L’Espresso
L'Espresso, 02/05/2002
Sensibilità trasversale
Per rispondere alle stranezze della Casa delle libertà, liberista in economia e centralista sulle questioni di coscienza, bisognerebbe evitare di eccepire nel nome di inderogabili quanto presunti criteri di libertà "laica e di sinistra". Nella bioetica il bipolarismo non funziona: le sensibilità individuali fanno premio sulle appartenenze di schieramento, e non è vero che per essere politicamente trendy e culturalmente adeguati è sufficiente sostenere il contrario di ciò che sostiene il centro-destra. Si dà il caso che un individuo di decente cultura politica, e di prudente ispirazione etica, possa essere perplesso o dubbioso rispetto alle possibilità manipolatorie della tecnica: e quindi propenso a considerare con un'ombra di sospetto qualsiasi atteggiamento prescrittivo. Anche perché, ad esempio, diversi aspetti delle tecniche di fecondazione artificiale appartengono a un universo dominato da forme di medicalizzazione spinta. E allora è di destra o di sinistra sostenere il diritto all'eutanasia per sfuggire all'accanimento terapeutico, mentre si accetta un accanimento di altro genere per procurare un concepimento? Dovrebbe essere consentito anche porsi il problema del destino degli embrioni in sovrannumero senza sentirsi accusare di dottrinarismo lepenista; e nutrire qualche dubbio sulla mentalità utilitaristica che accetta come male minore la loro utilizzazione come riserva di cellule staminali senza essere condotti a processo nel nome dell'illuminismo. Di fronte alle domande radicali, le sensibilità sono trasversali. Così, io posso essere sicuramente e classicamente progressista sul piano socio-economico, e nello stesso tempo essere diffidente rispetto alla libertà tecnica di riproduzione, omologa o eterologa che sia. Non solo: a voler estremizzare, sarebbe interessante valutare quanto sia politicamente generosa, oltre che umanamente soddisfacente, la decisione di adottare un bambino, o se invece non sia più impegnativa e "fair" sul piano dell'impegno sociale la scelta dell'affido. Ci sono insomma settori in cui i programmi politici sfuggono alle logiche partitiche e le intenzioni morali, così come le preferenze filosofiche, sono irrimediabilmente trasversali e soggettive. Si respinga pure la pretesa di imporre un canone bioetico, ma anche l'idea di reagire all'imposizione attraverso un canone opposto di libertà "irrinunciabili". Dopo di che, si obietta, rimane irrisolto il problema del "che fare" sul piano delle leggi. Ma talvolta di fronte ai dogmatismi, l'unica saggezza praticabile è quella incerta, dubbiosa, riassunta nel "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo".
L'Espresso, 25/04/2002
Consenso catodico
Dopo avere trasformato amplissimi settori di pubblico casalingo nell'immensa platea delle reti Mediaset, e poi in un elettorato persuaso che i programmi tv sarebbero divenuti un programma politico, Silvio Berlusconi deve solo completare il "job", e omologare anche la Rai. Non che ci voglia molto: come ha sintetizzato Giovanni Sartori, nella guerra dell'audience la concorrenza non genera miglioramenti dei prodotti, quanto livellamento al ribasso (anche dei consumatori). Quindi si tratta semplicemente di far sì che il combinato disposto del nuovo Cda e della fisiologica tendenza al conformismo politico delle tribù interne a Saxa Rubra rilasci i suoi effetti. Negli ultimi anni la Rai aveva mimato la tv commerciale, con le sole eccezioni fornite da quel tanto di anarchia implicito in una struttura pubblica. Adesso si tratta di piallare le eccezioni, dal radicalismo di Michele Santoro alle turbolenze creative di Boncompagni e Chiambretti, dalla vena antipatizzante di Enzo Biagi alle invenzioni di Carlo Freccero. In pochi mesi il formidabile "modello" culturale del Cavaliere moltiplicherà il suo peso. Televisione popolare? Solo a patto di intendere il popolo sub specie populista: si elimina il trash ammiccante di Amanda Lear, e lo si trasforma nel rubbish di tutti gli altri, tipo De Filippi, Carrà, Panariello, Zanicchi e via citando. È solo questione di sfumature. La tv rimane la stessa, ma produce un iperbolico effetto di riproduzione delle scelte e dei gusti. È sufficiente osservare il pubblico in studio per identificarlo come un campione significativo dell'elettorato italiano, molto meglio di Datamedia. Pullman di pensionati e sfaccendati della provincia vengono già deportati nei centri d'accoglienza di Paolo Limiti e Maurizio Costanzo, per stabilizzare il consenso e renderlo eterno: se si riesce a battere le mani a tempo magari su un exploit di Rita Pavone, verrà più facile confermare a suon di voti anche l'eternità governativa del signor Silvio. Non vale dunque la pena di chiedersi se i ragazzi resistibili Zanda & Donzelli riusciranno a ritagliare segmenti "de qualità" rispetto ai membri di maggioranza, perché irresistibile è il meccanismo stesso. Già l'esordio del chairman Antonio Baldassarre era stato significativo, con i suoi richiami fra il catastrofico e l'improbabile a Govi e a De Filippo e alla tv che non c'è più: mentre le lacrime agli occhi di Agostino Saccà davanti agli strizzamenti scrotali di Pippo Baudo erano l'anticipazione perfetta che nella televisione della Casa delle libertà "si può", e che comunque lo stile è quello. Padrone a casa sua, signore del telecomando (tanto la pappa non cambia), il telespettatore della Rai "congruente" a Mediaset si convincerà definitivamente che nel piccolo schermo c'è il migliore dei mondi possibili: e se la nazione è un plebiscito quotidiano, la società parodizzata dalla televisione berlusconiana sarà calcolata in quote di share, e verrà fuori più precisa di un sondaggio.
L'Espresso, 18/04/2002
Funambolico Fini
Che cosa sarebbe Alleanza nazionale senza Gianfranco Fini? Il congresso di Bologna non ha offerto novità straordinarie quanto alla linea politica; però qualche risposta l'ha data. Il pupillo di Almirante, il giovane-vecchio leader della nuova destra "centrale e non centrista" ha ottenuto l'acclamazione. Non sono in pochi, anche fuori dalla destra, a considerarlo un soggetto "trattabile", rispetto all'intrattabilità patrimonialistica e antipolitica di Berlusconi. Si passa sopra il suo camaleontismo, si tende a ignorare il suo passato, molti guardano con interesse a un carisma che gli ha permesso di liquidare velocemente l'eredità fascista e ne ha fatto il virtuale delfino del centrodestra. Leader moderato, Fini? Bisogna intendersi. Nell'attitudine manovriera, nel pilotaggio politico, nel lessico, con cui trasforma in buonsenso accattivante tutte le posizioni dello schieramento berlusconiano, Fini è, o appare, sicuramente un moderato. Lo è sull'Unione europea come sull'articolo 18, sul rapporto con il sindacato e anche sul ruolo della magistratura (malgrado una virata funambolica rispetto ai tempi di Mani pulite e del giustizialismo "missino"). Forse apparirebbe meno moderato se fosse costretto a specificare seriamente che cos'è An, qual è il suo profilo politico-culturale. A Bologna è riuscito a cucinare una relazione in cui lo si poteva scambiare per un cattolico solidarista, con una miscela di neo-conservatorismo e di socialità indistinguibile dalle interpretazioni moderate della dottrina sociale della Chiesa. In realtà la fortuna politica di An consiste proprio nel suo essere subalterna a Forza Italia. Se l'identità post-missina viene modellata al ribasso, in funzione del mantenimento di potere, tutte le incongruità intellettuali del partito, i suoi rimasugli più imbarazzanti, le sue nostalgie un po' bizzarre finiscono nel calderone e non appaiono incompatibili con i proclami liberali della Casa delle libertà. Tuttavia bisognerebbe anche cercare di vedere quale nesso c'è fra il moderatismo finiano e la «fedeltà alle nostre radici» espressa dalla base. Quali radici? Se un diessino qualsiasi proclamasse una fedeltà simile si direbbe che lo stalinismo macchia ancora quel partito. Mentre per An i «nostri morti che morivano con il tricolore» negli anni Settanta, con cui Gianni Alemanno ha emozionato i delegati, i brividi della platea per l'incoercibile nostalgia di Mirko Tremaglia, così come i residui culturali fascistoidi analizzati dal politologo Piero Ignazi, costituiscono per gli osservatori un semplice dato di folklore umano, dentro una prospettiva politica, garantita dal capo, completamente diversa. Fini ha annunciato che per An gli esami sono finiti e che non c'è più bisogno di lavacri. Intanto però il simbolo di An è rimasto intatto, con il richiamo al Msi. Forse dentro queste contraddizioni fra la modernità e la storia c'è la spiegazione di un leader di successo e di un partito forte nei sondaggi e debole elettoralmente.
L'Espresso, 04/04/2002
Moderati senza voce
Dopo il rigurgito terrorista e la grande manifestazione romana della Cgil, è in corso il tentativo di schiacciare il sindacato in una posizione extra-istituzionale. Giuliano Ferrara ha accusato Cofferati di avere «celebrato nell'ambiguità e nell'ipocrisia più sfacciata il suo trionfo come imperatore della sinistra dei poeti e dei sogni», e di avere «affrontato con reticenza biforcuta il grande tema del momento: lo scatenamento del terrorismo in un paese segnato da gravi correnti di odio». Il ministro Antonio Martino parla di un potere sindacale tale da minacciare l'ordine costituzionale, dal momento che tenta di impedire all'esecutivo di governare. Il sottosegretario al welfare Maurizio Sacconi accusa la Cgil di non avere marcato «alcun confine a sinistra», cioè verso «un'area che ha una particolarissima contiguità con il terrorismo». Tutto questo potrebbe essere ascritto a un intento strumentale talmente scoperto da risultare irrilevante, se non fosse che qualche risultato lo ottiene. Da un lato infatti tende a delegittimare il sindacato (e a cascata la sinistra), riesumando schemi da anni Settanta sull'album di famiglia. E dall'altro imprigiona nel silenzio i moderati del centrosinistra: i quali non esistono più, secondo Giulio Tremonti, dato che a Roma si sono viste solo bandiere rosse. Il lessico del ministro dell'Economia è sempre flamboyant. Non è stato lui a dire che dopo il corteo della Cgil i riformisti dell'Ulivo sono «capretti che aspettano la Pasqua»? Questa affettuosa immagine è un pensierino da macelleria ma indica un problema reale, rappresentato dal fatto che lo scontro sindacale con il governo ha effettivamente messo la sordina alla componente centrista. Non è un caso che, nel tragico congresso di fondazione della Margherita, Massimo Cacciari abbia tentato di salvare capra e cavoli proponendo il ticket Prodi-Cofferati. Una soluzione rocambolesca, ma anche a suo modo rivelatrice. Il successo di Cofferati lascia praticamente senza parole i centristi dell'Ulivo. In prospettiva mette in crisi la tranquilla coscienza che il centrosinistra è competitivo soltanto con una leadership estranea ai Ds. Si aggiunga che larga parte della Margherita è fortemente dubbiosa sulla guerra di religione a proposito dell'articolo 18. E si consideri che le elezioni amministrative di fine maggio sono un test in cui l'Ulivo, che pure non può permettersi un'altra batosta, misurerà i rapporti di forza interni all'alleanza. In queste condizioni, fra una sinistra ravvivata dalle piazze e un centro che fallisce perfino il congresso d'esordio, potrebbe scattare il gioco a somma zero in cui la vittoria degli uni è l'insuccesso degli altri. Non servono nemmeno rotture spettacolari. Basta un'incapacità di parlarsi, di individuare gli obiettivi, di perseguirli razionalmente. Dopo le ventate di entusiasmo pubblico, un votarsi alla sconfitta ognuno per la sua strada. Fraintendendo ancora una volta che la questione da risolvere non riguarda (solo) la resurrezione della sinistra, bensì la rifondazione dell'alleanza.
L'Espresso, 28/03/2002
Liberisti da manualetto
Malgrado gli strombettamenti suscitati dal- l'"asse" fra Silvio Berlusconi e Tony Blair, non è detto che il futuro dell'Europa si dispieghi meccanicamente in chiave "americana". Qui in Italia è assai forte la tentazione per il governo di procedere alla spallata contro il sindacato: in questo senso, l'attacco all'articolo 18 sarebbe poco più che una prova generale. Ma grazie al cielo esiste ancora la politica, non soltanto l'applicazione di ricettari più o meno liberisti. E la politica tende a diventare sempre più una dimensione continentale. In Francia i socialisti di Jospin guardano alle elezioni presidenziali con fiducia, considerato il logoramento di Chirac. In Germania, Schröder e la Spd venderanno cara la pelle prima di lasciare il potere a una Cdu-Csu sempre più spinta sul registro conservatore. Quindi prima di stabilire che il cuore dell'Europa a venire sarà situato a destra occorre un po' di pazienza. Se i due maggiori paesi europei, quelli su cui si è costruita l'Unione europea, continueranno a scegliere un governo di sinistra, l'effetto sulla tonalità politica complessiva non sarà irrilevante. Nel frattempo, è prematuro immaginare un'egemonia politico-culturale dell'asse Spagna-Italia-Gran Bretagna, tutta all'insegna di un modernismo economico e sociale che caratterizzerebbe questi paesi come l'avanguardia dell'Unione. Conviene sicuramente a Berlusconi occupare spazi pubblicitari per qualificarsi come elemento trainante di un'Europa tutta pragmatismo, "né di destra né di sinistra", insieme con Aznar e Blair. Ciò che resta da spiegare è la ragione per cui la nuova linea di sviluppo dovrebbe sconvolgere radicalmente il sistema di relazioni sociali su cui si è formato a partire dal dopoguerra il modello europeo di crescita. Tanto più che il leader di Forza Italia ha sempre rivendicato ufficialmente l'adesione a due schemi di fondo: la dottrina sociale della Chiesa (oggetto impreciso ma obiettivamente distante dai formulari liberisti) e la sua versione secolarizzata, vale a dire l'economia sociale di mercato codificata dalla scuola di Friburgo e applicata sul campo da Adenauer e Erhard. Dire come queste due costruzioni politico-sociali possano essere modulate attraverso l'attacco grezzo al sindacato è piuttosto problematico. Esiste un generale consenso sul fatto che il sistema europeo, dalla concertazione al welfare, debba essere riformato. Ma non c'è solo Romano Prodi a ricordare che la modernizzazione dell'economia europea va collocata entro una rete innovativa di garanzie. Per ogni diritto che invecchia o muore ce n'è uno da creare in funzione delle nuove condizioni in cui si esercita il lavoro e l'attività d'impresa. In questo senso la farraginosità programmatica della Casa delle Libertà, che mostra di pensare prima allo smantellamento dei diritti e solo in seguito all'attuazione eventuale di ammortizzatori sociali, è più che altro l'indizio di una mentalità improvvisatoria, sradicata dalla storia e non condivisa nemmeno fra i partiti del centrodestra. Come i gollisti, come tutti i grandi partiti popolar-conservatori europei esemplificati dai cristiano-democratici tedeschi, anche la Dc è stata (magari caoticamente) un partito "pro labour". Sembra perlomeno curioso che il suo erede laicizzato, Forza Italia, adotti tonalità minacciose verso il lavoro organizzato sindacalmente. Vero è che Giulio Tremonti ha sempre negato di voler procedere a pratiche di "macelleria sociale". Ma Berlusconi al vertice di Barcellona si è rivolto alla Cgil dicendo: «Scioperate pure, ve li daremo noi dei buoni motivi per lo sciopero». Il governo farebbe bene a considerare che l'Italia non è un'isola liberista nel Mediterraneo, e neanche qualcosa su cui praticare "in corpore vili" esperimenti thatcheriani. Così come non è detto che l'Europa abbia come unico orizzonte la vulgata liberista, non è detto neppure che per sollevare il tono di un governo mediocre sia obbligatorio procedere confusamente all'applicazione del manualetto anglosassone. Non si tratterebbe di modernità, quanto più modestamente di provincialismo.
L'Espresso, 28/03/2002
Perché uccidono le colombe
Gli spari di via Valdonica, a Bologna, quei colpi di pistola che hanno spezzato la vita di Marco Biagi, non sono stati solo un attentato brutale e disumano. Ci vuole un'intelligenza freddamente distorsi- va per individuare come bersaglio un professore di diritto del lavoro, uno studioso bipartisan nella prassi (ma di cui non erano ignote le simpatie di fondo per il centrosinistra), l'analista e il consigliere di cruciali organi di governo la cui massima esposizione pubblica erano i convegni scientifici e i commenti sul "Sole 24 ore". E occorre una competenza addirittura chirurgica per fare deflagrare questo assassinio alla vigilia della manifestazione indetta a Roma dalla Cgil per sabato 23 marzo, in una fase di aspro confronto politico su un tema simbolicamente rilevante come l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Biagi era stato allievo di Federico Mancini, un giurista scomparso pochi anni fa, che con Gino Giugni e Giuliano Amato aveva espresso al meglio la cultura riformista del Partito socialista. Le sue radici culturali affondavano in una matrice cattolica, come dimostrano anche sul piano della biografia le sintonie intellettuali e il lavoro sul campo con uomini come Tiziano Treu e Romano Prodi: cioè in un terreno culturale che privilegiava un lavoro di mediazione continua fra gli schemi giuridici e la realtà effettuale del mercato del lavoro. Colpire lui non ha significato soltanto mettere sotto bersaglio, come hanno scritto i giornali, "un consulente del governo". Il lavoro del docente bolognese per i governi e i ministri della Repubblica era la dimensione operativa di un'attività intellettuale caratterizzata da un intento febbrile di incrociare le necessità di modernizzazione del paese e delle sue istituzioni giuridiche con il ripensamento del sistema di garanzie per l'emergente società dei "lavori", al plurale, come aveva individuato un altro studioso riformista, Aris Accornero, riferendosi ai mutamenti nella struttura sociale e alle trasformazioni delle attività produttive. Ecco perché il suo assassinio non è soltanto un colpo nel vuoto e nel nulla. Così come Ezio Tarantelli, Roberto Ruffilli e Massimo D'Antona, pur nella differenza dei ruoli ricoperti nella vita pubblica italiana, erano stati immolati con l'esplicito intento di colpire un modello di azione politica, vale a dire nel tentativo di infrangere «la ricomposizione neocorporativa» (in sostanza la politica dei redditi per Tarantelli, il riformismo istituzionale per Ruffilli, la concertazione per D'Antona), Marco Biagi è stato identificato come il fattore umano e intellettuale, e quindi l'elemento più debole e nello stesso tempo esemplificativo, di una politica tesa a governare i processi di trasformazione nella realtà sociale del lavoro. C'è quindi una coerenza accanita, nelle azioni di questo terrorismo: non la follia o la disperazione di frange marginali, non il delirio della rivoluzione di massa da innescare con le pallottole delle avanguardie presunte, non l'impazzimento di nuclei votati al delirio politico. Per questo sono da respingere con fermezza, e anche con indignazione, le tesi secondo cui l'assassinio di Biagi sarebbe il frutto di un clima politicamente e socialmente avvelenato: «la catena dell'odio e della menzogna», «la spirale dell'odio politico» e il «funesto linguaggio degno di una guerra civile» che Silvio Berlusconi ha indicato come il dato ambientale che avrebbe favorito l'omicidio sono gravi deformazioni della tragica vicenda attuale. Non tanto diverse dalle imbarazzanti espressioni con cui l'attuale presidente del consiglio ricondusse la vicenda D'Antona a un regolamento di conti a sinistra. La realtà è un'altra. In generale è quella di un movimento ancora informe ma già semi-ufficiale, non più estraneo al circuito della politica istituzionale (dai centri sociali allo spontaneismo dei girotondi), che rischia ora di essere riconsegnato alla marginalità. In termini di cronaca più puntuale è quella di uno scontro duro ma aperto fra il governo e il sindacato: un conflitto perfettamente legittimo e ineccepibile sul piano democratico, i cui pericoli, che esistono, risiedono nella possibilità che al termine del confronto una parte, la parte sindacale, si ritrovi sconfitta senza realistiche possibilità di recupero. Oppure che l'esecutivo e la maggioranza di centrodestra, in crisi di immagine, si trovino a dover forzosamente recuperare in chiave di potere ciò che avranno perduto in termini di capacità di governo. In ogni caso, che l'impermeabilità delle rispettive posizioni predisponga il campo da un lato al rancore sociale, dall'altro all'avventurismo come rimedio estemporaneo a una qualità riformatrice scadente. A uno sguardo emotivo, potrebbe sembrare che l'uccisione di Marco Biagi avesse come obiettivo una doppia sconfitta: per un verso l'annullamento del "traditore di classe" e quindi qualsiasi forma di complicità anche solo tecnica con il governo di destra, per l'altro l'azzeramento del potenziale sociale del sindacato, con l'ammutolimento delle voci di rappresentanza di una consistente e ancora viva parte, malgrado tutto, della società italiana. Ma neppure questa interpretazione tiene. Nella sua logica infame, l'attentato di Bologna è un esercizio di accademia nichilista. Realizzato da entità che tentano di colonizzare il normale (normale anche quando è durissimo) confronto fra le parti sociali per produrre inceppamenti nell'evoluzione politica. Alla fine resterà un uomo assassinato sotto casa sua e sotto lo sguardo della famiglia, e un documento di terroristi che rivendicheranno la distruttiva lucidità politica consistente nell'avere individuato ed eliminato uno snodo, una funzione di mediazione. Di fronte a tutto ciò, non resta che la lealtà strenua al confronto democratico, in parlamento come nelle piazze: comprese tutte le sue asprezze, le sue incertezze, comprese perfino le sue eventuali strumentalità.
L'Espresso, 21/03/2002
Dove vanno i centristi del Polo
A che cosa servono i centri-sti nella Casa delle Libertà? Quando Francesco Rutelli li ha chiamati al dialogo con la Margherita, il presidente del Ccd, Marco Follini, ha ribattuto con secca tempestività all'Ulivo di non farsi illusioni inutili o fuorvianti: l'Unione di centro è un socio fondatore del centrodestra, e non sono immaginabili sconfinamenti o ribaltini. L'epoca delle acrobazie di Rocco Buttiglione sul crinale fra destra e sinistra è un lontano ricordo. Quella di Follini era una risposta d'ufficio, resa praticamente obbligata dalla rigidità dell'articolazione bipolare: ciò nondimeno è evidente che gli eredi della Dc confluiti a destra rappresentano una peculiarità politica non completamente riconducibile alle logiche della Casa delle libertà. Lo si è osservato in diversi episodi, a partire dal lavorìo e dalle manovre del presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, sul fronte delle nomine Rai; inoltre l'incompatibilità cristiano-democratica con le visioni del Bossi-pensiero si è fatta scoppiettante durante il congresso della Lega. Il fatto è che i centristi del Polo rappresentano una virtuale antitesi dell'antipolitica populista incarnata da Berlusconi. La loro ispirazione europeista li colloca a distanze siderali dal Bossi di Forcolandia. E il loro statuto di moderazione sociale costituisce un antidoto naturale rispetto alle velleità liberiste di Forza Italia. È vero anche che, con poco più del tre per cento alle elezioni del 13 maggio 2001, Ccd e Cdu non possono illudersi di praticare una grande concorrenza elettorale al Cavaliere: il loro luogo d'intervento non è la società italiana, bensì l'arena istituzionale. E allora, qual è e quale sarà il loro ruolo nel centrodestra? Una foglia di fico di cattolicesimo politico sul pragmatismo laicizzato del partito del Padrone? Una traccia di dottrina sociale della Chiesa a temperare la spregiudicatezza modernista degli animal spirits di destra? Oppure solo una fronda che si fa sentire soprattutto quando viene il momento delle nomine e il ritaglio del sottogoverno? L'abitudine ai tempi lunghi, alla pazienza della politica, rende comunque Casini e i suoi amici piuttosto interessanti politicamente sotto questi chiari di luna. Secondo Franco Cordero hanno "vista lunga" e abitudine al maneggio del potere, e sanno che Berlusconi è un politico troppo peculiare per plasmare un partito capace di durare senza di lui: poiché non possono ragionevolmente pretendere di tornare a essere egemoni nell'opinione pubblica, possono invece tentare di divenire i suoi eredi, e di prenotare il suo partito. Nel frattempo, devono conservare una dignità politica e una riconoscibilità pubblica: cioè devono farsi vedere, seppure con juicio. L'impresa, dentro il sistema maggioritario, sfiora il funambolismo. Ciò malgrado, i centristi sono forse il solo elemento su cui l'opposizione può cercare di fare leva, in un Parlamento bloccato dai grandi numeri del centrodestra. Vanno curati, marcati stretti, interpellati di continuo, sollecitati a esprimere la loro anima moderata ed "europea". In modo che si capisca se sono solo il maquillage della Casa delle libertà, oppure l'ipotesi di una destra non patrimoniale e non folklorica: insomma un embrione di partito popolar-conservatore capace in prospettiva di assolvere il centrodestra dai suoi peccati originali.
L'Espresso, 07/03/2002
Il governo della forza d’inerzia
Non appena si ritrova fra i suoi, nel calore di un incontro con gli uomini di Forza Italia, Silvio Berlusconi fa il pieno di entusiasmo. Già: fra quei ragazzi in blu si respira un clima molto diverso rispetto a quello dei corridoi romani. Non serpeggiano gli scetticismi capitolini, e nemmeno i cinismi e i frondismi da ristorante al Pantheon. Basta osservare ciò che è avvenuto al consiglio nazionale di Forza Italia, riunitosi di recente all'ex ospedale Santo Spirito. Di fronte al nucleo ristretto del suo partito, Berlusconi ha lanciato il suo proclama: «Noi stiamo cambiando l'Italia». Bisogna dire che i membri del parlamentino forzista sono tutta gente già convinta, che non avrebbe bisogno di essere confermata nella fede dalle parole del capo. E in secondo luogo che il cambiamento continuamente annunciato tarda a farsi vedere: l'imposizione fiscale non dà segni di calo, le grandi opere sono in lista d'attesa, il «miracolo italiano» è stato rinviato per colpa del ciclo internazionale, e la tenuta del paese si deve al risanamento realizzato dall'Ulivo. Ancora: per quanto riguarda il controllo del potere (vedi il consiglio d'amministrazione della Rai) il centrodestra ha realizzato una prestazione deprimente; mentre sul tema simbolico dell'articolo 18 il governo non sembra avere chiaro se intende perseguire una logica thatcheriana oppure seguire lo schema concertativo. Quindi mentre Berlusconi annuncia lo straordinario cambiamento in corso, in realtà il suo consenso si basa sull'immobilismo. Non è chiarissimo se c'è un legame di causa-effetto, cioè se il Cavaliere incassa sondaggi favorevoli proprio in quanto il suo è il governo della forza d'inerzia. Ma che sia vero o no che gli italiani rilasciano il loro plebiscito quotidiano pro Berlusconi perché lo considerano ininfluente per il paese, resta l'altro dubbio: per quale ragione il capo del governo proclama gli effetti speciali, quando gli effetti sono così normali? Evidentemente la dimensione pubblicitaria è consustanziale a Berlusconi. Ai tempi del lancio delle sue reti televisive, si poteva assistere all'impegno smodato di testimonial che magnificavano i programmi del Biscione, mentre nella realtà la tv berlusconiana era un catorcio di comici decaduti, soubrette sfinite, cantanti riesumati. Ciò malgrado, a forza di ripetere che quella era la migliore tv del mondo, e che quegli show erano fantastici, è stato ottenuto perlomeno il risultato di trascinare la concorrenza Rai al proprio livello. Ora, Berlusconi è impegnatissimo a convincere l'opinione pubblica che fare le corna è un modo per guadagnare simpatia internazionale, che "non alzare le tasse" è stato un miracolo, e naturalmente che l'uso privatistico della legislazione è un comportamento da statisti. Lo ripeterà in mille modi. E alla fine il dramma più autentico è che non ci crederanno solo gli italiani, per stanchezza o per conformismo. Ci crederanno i suoi, e vabbè. Ma, quel che è peggio, ci crederà anche lui.
L'Espresso, 21/02/2002
Gli inquilini delle libertà
Le minacce con cui Umberto Bossi ha reclamato un posto nel consiglio d'amministrazione della Rai non preludono al nuovo ribaltone, ma mostrano che la Casa delle libertà non è quel capolavoro di coesione che è stato venduto agli elettori nella campagna elettorale del 13 maggio scorso. La potenza politico-mediatica di Silvio Berlusconi è intatta, ma il centrodestra è un cantiere: la Lega è un partito miracolato dalle concessioni elettorali di Forza Italia e deve esibire qualche risultato al suo elettorato residuo, i centristi post-dc sono un laboratorio permanente con la visuale proiettata verso il dopo-Berlusconi, mentre Gianfranco Fini insegue un progetto ancora indefinito, in cui il suo successo prescinde largamente da un partito-zavorra. Niente sconquassi a breve termine, quindi: eppure sarà bene valutare anche la psicologia personale e politica di Berlusconi: il quale ha molte qualità ma non la pazienza del lungo periodo. Con gli intimi, il premier ha ammesso a denti stretti di avere fallito il grande plebiscito elettorale per colpa dei "faziosi" della Rai (Luttazzi, Santoro), che gli hanno sottratto punti con il risultato di trovarsi appesantito da alleati di scarso peso numerico, ma capaci di complicare il gioco e di rendergli defatigante il comando. Che questa analisi sia esatta è da verificare; ma che il Cavaliere si trovi a disagio con le mediazioni interne è un dato di fatto. Alla fulmineità napoleonica delle leggi approvate durante i 100 giorni, tutte largamente rispondenti alla funzione di zuccherino per i suoi elettori (abolizione della tassa di successione) o a intenzioni privatistiche (rogatorie e falso in bilancio), non è seguita un'azione di governo altrettanto efficace. Le furbizie del ministro Maroni non hanno schiodato la trattativa sull'articolo 18, la riforma delle pensioni ha deluso la Confindustria, le grandi opere sono nella nebbia: e ancora, la devolution è su un binario morto, il conflitto d'interessi continua a incombere, e più generalmente rimane imprecisato quel fantastico piano di rifacimento dell'Italia annunciato dal presidente operaio. Avrà pure fatto il suo corso di politica, Berlusconi, ma difficilmente può sopportare a lungo la sensazione di stallo che lo avvolge. Lo spoil system sembrerebbe un gradevole surrogato all'iniziativa politica, ma mette allo scoperto gli appetiti dei partiti della coalizione, e dunque può procurare più problemi che soddisfazioni. Per ora il capo del governo può contare su quell'atteggiamento diffuso che il politologo Ilvo Diamanti ha definito «consenso senza fiducia»: ma non figura tra le caratteristiche antropologiche di Berlusconi l'idea di galleggiare stancamente. Deve rilanciare di nuovo, e perciò si tratta soltanto di aspettare quando lo farà. Può avvenire con le amministrative di primavera, oppure in coincidenza con una sentenza sfavorevole nel processo Sme, ma in ogni caso fra qualche mese il Cavaliere sentirà il bisogno del plebiscito. Per ottenerlo ha bisogno che la Casa delle libertà venga ristrutturata nel formato e nei soci: cioè in modo che comprenda alleati che assomiglino più a inquilini che non a comproprietari.
L'Espresso, 14/02/2002
À la guerre comme à la guerre
Chissà dove sono gli albori della crisi: nelle pantofole del Berlinguer imborghesito oltraggiosamente da Forattini? Nel Natta desnudo ridicolizzato dalla congrega di "Tango"? Dopo di che, ci si può chiedere se non sia un guadagno per la psicologia collettiva che il sancta sanctorum della politica venga violato sistematicamente dagli eroi popolari dello show system. Nella transizione dal Roberto Benigni che in pieno trip sentimentale prende in braccio il più amato segretario del Pci al Nanni Moretti che sputtana a voce rauca la leadership ulivista si stende il cambio d'epoca e di stile rappresentato della secolarizzazione politica totale. Dunque il problema sarebbe in una satira che non si limita ad accompagnare e assecondare la fase politica: la festa con cui il "fanfascismo" fu fatto saltare come un tappo di champagne rispettava le convenzioni e il gioco corporativo delle parti. Mentre l'exploit di Nanni Moretti a piazza Navona è un fallo di invasione acclamato come un'azione personale irresistibile, in quanto dà voce al sentimento pop: con questo tipo di dirigenti non si vince, e quindi il clown si sostituisce al re, straccia le regolette, rovescia i ruoli e fa saltare il banco. Si sta già giocando con carte nuove, altroché. Fa un po' specie che la perfidia politica si eserciti tutta a sinistra, e che manchi del tutto una satira della destra ai danni della Casa delle libertà (laggiù nel condominio, al massimo barzellettine oleografiche, o qualche canagliata estemporanea e octroyée della Gialappa's). Ma "a prescindere" dall'autolesionismo dell'opposizione, e dalla sua sfinita debolezza in termini di carisma (e di palle: la ritirata di piazza Navona docet), è fuori dubbio che per legge fondamentale la politica ha orrore del vuoto; e che proprio per questo, se si apre uno spazio, qualcuno lo occupa. Anni fa, si chiamava supplenza. Del sindacato, del movimento, dei magistrati. Oggi è una sostituzione secca. Le Iene raspano la cronaca, il Gabibbo parodizza l'ombudsman, "Striscia la notizia" produce un telegiornale intrusivo e alternativo. L'intonazione è irresistibilmente qualunquista, con una declassificazione della politica a tecnica del potere: con la conclusione inevitabile che se poi "quelli" il potere non sanno esercitarlo, una risata o un urlo li seppellirà. E con il dubbio mica tanto sottile, come ripete Sylos Labini, che la deprecata demonizzazione praticata da Daniele Luttazzi con l'uso eccentrico del mezzo, ai danni del Cavaliere, abbia recuperato un paio di milioni di voti che il centrosinistra dava per dispersi (e, per converso, che le prestazioni mimiche di Emilio Fede siano in realtà un'arma politica permanente, non un cabaret serale iper-realistico). Se le cose stanno così, viene la tentazione di concludere che non vale la pena di versare lacrime per la crisi della politica e della sinistra, e neanche di cercare l'antidoto in una sobrietà vecchio stampo. Nell'alternativa fra il professionismo rétro e l'eclettismo attuale, in una politica senza confini di stile e di genere, la regola "à la guerre comme à la guerre" sembra l'unico programma disponibile.
L'Espresso, 07/02/2002
Quanto pesa la nostalgia
Una decina di anni fa, nell'ottobre '92, i capi del Msi festeggiavano il 70° anniversario della marcia su Roma con le braccia levate nel saluto fascista. In seguito, Gianfranco Fini e i suoi compagni di partito hanno dapprima tentato di opporsi alla riforma maggioritaria del sistema elettorale, per difendere la zattera neofascista; dopo lo sdoganamento berlusconiano sono diventati maggioritari a oltranza con la fede degli ultimi arrivati. Erano nazionalisti, lepenisti, giustizialisti, nostalgici, sono diventati europeisti, moderati, garantisti, forse già proiettati in un futuro tra le file del Ppe. La trasformazione sarebbe impressionante, se fosse autentica. Ma è bastata l'estemporanea dichiarazione alle "Iene" con cui Fini ha declassato Mussolini, l'uomo che per lui restava «il più grande statista del secolo», per scatenare la rivolta della base e dei duri alla Storace. Lasciamo perdere gli exploit "pop-fascisti" di Alessandra Mussolini («Finirete tutti circoncisi») o le giustificazioni attribuite alla vedova Almirante, che crede di difendere Fini sostenendo che quel bravo e fedele ragazzo, a dispetto delle virate, è rimasto lo stesso. Tuttavia il giudizio dei circoli passatisti di An è in esatta sintonia con i sentimenti della base. Basta uno sguardo alle cronache, per leggere discorsi di assessori e militanti che suonano tutti così: va bene, la trasformazione dal Msi in An è stata utile politicamente, ma non rinneghiamo la nostra identità, i valori, le radici. Ciò che può sorprendere è la sfrontatezza, o se si vuole il candore, con cui i militanti vecchio stampo spiegano che la trasformazione del partito è stata una manovra di copertura. Nello stesso tempo, le leadership del partito postfascista sbandierano la trasformazione dei missini in An come qualcosa che solo i faziosi possono misconoscere: «Abbiamo fatto Fiuggi, nessuno ci può giudicare». Ora, a parte che la celebre conferenza di Fiuggi era basata su un documento di evasiva qualità culturale, sembra sfuggire non solo agli uomini di An, ma anche a molti esponenti del centrodestra liberale che la reincarnazione degli ex missini è stata una delle operazioni più indolori mai realizzate: mentre gli eredi del Pci, dopo congressi, mozioni, cambi di nome e scissioni sono ancora in attesa di una piena legittimazione da parte dei loro avversari, gli ex missini possono dire a cuor leggero di non accettare lezioni democratiche da nessuno. E se invece il partito, visceralmente, fosse rimasto lo stesso? Se i progetti di monumenti ai quadrumviri, le vie intitolate a personalità fasciste, le visite ai cimiteri della Decima Mas rappresentassero la prova che il missino si piega ma non si piega, ovvero cambia ma non cambia, ci sarebbe davvero da augurarsi che l'estemporaneità postmoderna e culturalmente déracinée di Fini conduca rapidamente An nelle braccia del Ppe: perché alla lunga, anziché cullare lutti, bare, lapidi, fiamme e nostalgie, è meglio vivere ufficialmente democristiani.
L'Espresso, 07/02/2002
Due gambe e tanti sgambetti
Eppur si muore. Veleni in salsa ulivista, veti, fraintendimenti. Nella babele di tutti contro tutti, con la leadership di Rutelli in discussione, Michele Salvati, una delle anime riformiste dei Ds, non nasconde l'inquietudine: «Perché nel frattempo, inseguendo la logica di fazione, i leader della coalizione hanno perso di vista che un'alleanza deve proporre un programma di governo». Risse interne e ululati contro Berlusconi: questa è impotenza, altro che programma. «Se vogliamo sfidare Berlusconi senza ricorrere alla demonizzazione, l'unico modo è presentare all'elettorato un programma alternativo. Un attacco duro va bene, ma è efficace solo se si accompagna a un progetto coerente». Il programma per cui si batte lei è quello di un'area che nei Ds sta al 4 per cento. Ma il segretario è Fassino. «Guardiamo meglio: il blocco intorno a Fassino è un amalgama di "centristi", preoccupati essenzialmente della tenuta dei Ds. Nel merito della politica economico-sociale, più di metà sono con noi liberal. Ma, se viene sottoposta a una sfida esterna, la maggioranza Ds è tentata da un riflesso conservatore. Per esempio: Bersani è un riformista, ma è fedele alla sua storia di partito. Oggi, uomini come lui sono in bilico fra l'ansia di rilancio politico e il riflesso difensivo. Fassino stesso è il sigillo su questo dilemma». Vuol dire che la compattezza del blocco fassiniano è solo apparente? «Voglio dire che se venisse una forte spinta esterna verso il partito unico, e la sinistra Ds fosse violentemente contraria, anche la tenuta dei fassiniani entrerebbe in discussione». C'è anche la pressione "interna" di Cofferati e del sindacato. Nel documento presentato da voi liberal a Pesaro, c'era scritto che il sindacato ha perso la spinta propulsiva. «La reazione di Cofferati all'accusa di conservatorismo rivoltagli da D'Alema è in sé comprensibile. Ma va anche riconosciuto, come abbiamo detto nel documento congressuale, che i sindacati si muovono in ordine sparso, e ritrovano di solito l'unità sulle iniziative più conservatrici. Mentre ci sarebbe un vasto campo da coltivare, che consiste nell'organizzare i più deboli e i meno tutelati». D'Alema sarebbe d'accordo. Ma proprio lui sembra costituire uno dei problemi cruciali della sinistra. «D'Alema è un leader ingombrante. Perché ha prestigio, e la base glielo dimostra. Perché si è messo in collisione con pezzi importanti del partito: con Veltroni sull'Ulivo, con il "dottor Cofferati". Paga l'intervento nel Kosovo, che molti non gli perdonano. Paga la Bicamerale, cioè l'implicita legittimazione di Berlusconi». D'Alema è un fattore di conflitto anche con la Margherita. Ma qual è il ruolo di Rutelli? «Se ho capito bene, Rutelli accelera per trasformare la Margherita in partito. È una posizione con i pregi e i limiti del realismo». Che però ci riporta dritti al "competition is competition" di Prodi. «Anzi, con la minaccia di una competizione più aspra. Io guardo con terrore alle amministrative di fine maggio, perché si rischia di arrivarci in una situazione di concorrenza totale». Mentre da parte dei Ds si insiste con la prospettiva socialdemocratica. Non siamo all'incomunicabilità? «Se si voleva perseguire una prospettiva chiaramente liberalsocialista, quindi competitiva con il centro, occorreva andare fino in fondo e portare Giuliano Amato alla guida del nuovo partito di socialismo europeo. Oggi invece sembra che fare la coalizione a due gambe distinte sia l'unica via. Ma c'è una conseguenza di grandissimo rilievo, che rimane sottaciuta: in una coalizione così fatta il leader non sarà mai un Ds. Non abbiamo le credenziali, o non ci verranno riconosciute, il che è lo stesso». Ma l'Ulivo a due gambe è competitivo? «No. Dipende anche dall'unità effettiva dentro la Margherita, che è un cartello con elementi di artificialità ancora maggiori dei nostri». Anche il centro-destra è artificiale. «Con la differenza che là c'è il padrone, Berlusconi, mentre da noi non c'è». E quindi, in queste condizioni? «Si perde. Vengono allo scoperto non solo le contraddizioni sull'asse destra/sinistra, ma anche quelle fra laici e cattolici. Nessuno abbandonerà le proprie pregiudiziali, e i vari settori dell'alleanza si preoccuperanno principalmente di curare il parco elettorale». La balcanizzazione, o la mastellizzazione. Non sarà che dentro la Margherita c'è ancora spirito di vendetta? La voglia di fare scoppiare la crisi finale dei Ds? «Oggi forzare in questo senso significherebbe autodanneggiarsi. Anche l'autolesionismo deve avere un limite». Come se ne esce? «Nell'immediato, con una reggenza che provi a consolidare l'alleanza come federazione. Poi con un comitato di programma esteso a tutti, che marchi stretto il governo Berlusconi sui problemi, senza lasciare spazio a iniziative estemporanee e individuali. Se poi Arturo Parisi elaborasse in modo costruttivo quello che lei ha definito spirito di vendetta, darebbe fiato a tutti coloro che, anche nei Ds, continuano a sperare, malgrado tutto, nell'Ulivo come partito unico».
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