L’Espresso
L'Espresso, 11/07/2002
La sinistra e il modello americano
Gli esami di coscienza che la sinistra europea dovrebbe imporsi, di fronte alle sconfitte elettorali in Italia e in Francia, e al brivido antisocialista che percorre la Germania, sono molteplici. Ma ce n'è uno più importante degli altri. Nell'ultimo decennio, infatti, le forze politiche continentali si sono fatte sedurre dall'idea di trasformare il capitalismo europeo in una imitazione dell'economia anglosassone. Sembrava impossibile resistere alla ventata d'Oltreatlantico, dopo il lungo ciclo clintoniano: e quindi i partiti di tradizione socialdemocratica, ma anche le coalizioni più genericamente di centrosinistra, si sono fatte trascinare dall'idea che l'unica economia e l'unico mercato possibili fossero quelli, idealizzati, in cui gli animal spirits svolazzano senza freni, con un ridimensionamento profondo delle strutture di garanzia collettiva. Come ha scritto un intellettuale di spicco, Zygmunt Bauman, si è persa di vista la nozione che il welfare state non è semplicemente un apparato che eroga burocraticamente servizi, bensì la concreta forma "etica" che istituisce nessi solidali con la parte svantaggiata della società. Ora, è vero che la politica sembra avere divorziato dall'economia, sicché un buon rendimento in termini di crescita non basta a mantenere il consenso (Jospin docet); ed è anche vero che sono le pulsioni sociali più grezze, in particolare verso l'immigrazione, a muovere il consenso politico. Quando però il capitalismo americano "produce" gli imbrogli Enron e Worldcom, e l'equilibrio economico mondiale viene incrinato dal tracollo dell'Argentina e dalla crisi brasiliana, viene da chiedersi a che cosa pensa la sinistra, anche quella italiana: ritiene di insistere sulla rincorsa affannata dei modelli neoconservatori? Spera ancora in quell'idealistico equilibrio di mercato che nella realtà non riesce a redistribuire la ricchezza? Il modello americano ha spremuto ciò che poteva spremere, sia nelle arene nazionali sia su base globale. Gli effetti perversi dell'illusione neoliberista pesano sul benessere anche delle nostre società: le "esternalità" (come le chiamano gli economisti) sono rappresentate dall'esclusione di intere fasce sociali, a cui viene a mancare ogni rappresentanza politica ed elettorale. L'obiezione secondo cui non c'è alternativa, poiché la competizione globale rende obbligatorie le scelte di politica economica, è in fondo miope. L'Unione europea è nata anche per poter giocare un ruolo dentro la globalizzazione. L'abbandono del modello europeo (l'economia sociale di mercato), è nato dall'infatuazione per le rutilanti performance americane. Adesso ci si chiede perché le classi dirigenti europee non hanno avuto né il coraggio intellettuale né la consapevolezza storica di valorizzare la propria specificità economico-sociale. Sarebbe curioso che alla fine la sinistra continuasse a scommettere sulle illusioni: lasciando così alla destra liberale il governo dell'economia, e alla destra nazionalpopulista la rappresentazione dei bisogni e delle delusioni degli esclusi.
L'Espresso, 27/06/2002
Aspettando Romano
Il gioco di formalismi che è una caratteristica classica della politica italiana stende un velo di leggere ipocrisie sulla candidatura di Romano Prodi alla guida dello schieramento di centrosinistra. La dissimulazione è legittima, eppure nulla è così sicuro come l'appello finale che gli rivolgeranno i partiti, per smuoverne eventuali dubbi e incertezze. Perché questa sicurezza? Ma perché non c'è nessuna alternativa. L'ingresso in politica di Sergio Cofferati, infatti, equivarrebbe a dare una coloritura "socialista" alla coalizione, irresistibilmente rétro sul piano delle suggestioni quanto politicamente non competitiva. Francesco Rutelli è stato un efficace "campaign manager" alle elezioni del 13 maggio 2001, ma ha visto sgretolarsi la sua leadership nell'anno successivo, riducendosi di fatto al ruolo di portavoce della Margherita. Altre ipotesi non esistono. Perfino il "Realpolitiker" per eccellenza, Massimo D'Alema, ha confessato che l'Ulivo attende Prodi. La cerchia dei fedelissimi diffonde perplessità sofisticate, chiedendosi se l'esperienza alla guida della Commissione europea non possa logorare il prestigio del Professore. Ma si tratta più che altro di amichevoli fumisterie: da un lato, le campagne di stampa contro Prodi, soprattutto in Gran Bretagna e in Germania, hanno sempre avuto un carattere strumentale, legato a dinamiche politiche interne; dall'altro, si può prevedere che la presidenza Prodi sarà tutta legata all'attuazione dell'allargamento. Lo ha detto esplicitamente a questo giornale qualche mese fa: «L'allargamento non ritarderà di un solo giorno... Non c'è nessun elemento per metterlo in discussione. Ci gioco il mio mandato, la mia posizione, la mia faccia. Ma soprattutto ci si gioca una prospettiva storica». Il calcolo di Prodi è trasparente: l'allargamento dell'Unione rappresenterà un Big Bang simile all'adozione dell'euro, e segnerà storicamente il suo mandato. L'intendenza seguirà. Tutto il resto è gossip delle burocrazie di Bruxelles, piccolo cabotaggio di potere, attrito politico e diplomatico inevitabile ma irrilevante. Quindi il suo ritorno in Italia sarà il ritorno di un uomo che è stato nella sala di comando durante il varo della moneta unica e al momento del pieno reintegro dei paesi centro-orientali nei confini dell'Europa. Fanno benissimo i suoi seguaci a troncare e sopire. Tuttavia, anche un semplice calcolo di opportunità porta a una conclusione obbligata: c'è qualcun altro che può ragionevolmente battere Berlusconi? Se c'è, si faccia avanti. Se non c'è, a questo punto vale per il candidato Prodi il motto che i tedeschi occidentali citavano sempre quando si sfiorava il tema della riunificazione delle due Germanie: "Pensarci sempre, non parlarne mai" (poi la Germania si è riunificata, quasi per inerzia geopolitica, per necessità storica, senza opposizioni, senza resistenze. Ecco, accadrà così anche a Prodi: lo chiameranno, perché non c'è altra soluzione. E tutto dipenderà solo dalla sua risposta).
L'Espresso, 13/06/2002
Luttazzi supershow
Berlusconi dice di avere 65 anni: in realtà ne ha 68, ma tre glieli hanno prescritti. Oplà, si sghignazza. Eccolo qui lo "one man show" criminoso, lo spettacolo itinerante di Daniele Luttazzi. Vox clamantis da una catacomba blasfema, da un ridotto sarcastico e lunare: il fortino di un fantasista colto, che probabilmente avrebbe voluto dedicarsi alle sue amate congetture di maniaco del sesso e che invece le ironie della cronaca hanno spinto all'impegno iper-politico. Solo, davanti a un pubblico che ride con complicità anche quando emette boutade tremende su Cristo in croce, Luttazzi risponde a presunte lettere di ammiratori. "Satyricon", exploit di resistenza pura, o di rassegnazione ultramilitante, oscilla per due ore fra il terrorismo verbale e la carognata surreale. «È l'equilibrio aureo della serata», ammicca il terrorista. «Prima un po' di battute elevate. Poi, scoregge». Con equilibrio aureo si infila in presunte centurie di Nostradamus: «L'aria di Porto Marghera diventerà così inquinata che la frase "chi ha scoreggiato?" verrà pronunciata con un sorriso di gratitudine». Dilata le narici con beatitudine, annusando l'aria. Tutta la prima parte dello show è berlusconeide allo stato brado. Condotta con lo stile di uno che al momento buono va in America, scopre David Letterman, si inventa uno stile pochissimo italiano, dove la crudeltà e la volgarità vengono sempre riscattate da un'alzata di spalle, da un gesto incredulo da clown bianco. Via con Berlusconi, dunque. Stupore quasi genuino quando racconta che un esperto giuridico di Berlusconi si chiama Pecorella, e l'altro, «non ci crederete», Vaccarella. Un belato, un muggito. Pecorella, beeeeh. Vaccarella, mu-uuuh. Una fattoria degli animali utilissima per elaborare tutto il sistema delle rogatorie, del falso in bilancio, del rientro dei capitali, con il parlamento messo alla frusta per sistemare le faccende di casa Berlusconi: «Mai vista una persona innocente darsi tanto da fare per farla franca». Il capo del governo si è lamentato che la triade Biagi-Santoro-Luttazzi gli ha fatto perdere due milioni di voti? Facile che abbia ragione, almeno nel caso di Luttazzi. La distruttiva intervista a Marco Travaglio ha lasciato il segno, ma l'impeto di Luttazzi viene fuori con effetti ancora più devastanti quando trasforma l'Uomo di Arcore in un saggio mimico stralunato: «Dice sempre: sono il migliore del mondo. Con gli operai dice: "Sono un operaio". Con i gelatai: "Sono un gelataio". Con i russi... Un momento di difficoltà, perché i russi, i russi... Poi mia madre mi ha ricordato che in gioventù ho scritto una prefazione alle opere di Cechov». Faccia stranita, occhi a palla, e inevitabile conclusione scatologica: «Ma va' a cagare!». Boato del pubblico. Un belato, un muggito. Beeeeh, muuuuh. Sono il migliore del mondo. Con ministri meravigliosi: Bossi ministro delle riforme: Bossi e riforme, un ossimoro. Scajola, oddìo, una malattia della pelle. Castelli, faccia da tassista abusivo, «ma senza averne l'autorità morale». «Ottima squadra, l'ha definita il migliore del mondo. Ma anche l'Avvocato Agnelli disse: ottima auto, ed era la Duna». Possibile che i garantisti della Casa non lo trascinino in giudizio per diffamazione? Già fatto, grazie: «Vogliono da me 41 miliardi in totale: ma non li ho, non sono un idraulico». Per fare l'antagonista, bisogna prendersela un po' anche con la sinistra. Ma prima è meglio chiarire: «Chiedersi che cos'è la destra e che cosa è la sinistra è una domanda di destra. Se invece eri di sinistra e ti fai queste domande significa una sola cosa: che hai sposato Ombretta Colli». Sistemato Gaber, un criterio c'è: «Con un governo di destra non riesco ad avere erezioni. E infatti con il governo D'Alema ho avuto un sacco di difficoltà». Rutelli? Mai disperare: «Hanno ricavato la penicillina dalle muffe, anche da Rutelli qualche cosa ricaveranno». Beeeeh, muuuuh. Rutelli ha fatto l'errore di andare in tv da Paolo Limiti, così tutti hanno potuto vedere che la cagnolina di Limiti era più carismatica di lui. D'altronde, in politica ci vogliono messaggi e simboli efficaci: John Kennedy, la Nuova Frontiera. Martin Luther King, "Io ho un sogno". D'Alema: "È pronta la mia barca?". Solo che le ironie a sinistra sembrano un obbligo, l'espressione di un disagio, la coazione del disinganno. Meglio tornare a destra. Beeeeh, muuuuh. «Gianfranco Fini al congresso di An ha detto che nel suo partito non c'è posto per i razzisti. Si vede che sono al completo». Di tanto in tanto, torna fuori il vetero-Luttazzi, quello che fa esplodere lo stile alla Woody Allen in un delirio porno: «Donne, uomini, siamo diversi, siamo agli antipodi. Primo incontro. Lei pensa: matrimonio in chiesa. Lui pensa: pompino in auto». E nel finale qualche petit macabre sulle fissazioni predilette: «Ho sempre la sensazione, mentre mi masturbo, che i miei parenti morti mi stiano guardando». Beeeeh, muuuuh. Firmato Daniele Luttazzi, sadico, coprofilo, maniaco per vocazione: estremista per uno scherzo del destino.
L'Espresso, 06/06/2002
La politica degli abbracci
Scena prima: in una conferenza stampa all'Eliseo, chiedono al presidente George Bush qual è il migliore alleato degli Stati Uniti. E Bush, simulando una cordialità ilare anche se non particolarmente convincente, emette un gridolino («Jacques!»), indicando uno Chirac un po' compiaciuto e un po' diffidente. Jacques, cioè monsieur Chirac, e non la Francia, non i francesi. Va da sé che la politica internazionale è diventata meno formale e più diretta: i summit come il G8 e i vertici europei favoriscono atteggiamenti inediti rispetto alle liturgie protocollari del passato. Silvio Berlusconi può dare un tocco di classe ai vertici europei esibendo le corna nelle foto ufficiali, ma non è nel torto quando parla di un clima di «cordialità, di simpatia, di amicizia» che può crearsi fra i leader mondiali. I capi di Stato e di governo non hanno più fra di loro le barriere ideologiche: la regola secondo cui le democrazie non si fanno le guerre, al massimo qualche dispetto, vale sempre di più, e nel teatro diplomatico il rapporto personale assume un ruolo cruciale. Scena seconda: non si riesce ad accendere la tv senza vedere il presidente del Consiglio italiano. Una presenza "normale", data la situazione di controllo mediatico vigente. Meno normale, o almeno più originale, è la permanente esibizione personalistica di Berlusconi, con la rivendicazione di primari successi nel pianeta. Il capo del governo si propone come il soggetto politico che ha condotto Bush e Putin a un accordo storico, e rivendica per l'Italia un ruolo di primissimo piano nell'arena mondiale. L'identificazione fra le proprie doti di leader e il ruolo da protagonista del paese è evidente, e viene sottolineata di continuo, in modo enfatico. Non è in certo modo irritante questa personalizzazione estrema della politica, che passa da accenni di goliardia alle pacche sulle spalle, dall'amicizia plateale all'euforia coatta da meeting? In tempi meno compagnoni, le élite politiche erano legittimate da meccanismi complessi, e la leadership incarnava una visione proposta da un partito o da una coalizione di forze coerenti. Soprattutto in Europa, anche le personalità più forti si proponevano come una sintesi: De Gaulle era la Francia dell'orgoglio nazionale, Adenauer riassumeva il pensiero cattolico social-liberale, Kohl era la forza rassicurante della Germania popolar-conservatrice. Oggi la personalizzazione non è più semplicemente uno strumento per esaltare una posizione politica, quanto piuttosto il surrogato di una politica assente o vuota. Per questo gli abbracci camerateschi e le risate conviviali fra i leader europei e mondiali hanno il tono noioso di una nuova ufficialità. Ma non c'è solo l'irritazione per l'allegria forzata. Dopo la catastrofe socialista alle elezioni presidenziali, diversi intellettuali francesi hanno criticato il sistema istituzionale del loro paese. Se infatti la costituzione repubblicana, ritagliata sulla figura dominante di De Gaulle, porta allo scontro fra candidati grigi, incapaci di esporre un programma politico qualificante e di offrire una "vision" per la società nel suo insieme, il confronto politico avverrà fra lobby partitiche unificate dagli interessi (quando va peggio, emergeranno pulsioni xenofobe e di chiusura antieuropea). Per l'Italia la situazione non è né diversa né migliore. La personalizzazione delle leadership ha fatto da surrogato per un certo tempo all'azione dei grandi partiti scomparsi, ma alla fine a dominare il campo è rimasta soltanto la personalità del Padrone d'Italia. Tutt'intorno, il deserto politico. E, nell'opposizione, non s'è ancora capito se si stia cercando un carisma personale di sinistra, o una proposta politica effettivamente competitiva.
L'Espresso, 30/05/2002
Lupi solitari
Tradizionalisti o postmoderni, protagonisti del mercato o vittime del marketing, conformisti o trasgressivi, i giovani degli anni Duemila sembrano soprattutto rifiutarsi ai cliché. E si capisce: la categoria sociale ed esistenziale di "giovane" si è estesa a dismisura. Il Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile, che esce in libreria la settimana prossima per i tipi del Mulino, è uno specchio di questa trasformazione: le prime rilevazioni, svolte negli anni Ottanta, si basavano su campioni di ragazzi in età fra i 15 e i 24 anni; nel decennio Novanta il limite più alto è stato portato fino ai 29 anni; in quest'ultima edizione l'inchiesta è stata dilatata fino ai 34 anni di età. Carlo Buzzi, lo studioso dello Iard che ha coordinato la ricerca insieme con Alessandro Cavalli, spiega la decisione in questo modo: «L'innalzamento dell'età di rilevazione è una soluzione inevitabile per poter osservare in quote statisticamente significative del campione il superamento delle ultime tappe della transizione, ovvero l'uscita definitiva dalle mura domestiche, la creazione di una nuova famiglia, la nascita del primo figlio». L'indagine dello Iard (un istituto milanese attivo dal 1961 nella ricerca sui processi culturali, educativi e formativi) è stata realizzata da 150 rilevatori, su un campione rappresentativo dell'intera popolazione giovanile italiana composto da 3000 intervistati. I dati raccolti sono stati analizzati, confrontati con le indagini precedenti e infine commentati da una trentina di studiosi. Ne è uscito un volume di quasi 700 pagine, che si presenta non soltanto come l'opera di riferimento essenziale in materia per la sociologia italiana, ma anche come un contributo di stringente interesse per chiunque voglia fare i conti con il mondo giovanile del nostro paese. Ilvo Diamanti, che ha curato il contributo dedicato all' "appartenenza territoriale", offre una prima definizione molto sfumata della galassia dei giovani italiani: «Mostrano un'identità territoriale aperta e composita, imperniata sulla dimensione urbana e municipale, riassunta dalla cornice nazionale, proiettata in senso cosmopolita e, soprattutto, in chiave europea. Invece di opporre il locale, il nazionale e il globale, li intrecciano». È il primo sintomo: almeno sul piano dell'identità nazionale non esiste più un distacco fra giovani e adulti. «I giovani esprimono tendenze che si stanno diffondendo in tutta la società italiana». Prima conclusione: «I giovani del nuovo secolo sono figli del loro tempo. Eredi dei loro padri. Senza rotture. Una generazione indifferente». Indifferente? L'aggettivo sembrerebbe adatto a uno sfondo politico di omologazione progressiva, di gestione delle coscienze attraverso la pervasività mediatica della televisione, di una retorica sociale egemonica. Ma se si abbandona l'ambito dell'identità il quadro risulta più sfumato. L'immagine del giovane contemporaneo potrebbe essere quella del ragazzo che opera una complessa integrazione fra strumenti tecnologici e pratiche di consumo ultramoderno, racchiuso nello spazio ad alta dotazione di quella che una volta era semplicemente la sua cameretta, e ora è la "technified bedroom", il luogo in cui si pratica la tecnologia, si esplora il web, si "scarica" tutto lo scaricabile, si crea musica clonata, si manipola il software. Ma forse questa è semplicemente l'immagine giovanile preferita dai media. Per capire qualcosa in più occorre individuare anche le caratteristiche psicologiche dei ragazzi. E allora verrebbe fuori come stigma centrale l'incertezza. Silvia Gilardi, che ha redatto il contributo su "Percezioni di sé e soddisfazione personale" lo rileva con chiarezza: «I ragazzi di oggi stanno crescendo in una realtà sociale ed economica in cui l'enfasi è posta sulla flessibilità e il cambiamento: la richiesta che viene dagli adulti è di essere disponibili a modificarsi, a ridefinire le proprie competenze e le proprie appartenenze, a spostarsi da un lavoro e da un luogo all'altro». Ne nasce una percezione di insicurezza che riguarda diffusamente tutte le classi sociali senza distinzioni. Il senso della precarietà è incombente: «Vivere in un mondo che esalta l'instabilità e la discontinuità, non solo lavorativa, ma anche affettiva, chiede agli individui lo sforzo continuo di ripensarsi, per poter affrontare condizioni di vita in cui la dimensione principale del quotidiano è il rischio». È per questo che si forma nei giovani una percezione di inadeguatezza, che investe in modo particolare le ragazze (più di un quarto vorrebbe avere più capacità decisionali, quasi un terzo si sente travolto da emozioni che lasciano inquiete; si preoccupano molto più dei maschi dell'aspetto fisico, a causa del persistere di uno stereotipo, molto interiorizzato, «che fa dipendere il loro valore sulla scena sociale dall'appeal fisico»). Si tratta di una condizione che vale in grande misura per l'età fra i 18 e i 20 anni; eppure non sono solo gli adolescenti e le ragazze a provare ansia, inquietudine, senso di confusione, sentimenti di tristezza e di paura. È vero che con il crescere dell'età si guadagna autocontrollo, ma anche fra i "giovani adulti" ultratrentenni uno su cinque "spesso si sente triste" e ha paura delle critiche. La categoria della "presentificazione", cioè la scarsa preoccupazione per ciò che potrà accadere nel futuro, era già stata codificata da Alessandro Cavalli nel 1997. Questo atteggiamento, sostiene la Gilardi, non implica la rinuncia a mettersi al centro della propria vita: permane il senso di poter decidere, di poter impegnarsi e di non delegare ad altri le decisioni: «Ma quello che i giovani sentono ormai impossibile è il valore della pianificazione razionale a lungo termine», commenta l'autrice: «Sembrano avere interiorizzato lo stile comportamentale sempre più enfatizzato all'interno dei contesti aziendali, dove è premiata la capacità di "navigare a vista", a fronte di obiettivi a brevissimo termine». Il senso di padronanza della propria vita si sviluppa con la maturità, tuttavia questa conquista deve continuamente fronteggiare un'altra sensazione dominante, la solitudine. Sentirsi soli significa l'idea di "muoversi senza protezioni in una realtà che restituisce uno sguardo poco benevolo, dove manca qualcosa, o meglio qualcuno, su cui contare". Non mancano i genitori, manca piuttosto il mondo degli adulti, l'immagine rassicurante delle figure-guida. I giovani vedono solo coetanei, magari sclerotizzati, irrigiditi dalle abitudini, comunque privi di autorevolezza morale. Mettiamoci il tramonto della politica e l'indifferenza rispetto all'impegno politico-sociale, la riduzione "postmaterialista" del valore del lavoro nelle strategie di vita, l'emergere della figura volatile del consumatore rispetto a quella del lavoratore, e più oggettivamente la perdita di prestigio del sindacato (quasi la metà degli intervistati condivide l'affermazione secondo cui «i sindacati tutelano soltanto coloro che sono già occupati»), nonché la precarizzazione del lavoro (gli "atipici" rappresentano quasi il 15 per cento dell'occupazione totale), e si avrà un quadro più chiaro dell'incertezza come dimensione della vita giovanile. Incertezza sulle strategie di vita che comporta il rinvio dell'uscita dalla famiglia e dell'assunzione di responsabilità come la convivenza e la procreazione. Ma non solo: di fronte a un mondo in mutamento, i "lupi solitari", questi individualisti dispersi che rifiutano la partecipazione pubblica, cercano nicchie di protezione: nicchie fisiche e spaziali, in famiglia e in casa; nicchie ideologiche, ad esempio, con l'adesione a modelli politici forti (come rivela il consenso per An, e simmetricamente la sovrarappresentazione di Rifondazione comunista); ma anche nicchie "mitologiche": il giovane degli anni 2000 si dichiara cattolico (80 per cento, con un deficit di 8 punti rispetto al dato generale della popolazione italiana), e rifiuta le suggestioni della new age (0,7 per cento) o delle religioni e spiritualità orientali (1,1). Tuttavia, la dominante cattolica è contaminata da evidenti richiami sincretistici: la maggioranza dei giovani (55 per cento) condivide la nozione che "tutto ciò che ci circonda (persone, animali, piante) ha un'anima", e il 20 per cento accetta l'idea della reincarnazione dopo la morte. Ma l'aspetto forse più evidente in cui l'incertezza esprime nuove tendenze riguarda la dimensione delle norme e della trasgressione. Sulla violenza, o sulla legalità economica, i giovani, seppur con varie sfumature a seconda della loro collocazione politica, manifestano un tendenziale consenso alle idee tradizionali: le "norme giovanili" non si discostano significamente dalle "norme sociali", se non per una maggiore soggettività di giudizio che investe anche aree di comportamento stressate negativamente dalla valutazione adulta (fumare tabacco, bere talvolta fino all'eccesso). Sul terreno dei comportamenti privati, a cominciare dalla sessualità, la liberalizzazione è crescente. Si vede invece una netta spaccatura sui temi "aperti" (aborto, droghe leggere, eutanasia, omosessualità), "con una divisione che passa fra coloro che mettono al centro la libertà individuale e coloro che sono più legati ai valori tradizionali della società". In ogni caso il criterio centrale di riferimento è la libertà individuale. Che dilaga, con un effetto sintomatico, in tutti i settori di attività permeati dalla nuova concezione di proprietà privata e di copyright determinata dalle tecnologie: la stragrande maggioranza dei giovani considera del tutto "normale" utilizzare Internet in modo anarchico, usare prodotti pirata, accedere senza controlli al software e ai file di musica. In questo caso, sottolinea il rapporto Iard, gli orientamenti rilevati non costituiscono semplicemente una "trasgressione", quanto piuttosto una "innovazione", cioè "un mutamento etico sostanziale". Incerti, più liberi, soli e consapevoli della drammaticità potenziale della loro condizione, i giovani si inventano online il loro codice morale.
L'Espresso, 30/05/2002
Generazione frantumata
Alessandro Cavalli, sociologo all'Università di Pavia, direttore da otto anni della rivista "il Mulino", ha curato con Carlo Buzzi il Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile. Professor Cavalli, lei ha seguito tutti i rapporti dello Iard sui giovani, dai primi anni Ottanta a oggi. Parliamo della generazione del nuovo secolo: possiamo effettivamente definirla come la generazione dell'incertezza? «L'incertezza è una chiave interpretativa di forte suggestione. Soprattutto nel senso che i tragitti di crescita individuale e collettiva sono diventati più complessi, e non appaiono più meccanici e prevedibili come in passato. Ma occorre tenere presente che non c'è generazione più spaccata di questa che abbiamo indagato». Per forza: con un campione che va dall'adolescenza ai 34 anni, le differenze sono pressoché automatiche. «Non solo. La generazione degli anni Duemila è politicamente polarizzata. Il rifiuto della politica è comune sia ai giovani di destra sia a quelli di sinistra, ma un blocco di differenze resiste. A sinistra si sente ancora il richiamo, o l'eco, dell'impegno sociale, e anche l'effetto di una mobilitazione che si orienta sui temi riconducibili alla sfera no global. Mentre i giovani che si identificano con posizioni di destra sentono molto più forte il richiamo del privato». Non si direbbe una novità. «La polarizzazione è anche intra-generazionale. I giovanissimi sono diversi dai giovani. Ad esempio, si registra una differenza significativa fra chi studia e chi lavora. In Italia non si è ancora completata la "grande trasformazione" consistente nel mantenere la quasi totalità dei giovani fino a 18 anni in un percorso formativo. Inoltre, la differenza fra giovani di destra e sinistra in chiave di impegno sociale, un dato comune a tutte le ultime ricerche, da quelle dell'Istituto Cattaneo di Bologna alle indagini svolte da Roberto Cartocci e pubblicate dal Mulino nel recente libro "Diventare grandi in tempi di cinismo"». E quindi come dovrebbe essere impostato un programma politico di sinistra per tenere conto della variabile generazionale? «Dovrebbe curare di più i giovanissimi, praticando un investimento di medio-lungo periodo. Il fatto è che non esistono più gli strumenti di immediata traducibilità politica del consenso giovanile. I partiti sono lontani. Si vedono solo i movimenti. Una volta che si è perso il canale di comunicazione con questo segmento di generazione è drammaticamente complicato ripristinarlo. Ma è evidente che si tratta di una questione europea, non solo italiana». Vuol dire che la maggioranza dei giovani d'oggi è naturaliter di destra? «No, vuol dire che cresce la disomogeneità fra gli orientamenti. Questa diso-mogeneità si appiattisce fino a scomparire per ciò che riguarda i tratti culturali, in particolare nei consumi culturali e di intrattenimento, ma sarebbe un errore di marketing politico considerare i giovani come una massa indifferenziata». Bisogna fare i conti con una società futura che sarà una società spaccata? «Di sicuro si può dire che mai come oggi sembra avverarsi la diagnosi di Giovanni Sartori sulla democrazia italiana gravata dal "pluralismo polarizzato". E sotto il profilo sociologico si può riconoscere che nelle indagini precedenti risultava un quadro meno divaricato. Siccome la politica si alimenta troppo spesso di immagini stereotipate, conviene tenere sott'occhio la realtà che si sta delineando, altrimenti non si farà politica, si farà mitologia».
L'Espresso, 30/05/2002
Brivido MONDIALE
Ci mancava soltanto il rapporto della Goldman Sachs, secondo cui esiste una correlazione secca fra rendimento calcistico e performance economica di un Paese; ma adesso sappiamo qual è la vera posta in gioco dei Mondiali in Corea e Giappone: cioè che Giovanni Trapattoni non affronta semplicemente un torneo internazionale, bensì un referendum planetario sulla credibilità italiana. E si capisce anche meglio, a posteriori e di conseguenza, il fragoroso exploit di Silvio Berlusconi contro Dino Zoff, appena conclusa la disgraziata finale degli Europei contro la Francia. La conquista di un trofeo pedatorio vale quanto alcuni decimali di crescita del Pil. E di conseguenza gli italiani che scenderanno in campo in Estremo Oriente avranno il compito di miracol mostrare, nel senso dell'immancabile boom. Perché tu sarai stato capace di mettere d'accordo due punte come George Bush e Vladimir Putin, ma il mondo si aspetta di vedere se si può fare convivere Totti e Del Piero. Secondo una rigida lettura marxista, nel 1994 la partita contro la Bulgaria fu la sovrastruttura, il prodotto "coprente", per il decreto salvaladri; idem, nel 2002 le eventuali vittorie della nazionale fornirebbero la prova collaterale che il "boost" dell'economia non è un'invenzione del fantasista Tremonti. Purtroppo una visione materialista del calcio avrà pure una plausibilità nel lungo periodo, ma un campionato mondiale vive nell'episodio, non nella longue durée. Di fronte alle ciclicità storiche di Fernand Braudel c'è sempre il rischio di trovare un perfetto sconosciuto che manda all'aria i piani, come quel mezzosangue Wiltord che in extremis, e con la complicità disperata di Toldo sul rasoterra, due anni fa sottrasse ignobilmente alla sesta potenza economica mondiale la coppa europea. L'Italia che si candida alla finale mondiale è una squadra fortemente assestata sul centro, vale a dire sull'asse che parte da Buffon, passa per Nesta e Cannavaro, viaggia sui lanci verticali di Di Biagio, passa per Totti e finalizza con Vieri. Dritta come un'autostrada. Proprio una nazionale centrista, senza dérapage a destra o a sinistra, visto che gli esterni, cioè le vecchie ali, sono in senso tecnico di classe media. Dicono gli esperti che sul cammino della nazionale, dopo il girone eliminatorio, gli ostacoli potrebbero venire dagli spagnoli di Raul e Morientes, attaccanti piuttosto fighetti, oppure dai portoghesi capeggiati dall'ombroso trequartista Figo. Insomma, nella strada verso il successo c'è un'ombra aznariana, o comunque di centro-destra fra l'iberico e il lusitano. Si può scommettere che il pathos nazionalistico raggiungerà apici notevoli già nelle eliminatorie, vista la tradizionale attitudine italiana a complicarsi l'esistenza con le avversarie di media tacca. È sempre così: all'avvio si corre; dopo si gioca e vengono fuori i valori. Conviene farsene una ragione, non lasciarsi prendere dall'ansia da programma della fase uno, e approfittare delle prime partite per dare un'occhiata alla concorrenza. I bookmakers, ossia i sondaggisti ufficiali del torneo, danno l'Argentina 7-2, la Francia 4-1, Italia e Brasile 6-1. Ecco dunque fatte le semifinali, secondo il voto dei mercati. L'Argentina sarebbe la più vistosa smentita del legame deterministico fra successo economico e prestazione sportiva, ma presenta un'infilata di fuoriclasse, dal difensore Samuel al centrocampista Veron e al centravanti Crespo, e soprattutto ha un orgoglio patriottico, un'indole nazionalpopulista, una innata vocazione peronista che la induce a considerarsi al vertice malgrado tutto, e a considerare il Mundial come una rivincita, o una "reconquista" tipo Malvinas, contro il complotto internazionale gestito da yanqui, Banca mondiale, Fondo monetario e squadre europee. Sembra meno complesso il discorso relativo alla Francia, da anni stabilmente al top: per noi, una finale contro i blu raggiungerebbe un'acme ansiogena terrificante, perché contro i francesi siamo usciti nel 1998 ai rigori, e abbiamo perso gli Europei due anni dopo, nel drammatico modo da cretini che sappiamo. Purtroppo per l'Italia, che è instabile emotivamente e che ha un quarto dell'economia in nero, i francesi avranno in nero un quinto della politica, ma la loro nazionale multietnica è un intreccio fantastico di illuminismo e fantasia "métèque". La classe statuaria di Thuram, che alla Juve sembrava in declino ma forse si riposava, lo stile mondiale di Zidane, autore nella finale di Champion's League del più colossale gol al volo dopo il siluro di Van Basten contro i sovietici 16 anni fa, l'opportunismo sottomisura che fa di Trezeguet il più spaventoso attaccante d'area visibile sui campi contemporanei, la velocità agghiacciante del dribbling di Henry quando sgomma sulla fascia, sono tutti fattori che possono mettere in grave tensione le chance italiane. Inutile farsi illusioni: a priori, l'egemonia europea è blu, non azzurra. Dopo di che, calma e sangue freddo. Durante le eliminatorie si metterà a fuoco il potenziale del Brasile, che alla lunga, quando per l'appunto occorrerà giocare e non solo ottusamente correre, farà vedere lo stile dei suoi jongleur: la classe calda di Ronaldo, se tengono muscoli e tendini, e la classe fredda di Rivaldo, forse il carioca più europeo generato da quella scuola. Al margine, si potranno osservare gli outsider: senegalesi, cinesi, camerunesi, nigeriani, giapponesi, turchi. Con un occhio al più bravo di tutti, il nano magico Owen, unica speranza del blairismo nel declino continentale del centro-sinistra. E tenendo in mente la risposta dell'indimenticabile Nereo Rocco, quando negli spogliatoi qualcuno diceva «Vinca il migliore»: «Sperèmo de no». Alla faccia della retorica "boomish" del governo, del forza Italia di prammatica, del contare di più in Europa e nel mondo, dell'amico Bush e del simpatico Putin, e di Goldman Sachs. Si può vincere anche in contropiede, da autentici ladri: tanto gli appositi decreti li hanno già fatti.
L'Espresso, 23/05/2002
Quercia dura senza paura
Nessun tabù neanche "di sinistra", figurarsi: «Ricordi quando eravamo comunisti? Grazie, non fummo». Si può essere l'opinion maker più crudele del Paese e nello stesso tempo avere un cuore bambino, nutrire tremori indicibili, rifiutare ogni esposizione pubblica? Si può. Basta essere ellekappa, ossia Laura Pellegrini, ex impiegata ministeriale, storica matita di giornali come "Tango", "Cuore", "l'Unità", "Smemoranda", attuale must de "la Repubblica" e di "Sette", inserto del "Corriere della sera". È in uscita un libro che raccoglie le sue vignette, "Le nostre idee non moriranno quasi mai" (Einaudi, Stile Libero): per qualcun altro, probabilmente, sarebbe stato l'occasione per un road- show. Invece niente. Il volume appare senza una riga di prefazione. Devono parlare, e colpire, soltanto i disegni. Scelta d'autrice, perché apparire è un po' morire. A libro pubblicato, i due dioscuri di "Stile libero", Paolo Repetti e Severino Cesari, tirano un sospiro. Con ellekappa c'è stato solamente un incontro, nella sede romana di Einaudi. E poi, sembra di capire, molte diplomazie quotidiane. Alla fine, il libro c'è e si apre con un tipico sarcasmo ellekappiano per dissolvere il clima alla Le Pen: «Tirate fuori il razzista che è in voi, e vi sputerà in faccia». Michele Serra, che l'ha avuta come collaboratrice a "Cuore", dopo l'esperienza di "Tango", dice: «Una come Laura, battutista formidabile, prontezza micidiale, stile assassino, avrebbe potuto essere una regina della Roma di sinistra». Lei «preferisce di no». Anche se Sergio Cofferati l'ama svisceratamente «per la verve», e Massimo D'Alema non le ha mai nascosto la sua ammirazione. Sentimento ricambiato da sempre, anche se adesso dal silenzio della sua casa romana ellekappa lascia filtrare suggestioni no global: «Per il futuro della sinistra e del Paese l'unica speranza continua a essere, nonostante tutto, Massimo D'Alema. Anche se a volte mi sento in preoccupante sintonia con la linea Casarini». Detto, in sintesi, con una vignetta: «I miti sono necessari». E allora? «I giovani devono avere delle t-shirt in cui credere». Ma a parte la passione politica per D'Alema, il risentimento per la destra e l'angoscia per l'autodistruttività della sinistra, c'è qualche altro affetto nella sua vita? Un sospiro, prima della risposta: «Le persone a cui voglio più bene sono Altan e Sergio Staino. Li considero proprio come fratelli: di loro e dei loro giudizi mi posso fidare completamente». È diventata la sacerdotessa della sinistra sconfitta, quella che ha visto crollare le certezze. E non solo: «Il dolore più grande della mia vita professionale è stata la chiusura de "l'Unità", soprattutto per il modo in cui è avvenuta». Cioè? «Una brutalità che non avrei mai immaginato». La malattia inesorabile della sinistra si può diagnosticare con una vignetta: «I diesse non sanno che cosa fare». Risposta: «È la cosa che gli riesce meglio». Oppure: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?». Stoccata finale: «Ormai a sinistra il confine tra filosofia e Alzheimer è molto incerto». E fuori dalla satira, che dire, che fare? «Credo che l'attuale situazione politica possa essere sintetizzata bene nel concetto espresso da Giancarlo Caselli: l'idea della verità rovesciata, capovolta». Diciamolo con la solita crudeltà. «Punto primo, il controllo sull'operato del premier passa all'opinione pubblica». Punto secondo? «L'opinione pubblica verrà privatizzata».
L'Espresso, 23/05/2002
Cronache dal secolo breve
Il vecchio è combattivo, in una forma fisica scintillante, anche se civetta sull'età. Presidia la sua postazione alla Rai circondato dall'affetto del suo entourage. Fa progetti. Il telefono squilla di continuo. Enzo Biagi, il «criminoso», l'uomo da epurare, da sospendere, da impedirgli di trasmettere per i prossimi anni. Fra qualche settimana dovrebbe filarsene a Mosca per incontrare Vladimir Putin, intervistarlo e scrivere la sua biografia. Minimizza: «Putin deve avere letto qualcosa di mio, e così mi hanno invitato». Intanto manda in libreria con Rizzoli un nuovo libro, "Addio a questi mondi", 336 pagine dedicate ai tre drammi del Novecento, fascismo, nazismo, comunismo: «È la raccolta di tutto quello che ho scritto in proposito, da cronista. Le testimonianze raccolte, gli episodi che ho vissuto personalmente, gli incontri, i protagonisti. E poi anche un bilancio, sempre da giornalista, delle illusioni di un secolo, delle speranze tradite, delle illusioni perdute». Biagi, a quale di queste grandi narrazioni del secolo si sente più vicino? «Al fascismo, senza dubbio. Per forza: sono stato il primo balilla del mio paese; un mio zio, squadrista, è stato fucilato dai partigiani, mentre un mio cugino, Bruno Biagi, professore universitario di diritto corporativo, è stato sottosegretario alle Corporazioni. Il fascismo è una storia di famiglia, anche se alla fine le mie scelte sono state completamente diverse». Ma vale ancora la pena di scavare dentro le storie del secolo scorso? «Ma certo. Altrimenti nella disinformazione generale si trovano dei giovani che al nome di Mussolini chiedono: chi, il padre del pianista? Non bisognerebbe perdere il senso del passato, altrimenti si smarrisce il significato delle conquiste. Chi glielo spiega ai ragazzi di oggi che le donne vanno nelle fabbriche e negli uffici perché ci sono state le guerre, con gli uomini al fronte?» Che cosa ha pensato ricostruendo le vicende delle tre grandi esperienze ideologiche novecentesche? «Grandi e terribili. Quando qualcuno equipara nazismo e comunismo sovietico mi dico che in realtà le intenzioni erano molto diverse. Ma le dittature si assomigliano tutte. Certo, c'è una differenza fra la crudeltà pagana del nazismo e quel coacervo di utopia e di crimine che viene fuori dalla rivoluzione d'Ottobre. Ma alla fine resta il senso di un fallimento, ed è vero ciò che diceva Nenni: se il socialismo non è umano non è niente». E che cosa prova di fronte al revival di estrema destra in Francia e in altri paesi europei? «Ciò che mi sembra inquietante è che siamo sprovvisti di antidoti. Vede, a volte mi sono chiesto perché a suo tempo io ho scelto la Resistenza. Credo che molto sia dovuto alla frequentazione di un circolo cattolico, e alle conversazioni con un amico divenuto prete dopo essere stato ufficiale in Africa. Dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini le scelte non sono state politiche, ma piuttosto di segno religioso, morale. Oggi, se Le Pen ha successo, vuol dire che mancano i criteri di riferimento per dire no». E come valuta il continuo revisionismo sulla storia contemporanea italiana, a partire dalla Resistenza? I morti sono davvero tutti uguali? «I morti sono tutti morti, innanzitutto. Certo, il rispetto vale per tutti. Ma le ragioni erano diverse, e su quelle non c'è da cambiare idea». Però lei se ne andò in Giustizia e Libertà, non con i comunisti. «Me ne andai con quelli di Gielle perché ero attratto da un'idea di civiltà e di onestà, e devo dire che a onore della verità lì di farabutti ce n'erano pochi. Eppure verso i comunisti italiani ho sempre guardato con un certo fascino e con molta simpatia. Una simpatia non politica, ma un sentimento che nasceva dall'avere condiviso un pezzo di storia». Lei è stato adolescente negli anni Trenta, quando il consenso al fascismo era al suo apice... «Vuole chiedermi se oggi assistiamo a situazioni che potrebbero preludere a una limitazione della libertà?» L'avrei detto in modo più sfumato, ma il concetto è quello. «Io continuo a ripetere quello che diceva Flaiano, e cioè che gli italiani hanno l'abitudine di correre in soccorso al vincitore. In questo caso al padrone. Strano, un popolo di individualisti che s'intruppa con il principale. Sarà perché non ci sono più le grandi passioni politiche della mia generazione. Uomini come don Zeno, come don Mazzolari, don Milani...» Tutti preti. Oggi dev'essere la sua giornata di buon cattolico, Biagi. «Sono un cattivo cattolico, ma sono preoccupato per l'indifferenza, per un'ottusità generale, forse provocata dal benessere: non c'è opposizione, non c'è nessuno slancio. Dove sono, che cosa fanno quelli che hanno liquidato Prodi? Non si vergognano di avere aperto la strada a Berlusconi? Pazienza D'Alema, che voleva prendergli il posto e quindi aveva un interesse politico preciso, ma gli altri, dove si sono nascosti, che cos'hanno da dire?» Di fronte al berlusconismo lei rimpiange il passato? «Moro, Fanfani, vuol mettere? E poi Nenni, verso cui avevo un grande affetto. C'era una visione del mondo, mentre adesso c'è una strategia di marketing». Di più, lei rimpiange la Democrazia cristiana. «Che è stata un eccezionale elemento di equilibrio. Che cosa sarebbe stata l'Italia senza la Dc, il 18 aprile 1948, senza le madonne pellegrine e i comitati civici di Gedda? Inoltre, la Dc era un corpaccione grande, in cui stava dentro di tutto, dagli uomini di Stato ai faccendieri, da duri uomini di potere a qualche utopista come Dossetti». Mentre sotto Berlusconi? «Tutto si omologa, tutto diventa uguale. Prendiamo l'informazione, e a come sta cambiando: anche nei momenti politicamente più difficili una personalità come Gianni Agnelli sapeva assicurare spazi di pluralismo. L'hanno definito un sovrano, ma sicuramente era un sovrano illuminato, capace di influenzare ambienti diversi, di dare una tonalità civile al confronto politico». Se tutto diventa uguale, qual è il destino di una democrazia? «Rispondo con le parole di Andreotti: non sono profeta né figlio di profeta. Mi accorgo che io stesso ho sempre meno voglia di arrabbiarmi. Quando mi attaccano rispondo, ci mancherebbe. Anche perché gli attacchi arrivano dai voltagabbana, anzi, da gente che ha dei corredini di gabbane a disposizione, ha capito?». E allora dove sono le personalità di resistenza? Sul Colle? «Ho un affetto personale per Ciampi, di cui condivido alcuni pezzi di storia e una cultura di fondo. Mi auguro che oltre a saper guardare le cose, al momento buono sia capace anche di intervenire, sulle cose, perché ce n'è bisogno». Lei sa spiegarsi perché metà dell'Italia è berlusconiana? «Quella di Berlusconi è una vicenda politica affascinante: sembra "Beautiful", non finisce mai, anche se lo spettacolo non è straordinario. Parliamoci chiaro: questi non vogliono l'opposizione, quelli che criticano lo show, perché lo spettacolo chiede solo applausi, ha un bisogno vitale degli applausi». Quindi lei si aspetta l'epurazione? «Intanto, andiamo avanti con "Il fatto" fino alla fine di maggio. Poi dovranno decidere che cosa fare. E sarà un problema loro. Perché se non mi vogliono più, dovranno dirmelo».
L'Espresso, 16/05/2002
Il cardinale controcorrente
Una riflessione non ovvia sulle prospettive dello schieramento antiberlusconiano potrebbe far tesoro delle parole che il cardinale Carlo Maria Martini ha dedicato al lavoro, in occasione del Primo maggio. Per poi metterle a confronto con la retorica di Silvio Berlusconi a proposito del mercato. L'arcivescovo di Milano ha svolto una critica alla "ideologia" del lavoro, inteso come una sfera che tende a occupare ed esaurire nichilisticamente tutti gli ambiti di vita. Il presidente del Consiglio ha dichiarato che «le forze morali, sane e buone del mercato sconfiggeranno le forze conservatrici», cioè quelle che si oppongono alle riforme del centrodestra. L'umanesimo del cardinale costituisce una delle pochissime voci in controtendenza che sia dato di ascoltare oggi, non solo nella chiesa. Forse che anche Martini è un reazionario, rispetto alla vulgata liberista, un conservatore fuori moda? Di sicuro la sua visione è radicalmente diversa rispetto al discorso marcatamente ideologico di Berlusconi. L'ideologia berlusconiana infatti rispecchia un'immagine settecentesca del capitalismo, una nozione classica, smithiana, in cui la logica del mercato pone l'individuo entro una competizione che premia la moralità dell'operare, l'efficienza produttiva e la creatività commerciale. Si dà il caso tuttavia che non siamo nel Settecento di Adam Smith e neanche nel Novecento di Max Weber. Siamo nella realtà postmoderna del caso Enron, del tracollo dell'Argentina, e (con un piccolo sforzo di memoria) anche dell'oligopolio illegale di Tangentopoli. Per questo risulta mitologico l'assunto che la moralità del mercato sia un valore preordinato: è solo il prodotto, difficile, faticoso, approssimato, garantito dal presidio delle regole. Il libero mercato di cui parla Berlusconi è un'astrazione pubblicitaria. Mentre il lavoro su cui riflette il cardinal Martini non è solo una funzione del mercato, un fattore della produzione o una derivata della competitività, bensì un aspetto della personalità umana e una forma dello sviluppo generale di una società. Dietro il glamour accademico e forzista dell'economia flessibile c'è la condizione precaria del lavoro contemporaneo. Cioè l'interinale, il rapporto a termine, la collaborazione non contrattualizzata, l'attività dequalificata trasformata in partita Iva. Tutti strumenti utili ad assicurare l'adattabilità degli apparati produttivi alle esigenze del ciclo, ma drammaticamente inefficaci per consentire agli individui di programmare la loro vita. Fra la moralità enunciata dal Cavaliere e l'etica raccomandata dal cardinale c'è una distanza incolmabile: o meglio, uno spazio che si può colmare soltanto con un programma politico. Che abbia come centro non tanto l'imitazione fiacca del ricettario liberista quanto il perseguimento di un profilo di società desiderabile. Già, un programma di centrosinistra: quell'idea di sviluppo socialmente compatibile che fra risse di coalizione e accecamenti personalistici è sfumata nei ricordi.
L'Espresso, 16/05/2002
L’EUROPA S’È DESTRA
Sarà perché la Francia è stata la vera culla dell'ideologia fascista, come scrisse Zeev Sternhell, l'autore del celebre saggio "Ni droite, ni gauche". Oppure perché, con tutte le debite distinzioni, negli ultimi vent'anni la Nouvelle droite ha furoreggiato sul piano mediatico, e il suo principale "idéologue", Alain de Benoist, è una stella fissa del radicalismo anticapitalista, antioccidentale, antiamericano. Sarà magari perché non si capisce del tutto a quale categoria politica appartenga il lepenismo: in un classico studio del 1982, René Rémond aveva composto una mappa delle destre, che comprendeva la corrente controrivoluzionaria (a partire dai "dioscuri antigiacobini" Bonald e Maistre), quella liberale degli Aron e dei Revel, e quella bonapartista, carica di pulsioni populiste e autoritarie; e Le Pen non si sa dove dislocarlo. Sarà per queste e mille altre ragioni. Altrimenti non si capirebbe del tutto il respiro trattenuto dall'Europa di fronte al successo del patron del Front national, Jean-Marie Le Pen, e all'attrazione dell'estrema destra sulle classi sottoprivilegiate. In ogni caso, senza un crogiuolo di pensiero e una "fracture sociale" misconosciuta, Le Pen non sarebbe uscito dalla maschera di ex poujadista, di "bagarreur", di torturatore in Algeria. Dal 1972 gli veniva riconosciuto solo il ruolo di federatore dei rottami dell'estrema destra, gli ex dell'Oas, i neonazisti dell'Ordre nouveau, i seguaci di monsignor Lefebvre, un'accozzaglia che aveva indotto proprio de Benoist a definire il Fronte nazionale "un fuoco di paglia". E invece. «Anche la categoria del "fascismo" è fuorviante», commenta Piero Ignazi, l'analista che ha dedicato all'estrema destra in Europa numerosi saggi: «A partire da metà anni Ottanta si è affacciato sulla scena europea un nuovo tipo di partito, molto più vicino ai conflitti della società postindustriale, di cui il Front national è il prototipo». Partiti "nazionalpopulisti", secondo l'etichetta coniata da Pascal Perrineau, come i Republikaner di Franz Schönhuber e la Deutsche Volksunion di Gerhard Frey in Germania, i "liberali" di Haider, il Vlaams Blok nel Belgio fiammingo, il Partito del progresso in Norvegia, formazioni razziste e xenofobe in Olanda. Sono esperienze politico-culturali simili in tutta Europa. Mancano del tutto i riferimenti al pensiero antidemocratico classico, a Maurras, Evola, Guenon, Codreanu. C'è xenofobia esplicita, rifiuto della democrazia rappresentativa, richiamo continuo al volere del "popolo", per "democratizzare la democrazia" (slogan di Haider), in funzione di una politica "autentica", di sostanza e non di procedura. Trovare un côté culturale simmetrico a queste visioni è arduo: non esistono infatti maître-à-penser riconosciuti dell'estrema destra attuale. In Germania, le principali personalità riconducibili alla "nuova destra", come il sociologo Henning Eichberg, coltivano terreni su cui fiorisce il concetto di "etnopluralismo" (per il quale la valorizzazione delle differenze nega l'integrazione multiculturale), e immaginano una via antagonista alla democrazia liberale percorribile dai "nazionalrivoluzionari". Puro romanticismo politico. Riviste come l'amburghese "Junges Forum" e "Junge Freiheit" (fondata nel 1986 con un discreto successo, con vendite che toccavano le 35 mila copie), battono in versione tedesca i temi cari alla Nouvelle droite. E l'intellettuale più noto contiguo alla nuova destra, lo scrittore Botho Strauss, espone concezioni metapolitiche fondate sull'auspicio di una "metanoia" dell'Occidente, un pentimento assoluto come unica chance di salvezza: la politica consiste in una serie di "emergenze" a cui non si può rispondere in termini di razionalità sociale, ma solo attraverso l'opera d'arte, con una estetizzazione totale. Se si volesse identificare un punto critico più significativo, occorrerebbe considerare il ruolo d'avanguardia interpretato a Karlsruhe da Peter Sloterdijk, filosofo noto anche in Italia per il saggio del 1983 "Critica della ragione cinica": il quale con una conferenza intitolata "Regole per il parco umano", in cui di-scuteva di "produzione di uomini" e di "antropotecniche", ha sdoganato insieme Nietzsche, Heidegger e l'eugenetica, collocandosi nella trincea opposta alla linea di pensiero che da Adorno e Horkheimer si stende fino a Habermas (che ha subito ribattuto duramente), e sistemandosi filosoficamente in una posizione tale da poter essere considerato l'anticipatore di una destra possibile in chiave di pensiero, anche se inutilizzabile politicamente. E allora, se il voto al Front national, come scrisse Perrineau su "Esprit" già nel 1988, è soprattutto «l'eco politica dell'anomia urbana», l'esito di una proletarizzazione della destra che consegna le banlieue alla protesta "nera", dove saranno i santuari culturali della destra anticapitalista? «Non in Spagna, il paese europeo simbolo della destra legittimata, che ha visto scomparire partiti espressamente neofascisti come il Frente Nacional e la Falange de la jons», sottolinea Ignazi. L'aznarismo sembra lasciare spazio solo alla "derecha" ufficiale. E in Italia? Il passaggio dall'Msi ad Alleanza nazionale, con il lavacro di Fiuggi, ha lasciato sola tutta la generazione che aveva importato le tematiche della Nouvelle droite. A partire dal politologo di Firenze Marco Tarchi, il fondatore della rivista "La voce della fogna" e soprattutto di "Diorama letterario", che ha fatto da laboratorio e da riferimento per la giovane destra non ufficiale, quella dei Campi Hobbit; e che sulla scia di uno degli spiriti più vitali dell'estrema destra italiana, Adriano Romualdi, scomparso a 33 anni in un incidente stradale nel 1973, aveva raccolto i giovani intellettuali in polemica con la polverosità dell'Msi, cioè l'allora redattore della "Notte" Stenio Solinas, il redattore culturale del "Tempo" Enzo Erra, Marcello Veneziani che era l'editor delle edizioni Ciarrapico, l'evoliano esperto di fantasy Gianfranco De Turris. La sintesi praticata dalla nuova destra italiana combinava Evola e la sua nozione del fascismo come "imperialismo pagano", la linea della Tradizione contro la Rivoluzione, e ovviamente gli autori di culto della destra alternativa: Tolkien, Gehlen, Bachofen, Simmel, Eliade, Salomon, Jünger, Schmitt. Che cosa potesse uscire di politicamente utilizzabile da questa miscela culturale è dimostrato dal ritiro dalla politica di Tarchi, e nello stesso tempo, ma in senso opposto, dal successo televisivo di Veneziani, divenuto il volto culturale ufficioso della destra moderata (ben più di un politologo del valore di Domenico Fisichella). Alla fine, benché un'onda di destra con tratti espressamente populisti abbia toccato Danimarca e Portogallo, per cercare di capire qualcosa del rapporto fra cultura di destra e politica di destra bisogna tornare in Francia. Regge davvero l'idea di una distanza incolmabile fra le posizioni di Alain de Benoist, con l'associazione culturale "Grece" e la rivista "Eléments", e il nazionalpopulismo? Nessuna osmosi fra il pensiero neopagano, "imperiale", antimoderno della Nouvelle droite e il programma lepenista? È vero che poco prima delle presidenziali de Benoist ha scritto ai giornali francesi una lettera aperta in cui sosteneva che la destra di Chirac non era votabile, fin quasi a preferirgli Jospin; ma se si guarda a ritroso, può venire il dubbio che le tesi del Grece e del cugino "club de l'Horloge" (un'associazione "nazional-liberista") contro l'omologazione delle differenze e contro il cosmopolitismo, abbiano contribuito a far circolare l'idea della "valenza positiva del tema delle differenze". Pensieri la cui eleganza li ha resi accettabili nel dibattito culturale; salvo poi trovare un uso ben più schietto nei programmi anti-immigrati di Le Pen.
L'Espresso, 16/05/2002
Compagno cuore
L'italiano moderno e di sinistra Michele Serra se ne sta sui colli sopra Bologna, nella campagna di nuovo selvatica dove è tornato il lupo, e sembra leggermente ansioso per l'uscita del suo ultimo libro, che si chiama "Cerimonie" (Feltrinelli lo manda in libreria la settimana prossima), una specie di nuovo esordio narrativo dopo l'ultimo romanzo, "Il ragazzo mucca". Dodici racconti accomunati solo da un'ossessione lieve riassunta nella prima frase del libro: «Saletti voleva pregare, ma non credeva in dio». Saletti sarebbe un pensionato comunista che di fronte al «rimescolo» del mondo moderno «decise di promuovere un gruppo di preghiera». Preghiera mondana, laica, il Nuovo Rito Ateo Moderno Mondiale. Con la parola "dio" scritta sempre con la minuscola: «Perché io, Michele Serra Errante, un nome che è un ossimoro, provo profonda commozione per le cerimonie, ma non credo in dio. Sento una specie di invidia del rito, anche se ho il terrore del ridicolo, o del New Age». Tavolino sul prato davanti alla casa, due cani che giocano (i due bambini, Teresa e Giovanni, a scuola; la moglie in città). Dicevamo? I riti, i riti, ma quali? Di che tipo? E infatti i racconti seguono generi variegati: c'è la narrazione metafisica, la satira di costume, la fiction pura, lo sprofondamento nella natura, l'autobiografia (con cedimenti madornali, ad esempio mentre tenta di torcere il collo a una gallina: «Me merda! Ohi me merda, me inutile coso di mezzo, mezza misura di ogni desiderio intero, di ogni impresa tentabile»; oppure con il ricordo dell'infanzia, ravvivato dalla macchina delle vacanze, la Seicento). «Fossimo negli anni Settanta, quando nel rock si facevano i "concept album", potrei dire che ho provato a scrivere un "concept book". O un libro-esorcismo, a metà fra il disinganno rispetto alle fedi e l'invidia per chi la fede ce l'ha». L'esorcismo investe anche l'italianità, e viene formulato in un racconto di vita comunista ("Appoggiavo il cappotto sopra un mucchio di altri cappotti"): «Io cominciai a sospettare molto presto di essere un italiano: dalla prontezza della battuta, dalla facilità con la quale familiarizzavo con le situazioni più disparate senza lasciarmene intaccare, dalla propensione a sciogliere tutti i nodi, personali e sociali, nel dolce solvente della mia adattabilità... Capii di essere troppo italiano per non desiderare di porvi rimedio». Il rimedio era l'iconografia delle sezioni di provincia, «la grossa faccia contadina di Di Vittorio, gli occhi tristi e sensuali di Berlinguer, il pizzo e gli zigomi di Lenin, gli occhiali severi di Togliatti, l'appeal cinematografico del Che, la fiammeggiante criniera di Marx»? «Il rimedio era la ricerca di senso, anche per reagire a una solitudine di fondo». Eppure in quello stesso racconto di notti invernali, di bacheche e di manifestini, Serra dice che il movimento comunista era un «gigantesco vaniloquio mondiale», in cui «casalinghe, studenti, insegnanti, coppie di fidanzati si alzavano a turno per parlare o dei destini dell'umanità o della grave situazione della nettezza urbana». In più, spesso sostiene di essere di sinistra «ormai per puro affetto». Siamo alla piena disillusione? «Al disinganno, certo, ma non al cinismo. Il cinismo, condizione fredda, è roba da intellettuali; mentre il disinganno è un sentimento caldo, o almeno tiepido, roba operaia e di popolo». In sostanza, lo scrittore italiano di sinistra oggi è sempre lì a elaborare il lutto, di fronte a un "popolo" che non sa bene in che cosa credere: «Resto convinto che uno scrittore deve fare domande, non dare risposte. Oltretutto, negli ultimi tempi ho avuto una certa dimestichezza con la morte, mio padre se n'è andato neanche tre mesi fa, e quindi l'idea del lutto è presente. C'è un racconto, nel libro, in cui un funerale si trasforma in un lavoro di gruppo, per via della lastra di marmo più grande dell'imboccatura del loculo. Ecco, passare dalla metafisica al cemento e agli attrezzi, dal senso della morte al ritorno incongruo alla vita è un rito che vale la pena di celebrare». Limitato, come programma politico. Perché i suoi lettori, i vecchi lettori di "Cuore" e i nuovi del post-girotondo, si rivolgono a lui proprio per avere risposte. Altrimenti a che servono gli opinionisti? «È vero, ricevo moltissime email. Ma mi dico che la scrittura è largamente preterintenzionale. Certo, mi piacerebbe scrivere come il Vonnegut di "Mattatoio 5" e avere la sua fantasia, che non ho. In compenso non mi sono mai dato delle limitazioni di genere. Ho scritto per il teatro, per i giornali, e poi poesia, narrativa, fino ai dialoghi tv per Asia Argento e Adriano Celentano. Mi sono convinto che, al di là di ogni categoria, ha ragione chi ha detto che il comico è solo il tragico visto di spalle». Un piatto di tagliatelle, due fette di lardo («vero che è migliore di quello di Colonnata, meno aggressivo?»), un bicchiere di dolcetto. Non è che ha voglia di abdicare, Serra? «Abdicare dalla sinistra no, anche se tutto è cambiato. Altrimenti faremmo come i personaggi di un altro racconto del libro, Manuel e Stefy, due disintegrati dal consumismo, supergippone, gadget tecnologici, culto del look. Diciamo che provo a esercitare l'intelligenza rispetto a un universo in cui il linguaggio è ammutolito e non comunica più. Quando muore un linguaggio non è che ne fai subito un altro». Ancora un po' e riconosceremo che è morta l'ideologia e il funerale è in corso. «Già, ma l'ideologia era come il latino, aiutava a essere "parlanti", dava la parola a chi altrimenti non l'avrebbe mai avuta. E così qualsiasi forma di ritualità mi attrae perché è codice, ordine, stile, quello stile che abbiamo perduto». Si potrebbe dire che molti hanno continuato a riconoscersi nella ritualità comunista quando restava solo la liturgia. Bicchiere di dolcetto. «Forse il comunismo finisce con Stalin e noi abbiamo partecipato all'amministrazione di un fallimento. Però era rimasto il linguaggio, parlavano quelli che non era previsto che parlassero». E quindi cosa rimane, "what is left"? «Uno rimane legato alla propria emotività, se si vuole a De André e a De Gregori. Ma più che altro, a una comunità: è seccante dirlo, però a me le persone piacciono». Per questo si inventano le cerimonie, per stare insieme? Anche la famiglia in collina è un modo per recuperare un rito? «La famiglia è una stabilità possibile. Alla fine io sono un uomo d'ordine. E anche il comunismo era un tentativo di mettere ordine al mondo». Tentativo fallito, e al termine della storia sbucano fuori i Le Pen. «Forse è necessario uno choc, anche se gli choc sono pericolosi. Si dice uffa che noia, ma dopo lo choc si dice che si stava meglio quando ci si annoiava. Vecchia storia. Vecchia cerimonia. Appunto».
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