla pericolante laicità dello Stato, approfondimenti sulle radici cristiane dell'Italia delle veline, studiati faccia a faccia sull'immagine della croce come simbolo dell'identità nazionale ovvero come emblema non strumentalizzabile di valori universali. Così, per qualche giorno, e proprio in coincidenza con l'avvio dell'anno scolastico, il dibattito apparente ha coperto la nuda realtà delle cose. Vale a dire che la discussione ampiamente pretestuosa sul rapporto fra le culture all'interno di una società multietnica, e il perché non possiamo non dirci cristiani, ha tolto dal tavolo la discussione sul funzionamento del ministero e distolto l'opinione pubblica dall'azione effettiva del ministro. Cioè ha liquidato un'analisi che non riguarda soltanto l'impostazione catto-aziendalista del presunto riformismo morattiano, e neanche solo il suo intento paternalista, e le idee vecchio stampo tese a una suddivisione classista delle coorti scolastiche. Ma che invece concerne proprio le modalità empiriche dell'azione ministeriale. L'anno scorso, il neoministro Moratti aveva messo in cassa un trionfale successo d'immagine, impegnandosi a fare ripartire l'anno scolastico senza il consueto supplizio di orari provvisori e di viavai del corpo insegnante. Ma quest'anno non è più in gioco l'organizzazione del calendario e la programmazione delle routine settimanali. Adesso siamo al dunque, e la scuola firmata Moratti appare sempre più esplicitamente come l'oggetto di un bricolage affannato. La cosiddetta "sperimentazione" della riforma è un espediente minore per mascherare una battuta d'arresto sostanziale. Il ritorno all'insegnante "prevalente" nelle elementari è un antico cavallo di battaglia conservatore, che anziché guardare pragmaticamente alle esperienze in tutta Europa e ai risultati ottenuti nelle scuole, vede solo la bellezza nostalgica del ritorno al passato. Vale per la Moratti ciò che vale per Tremonti. Così come il ministro dell'Economia si è illuso (e ha illuso milioni di cittadini) di governare la dinamica italiana con escamotage da fiscalista, il ministro dell'Istruzione crede di poter annunciare la realizzazione di una riforma attraverso iniziative a stralcio. Sopra ci mette l'etichetta fino a ieri "vincente" della managerialità. Se non funziona, ecco la fumisteria sulla croce: un modo come un altro per trasformare le soluzioni mancate in un contraccolpo ideologico di ritorno. Quanto alla scuola, sarà per la prossima trovata.
L'Espresso, 03/10/2002
L’eretico Cardini
Anarchico di destra, cattolico tradizionalista, qualche ispirazione socialisteggiante: e in Spagna l'hanno accusato perfino di pensiero "falangista" per qualche idea controcorrente sulle corride e il destino dei tori. In ogni caso, è l'esponente di una destra imprendibile, non omologabile. Franco Cardini non è soltanto un professore di storia medievale a Firenze: è in primo luogo lo studioso che nel 1981 lasciò allibita la categoria degli storici con un libro, "Alle radici della cavalleria medievale", una prova di insolito spessore letterario, che contaminava archeologia, antropologia, storia della spiritualità. In seguito, una produzione senza argini: esattamente quella di un "intellettuale disorganico" (come recita il titolo del suo ultimo libro, appena pubblicato da Aragno), in cui fa i conti con la sua biografia e l'esperienza di storico. Ma lo scandalo, in questi giorni, è costituito da un libro edito da Laterza, "La paura e l'arroganza", che Cardini ha curato e prefato, e ha immediatamente suscitato reazioni innervosite. Fin dal titolo, perché è evidente la ritorsione intellettuale contro "La rabbia e l'orgoglio" di Oriana Fallaci. E poi, la presenza nell'indice di autori come Marco Tarchi e Alain De Benoist, ma anche Eric Hobsbawm e Noam Chomsky, la "nouvelle droite" coalizzata con la vecchia sinistra contro l'impero americano violato dal terrorismo islamista. Logico che Pierluigi Battista lo abbia messo nel mirino più di una volta, per chiedere a che gioco si gioca, e che un vecchio amico come Massimo Teodori lo citi accusandolo di antiamericanismo. In giro per l'Italia, notevoli dibattiti, a Firenze con Giovanni Sartori, a Roma con il medesimo Battista e Valentino Parlato, a Napoli con Giacomo Marramao. Le discussioni non finiscono. In parte per ragioni politiche, dato che il presidente del Consiglio fa l'americano. Ma anche perché nel libro figurano espressioni spettacolari del radicalismo "anti-imperiale". De Benoist parla in questo modo dell'attentato alle Torri gemelle: «Avevamo già visto New York distrutta dieci volte nei film del filone catastrofico prodotti a Hollywood. L'11 settembre non si trattava di cinema, eppure gli assomigliava». Sintesi: «Lo spettacolo del terrorismo si sostituiva al terrorismo dello spettacolo». Provocatorio, no? Dice Cardini: «Ho cercato di essere il più intellettualmente onesto possibile nell'introduzione. Perché lo scopo del libro era di dare voce al mosaico di coloro che obiettano. Sono pensieri che nei mass media circolano poco ma nelle opinioni pubbliche si avvertono». L'accusa verso posizioni di questo tipo è che si tratti di pacifismo a senso unico. «In realtà», commenta Cardini, «il pensiero a senso unico è quello delle soluzioni militari come la sola via da percorrere. Senza accorgersi che così si sbaglia strada, la ricerca della sicurezza genera insicurezza, dato che all'opzione bellica seguirà la risposta della guerra asimmetrica, in un crescendo potenzialmente micidiale». Eppure il nostro paese sembra ormai schierato senza obiezioni con la scelta americana: «Certo, se guardiamo alle posizioni assunte da Berlusconi viene da dire che sarebbe meglio essere più cauti. Credo che nel confronto con gli Stati Uniti occorre sempre pensare alla realtà dell'Europa, cioè a un'istituzione come l'Unione europea, imperfetta ma esistente. Per questo ho molto apprezzato invece la posizione assunta da Prodi». Oltre alle questioni di politica internazionale l'obiezione di Cardini è culturale. Non accetta la demonizzazione dell'Islam, guarda alla storia come a una lunga durata di contaminazioni culturali e di contiguità antropologiche. «Sarebbe bene anche pensare alla peculiarità geografica dell'Italia, alla sua posizione strategica. Guardare a un ruolo europeo significa anche contemplare una concezione "mediterranea" della politica, che consideri la varietà di culture in quest'area. La presenza dell'Italia nel Mediterraneo, come significativa articolazione europea, come portatrice di apertura e non di chiusure, è oltretutto la prosecuzione di una funzione storica che per me ha un chiaro e affascinante richiamo braudeliano: il Mare Nostrum come bacino di civiltà in cambiamento». In conclusione, è lecito non dirsi americani? «È ragionevole dire che non siamo né filo né antiamericani. Dobbiamo giudicare i comportamenti, sfuggire alla trappola di chi vede solo l'antiamericanismo. Vede, questo libro è stato ideato e voluto dall'associazione per il dialogo interculturale e interreligioso Dia-Légein: è anche figlio della Firenze di La Pira e di padre Balducci: noi siamo orfani di queste figure. Anche un cattolico di destra come me sente ancora l'eco umana e intellettuale della loro voce. Di un'apertura, di una tensione autenticamente mondiale. Ridurre tutto allo schema dell'antiamericanismo non è né storia né politica: è una barzelletta».
L'Espresso, 12/09/2002
Vade retro estremismo
Regola numero uno del girotondino, evitare qualsiasi slittamento estremista: assumere aspetto e psicologia del bravo esponente della società civile, indignato q.b., in modo da manifestare un disgusto istintivo, istituzionale, liberaldemocratico e quindi ovvio verso "questa destra". Consigliabile ricordare il disprezzo di Montanelli verso l'armata brancaleonide, e la tigna di Giovanni Sartori sul conflitto d'interessi; bene citare nostalgicamente antichi liberali da Benedetto Croce a Luigi Einaudi; superfluo invece, anche se utile dato il legame coniugale di Daria Colombo con Roberto Vecchioni, canticchiare "Luci a San Siro", che ispira commozioni meneghine anziché incazzature antigovernative. Di fronte agli sbreghi tipo Cirami fare la faccia sbalordita di uno che la penserebbe globalmente come Toni Negri però si accontenta di rimpiangere la vecchia professionalità democristiana, anche nella versione casiniana. Alle accuse di voler utilizzare la piazza per dare la spallata al governo, ribattere con Cofferati che in piazza i lavoratori ci sono sempre andati, con Paolo Flores d'Arcais che l'agorà non può essere sgombrata e che Platone avrà pure qualche tic, tuttavia il fido Pera ha riflessi pavloviani, quando il patron fa squillare la campanella. Benvenuta la conoscenza dell'opera di Nanni Moretti, ma è elegante ridacchiare citando i sarcasmi di Dino Risi, «fatti in là che voglio vedere il film», così ci si dimostra in palla sull'attualità. Nello zaino, mettere una foto di Roberto Benigni nonché la cassetta di "La vita è bella", e dichiarare un'attesa fremente per il prossimo Pinocchio. Quanto al bagaglio culturale, inseribili Eco, Vattimo e il Bobbio sputazzato maramaldescamente da Baget Bozzo, la storia d'Italia di Paul Ginzborg, i rosari cult di Franco Cordero; in rappresentanza del Grande Nord produttivo, benissimo il gran borghese Guido Rossi e l'avvocatissimo Franzo Grande Stevens. Mentre si ripassano le lezioni economiche di Paolo Sylos Labini e le lezioni giornalistiche del Colombo furioso, utilizzare con parsimonia Michele Santoro e le note di "Bella ciao" (troppo populista), ed evitare Maurizio Costanzo e l'eco di "Contessa" (troppo e basta). Da riallestire periodicamente il catalogo dei nemici: Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara, Claudio Velardi e "Il riformista", il líder Massimo e le imprese in cui s'imbarca, D'Alema e i suoi libri mondadoriani "de paura". Prima del sonno, è concesso coltivare il dubbio supremo: e se i girotondi fossero gli spilli con cui il Cavaliere terrà su il suo sempre più infagottato Caraceni, appellandosi alla maggioranza silenziosa contro una sinistra «non ancora democratica»? Sciogliere il dilemma con la catilinaria "Contra Tremontes", secondo cui alla destra dei condoni non si può condonare niente.
L'Espresso, 06/09/2002
Divagar m’è dolce in questi guai
Il Cavaliere descamisado si è sbracciato per convincere gli italiani che il miracolo è già stato realizzato, nel senso che il governo ha evitato il disastro. Nonostante queste rassicurazioni, l'autunno sarà la partita più critica della sua carriera. Non è infatti il catastrofismo della sinistra a dire che le cose vanno male. È la durezza dei fatti a segnalare che la realtà finora non si è fatta convincere dalla retorica berlusconiana. C'è addirittura un'ironia nelle cose, per come hanno smentito tutte le rassicurazioni del governo: la ripresa che è continuamente dietro il prossimo angolo, la crescita che riparte, sta per ripartire, ripartirà. Forse. O forse chissà. Inoltre: tasse che crescono, inflazione che colpisce il reddito fisso, progetti minacciosi sulle pensioni e la sanità. Sono specialmente i ceti meno privilegiati, che avevano sperato nelle briciole della grande festa di casa Berlusconi, a subire il cattivo andamento dell'economia. D'altronde, nei piani di Berlusconi c'era l'idea di poter rilanciare la crescita con trovate da commercialista. Non ha funzionato, perché la macroeconomia è un mondo più vasto dello studio di Tremonti. Finora, osservando la sostanziale stabilità della popolarità berlusconiana, a dispetto di una prova partigiana e mediocre, analisti come Ilvo Diamanti avevano parlato di «consenso senza fiducia». Vale a dire che l'elettorato manifestava ancora un orientamento di stampo ideologico: la valutazione sull'operato della maggioranza era insufficiente, ma questo giudizio non si traduceva in un cambiamento rilevabile di segno politico. Si tratta di vedere adesso se la combinazione di elementi negativi catalizzata dall'autunno procurerà spostamenti significativi. Alla fragilità operativa del governo si accoppia una spregiudicata inclinazione manipolativa. Lo spoil stystem è stato praticato con durezza. E durante l'estate, per rassicurare il pubblico, i telegiornali di regime hanno raggiunto picchi di elusività fino al comico. Nell'arte di divagare Berlusconi è un maestro. Quando si tratta di verificare l'andamento del Pil, parla in modo commosso della fame nel mondo, annuncia campagne contro la prostituzione e la droga. Ma l'affabulazione senza requie può funzionare quando l'uditorio è ancora infatuato dalle speranze e dai desideri elettorali: mentre adesso la situazione è meno romantica. Si dice che in una democrazia moderna si vota con il portafogli. È probabile che di qui a fine anno potremo riscontrare se la società italiana ha deciso di farsi i conti in tasca, oppure se c'è una quota di consenso non scalfibile, indifferente ai fatti, berlusconiana fino al salasso economico. Berlusconi punta sulla stabilità di un consenso "a prescindere". Già: i poteri sono con lui. I ceti privilegiati anche. A revocare il consenso e a metterlo in crisi potrebbero essere quelli che più di tutti hanno creduto in lui e più ne sono stati delusi: chiamiamoli i poveri, con licenza parlando.
L'Espresso, 29/08/2002
Cielle Berlusconi e i fichi secchi
Dietro gli slogan immaginifici, il Meeting di Comunicazione e liberazione a Rimini è sempre un buon angolo di osservazione per misurare l'atteggiamento di una parte del mondo cattolico rispetto alla politica. Quest'anno il tema enunciato è suggestivo, "Il sentimento delle cose, la contemplazione della bellezza", anche se piuttosto ermetico. Ma bisogna sempre ricordare che Cl rappresenta una piccola porzione della realtà cattolica, caratterizzata da una concezione fortemente militante, capace di guadagnare visibilità grazie alla risorse di mobilitazione dei suoi ranghi e alla capacità di interpellare il ceto politico. Inoltre, la leadership di Cl è sempre stata generalmente governativa, fin dai tempi in cui Giulio Andreotti era riconosciuto come il leader carismatico del popolo ciellino, e fatte salve le antipatie verso il "tecnocrate" Ciriaco De Mita nonché la sospettosità verso Romano Prodi. Quindi non stupisce affatto che ancora di questi tempi il presidente della Compagnia delle Opere, Giorgio Vittadini, abbia presentato il Meeting ribadendo un'opinione di fondo amichevole verso la Casa delle Libertà: «Noi rimaniamo favorevoli al governo Berlusconi» ("Corriere della Sera", 14 agosto). Ogni volta ci si chiede come sia possibile che un cattolicesimo giovane, motivato da una fede integrale, possa venire a patti con il portatore storico di un progetto "a-cristiano" come Silvio Berlusconi. Le spiegazioni offerte dai dirigenti di Cl per argomentare le loro scelte politiche, apparentemente bizzarre, sono generalmente di due tipi: in primo luogo, il centrodestra e Berlusconi in particolare rappresentano più a fondo la società italiana nelle sue caratteristiche peculiari e sono esenti da astrattezze "azioniste"; secondariamente, una scelta favorevole alla sinistra non è possibile in quanto essa, tolti alcuni rappresentanti particolarmente stimati come il diessino Pierluigi Bersani, con la sua vocazione dirigista e regolatrice costituisce l'esatta negazione del progetto di Cl. Tuttavia il sostegno alla Casa delle libertà non è incondizionato. La dirigenza di Cl si preoccupa infatti di tenere aperto un canale di dialogo con il centrosinistra: poco più che una porta socchiusa, ma comunque il segno che l'adesione al berlusconismo non è "perinde ac cadaver". Lo stesso Vittadini auspica soluzioni istituzionali bipartisan, si appella ai riformisti dell'una e dell'altra parte, cita Blair, le riforme della scuola, del mercato del lavoro e del federalismo, che vanno fatte «secondo un'idea liberaldemocratica che c'è in un certo pensiero di Berlusconi ma francamente anche tra alcuni Ds». Si potrebbe tradurre tutto questo in una formula rozza ma esplicativa: in sostanza, i ciellini sono "naturaliter" di destra ma non rinunciano ad avere qualche amico a sinistra e a tenere decenti rapporti con Prodi. Eppure sarebbe una forzatura. Infatti la fiducia accordata a Berlusconi non sembra voluta da Dio. Per dire, il legame tra Cl e la Dc di Andreotti era indissolubile, e c'è voluta la morte democristiana per spezzarlo. Per la base ciellina Andreotti era l'erede di De Gasperi. I flirt con i socialisti erano strumenti tattici per influire sugli equilibri interni del penta o quadripartito, per appoggiare questa o quella corrente dc, per punzecchiare gli avversari, per premiare gli amici, per colpire Martinazzoli e per appoggiare Buttiglione. Questo gioco tattico non funziona altrettanto bene con la Casa delle libertà. I centristi postdemocristiani sono troppo esili numericamente, per il momento, e gli altri partiti su cui si regge l'alleanza (Forza Italia, Lega e An) sono soggetti politici completamente estranei alle logiche della Prima Repubblica, che permettevano di capitalizzare i vincoli di collateralismo. In più si tratta di partiti sradicati dall'humus cattolico di base. Il cattolicesimo della Cdl infatti riguarda i rapporti con la gerarchia ben più che i movimenti e l'associazionismo. Sfrondato il discorso della retorica, sembrerebbe di poter dire che il rapporto fra il movimento fondato da don Giussani e il centrodestra è ancora di tipo contrattuale. I ciellini sanno di poter ottenere qualcosa da questo governo. E questo governo sa che concedendo qualcosa, sulla scuola come sull'economia reale, potrà vantare un legame preferenziale con questa parte di cattolicesimo italiano. Tuttavia, malgrado la foltissima presenza del centrodestra a Rimini e l'apoteosi prevista con l' intervento di Berlusconi, occorrerà tenere presente i termini reali di questo contratto. Cioè il "do ut des" implicito. Perchè il governo amico, sanpatrignanista, liberaloide, potrebbe anche rivelarsi un governo catastroficamente avaro, impossibilitato a dare, costretto a tirare i cordoni della borsa. E allora che se ne farebbe Cl di un governo senza disponibilità di cassa? Alla fine potrebbe darsi che non solo le riforme, ma nemmeno i buoni affari si possano fare, e i buoni rapporti si possano tenere "con i fichi secchi".
L'Espresso, 13/08/2002
NELLA TESTA DEL CAPO
Ribolle sotto il sole d'agosto la mente del premier, e le sue circonvoluzioni sono in fiamme. Non è questione di piromani (che vedi caso quest'anno sono scomparsi dalle cronache): l'approvazione al Senato del legittimo sospetto ha spento una parte dell'incendio, l'ingaggio di Rivaldo è stato un flash di calmo piacere, eppure l'apparato neurale di Silvio Berlusconi è ancora eccitato: «Ghe pensi mi». Presidente operaio, presidente totale, presidente assoluto. Giunto alla sua seconda estate di governo (ma anche di lotta), di centrodestra (ma dice Lui anche di centrosinistra), il presidente del Consiglio è una macchina pulsante di desideri, di ambizioni, di progetti, di exploit. Quindi un caso imperdibile per lo psicologo politico. Sottoposto a una seduta analitica, l'Uomo di Arcore fa affiorare in primo luogo l'affascinante sindrome dell'interim. Peccato avere dovuto sostituire Scajola con Pisanu: certo, con il cambio da un dc di serie C a un dc di serie B, il salto di categoria è stato netto: ma la personalità berlusconiana sarebbe stata ben maggiormente soddisfatta se avesse potuto portare anche agli Interni i dieci chili in più nascosti sotto il Caraceni e rivelati con orgoglio al corpo diplomatico. Italia berlusconiana e forzista, ingrassa! Si era già visto che lo sdoppiamento, o il transfert, agiva "alla grande" con la Farnesina. Eh già, l'amico Bush, l'amico Putin, il sottobraccio con i Grandi, le soluzioni planetarie, il Piano Marshall per questi qui e quelli là, la riconversione della diplomazia in una Publitalia internazionale. Altro che le faccende domestiche, l'infrastruttura che non si struttura, la grande opera che non opera, il passante che non passa malgrado l'anabbagliante Lunardi (e il fastidio provocato dall'Uomo del Colle, che vorrebbe vedere al suo posto un ministro degli Esteri comme-il-faut: «Ma no, caro Azeglio, la Farnesina c'est moi!»). L'estate in Sardegna si profila popolata di incontri di gran classe: l'amico Blair, l'amico Putin, l'amico Aznar. Le correnti psicologiche più avanzate si chiedono come mai gli amici di Berlusconi siano in prevalenza all'estero, e tutti i nemici in patria. Sarà perché i leader internazionali lo prendono a piccole dosi, mentre in Italia siamo in over, e quindi dagli amici ci guardi Iddio? Appare in condizioni solo lievemente sopra la norma il centro cerebrale dell'anticomunismo. La creazione della commissione Mitrokhin, con la presidenza del senatore Guzzanti, consentirà di spulciare conti di ristoranti e rimborsi spese farlocchi, come ironizza l'esperto di intelligence Edward Luttwak, ma intanto ha placato il furore berlusconiano: si scoprirà sicuramente che l'oro di Mosca indorava il Pci, e questo consentirà di riaprire la polemica contro la solita sinistra impresentabile, «che ha perso la testa», «che non ha un leader», e che soprattutto ha il comunismo nel sangue. Sono depresse invece le onde cerebrali nell'area del miracolo economico. A dispetto degli sforzi fantasiosi dell'Homo tremontanus, cioè il superministro dell'Economia, le ombre di Osama e Saddam, di Enron e WorldCom non si dileguano, gli investimenti ristagnano, il gettito latita, il Pil rimane piatto, le previsioni dei primari istituti sono al ribasso, il deficit si innalza, i progetti sulle Fondazioni affondano, i ticket aumentano, il Dpef è una scommessa, per il taglio delle tasse vedremo: e se poi la gente si incacchia, e non crede più alla lagna dell'extradeficit? Per ora ha funzionato solo il rientro dei capitali, ma chissà se i predetti capitali sono rientrati davvero o se sono solo stati ripuliti a modico prezzo restando oltre confine. Fatto sta che il miracolo è rinviato, e questo addolora la psiche generosa del Cavaliere. Bisogna che Tremonti si dia da fare, anche se neppure il Mago del Boom può fare molto contro il crollo delle Borse, la stagnazione Usa, la lentezza Ue e insomma il momento generale, come dicono gli economisti più sofisticati, di sfiga. Vanno meglio le condizioni nell'area cerebrale del sospetto, che com'è noto è l'anticamera della verità, ma questa volta a parti rovesciate. Con l'approvazione alla Camera alta del dispositivo Cirami (un dono del re mago Melchiorre) si è fatto un passo avanti. Occorrerà ancora un po' di pazienza, e poi la battaglia sarà vinta. Altro che incapacità di governo: ecco la riforma della "previtenza", addio ai giudici, e onore restituito all'eroico Cesare. Gli oppositori si potranno rifare leggendo le tirate del sommo politologo Giovanni Sartori contro il ddl Cirami e contro la frittatina o meglio la frattinata sul conflitto d'interessi, oppure leggendo le lenzuolate barocche di Franco Cordero, scienziato insigne che Giuliano Ferrara celebra come massimo scrittore italiano per svilirlo invece come giurista praticamente girotondista. Ottimo l'intrattenimento linguistico del professore, ma irrilevante la sua tesi giuridica: «Uh, quanto sbaglia, Cordero». Ottimo anche il rendimento nel centro neurale del potere. Sotto la regia del cardinal Letta, si è raggiunto un magistrale equilibrio fra sgangheratezze istituzionali e ricuciture successive. I guastatori fanno gli sbreghi e i cardinali rammendano. Perché scandalizzarsi se il presidente del Senato non si dimostra proprio bipartisan? Appena eletto, il sor filosofo Marcello (cfr. Immanuel Kant, "Critica della ragion Pera") aveva dichiarato che il suo compito sarebbe stato di permettere all'opposizione di opporsi, ma "soprattutto", parola sua, di consentire alla maggioranza di realizzare il suo programma. E allora, dov'è la sorpresa? Di che s'indigna Fassino? L'Ego di Berlusconi non potrebbe svilupparsi in tutta la sua grandezza se non ci fosse il sostegno del clan: con la sofisticata intelligenza bibliofila di Dell'Utri, il costante richiamo alla civiltà giuridica di Previti, il sostegno a spada tratta e la dialettica squisita di Schifani contro questo schifo di opposizione, e sullo sfondo le canzoni napoletane di Mariano Apicella che gli fanno dimenticare vecchi dolori partenopei. Appare in pausa per ora il centro del controllo sull'informazione. La quotazione generale è sui massimi, dato che con la Rai è andata benissimo, Tg1 e Tg2 sono sotto controllo e parlano delle vacanze; dopo il celebre discorso anticrimine dell'Operaio bulgaro, Michele Santoro verrà ridimensionato o espulso, Enzo Biagi è stato colpito anche se non del tutto affondato, la stampa di proprietà o fiancheggiatrice fa il suo lavoro. Di tanto in tanto però, malgrado l'invocazione della Madonna del Bonaiuti, si accende nella corteccia un nodo di neuroni, un nucleo di cellule che si infiamma quasi dolorosamente, un puntino di emicrania che si risveglia in certe notti: è il fastidiosissimo focus cerebrale connesso al "Corriere della sera". Vabbè che si possono sparare bordatine contro Ferruccio de Bortoli con le querele avvocatizie di Ghedini e Pecorella, che lo si può inondare di lettere di Previti, ma che fare se quello insiste con il truce Sartori e l'infido Galli della Loggia? E Romiti, che farà Romiti? E Ligresti, entrerà Ligresti? «Non sono un dittatore», ma ci diamo una mossa? Di fronte a questi dubbi eccelsi, la mente dell'Operaio supremo si arresta. Gli strizzacervelli si tolgono il camice. Avrebbero dovuto mettere sotto osservazione il centro del sondaggio, ma gli ultimi dati non sono così elettrici. Meglio lasciare passare l'estate. A settembre l'Operaio si rimetterà all'opera, instancabile: perché questo cervello non si ferma. Per patto. E per contratto.
L'Espresso, 01/08/2002
Una vita in rosso
Eccolo, Luca Cordero di Montezemolo, il Candidabi-le. Di ritorno da Torino, dopo un incontro alla Fiat con Paolo Fresco. Mentre gli esperti di Formula Uno si chiedono se riparte una nuova avventura alla Ferrari e i voyeur politici spettegolano sulla Farnesina. Come uomo simbolo, dopo i trionfi della Ferrari (tre titoli piloti e tre costruttori, pronti a diventare quattro in poche settimane), è un pezzo pregiato. Dopo l'affaire Mediobanca, lui stesso ha mostrato qualche incertezza: prima ha parlato di una pausa di riflessione, poi dell'avvio di un nuovo ciclo. E allora che succede, avvocato Montezemolo? «Semplicemente che vedrete ancora Montezemolo alla guida della Ferrari. E per un motivo esplicito: per me la Ferrari rappresenta una scelta di vita. È parte di me, come lo sono le persone che ci lavorano. Lo è il prodotto, lo è il territorio. Un distacco sarebbe stato uno shock. Però questo non significa che sarei rimasto a qualsiasi condizione». Qualcuno voleva dimezzarla? «Vede, le vittorie danno belle soddisfazioni: ma io non dimentico i tempi difficili, gli anni fra il 1991 e il 1993 passati senza vincere una gara. Se oggi siamo a questi standard, lo dobbiamo agli azionisti che hanno avuto pazienza, e che ci hanno dato una grande autonomia operativa e decisionale. Oggi sono orgoglioso che la Ferrari sia un elemento importante nell'ambito del gruppo Fiat. Se siamo arrivati al punto in cui siamo, lo dobbiamo anche al grande supporto del gruppo. Ma anche alla Ferrari, come in tutte le aziende, ci vuole uno che comanda, decide e si assume le responsabilità. Insomma, ci volevano le condizioni per continuare a lavorare bene, insieme alle persone con cui si è fatta la grande fatica: che sono anche uno dei motivi per cui dico sì, rimango alla Ferrari». Anche se ora ci saranno azionisti nuovi. «È un tema inedito per un'azienda che è stata sempre o di un unico padrone, Enzo Ferrari, o con una Fiat molto defilata, ai tempi di Ferrari, e poi con la Fiat unico azionista, a parte il figlio di Ferrari, Piero, con il 10 per cento. La nota positiva è che questo dischiude nuove possibilità di sviluppo. Ci potrebbe essere il rischio che a comandare siano in troppi, ma sono sicuro che l'operazione lascerà alla Ferrari la sua autonomia e rapidità di decisione, mantenendo inalterate le caratteristiche di cui sono geloso: un grande rapporto con il territorio, con una cultura che è quella della provincia operosa e non provinciale, che ha le finestre aperte sul mondo, ha gli stabilimenti più innovativi, e il rapporto con i fornitori tecnologici d'eccellenza. Tutto questo è essenziale, e non cambia se l'azionista è uno o sono dieci». Ma non si è stancato del mondo delle corse, della sua esasperazione? «Dall'esterno sembra che tutto sia perfetto, sincronizzato, freddamente calcolato. Ma in effetti il lavoro è durissimo, ogni quindici giorni c'è il giudizio universale delle corse, occorre restare concentrati ossessivamente sullo sforzo di migliorare. In questi anni il miglioramento è stato grande, proprio perché non ci siamo fermati sugli allori: questa tensione la si sopporta solo insieme a persone di qualità straordinaria». Anche vincere genera assuefazione. «Eppure ogni volta le sensazioni cambiano. La vittoria a Magny Cours, domenica scorsa, è stata una soddisfazione enorme, perché nella vita ripetersi è più difficile che vincere. E in quel momento sa a che cosa ho pensato?» Avrà pensato: e adesso voglio vedere... «Ma no. Ho pensato agli italiani. Al nostro paese, a quanta gente lavora con la stessa nostra passione. Alle tante aziende di primissimo livello, che se la battono tutti giorni e non hanno la stessa nostra visibilità. Per la prima volta non ho pensato solo agli azionisti o ai tifosi: ho pensato, accidenti, abbiamo dimostrato di essere una bella cosa di questo paese». Molto patriottico. Forse anche molto politico. «Nel senso migliore in cui si può intendere la politica, sicuramente. Io non ho il disprezzo demagogico per le responsabilità che si assumono politicamente». In sostanza qualcuno le ha chiesto o no di fare il ministro? «Questa volta no, nessuno». Secondo i boatos degli ultimi giorni, pare che Berlusconi fosse impaziente e lasciasse passare il messaggio: "Luca deve decidersi". «A me non l'ha detto». Ma nel caso avrebbe accettato un compito del genere? «Diciamo che a me non piace l'armiamoci e partite. Non mi dispiacerebbe fare qualcosa per il mio paese». Insomma, è vero che lei era a un punto di svolta. «In questi mesi mi sono posto il problema. La conclusione è che la mia vita è legata alla Ferrari e che qualunque altra cosa avessi fatto rischiava di farmi sentire un estraneo. Anche se in questo momento ho tutto da perdere. Tuttavia non mi piace chi se ne va da vincitore facendo calcoli interessati. Ho pensato: resto alla Ferrari, ma penso anche a qualcosa di mio, un progetto a livello imprenditoriale che non c'entri niente con le macchine, ma che mi permetta di pensare che in prospettiva nella vita ci può essere qualcosa di mio». Lei passa per un uomo immagine, ma è un maniaco del lavoro. «Ho 54 anni. Voglio ancora impegnarmi a fondo quattro o cinque anni. Il dopo Ferrari, quando verrà, è pieno di possibilità. Ho anche il desiderio di occuparmi degli altri, mettendo a disposizione relazioni ed esperienze. A qualcuno potrà sembrare un'idea singolare, e invece è un elemento importante del mio futuro. E poi la famiglia, mia moglie Ludovica, i figli. Con i grandi mi diverto molto, ed è bello vedere crescere la più piccola, Guia. Ma è lontana da me l'idea del ritiro». Intanto si riparte dalla Ferrari. «Mi ha fatto piacere che Todt e Schumacher, tra gli altri, abbiano detto che sono pronti a ricominciare. La Ferrari di oggi non sarebbe mai giunta ai livelli attuali senza il nostro gruppo». Ciò significa che i contratti di Todt e Schumacher verranno allungati oltre il 2004? «Abbiamo sempre detto che se la squadra si fosse sciolta, si sarebbe sciolta tutta insieme. Quindi la risposta è sì. Il mio obiettivo è portare il vertice della Ferrari fino al 2006». Nel frattempo lei dovrà anche completare il rilancio della Maserati. «Abbiamo due modelli sportivi, macchine che si mettono in concorrenza con la Porsche, e alla fine dell'anno prossimo presenteremo una berlina firmata Pininfarina che si misurerà con le grandi Mercedes e Bmw, per coprire una fascia di mercato nuova per l'auto italiana. È una sfida impegnativa: la crescita della Maserati è importante perché l'anno scorso ha venduto 1800 esemplari, ma già quest'anno ne venderà 3600, e nel 2005, dopo l'uscita della quattro porte, abbiamo un obiettivo di 6000 auto». Con la Fiat in difficoltà si può fare? «Sono prodotti molto diversi dalle Fiat. Inoltre, sono convinto che la Fiat ha tutti i mezzi per poter superare questa crisi. E nel passato tutto ciò che abbiamo chiesto la Fiat ce l'ha dato». Saranno necessari investimenti massicci. «Questo rimane uno degli obiettivi dell'ingresso in Borsa. Vedevo tre ragioni per la quotazione: restituire agli azionisti i soldi che non si sono presi in questi anni, dato che la Fiat ha sempre lasciato i dividendi dentro la Ferrari per investire. Secondo, dare al gruppo Ferrari-Maserati risorse ulteriori per lo sviluppo. Terzo, assicurare incentivi alla gente che ci lavora per coinvolgerla nel futuro dell'azienda. Poi la Fiat ha pensato di fare diversamente, cedendo il 34 per cento a Mediobanca, ma l'obiettivo della Borsa rimane assolutamente prioritario». Quanto ha pesato in queste fasi l'assenza di Gianni Agnelli? «L'Avvocato è un punto di riferimento talmente forte che è difficile pensare che un suo distacco non significasse molto. Però devo dire che io, come altri, ho apprezzato molto gli interventi di Umberto Agnelli quando ha dovuto gestire due assemblee molto delicate, Ifi e Ifil, in assenza del fratello. E quindi, anche in condizioni difficili, che ci sono state, oggi mi sembra di vedere un impegno molto significativo». Si sono viste perlomeno alcune difficoltà di comunicazione. «In questi mesi la Fiat ha scontato il fatto di dover prendere molte decisioni, continue, immediate. Io stavo lavorando bene con il gruppo di banche con le quali si preparava la quotazione. La Fiat ha fatto un ottimo affare vendendo a Mediobanca. Adesso si tratta di continuare a lavorare per dare soddisfazione agli azionisti attuali e futuri, perché come si è visto il valore sul mercato della Ferrari è un valore importante. Se questo, come credo, è il frutto di un buon lavoro, credo che si possa ripartire in velocità».
L'Espresso, 01/08/2002
GURU MOGOL
Quando l'ubiquo ministro delle Comunicazioni comincia a parlare della sua fissazione preferita, la cultura di destra e le sue emarginazioni, si avverte dopo poco un certo affanno: eh già, ogni volta Maurizio Gasparri deve tirare fuori gli stessi nomi: l'autore del film dei film ("Claretta"), cioè Pasquale Squitieri; e poi Giorgio Albertazzi, il solito Luca Barbareschi, il reduce Lando Buzzanca. Ma ultimamente Gasparri ha preso l'abitudine di aggiungere all'elenco la figura decisiva, la risorsa estrema, l'ultima briscola. Prego dimenticare Veneziani e Fisichella: la musa di Gasparri si chiama Mogol. A Pierluigi Battista, in un'intervista per "La Stampa" nell'occasione del convegno culturale "La destra ascolta", Gasparri ha dichiarato che gli intellettuali della destra «gli Albertazzi, gli Squitieri, i Mogol devono capire che è finita l'èra delle discriminazioni». Mogol?, eccepisce Battista. Risposta di Gasparri, filosoficamente perentoria: «Ricordo il mio professore di religione che sosteneva che il testo dei "Giardini di marzo" rivelava un'influenza kantiana. Non so se sia vero. Ma uno come Mogol è il simbolo di una cultura non allineata che oggi deve avere spazio». Per Giulio Rapetti, classe 1936, la definizione di "intellettuale di destra" è doppiamente problematica. Intellettuale, boh. Di destra, chissà. Figlio d'arte, sicuramente sì, dato che suo padre Mariano, direttore della musica leggera alla Ricordi, con lo pseudonimo Calibi scrisse canzoni famose come "Vecchio scarpone" e "Le colline sono in fiore". Fatto sta che la carriera ufficiale del Gran Mogol comincia nel 1960 con "Briciole di baci", musica di Carlo Donida, portata al successo da Wilma De Angelis e soprattutto da Mina. Un anno dopo infila a Sanremo "Al di là", cantata da Luciano Tajoli e Betty Curtis: vittoria finale e strada aperta per la gloria. Solo un paroliere? Ce ne guardi Iddio: «Sono un signore a cui interessa comunicare». La faccenda della destra viene fuori in seguito a certe canzoni scritte per Lucio Battisti. Nei raduni tipo i Campi Hobbit i giovani destrorsi e reietti si struggono per le parole esoteriche di "Il mio canto libero": «In un mondo che non ci vuole più...». E anche: «La veste dei fantasmi del passato cadendo lascia il quadro immacolato...». Dice, non dice, forse allude, quelli ci credono. Però in un libro cult del 1979 ("Lucio Battisti. Canzoni e spartiti", Lato Side) l'irridente Gianfranco Manfredi, passato alla storia come cantautore dell'autonomia, lo chiama ripetutamente "il Geniale", ma nega che sia fascista: «Forse il termine giusto è "avventurista". Ma con sottolineato "turista"». In realtà l'ideologia di Mogol è piuttosto ballerina. Nel 1967 consegna a Gene Pitney e a Gianni Pettenati una canzone reazionaria che dice: «Ci sarà la rivoluzione, nemmeno un cannone però sparerà... È finita la rivoluzione, per sempre è finita e mai più si farà», e per sua sfortuna Luigi Tenco la addita all'esecrazione pubblica nel suo ultimo biglietto. Mentre in una storica intervista all'"Espresso" nel 1999, confessa: «Politicamente sono sempre stato un frigido. Credo negli uomini, non nelle ideologie». Certo, l'universo mentale di Mogol è riconoscibile, e scandito dal diluvio di maiuscole implicite di cui sono disseminate le canzoni. La Natura è un teatro di rocce altissime, cieli immensi, praterie sconfinate, le inevitabili discese ardite. La Donna, verosimilmente selvaggia, «un controsenso affascinante». La Politica una faccenda di «sorrisi e compromessi», in cui al massimo si vedono gli effetti mediocri della «politica del curato contro quella della giunta». La Casa è un Tempio, il Sesso «l'offerta del tuo seno, orgoglio dell'animale sano», il Mito è rinascere panicamente come «cervo a primavera». Siccome ha un'insofferenza per i critici «che stanno sempre col fucile spianato, pronti a demolirti», s'è anche messo a scrivere libri in proprio. Il primo, "Immensamente piccolo" (1990) era una raccolta di «centocinquanta aforismi usciti dal nulla»: «Alle quattro all'uscita dell'asilo fiorisce il selciato». «In amore si tradisce per cercare di vivere più vite». «I Tir in autostrada sono giganti imbronciati». Con Aldo Stella ha pubblicato nel 1999 un saggio di filosofia, "Il corpo dell'anima", con il sottotitolo rivelatore: "Dialoghi di un pomeriggio d'estate alla ricerca del senso della vita". In sostanza per farne un filosofo della destra, e neokantiano per giunta, ci vuole una certa determinazione. Vabbé che lui fa il possibile per apparire maschilista, che tratta le donne come strumenti per trasfigurare la quotidianità nella mitologia («Stalattiti sul soffitto i miei giorni con lei, io la Morte abbracciai»), che la sua psicologia è avvinta alla suggestione delle amicizie virili, che gli piacciono i ruvidi sport di squadra perché «vincere da soli è deprimente». Ma tutto questo non consente ancora di fare di tutta l'erba mogoliana un fascio gasparriano. Anche la sua creazione assoluta, il Centro Europeo di Toscolano (www. cetmusic.it), messo su nel 1992 ad Avagliano Umbro, «nella valle dei ciclamini», con investimenti stratosferici, non offre troppi spunti per trasformarlo in un ispiratore o guru implicito della destra: il Cet vuole essere una università della musica leggera, ma anche un luogo di pratiche di medicina alternativa, quasi con sfumature new age. Piuttosto che di destra, Giulio Rapetti sembrerebbe un uomo deluso dalla cultura ufficiale della sinistra. Magari perché a suo tempo Giovanna Melandri lo ha snobbato: «Come dovrei sentirmi allora io che in questo centro studi, considerato uno tra i più attivi in Europa, non ho mai avuto il piacere di ricevere la visita di un ministro dei Beni culturali?». Forse per provare a cogliere il Mogol più autentico bisogna uscire dalle fisime politiciste e considerarne la biografia: ci si accorgerebbe allora che il paroliere più amato da Gasparri è un figlio della Milano di periferia e di ringhiera degli anni Cinquanta, proprio come il quasi coetaneo Celentano a cui ha scritto addosso due miracolosi successi, gli album "Io non so parlar d'amore" (1999) e l'anno dopo "Esco di rado e parlo ancora meno": «È vero, io e Adriano siamo due vecchi ragazzi di una Milano che non c'è più». È di destra Celentano? Probabilmente sì, di una destra oracolare, fatta di prediche e moralismi planetari. Ma la "Weltanschauung" di Rapetti è la stessa di Adriano? O è più disincantata? Mogol finora non aveva mai mostrato velleità politiche. Al massimo si era concesso licenze poetiche. Si era compiaciuto quando la regione Marche, per celebrare il centenario di Giacomo Leopardi, annunciò un dibattito per scoprire eventuali assonanze «fra la mia creatività e quella del grande poeta». Nel frattempo, anche con Celentano, Mogol non ha rinunciato alla sua linea poetica: «Donna, sei dura come un sasso...»; «Ti prenderò, di notte e di giorno anche se tu dirai di no»; «Femminilità, son d'accordo ma non marciarci». Eccetera. Niente revisionismi. Se tutto questo sia sufficiente per cooptarlo come intellettuale della destra contemporanea bisognerebbe chiederlo a Gasparri, Storace a La Russa, e vedere se non si incacchiano perché il gran Mogol ha firmato il prossimo disco del giovane vecchio comunista di Dio Gianni Morandi. Sarà presa anche questa come una prova di non allineamento? Di trasversalità? Se funziona anche questa, nulla è precluso né ai riciclaggi di An né a Giulio Rapetti, il Trasversale.
L'Espresso, 25/07/2002
Ci vorrebbe un piccolo Buddha
Dunque il farmaco per l'Ulivo sarebbe la «vicinanza generazionale» con i giovani. A Giuliano Amato, vecchio e sottile dottore, è sempre piaciuto sparigliare: attacchi al "centopadelle" quando era in voga il partito delle cento città, aperture alle tematiche femminili in un universo politico protervamente maschilista, prove d'attenzione ai cattolici non solo sulla bioetica. Adesso, dopo l'incontro prodiano di Camaldoli, è arrivata un'intervista a "la Repubblica" in cui ha squadernato il suo largo ai giovani. Inutili le ironie sui leader da discoteca (abbiamo già dato, e avuto) e sui politici yè-yè. Anche perché secondo i sospettosi lo spariglio sui giovani ha l'aria di una mossetta movimentista per dissolvere l'ombra over-60 di Romano Prodi sull'Ulivo. In verità, Amato l'ha messa sulle generali: «Io penso che debba maturare una leadership più giovane, una nuova generazione, perché abbiamo una forte difficoltà a sintonizzarci con i giovani». Ma più che un problema di sintonia è un'antenna che non prende. Secondo l'indagine Iard sulla realtà giovanile, il 27 per cento dei ragazzi dichiara il voto per An, primo partito in assoluto. Eppure, se il centrosinistra vuole riguadagnare competitività deve caratterizzarsi in chiave moderna. Anche per mettere allo scoperto le contraddizioni interne al centrodestra: in una clamorosa indagine pubblicata nell'ultimo numero del "Mulino", il direttore dell'Istituto Cattaneo, Piergiorgio Corbetta, ha mostrato che la Casa delle Libertà è popolata di elettori "periferici", con vaste quote sopra i 65 anni (ampia presenza di casalinghe, pochi laureati, moltissimi non-lettori). Secondo questa analisi, Berlusconi usurpa la rappresentanza delle novità sociali. E quindi l'Ulivo dovrebbe porsi alla caccia di una leadership capace di connettersi con l'elettorato più giovane e dinamico, scoprendo il bluff in doppiopetto degli "old yuppies" di Forza Italia. Purtroppo dietro gli illuminati auspici di Amato c'è buio fitto. Può darsi che il piccolo Buddha sia già nato, e stia facendo in silenzio il suo training politico, ma per il momento non si è ancora manifestato né ai fedeli né agli infedeli. Così l'esame di maturità dei possibili leader generazionali è un centro di frustrazione permanente. Si guarda nei curricoli e chi si vede? Ecco il profilo in apparenza perfetto di Enrico Letta: trentacinque anni, ex ministro, il più ulivista dei margheriti, preparazione europea e spunti di humour da ragazzo disinibito. È il volto più "cool" del centrosinistra, capace di polemizzare a colpi di sarcasmo giovanilista con gli exploit di Giulio Tremonti: tuttavia il golden boy Letta, cresciuto alla scuola micidiale di Beniamino Andreatta, e suo successore alla guida dell'Arel, sembra più che altro un perfetto giovane vecchio. Piace alle dinastie governative, che vedono in lui la reincarnazione dei dc modernisti. Ma che il suo riformismo, situato all'incrocio di mercato e socialità, possa eccitare la fantasia del mondo giovanile è tutto da vedere. Provate voi a parlare della «comunità competitiva» (titolo del suo libro più recente) al popolo della notte, alle aspiranti veline, ai saranno famosi, e anche semplicemente ai normali individualisti plasmati da Mediaset: la comunicabilità non è immediata. Fra gli altri, e le altre, si è appannato il karma di Giovanna Melandri, che pure fece impazzire di rabbia il vertice del Polo in tv, semplicemente svelando con puntiglio liceale le velleità liberiste stampate nel programma. Fu chiamato "effetto Melandri", e qualcuno sostenne che la melandrinata fu il punto di svolta della vittoria del 1996. L'eterno ragazzo in blu Pietro Folena è stato giovane solo per dovere d'ufficio. Lapo Pistelli e Dario Franceschini sono promesse in via d'invecchiamento. Il resto, adulti precoci e ripetenti veri. Al sottile Amato, un Prodi in forma fisica superiore, con i suoi sette chili in meno (e tre ore e otto minuti sudati in bici fra Cesena a Camaldoli, tiè) potrebbe rispondere che giovani non si nasce ma si diventa: e lui, va da sé, modestamente lo diventò.
L'Espresso, 18/07/2002
Sublime, si stampi
Ma il sublime è di destra o di sinistra? Nel quarantennale di Adelphi, mentre la casa editrice guidata da Roberto Calasso segnala la ricorrenza con "Adelphiana", numero 1 di una «pubblicazione permanente», fatta di «inattualità, reale e immaginario» (Cesare Garboli), la domanda sembra fatta apposta per ridurre l'identità di un'intera esperienza culturale, filosofica, letteraria, scientifica alla grossolanità di uno schema condizionato dalla cronaca: sarebbe come portare la profondità dello spirito nel chiacchiericcio del politichese. Peggio: sarebbe come chiedersi come si colloca sull'"asse" progresso/conservazione tutta una letteratura e una visione del mondo che ambisce a essere eterna, o almeno atemporale. Una volta Calasso dichiarò che la Einaudi aveva fallito il suo compito perché aveva ceduto alla pedagogia politica, pretendendo di farsi coscienza nazionale. Mentre un'editrice plasmata dall'opus di Nietzsche (curato dalle passioni filologiche e dal puntiglio ecdòtico di Giorgio Colli e Mazzino Montinari) può contemplare la realtà solo attraverso la mediazione dell'assoluto, della vertigine, dello stupore, della contemplazione, del testo. Antropologie estreme, eresie radicali. Eppure, il fondatore di Adelphi, Luciano Foà, era stato iscritto al Pci dal 1948 al 1957 («Non perché fossi marxista, ma perché, come molti allora, vagheggiavo una società rinnovata»), trovandosi accanto l'attivista Giangiacomo Feltrinelli, e il suo ambiente comprendeva tutto il côté di Giulio Einaudi (Bobbio, Ponchiroli, Boringhieri, Lucentini, Calvino, Pavese) oltre che la frangia degli olivettiani. Piuttosto, la prospettiva "inattuale" proveniva dall'ispiratore eccentrico e semisegreto della casa editrice, il triestino Bobi Bazlen, con le sue propensioni verso letterature, umanesimi e antiumanesimi di confine. Ma se si prende l'insieme del catalogo Adelphi, "un libro fatto di libri", è difficile sfuggire in primo luogo alla sensazione che Calasso e la sua compagine editoriale abbiano formato, se non la coscienza, il gusto degli italiani colti, dettando tendenze ed evocando suggestioni, dalla Mitteleuropa di Arthur Schnitzler e Joseph Roth ai romanzi di Milan Kundera e Mordecai Richler, sempre in un clima di allusione intellettuale per cui spetta implicitamente al lettore accettare il dogma o il sofisma culturale suggerito, per non passare fra gli esclusi (e non conta nulla, essendo puro epifenomeno mediatico, che due dei massimi successi letterari di Adelphi, per l'appunto "l'insostenibile" Kundera e la "Versione" di Richler, siano stati sostenuti da due viziosi del trash come Roberto D'Agostino e Giuliano Ferrara). E subito dopo non si scappa neppure all'idea che il gusto supremo di Calasso non si sia espresso soltanto nella selezione della narrativa, ma in modo perfino più insidioso nell'individuazione di modalità sociologiche "altre". Ad esempio con il tentativo, fallito per irrimediabile impermeabilità del mercato, di designare l'"Homo hierarchicus" di Louis Dumont come opera-paradigma, in grado di interpretare l'India castale come le società postindustriali. Oppure con la presentazione dell'opera di Douglas R. Hofstadter ("Gödel, Escher, Bach: un'Eterna Ghirlanda Brillante") in modo da illustrare l'intelligenza artificiale come un divertissement intellettuale, una variazione anamorfica della scienza. E ancora presentando "Il grande massacro dei gatti", l'opera di Robert Darnton su quel Settecento che precede la Rivoluzione francese, come una lettura di gusto, una storia fatta di "stories", lasciando deliberatamente sullo sfondo la questione di un metodo che incrocia la ricostruzione delle mentalità con l'antropologia di Clifford Geertz. L'accademia seguirà. È in queste volute sfasature che si manifesta lo smisurato talento adelphiano per la contaminazione: nella capacità di accostare al determinismo etologico di Konrad Lorenz gli slittamenti new age del "Tao della fisica" di Fritjof Capra, al liberalismo storicistico di Benedetto Croce la mitografia di Giorgio de Santillana o le configurazioni psichiche di James Hillman. Punteggiando il tutto con una quantità micidiale di libri "cult", dall'efferato "Siddharta" di Hermann Hesse agli aforismi di Karl Kraus, da Cioran a Colette, da De Quincey fino all'ultimo dei grandi reazionari, il colombiano Nicólas Gómez Dávila. Insomma viene da chiedersi se insieme alle profondità insondate di Massimo Cacciari e alle eccelse superficialità di Alberto Arbasino, e fissando per sempre in un canone letterario adelphiano Nabokov e Sciascia, Bernhard e Márai, non passi un'idea di totale transfert all'impolitico come unica chance intellettuale per i contemporanei, in un mondo di detriti; e che la sola scintilla del sovrumano si possa rintracciare, per via gnostica, nelle "gemme", nelle "schegge", nei "cristalli" che traspaiono prodigiosamente nei testi. Dopo di che, si tratterebbe di capire se questo processo di estetizzazione non abbia condizionato i buoni e volonterosi lettori inducendoli a pensare che le modalità contemporanee dell'agire politico vadano messe in catalogo sotto la sigla delle apocalissi filosofico-letterarie. Se fosse così, verrebbe naturale pensare che qualche generazione cresciuta con il Pirsig di "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta" come alternativa al manuale di filosofia se la sia voluta di finire con l'idolatria filistea per Chatwin e le vacanze esotiche. Succede, talvolta, di amare la grande cultura per le ragioni sbagliate, scambiandola per bellettristica. E succedeva a molti di fraintendere che la cultura, anche quella di uno straordinario editore come Adelphi, fosse naturaliter "di sinistra": mentre loro, Calasso e gli altri, pensavano semplicemente che fosse sopra, o aldilà, o indicibilmente da un'altra parte.
pagina
di 66