L’Espresso
L'Espresso, 24/01/2002
Eccellentissimi, onorevoli e impuniti
Qualcuno l'ha definita una boutade, altri «una provocazione». Ma al di là delle intenzioni da cui era mossa, la proposta del vicepresidente del Csm Giovanni Verde di bloccare i processi contro i politici introducendo nuovamente l'istituto dell'autorizzazione a procedere è stata un intervento politico di assoluto rilievo. Non importa il fatto che sia stata dettata «dalla disperazione», secondo il giudizio di Massimo D'Alema, cioè come risorsa estrema di fronte alla guerra «tra i falchi dell'una e dell'altra parte», come ha detto il vicepresidente del Csm. Conta piuttosto che 24 ore dopo la pubblicazione dell'intervista sulla "Stampa", il messaggio di Verde sia stato recepito dal senatore di An Giuseppe Consolo, che ha presentato un disegno di legge in proposito. E che l'ex presidente Francesco Cossiga, nel pieno del dibattito scatenatosi, l'abbia subito appoggiata, «anche per riaffermare il primato della sovranità parlamentare in uno Stato democratico rispetto all'applicazione astratta del principio di legalità». Perlomeno, il senatore a vita Cossiga ha il merito di specificare con esattezza i termini della questione. Sovranità parlamentare, cioè politica, rispetto alla legalità. Sono gli elementi di un rapporto che si è squilibrato drammaticamente giusto dieci anni fa, con l'emersione di Tangentopoli, e che non si è mai più ricomposto. Non che siano mancati i tentativi: il progetto di Giovanni Conso e Giuliano Amato, "l'articolato di Cernobbio" (predisposto da Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo con la collaborazione di avvocati di fama), il decreto Biondi, il testo della Bicamerale, e una serie innumerevole di proposte più o meno estemporanee su amnistie e condoni. In fondo, è vero che si sono sempre confrontate due scuole: da un lato i fautori del ritorno al primato della politica, dall'altro i sostenitori del principio di legalità, più o meno astratto. Ma dietro la disputa politico-giuridica, e nello scontro spesso estremizzato o montato ad arte fra giustizialisti e antigiustizialisti, restava un punto cruciale: vale a dire il coinvolgimento di Silvio Berlusconi e di alcuni suoi gregari in processi penali contigui al rapporto tra affari e politica. Il resto sono cineserie. Non erano invece orpelli legulei le linee guida della riforma politica, avviata fra il 1991 e il 1993, che ha condotto all'impianto attuale del sistema democratico: si supponeva infatti che il meccanismo dell'alternanza avrebbe fatto circolare aria fresca nel sistema, liberandolo dalle incrostazioni clientelari e affaristiche. Democrazia bipolare e processi penali erano in sostanza due facce di una stessa operazione di ripulitura. Cioè del ripristino della legalità. A dispetto dei propagandisti dell'antigiustizialismo, l'unica ghigliottina era quella costituita dallo scatto impietoso del sistema maggioritario. Il fair play democratico doveva consistere nell'accettare sia la logica dell'alternanza sia la formula della competizione bipolare. Che ora si proponga di tornare all'antico, cioè all'impunità o all'impunibilità della classe politica, non ha solo un sentore di revanche: è anche, o sarebbe, la certificazione che la politica non è sovrana a sufficienza per autoriformarsi e per consolidare la riforma. In questo caso, le aspre battaglie politiche condotte nel 1994, nel 1996 e nel 2001 sarebbero da ricordare solo come subordinate della questione giudiziaria. Il loro contenuto di moralità politica, iscritto nella sfida del gioco bipolare a somma zero, sconfitta e vittoria, verrebbe annichilito nei fatti. Occorre quindi chiedersi perché mai dovrebbe convenire trasformare un'eccezione nella regola: vale a dire se l'"unicum" rappresentato dal politico Berlusconi, con il suo carico di procedimenti penali, debba essere trasferito su un piano generale come garanzia di impunità per l'intero ceto politico. Certo, il Cavaliere costituisce un "unicum", ma non solo per le sue implicazioni giudiziarie: anche per il conflitto d'interessi, per il suo retroterra economico e mediatico, e politicamente per la sua concezione populista della democrazia, secondo cui il voto legittima ogni posizione politica. Ragion per cui la "sanatoria Berlusconi", perché di questo si tratta sull'autorizzazione a procedere, sarebbe solo un palliativo, parziale per giunta. Poi occorrerebbe sanare il conflitto d'interessi, l'egemonia nei media, gli sgarri costituzionali (ultimo quello relativo a Renato Ruggiero, inedita figura di ministro "a tempo"). Per l'intanto però ci terremmo la ricostituzione di una casta di eccellenti intoccabili. Proprio mentre la logica del collegio uninominale, con relativa personalizzazione delle candidature, continua a prevedere un giudizio degli elettori sull'intera personalità degli eletti, non solo sulla loro affiliazione partitica. Sotto la luce delle sanatorie, allora, evviva la proporzionale, con un presidente eletto dal popolo e lavato d'ogni scoria dal bagno di schede, e un parlamento di eccellenze. Ma sia ben chiaro che questo è un altro gioco, che sa di restaurazione, e di immutabilità del potere.
L'Espresso, 17/01/2002
Quel libertino vale un Tesoro
Si può restare un tecnico mentre la politica tende a occupare tutti gli spazi e la bipartisanship è un ricordo? Domenico Siniscalco, insediato da poco più di tre mesi al posto di Mario Draghi alla direzione del Tesoro, ha passato una vita a rifiutare posizioni politicamente impegnative. Aveva glissato con sapienza anche quando l'entourage di Francesco Rutelli l'aveva sondato per coordinare il programma economico dell'Ulivo. Perché un conto è essere al centro di una rete, un altro farsi impigliare da una sigla. Fino a settembre, quando è affiorata la sua candidatura, vantava la carriera di un libertino. «Bravissimo», secondo Gianni Agnelli, ma soprattutto versatile. Docente di economia a Torino, editorialista del "Sole 24 ore", direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei, consulente di cinque o sei governi della Repubblica, rapporti internazionali, board europei, e poi un vortice di ministri, economisti, consigli d'amministrazione. E adesso, come si trova a capo di quella che non è solo la più qualificata tecnostruttura italiana, ma anche uno snodo del potere politico? Con Giulio Tremonti per ministro, e la Casa delle libertà al governo? È o non è una scelta di campo? Lui razionalizza: «Nella mia carriera ho sempre avuto in mente uno schema che connette la ricerca con l'area delle decisioni pubbliche». Ripercorriamola, la carriera. Il liceo Alfieri a Torino, l'università a Giurisprudenza: salvo filarsene per sei mesi negli Stati Uniti a respirare economia al Mit. Dove insegna Franco Modigliani, Sylos Labini fa il semestre, studiano Mario Draghi, Francesco Giavazzi, Ezio Tarantelli. Mentre a Torino... «Scopro che c'è un dipartimento in bilico fra Scienze politiche e Giurisprudenza, con docenti di prim'ordine. Francesco Forte, Claudio Napoleoni, Bruno Contini, Siro Lombardini. Ci sono Franco Reviglio, Mario Monti, e Franco Momigliano, che mi guida nella tesi di laurea». È l'embrione di una rete. Per il momento accademica. Solo che, appena laureato, incontra a Venezia il futuro Nobel per l'economia Richard Stone, che lo invita in Inghilterra, a Cambridge. Dove più tardi comincia un dottorato, agevolato dal fatto che venivano ammessi dei va e vieni con l'Italia: «Perché nel frattempo Reviglio era diventato ministro delle Finanze nel primo governo Cossiga, e mi aveva chiamato a Roma come consigliere economico». Dice che a Cambridge impara «a pensare come un economista». Che in Italia si filosofeggiava, tutti erano molto macro, molto vaghi, molto politici. In Inghilterra, altra musica: «Cambridge ti plasma, esci che sei uno dei loro. Erano scomparsi i grandi keynesiani, Nikolas Kaldor, Joan Robinson, Richard Kahn. Si vedeva ancora Sraffa, con un pellegrinaggio di italiani. Ma stava arrivando la modernizzazione, con i neoclassici, Frank Hahn, Partha Dasgupta, Ken Arrow. Una virata culturale, eccitante». Era già una vita moltiplicata per due: la teoria a Cambridge, e a Roma, con Reviglio, la pratica, in una squadra di enfant prodige: Giulio Tremonti consigliere giuridico, Alberto Meomartini addetto stampa, mentre fra i consiglieri senior c'erano un Vincenzo Visco non ancora allergico a Tremonti, Antonio Pedone, Franco Gallo. Quando Reviglio diventa presidente dell'Eni, lo chiama come assistente (l'altro era Franco Bernabè), e più tardi lo mette a capo della neonata Fondazione Mattei, un think tank sull'economia dell'ambiente destinato a fare scuola. Finché non arriva il momento cruciale del governo Amato. «È la primavera del 1992 e Amato prepara il programma, che prevede prima una correzione d'urto dei conti e poi una fase strutturale». I dietrologi dicono che era il programma per Craxi capo del governo. «Era un programma». Craxi non passa e Scalfaro dà l'incarico ad Amato. Reviglio è al Bilancio, Barucci al Tesoro. Parte la prima manovra del 1992, quella da 30 mila miliardi, ma la crisi incombe. Un'estate con la tensione altissima. «Non si dormiva. È stato decisivo il ruolo di due persone: Draghi come custode del debito, e Monorchio come guardiano della spesa. In una situazione da incubo, perché si percepiva il rischio dello smottamento. Con l'insolvenza dell'Efim i tassi schizzarono all'insù, e si rischiò il tracollo». Drammatica crisi valutaria a settembre, e manovra choc per altri 90 mila miliardi. «Da mettere i brividi. Poteva essere un trauma insostenibile per il Paese. Invece funziona. Così, quando Ciampi subentra ad Amato può dare la seconda botta, quella sui salari, con la concertazione. Io continuo a collaborare, con Barucci, al Tesoro». Con Berlusconi, invece, niente collaborazioni dirette. Neanche con Dini e neppure con Prodi. Solo una mano a Tremonti nel 1994, per il Libro bianco sulla riforma tributaria. A richiamarlo in servizio è sempre Amato. «Con D'Alema facevo parte del giro dei consiglieri messo su da Nicola Rossi. Amato, ministro del Tesoro dopo che Ciampi era salito al Quirinale, mi ha chiesto di entrare nel cda della Telecom». Cioè a mostrare il grugno a Colaninno. Per venirsene fuori con tempestività poco prima che i bresciani vendessero tutto. Adesso, è arrivato il cambiamento di vita: l'ambientalismo, la new economy, gli "incubatori" di nuove imprese appartengono al passato. La scommessa è rimanere un libertino anche fra le mura della Casa delle libertà.
L'Espresso, 10/01/2002
Lo stile è al potere di Edmondo Berselli
L'opposizione non si stracci le vesti per il crimine di lesa satira: le iniziative di Maurizio Gasparri, e la sua stessa esistenza politica, sono fra le poche ragioni che consentono al centrosinistra di far finta di essere vivo. Ciò che forse è sfuggito alle menti più raffinate dell'Ulivo è l'emersione di un ceto politico inabituato alle cerimonie d'antan, talmente esplicito e diretto da concedersi dimostrazioni di arroganza, o di famelicità rispetto al potere. Quindi la questione di spicco non è l'eventuale processo di beatificazione di Simona Ventura, ma qualche riflessione sul perché un ceto politico estemporaneo per cultura, precario nel galateo, privo di tradizioni e scuole politiche, sia riuscito a conquistare la maggioranza dei voti, e a tenersela stretta. Gaffe planetarie, autarchia sui dossier europei, leggi ritagliate sulla fisionomia dei grandi "clientes", velleitarismo in economia, provincialismo nell'iconografia, tutti questi elementi infatti non hanno scalfito, se non marginalmente, il grado di consenso del governo. Anzi, può essere che le battute di Berlusconi sul prosciutto e sulla renna marinata, come pure le telefonate in diretta del trafelato Gasparri, o l'aggressività stridula di chi governa contro l'opposizione, il rivangamento del passato fonte-di-tutti-i-mali-per-colpa-della-sinistra, ma anche le disinvolture milionarie alle Molinette di Torino di Luigi Odasso (il Mario Chiesa del Terzo millennio), appartengano alla stessa cifra comportamentale: quella di un ceto politico sradicato, riluttante verso le vecchie convenzioni e i protocolli tradizionali della politica, quindi incline a farsi da sé le sue regole. Un ceto rispetto al quale non è il caso di protestare giorno per giorno, su ogni polemica, su ogni pretesto, su ogni sbrego dell'etichetta. Perché i casi sono due: o questa classe politica e parapolitica è perfettamente congruente con la maggioranza della società italiana (e questo può darsi benissimo, visto il formidabile effetto sulla psicologia collettiva provocato dal duopolio televisivo negli ultimi anni); oppure no, questi sono alieni, gente che ha colto un'occasione nella politica solo grazie alla caduta dei grandi partiti di governo. Ma che sia vera l'una o l'altra ipotesi, le conseguenze per il centrosinistra non cambiano: per mettere in crisi la Casa delle libertà serve a poco stigmatizzare l'ultima inadeguatezza, l'ultima cravatta inopportuna, l'ultima maleducazione, l'ultimo sgarro istituzionale. Occorre un progetto politico, come dicono tutti. Ma occorre anche una prassi di controllo costante, per dimostrare che le politiche di Tremonti sono sbagliate, se lo sono, e che il blocco della vendita di Raiway è stato una mignottata, se lo era, e che l'uscita dal gruppo dell'Airbus è stata una defezione antieuropea, se lo è. Insomma, ci vuole metodo e credibilità. Altrimenti, alla lunga anche l'arroganza dei Gasparri diventerà la simpatica esibizione di uno stile nuovo.
L'Espresso, 27/12/2001
Ho due delusioni, Ciampi e Berlusconi
Il processo politico a Francesco Cossiga si mescola con le malevolenze su presunti scompensi psicologici. E Cossiga risponde facendo il processo a tutti gli altri. «Legga, legga». È un articolo per "Libero", il giornale di Feltri. «Di un giovane giornalista...». Magari Franco Mauri, che conosce Cossiga meglio di Cossiga? «Lui». Mi scusi, ma allora come devo chiamarla: presidente Cossiga o presidente Pessoa? «Pessoa?». Sa, quello scrittore portoghese, che si mascherava dietro pseudonimi. Dopo le interviste, le lettere, gli interventi di Cossiga, abbiamo questo Mauri, che pare un Cossiga al cubo. «Giovane giornalista...». Sarà portoghese come Pessoa. «Lo ammetto: di madre portoghese». Che fra l'altro attribuisce ai corridoi del Quirinale uno sconforto per la sua salute mentale. «Diagnosi tardive. Sa quando sono nate le dicerie sulla mia psicologia? Nel 1977. Durante una visita in Romania, incontrammo Ceausescu, che allora era "buono". Nel programma c'era una visita alla clinica della dottoressa Aslan, quella del Gerovital. Ci andammo, e nella relazione il nostro servizio segreto militare scrisse che mi avevano fatto l'elettroshock». Patrioti. Ma anche lei, presidente, non scherza. Attacchi contro tutti. A cominciare dal presidente del Consiglio. «Obiezione. Silvio Berlusconi "è" ma non "fa" il presidente del Consiglio. Il premier di un paese moderno deve decidere, non può limitarsi a giocare continuamente di rimessa». Che cosa c'è che non va, in lui? «È un eccezionale uomo d'impresa, ha fiuto per l'opinione pubblica, capisce la tv e la piazza. Ma è la decisione quella che fa il grande uomo politico. Lui è gentile, con una gentilezza tale da imbarazzare gli interlocutori. Tuttavia è diffidente verso chi gli usa cortesie senza chiedere nulla in cambio. Io lo difendo senza secondi fini, solo perché non voglio che il premier italiano sia preso a pesci in faccia in Europa...». E lui, Berlusconi, come risponde? «Con la sua gentilezza, infinita come la sua diffidenza. Sa che quando mi hanno operato, di tumore, mi ha mandato un biglietto? Diceva: "Benvenuto nel club K"». K come Kossiga? Ha senso storico. «K come cancro. Ha senso diagnostico. Sotto l'aspetto umano, Berlusconi è unico. Le riserve sono legate alla sua concezione della politica. Esistono leader "funzionali", connessi a una struttura di partito: come Blair, ad esempio. Se Blair se ne va, mica finisce il Labour. Mentre Berlusconi è un leader "esistenziale". Se va via lui, Forza Italia scompare». Questo non gli impedirebbe di governare. «Ma è proprio l'assenza di una connessione con un partito che lo tiene nel vuoto pneumatico. Tutti guardano lui, l'uomo che ha preso i voti, lui guarda i suoi, non decide, e così alla fine regna l'impasse». Ne può uscire? «Dovrebbe reinventare un grande gioco politico, convocando un'assemblea di tutta l'area che si richiama al Ppe. In modo da farlo davvero questo partito centrista, e trasformarsi in un leader funzionale. Altrimenti c'è solo un verticalismo aziendalistico». Intanto però nel governo le discordie sono all'ordine del giorno. C'è Ruggiero continuamente sotto tiro. «Ruggiero per me è un caso umanamente imbarazzante. L'ho conosciuto, giovanissimo diplomatico, e l'ho avuto come sherpa per i vertici. Berlusconi mi chiese un consiglio su di lui come ministro degli Esteri. Noti che Silvio è uno che sente ma non ascolta, e non mi illudo mai che segua i miei consigli. Comunque caldeggiai la scelta di Ruggiero. Adesso abbiamo un ministro che non difende Berlusconi, e sembra un estraneo nel governo». Ha avuto come sponsor Agnelli e Ciampi. Fa la politica di qualcuno? «No, fa la sua. Buonismo sul piano internazionale, convinto che l'Italia sia troppo debole per mostrare i muscoli. Arrendevolezza sull'Airbus, cioè l'A400-M. Vistose oscillazioni sulla guerra. Ma come, si è presa una posizione che ha scosso drammaticamente la sinistra, che ha diviso il mondo cattolico, e poi si dice che i nostri soldati non faranno la guerra? Come dire: scusate, abbiamo scherzato». E Berlusconi che fa, tace e sopporta? «Non vuole turbare Agnelli, a cui è grato per il viatico. Forse teme di non averlo contraccambiato abbastanza. Eppure ci sono stati almeno tre episodi che hanno mostrato la gratitudine di Berlusconi: il via libera all'operazione con Edf per la conquista di Montedison; poi la riapertura del dossier A400-M; e infine l'assenso al blocco dell'operazione che doveva condurre Mario Draghi, candidato eccellente, alla presidenza di Mediobanca». Ma come è nato l'asse Agnelli-Berlusconi? «Voglio farle una rivelazione. Parlando di Berlusconi con Ciampi, nell'inverno scorso, ci dicemmo: questo vince, ormai è chiaro. E ci dicemmo anche: per difendere l'Italia, vista l'ostilità che c'è all'estero verso il Cavaliere, dobbiamo sostenerlo. Trovare un consenso dentro i poteri forti. Così approfittai di un viaggio a Torino, per un convegno su Carlo Donat Cattin, e mi recai in visita a Villa Agnelli». Metà ambasciatore, metà congiurato. «Nevicava. Parlai con l'Avvocato, chiarendogli che ciò che gli esponevo era anche l'opinione di Ciampi. Agnelli ammise che avevo ragione. Era suo interesse far crescere il peso politico della Fiat mentre stava diminuendo quello industriale». Di certo c'è stato poi il via libera di Agnelli, quel «non siamo una repubblica delle banane» che ha aiutato il Cavaliere. «Avrebbe vinto lo stesso, perché il problema principale, in una democrazia come la nostra, è la situazione dell'attuale opposizione. Si sa che il mio cuore batte, poco compreso in verità, per la sinistra. La quale si trova in una condizione desolante. Equivoca. La mia polemica con Prodi è tutta sul famoso trattino. Centro-trattino-sinistra per me. Senza trattino per lui. Io dico che occorrono due pilastri, uno socialdemocratico, l'altro centro-riformista. Di recente Rutelli sembra avere fatto qualche passo su questa linea: adesso dovrebbe sfidare tutti quelli che hanno preso i voti sotto la Margherita e fare un partito vero». A destra la sentono ma non la ascoltano. A sinistra invece non la amano. «E sbagliano. Perché sono stato io che ho spezzato il tabù della conventio ad excludendum, vero o no? Chi è andato al Quirinale, dopo la caduta di Prodi, a proporre l'incarico per D'Alema? Anche loro sono berlusconiani di complemento: non si fidano, e credono sempre che abbia un retropensiero, o un avampensiero, in ogni caso un pensiero nascosto». Mentre lei è del tutto trasparente. «Prendiamo il caso di Ciampi. Gli ho sempre dato il mio appoggio, da politico, proprio perché sapevo che non era un politico di professione». Ma lei ha infranto il consenso sul capo dello Stato. Fino a chiederne di fatto le dimissioni. «Quando ho visto che in consiglio dei ministri applaudivano Ruggiero, dopo le polemiche sull'A400-M, e ho saputo che poco prima il ministro degli Esteri, che io avevo criticato, aveva visto il capo dello Stato, intrattenendosi con lui per un'ora e mezzo, la figura di Ciampi mi è apparsa in tutta la sua modestia». Che cosa significa modestia? «Modestia. È dotato di grande prudenza, che è soprattutto volontà di non esporsi. Insomma, una delusione. E forse avevamo ragione io e Massimo D'Alema, quando nei nostri conversari, di fronte all'incombere della candidatura Ciampi per il Quirinale, voluta da Prodi e Veltroni, ci dicemmo che sarebbe stata una disgrazia politica». In che senso? «La candidatura di Ciampi fu creata per impedire la saldatura del centrosinistra-col-trattino. Se non ci fossero state ubbie uliviste, se al Quirinale fosse andato un cattolico come Mancino o come Marini, prodismi e veltronismi si sarebbero dissolti, e il centro-sinistra sarebbe durato vent'anni». Vuol dire che lei e D'Alema concordavate anche in un giudizio negativo su Ciampi? «In quelle conversazioni a due, fu detta questa frase: qui finisce che Prodi e Veltroni ci buttano fra i piedi la candidatura Ciampi. E l'altro convenne». Chi la disse, questa frase? «Fu detta. E forse avevamo ragione. Sono sempre dalla parte di Max Weber, la politica "als Beruf", come professione, e quindi come vocazione. Cioè uno spazio per una dedizione assoluta, non l'esercizio di un funzionariato».
L'Espresso, 27/12/2001
La sinistra sono io
Nel mezzo del cammin della sua vita, Lorenzo sembra Jovanotti soltanto nel- l'abbigliamento, nel maglione, nella barbetta etno, nei capelli giovanilisti. Sta finendo i missaggi del suo nuovo album, che si intitola "Il Quinto Mondo", dopo una polemicuccia con Massimo Bubola che aveva indiziato di plagio il titolo precedente, "Vita morte e miracoli". Siamo in uno studio della periferia milanese. Canzoni d'amore, violini, accordi brasiliani. Ma poi si scatena l'urlo punk di "Salvami", il singolo che esce in radio il 28 dicembre (nei negozi l'11 gennaio in un cd che contiene altri tre brani inediti non presenti nel nuovo disco e una traccia interattiva di trenta minuti con le immagini delle sessioni di registrazione). "Salvami". Una protesta, una preghiera, un'invocazione. Un grido contro la guerra, contro la Fallaci, a favore della convivenza fra diversi. Rivolta a un popolo, a una tribù. Indistinta ma presente, soggetta al carisma genuino di un leader. Perché lei è un capotribù nato, non è vero, Lorenzo? Fin dal suo primo disco, che si intitolava "Jovanotti for president". «Ma no, sono uno che dice delle cose. Ho sempre avuto un gusto particolare per la parola. Anche il rap dei miei esordi lo interpretavo come una forma elementare di espressione, in cui le parole esprimevano una cultura: non letteraria, ma pubblicitaria, costruita su una serie di slogan». A un certo punto della carriera lei ha cominciato a lavorare soprattutto sui testi: come se avesse deciso che aveva qualcosa da dire. Un programma, un progetto. «All'inizio le mie idee musicali erano esteriorità immediata. Niente elaborazioni. Dominava il desiderio di rompere con una tensione nuova gli schemi della musica anni Ottanta. Sulla scena italiana, l'unico uomo di rottura era Vasco Rossi: un rivoluzionario vero, con frasi musicali composte di tre o quattro parole. Mentre i cantautori erano logorroici, Vasco sparava espressioni pubblicitarie come "Coca, Cola", o "C'è chi dice no". Ritmo, slogan, efficacia dura senza filtri». E lei si è detto: ci provo anch'io, voglio diventare anch'io un capopopolo. «Non avevo progetti di leadership, non sapevo se ero effettivamente un capotribù, ma sentivo di avere una marcia in più. Ero sicuro di farcela. Sentivo di essere un solitario, un individualista. Però, con una generosità innata, con la voglia di spendermi». Un individualista che ha trovato un popolo. «Forse, ma non sono stato io a cercarlo. Mi sono sempre sentito "alla periferia di nessun centro". Sono nato in Vaticano, dalle finestre si vedevano i pullman dei pellegrini. Si sentiva di essere nel cuore di un pellegrinaggio gioioso. Durante l'infanzia vedevo la cupola di San Pietro, e in piazza i pellegrini in festa. È stato un imprinting. Se tutti noi cerchiamo qualcosa del nostro passato, se Adriano Celentano cerca sempre la sua via Gluck, io cerco questo universo di gente, gioioso e variegato». Ha avvertito un'insufficienza della musica come discorso pubblico? «Insufficienza della musica? No, eventualmente insufficienza mia rispetto alla musica. Poiché non ho mai sviluppato l'aspetto tecnico, mi accorgevo di un limite. Per questo ho puntato sul contenuto. Il mio vero strumento l'ho trovato nella parola, nel testo». Ma avrà avuto qualche punto di riferimento fra i grandi della musica. In Italia e all'estero. «In Italia sicuramente Celentano, il Celentano tra gli anni Sessanta e Settanta, quello di "L'albero di 30 piani": populista, sfrontato, capace di sublimare il banale. Rispetto a lui credo di avere un po' di senso autocritico in più. Ma anche Adriano fa una musica "etica", in quanto mette se stesso prima delle sue canzoni». Indichi anche qualcuno meno etico. «Vasco, come ho già detto: in lui canzone e artista si identificano. Poi i cantautori, De Gregori, De Andrè, Pino Daniele, Edoardo Bennato, Rino Gaetano. Sono stati come una paternità non cercata». E nella musica internazionale? «Bob Marley è il più grande. Sono cresciuto con la musica nera americana, con il rap, Public Enemy. Anche se alla lunga il rap si logora, diventa un genere, un cliché. Diventano tutti epigoni di una maniera». Mentre lei si è reinventato. Da "È qui la festa" a "Penso positivo". «È la mia condanna: a ogni disco ricomincio da capo. Io non sono un cantante. Non sono un cantante popolare negli schemi convenzionali. Ogni volta devo trovare una forma di espressione inedita». Ma si può ripartire da capo con un'industria musicale che chiede repliche continue? «Nel lavoro sono completamente libero. Ci sono persone con cui mi confronto, come Claudio Cecchetto, che resta una figura di riferimento essenziale. È un uomo di intuizioni, con un punto di vista particolare, molto pop. Non ho più rapporti di lavoro con lui, ma il confronto è sempre assiduo». Lui è pop. E lei, invece, è politico. Perlomeno nel senso di proporre una politica delle emozioni. «Non mi era mai venuta in mente come definizione, ma credo nella politica delle emozioni: vengo da una generazione apolitica, e mi sono sempre sentito poco ideologico...». Cattolico come Celentano? «Sarebbe facile rispondere che sono cristiano. Il cattolicesimo era l'ambiente naturale. Capirà, con un padre entrato in Vaticano come gendarme. Ho visto Madre Teresa di Calcutta, i pontefici, papa Luciani, Giovanni Paolo II». Ci manca solo che adesso faccia l'elogio dei valori tradizionali. «Ma i valori tradizionali possono essere applicati modernamente: come pietas, come rispetto delle differenze». Vediamo. La famiglia è un valore? «È un valore in mutazione. Un valore da ricercare. La pratica della fedeltà è un valore. Il lavoro è un valore, oltre che un modo per vivere nel mio tempo. Ma il valore assoluto è la comprensione del dolore». Quale dolore, quello dell'11 settembre? «Quella cosa lì, così terribile, apparentemente incomprensibile... Eppure non mi ha sorpreso: mi ha fatto stare male, ho passato un mese in un torpore assoluto. Ma proprio perché non mi ha stupito lo shock è stato ancora più forte. Vede, in Pakistan ho visto esposte le foto di Bin Laden: assurdamente per loro, per i poverissimi, rappresentava qualcosa. Noi abbiamo fatto finta di niente. Bin Laden non è un problema di religione, è un problema di potere: di un potere che sfrutta l'ignoranza e l'isolamento, e che fa diventare Bin Laden una specie di Che Guevara. Falso. Non c'è nulla di positivo. Ma capisco il meccanismo, perché generare odio dove c'è povertà è facile». Non è colpa nostra. «Eppure non abbiamo fatto una politica per la povertà, siamo stati collusi con le dittature, silenziosi, complici. Non ci si può nascondere dietro la giustificazione che tutto questo ha assicurato benessere e libertà. Ha garantito la libertà di qualcuno, il benessere di pochi». Si capisce che lei è contrario alla guerra. «Sì, sono contrario. Non credo che serva per onorare o riscattare le vittime di New York. Credo che sia terribile pensare che la morte di persone innocenti possa essere uno strumento politico. La guerra legittima implicitamente un atto terroristico». Di fronte a una posizione del genere di solito si chiede qual è l'alternativa. «Sarò banale, ma la risposta al terrore è la diplomazia, la polizia, l'intelligence. Che la guerra sia la continuazione della diplomazia con altri mezzi è un'idea che mi ripugna». Sulle magliette dei suoi fan c'è Guevara, che faceva la guerra. «Ma anche il Che non mi appartiene, o almeno non mi appartiene il pensiero che conduceva dalla politica alle armi». Pacifista, disarmato, utopico, cristiano con sfumature buddiste: Jovanotti è un collage culturale, una profeta del sincretismo. «Sincretismo? Ma certo: come si fa a non essere aperti, spalancati di fronte alle meraviglie delle culture? È il mercato che pretenderebbe l'omogeneità totale, il pensiero unico». Un compagno di strada dei No global. «Non mi piace il termine. Le parole che negano mi fanno paura. Tuttavia il mercato non può essere l'unica legge. Il mercato è uno strumento di libertà, ma l'idea che siano dieci multinazionali a fare le regole è spaventosa. E la politica balbetta di fronte al movimento che lotta contro una globalizzazione sbagliata». Ma nel momento della scelta elettorale lei che cosa fa, vota a sinistra? Oppure scappa via? «Voto a sinistra. Sono legato all'idea di un aspetto pubblico della vita economica, allo stato sociale, alla sanità, all'istruzione. Sono un grande pagatore di tasse: mi inorgoglisce l'idea di contribuire alla costruzione e al mantenimento di strutture pubbliche». Non salterà fuori un Jovanotti moderato? «Perché no, politicamente sono moderato. Al seggio sono pragmatico. Fra Berlusconi e Rutelli voto Rutelli. Estremista posso esserlo sui principi. Non sarò moderato sull'ambiente, sulla tutela delle differenze, sulla convivenza multietnica. Ma credo nel voto utile. Fra Gore e Nader, scelgo Gore». Bisognava spiegarlo meglio agli italiani. «Già, la destra ha vinto perché ha avuto la capacità di comunicare. Che il centrosinistra invece ha smarrito». Ipotesi da "anno nuovo vita nuova": le chiedono di trasformarsi da capotribù in uomo politico. Che cosa risponde? «No. Con un piccolo rimpianto, perché ogni volta che vedo i vincitori, Berlusconi, in televisione, mi dico: "Io saprei come rispondere. Io potrei ribattere. Io saprei comunicare meglio di loro, vincerei nel faccia a faccia in tv"». E allora? «Non ne parliamo nemmeno. In confronto alla politica, il mio lavoro è una passeggiata».
L'Espresso, 13/12/2001
Il mal minore democristiano
Il venticello della rifondazione democristiana è forse la dimostrazione più puntuale, benché involontaria, che per la componente moderata del centrodestra il formato attuale della Casa delle Libertà non è così soddisfacente né così definitivo. Dopo le elezioni in Molise e in Sicilia la nostalgia scudocrociata si è sublimata in euforia: benché si possa escludere che i risultati nelle due regioni siano proiettabili aritmeticamente su scala nazionale, i cantieri sono stati immediatamente riaperti, con la partecipazione di vecchi capimastri come Paolo Cirino Pomicino e Calogero Mannino, a cui si è aggiunto Sergio D'Antoni, mentre Rocco Buttiglione squaderna ogni giorno i suoi progetti di rifacimento, e con regolarità si ventila il ritorno dell'eterno inquilino Clemente Mastella. Il piano di ricostruzione della Balena sembrerebbe una di quelle operazioni venate di velleitarismo, in grado di mettere insieme spezzoni di sottobosco politico piuttosto che di attrarre quote significative di elettorato. Tuttavia aleggia sulla politica, richiama discussioni, sollecita care memorie: e quindi assume valore di indizio. Si parla tanto di nuova Dc proprio perché all'interno del centrodestra, malgrado i numeri inattaccabili e un consenso per il governo ancora non scalfito, la situazione non è così limpida come si penserebbe. Nulla di serio, ovviamente. Ma innanzitutto continua a incombere il dilemma di Alleanza nazionale, che in Sicilia ha registrato una nuova battuta d'arresto, e che appare un partito dissociato fra il successo personale di Gianfranco Fini e uno sfondamento elettorale sempre rinviato: nonostante l'indubbia spregiudicatezza nell'occupazione del potere (testimoniata dal vitalismo dei suoi colonnelli Gasparri, Alemanno e Storace), An potrebbe rivelarsi inadatta a sganciarsi dal gregariato. In secondo luogo, certi malesseri della Casa delle Libertà vengono esposti dai contorcimenti di Umberto Bossi, obbligato a sottrarsi dalle spire del moderatismo centrista ma soffocato nelle iniziative e per ora impossibilitato a ridare fiato ai progetti leghisti. L'ipotesi di rilancio democristiano segnala infine anche le incertezze di identità di Forza Italia, che una parte della classe politica della Prima Repubblica aveva accettato come zattera nel fortunale: mentre oggi, davanti al richiamo della foresta dc, Berlusconi e il suo partito si configurano di nuovo come un accidente della storia, non più come i salvatori dei naufraghi. In sostanza, la riemersione democristiana è un indice di malesseri intestini nell'alleanza di centrodestra: ed è per questo che ex dc non nostalgici, e sicuramente ispirati a un chiaro disegno bipolare, come il leader del Ccd Marco Follini, hanno sempre dimostrato freddezza per i progetti di restaurazione del partito cattolico. Si tratta di malesseri lievi, indisposizioni di stagione, un mal d'ossa. Eppure la scarsa ostilità e anzi una diffusa non-antipatia che si coglie per i sogni dei "revenant" democristiani sono a loro modo rivelatrici: come se il passato dc e l'eventuale reincarnazione apparissero oggi un male minore rispetto alle squillanti innovazioni del berlusconismo.
L'Espresso, 06/12/2001
La maionese impazzita
Uno zapping quotidiano sulle reti a tiro di telecomando significa mediamente un accesso di schizofrenia. Perché in tempi "storici", tra avvenimenti debitamente epocali, nel corso del virtuale scontro di civiltà, uno chiederebbe non esattamente la Cnn ma una intonazione plausibile. Sobrietà di accenti, tempestività sui fatti e puntualità degli aggiornamenti. E naturalmente un'evasione di qualità, quando occorre (e come, se occorre). Invece per inseguire un'ombra, un indizio, uno spunto d'interesse, non si può fare affidamento sui palinsesti. La tv dell'epoca afgana è brodo di dado, o una marmellata con gli ingredienti che non si amalgamano, e la logica che va, più o meno letteralmente, a letterine. Dato che intrattenimento e approfondimento non hanno più confini riconoscibili, il logo di un programma non garantisce di per sé il prodotto. Il talk show di seconda serata svaria fra tragedie belliche e dive da calendario, geopolitica, oleodotti, strateghi, ereditieri, e per menù il faccia a faccia tra Vissani e Marchesi in cui Vespa sovrintende al risotto. Se malgrado tutto l'appetito televisivo perdura, resta alla fine uno spezzone dello show di Costanzo con la sua galleria di freak. Pazienza per le reti private, in sostanza il polo Mediaset, che hanno per missione aziendale il lavoro sporco sugli ascolti, complice la taricona Mascia del "Grande Fratello" o la fumeria d'oppio basso-popolare di Maria De Filippi. Ma la televisione pubblica, che infila le micidiali perle di commedia dell'arte manipolata nella stringa pomeridiana Panicucci-D'Eusanio, in attesa della riapparizione di nostra signora delle lacrime Raffaella Carrà, che giustificazioni può addurre? Quali logiche, quali finalità, quale servizio? Ci si ritrova pienamente schizofrenici nel senso che il trash di Panariello sul marsupio tramuta in un classico il ricordo delle vanvere di Celentano sui trapianti, ma anche perché ci si sorprende a scovare la cultura (eh sì, la cultura, gli approfondimenti, le interviste, i libri, le donne musulmane, il conflitto di civiltà, il conflitto d'interessi, il conflitto sulla bioetica) nelle ore della eccentrica coppia mattutina Saluzzi-Giurato, oppure nel game-show serale e "alto", dati i termini di paragone, di Pippo Baudo, e l'informazione in un incrocio fra "Le Iene" e "Striscia la notizia". Mentre a difese travolte qualcuno troverà accenni di rispetto per il codice scolastico- nozionistico nell'intrattenimento famigliare di Gerry Scotti. Ma può essere un'illusione ottica, e che in realtà le tracce di qualità siano spore residuali: mentre il destino della tv consisterà semplicemente nell'occupare spazi, strisce obbligate di spreco del tempo per un pubblico forzoso. In questo caso, resta solo da chiedersi a che cosa servono i consigli di amministrazione, le commissioni, i grandi budget, i cast, gli autori. Tanto vale lasciare che la tv si faccia, con paranoia autoreferenziale, tutta da sé.
L'Espresso, 29/11/2001
I falsari di Tangentopoli
Riscrivere la storia è stato il vero successo di Silvio Berlusconi. Gli anni post-1992 sono divenuti una "guerra civile" condotta dalla sinistra infiltrata nella magistratura. Mani pulite si è trasformata in un complotto contro i partiti liberaldemocratici. Tangentopoli, il simbolo di un'aggressione comunista contro le forze di governo. A furia di ripetere questi slogan, il pool di Milano è stato ridotto a un'avanguardia leninista. La versione è distorta per molti motivi. Ignora ad esempio il fatto che tra gli anni Ottanta e i Novanta l'intreccio della corruzione aveva trasformato l'economia in un oligopolio drammaticamente imperfetto, con effetti pesantemente distorsivi sul mercato. Qualcuno ha dimenticato la processione del mondo economico negli uffici dei piemme milanesi, in parte per cercare di mitigare l'azione processuale, ma in parte anche per liberarsi dal peso insostenibile del network tangentizio? Il revisionismo di Berlusconi e dei suoi ispiratori è forzato proprio perché attribuisce ai giudici la caduta di un sistema politico: mentre in realtà i partiti di governo crollarono in quanto esausti, incrostati di corruzione, incapaci di autoriformarsi. Attaccare i magistrati significa scambiare strumentalmente la causa con l'effetto. L'azione delle procure non sarebbe bastata a sbriciolare il sistema di potere di Dc, Psi e alleati. Per fare saltare il banco c'è voluta l'irruzione leghista, sono stati necessari i referendum maggioritari di Mario Segni, ha dovuto manifestarsi l'incapacità rigeneratrice di Mino Martinazzoli e dei numeri due socialisti. Ciò detto, viene da chiedersi per quale motivo, ottenuti tutti i suoi scopi, Berlusconi continui nel suo forcing contro le "toghe rosse". E di conseguenza perché la fazione degli avvocati presente in Forza Italia, a partire da Carlo Taormina (il sottosegretario che invoca gli arresti per i magistrati di Milano), mantenga altissimo il tiro, sfidando l'accusa di rendere abissale il conflitto fra le istituzioni. La spiegazione per cui si tratta di una tattica, tesa ad alzare difese preventive contro eventuali altre iniziative giudiziarie, sembra perlomeno incompleta. C'è del vero, ma probabilmente il disegno berlusconiano è più complesso. Con un'opposizione fiacca, e con un sistema dell'informazione in procinto di uniformarsi quasi in toto alla linea governativa, Berlusconi ha solo un nemico, reale o potenziale: cioè un'istituzione dello Stato, la magistratura. Che ormai difficilmente può metterlo sotto accusa. Ma che è ancora un rischio, o un fattore imprevedibile, per tutto quel blocco politico berlusconiano che fa ampio ricorso al personale politico, socialista e democristiano, dei vecchi tempi, in posizioni di governo e di sottogoverno. I progetti di Berlusconi (sul Csm, sulla Corte costituzionale, sulla separazione delle carriere) non appartengono più al contesto della guerra civile o semplicemente della vendetta: mentre si va integrando un sistema di potere, sono piuttosto le mosse della guerra preventiva.
L'Espresso, 15/11/2001
Ora siamo in prima linea
L'Italia è in guerra, e probabilmente sarà impegnata in operazioni militari dirette. A questo punto le istituzioni, i partiti, l'opinione pubblica, l'intera società italiana non hanno di fronte solo il compito di dichiarare la propria generica solidarietà agli Stati Uniti: l'ora della retorica è scaduta, e questo impone atteggiamenti intonati alla gravità della situazione. La lealtà verso l'America, l'America ferita dell'11 settembre, è fuori discussione: ma l'ingresso a pieno titolo nella condizione bellica cambia drammaticamente lo status del nostro paese, i suoi impegni, i costi razionalmente preventivabili. Sotto questo profilo non è un esercizio di speciosità valutare come si è evoluto il ruolo italiano sotto la guida di Silvio Berlusconi. Perché negli ultimi due mesi il capo del governo non si è limitato a mettere in tavola le prove del suo atlantismo: ha anche cercato in tutti i modi, talora esponendosi in modo provinciale, di interpretare un ruolo da protagonista sulla scena internazionale. Ha incontrato Bush, Putin, Blair. Ha reagito con ostinazione all'esclusione dal direttorio europeo dopo lo schiaffo di Gand. Ha convinto l'amministrazione americana ad accettare il coinvolgimento italiano in Afghanistan, piazzando il nostro paese in una posizione nettissima nella guerra al terrorismo, sfidando così le conseguenze che ciò potrà implicare. Berlusconi ha giocato una scommessa altissima, trascinandosi dietro tutta la sua coalizione politica e la parte maggioritaria dell'opposizione. Quanto agli esiti immediati, la sua rimonta è riuscita. Si tratterà di vedere in seguito se saprà gestire, oltre all'investimento effettuato, anche i prezzi che per ora restano invisibili. Il cambiamento di stile è abissale, rispetto a quello della classe politica andreottiana e craxiana implicata dieci anni fa nella guerra del Golfo, ma anche nei confronti del personale del governo dalemiano all'epoca dell'intervento nel Kosovo. Si dà il caso però che né Saddam Hussein né Milosevic avessero la minima possibilità di effettuare ritorsioni militari o terroristiche contro i paesi dell'alleanza occidentale; mentre oggi l'Italia va in prima linea, sul fronte afgano e rispetto alle possibili vendette degli accoliti di Bin Laden. In sostanza, Berlusconi ha messo l'Italia sul fronte. È una decisione lineare, anche se perseguita con un sovrappiù di affanno. Ma è una posizione che ci impegna nella crisi forse più grave dalla fine della seconda guerra mondiale. Sarà bene averlo chiaro in mente. Perché la guerra cambia in profondità sia le condizioni del confronto politico sia la qualità dei comportamenti. Deve influire sull'azione di governo, perché la bipartisanship non può essere richiesta esclusivamente all'Ulivo. E, non ultimo, deve incidere sulla forma dei comportamenti pubblici. Perché a due mesi dall'attentato alle Torri gemelle, e a pochi giorni da un voto parlamentare che spedisce in guerra il paese, la marcia filoamericana a Piazza del Popolo non è più un appuntamento psicologico, un'occasione polemica, una mobilitazione politica. È qualcosa di inadeguato alla durezza dei tempi, all'aspra moralità della guerra, tutto qui.
L'Espresso, 08/11/2001
Mercato. Ma corretto
Non è la prima volta che la presidenza della Commissione europea è sotto pressione. "L'italiano" Romano Prodi reagisce alla sua solita maniera. Via dalle polemiche spicciole. REAZIONE FREDDA verso la stampa europea («Mai pensato di dimettermi»). Grande cautela, con un ringraziamento a denti stretti, anche dopo la mossa di Silvio Berlusconi, che ha accusato una "euro-lobby" di procedere a una sistematica denigrazione anti-italiana, legando così i suoi personali problemi di credibilità esterna agli attacchi a Prodi. Guarda avanti, con la solita ostinazione. Perché nella sua visione il compito attuale dell'Europa non è contingente. L'autunno della globalizzazione, dopo l'attacco alle Torri gemelle, è l'occasione per riflettere sulla "rimonta" europea. Su un modello che sembrava superato, e che ora riemerge. L'economia sociale di mercato, la saggezza di un riformismo temperato. Qualcuno ci troverà l'eco di una leadership. Oppure le linee di fondo di un programma politico. Ecco la visione di un protagonista lontano, ma non troppo, dall'Italia del neo-thatcherismo. Ormai è un luogo comune dire che l'11 settembre ha cambiato il mondo. Ma cambierà anche la politica economica nel mondo sviluppato? «La percezione di un cambiamento profondo precede l'attacco a New York. I fatti di Seattle, Göteborg, Genova ci avevano già posti di fronte a processi di portata ingente e, soprattutto, imprevista. Gli eventi americani sono esplosi quando i problemi cruciali della globalizzazione erano già arrivati sul tavolo: proprio mentre si formava la sensazione che gli strumenti politici per affrontare questi problemi erano, e sono, inadeguati». Quindi lei ha preso sul serio i no global? «Vanno presi sul serio tutti quei fenomeni che mettono allo scoperto gli squilibri della globalizzazione. Cioè le espressioni di un disagio, di una serie di contraddizioni che mostrano che nella crescita c'è qualcosa che non va». Ma il "pensiero unico" sosteneva che la cura ai mali della crescita era la crescita stessa. «E così si sono persi di vista gli effetti indesiderati. In un periodo positivo per l'economia, nell'ultimo decennio si sono trascurate le tre grandi ingiustizie che agivano sotto la superficie del processo globale. La prima ingiustizia all'interno dei paesi ricchi, con il crescere del divario dentro le società. La seconda, con l'aumento della diseguaglianza fra i paesi in via di sviluppo. La terza, quella che ha prodotto l'attacco alla globalizzazione, con l'aumento della distanza fra paesi ricchi e paesi poveri». Nelle società occidentali, gli aspetti di iniquità sociale vengono messi in conto alle turbolenze della crescita. Qualcosa di inevitabile. «Già: la finanziarizzazione dell'economia, il taglio delle imposte, la ristrutturazione del welfare hanno creato la convinzione che un certo livello di squilibrio sociale sia intrinseco allo sviluppo. Si è anche pensato che la diseguaglianza sia un implicito fattore di crescita: ma in proposito non esiste nessuna conferma scientifica. Lo ripeto, non esiste. Eppure sotto questa luce si può inquadrare l'abbattimento delle imposte di eredità, non solo in Italia: cioè l'abolizione di uno dei principali strumenti di uguaglianza». Ciò che colpisce è che questa tendenza abbia coinvolto anche i principali paesi europei. «Ha toccato in profondità i sistemi di coesione sociale. Ma intendiamoci, parliamo di un bilancio in chiaroscuro. Infatti ci sono state conseguenze positive: meno strutture monopolistiche, meno incrostazioni, più trasparenza. In un mondo a capitale libero, dove i paesi possono esercitare un certo grado di concorrenza fiscale, diventa automatica la spinta a ridurre il peso delle tasse. È chiaro che tutto questo non deve andare perduto, perché ha significato consistenti vantaggi per i cittadini e i consumatori. Ma sarebbe un errore perdere di vista le iniquità che la liberalizzazione ha comportato». Nessun pentimento sulla via del mercato? «Certamente no. Dobbiamo tenere l'occhio sul mercato, perché c'è ancora tanta strada da fare. Ma ci vuole un riformismo "come Dio comanda", sufficientemente approfondito per ripulire le sacche di inefficienza residue, le distorsioni, i colli di bottiglia, il mancato incontro tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Nello stesso tempo occorre ripensare anche agli strumenti correttivi, tenendo conto che la correzione del mercato non è più solo una questione nazionale, ma va orientata su scala planetaria». Non si sentono molte voci disposte a unirsi all'idea di un nuovo interventismo statale. «È vero. Ma bisogna capire che non si tratta di un interventismo vecchio stile, per lasciare spazio a qualche monopolio. Si tratta di una sfida politica. Bisogna comprendere le ragioni di un'Europa partecipe di una globalizzazione profonda, e nello stesso tempo la necessità di correttivi adeguati alla nostra epoca, sia all'interno dei paesi europei sia nel senso dell'apertura di spazi politici ed economici ai paesi nuovi. Lo slogan da cui eravamo partiti, "trade not aid", era giusto, ma non funziona per i poverissimi. Va da sé, per dire, che l'Africa subsahariana non ce la fa, da sola, sul mercato mondiale». Ma nel mondo "unipolare", il ruolo dell'Europa è limitato. «L'11 settembre ha messo in crisi proprio il modello dell'unipolarità. Ha riportato sulla scena la Russia e la Cina. E l'Europa, con tutti i suoi limiti, può avere un ruolo proprio perché in passato è stata uno fattore di equità, e in molti casi è percepita come tale all'esterno». Anche in Europa però si è avuta l'ascesa irresistibile del laissez-faire. «Si è avuto un lungo processo di deregolamentazione, che è ancora più importante della privatizzazione, reso necessario dall'obbligo di competere con aree economiche molto più libere al loro interno. Un processo di lungo periodo, che ha visto all'opera diversi governi in ogni paese. La Spagna virtuosa di oggi è l'effetto dei governi spagnoli, quelli socialisti e quello di Aznar; il Regno Unito vede una significativa continuità, fuori dalle sigle politiche, fra i governi Thatcher e Blair...». E allora a che cosa serve votare laburista? «Occorre saper ragionare su due linee: la indispensabile deregolamentazione da un lato e la altrettanto indispensabile creazione di nuove e diverse forme di tutela sociale dall'altra. Nell'Unione europea la sfida del mercato è avvenuta troppo di recente perché si mettesse a fuoco il problema della distribuzione del reddito. Ma oggi che il crescere delle disuguaglianze interne diventa visibile, e può trasformarsi in una prospettiva di incertezza per i cittadini, ritorna essenziale porsi il problema della correzione del mercato, e della costruzione di nuove regole per garantire una performance sociale simile a quella già prodotta dall'Europa continentale nel dopoguerra». Si torna a guardare all'Europa "renana"? Quella di cui lei aveva descritto la specificità, insieme a Michel Albert, rispetto al capitalismo finanziario anglosassone? «Il capitalismo renano non è più quello di allora. È cambiato il rapporto fra banca e impresa, i partiti socialdemocratici hanno assimilato il mercato, la concorrenza si è imposta, la presenza dello Stato nell'economia si è fortemente ridotta. Siamo stati attraversati dall'onda d'urto della visione della Thatcher, che diceva: "Quella cosa chiamata società non esiste". La liberalizzazione ha avuto effetti profondi sul continente. Allorché in Europa continentale, una quindicina di anni fa, fu introdotto il sistema delle stock option, questa novità "americana" venne considerata come una rottura di lealtà entro una società che tendeva a limitare le differenze. Oggi è pura normalità. Ciò malgrado, anche se occorrerà liberalizzare, disincrostare, fluidificare ancora il sistema, occorrerà anche ripensare tutto il sistema delle regole, perché non si creino squilibri ancora più profondi». Per ora non sembra di avvertire in Europa un cambio di fase. «La percezione è troppo recente. Osserviamo l'affiorare di sintomi. Il conferimento del Nobel per l'economia a Joseph Stiglitz è sicuramente un segnale. I partiti europei, dai socialisti ai popolari, attraversano uno smarrimento, perché prima c'era la certezza, oggi c'è il dubbio. Si ricomincia a discutere, con una passione rinnovata, perché di fronte a un modello che va in tensione si riaprono opportunità per la politica». Riemerge il Novecento, se è vero che in America si assiste a una sorta di ritorno di Keynes. «Ho avuto modo di dire che George Bush jr. ha fatto la cosa più keynesiana che poteva fare, ed è un bene che l'abbia fatta un politico come lui, un conservatore. Tuttavia il piano americano da 150 mila miliardi, essenziale per sostenere l'economia statunitense, è ancora un'operazione tecnica, si indirizza largamente sul settore militare: in sé e per sé non induce a mettere in discussione i problemi di fondo». Quindi toccherà alla vecchia Europa porsi alla guida "ideologica" della fase attuale? In realtà molti hanno visto nell'evoluzione geopolitica dopo l'11 settembre un'assenza dell'Ue. «È un errore di percezione, basato su una miopia. L'Unione conta moltissimo oggi, in un mondo che abbandona l'unipolarità, e conterà ancora di più nel futuro prossimo. Ha espresso una grande unità sulla difesa e la politica estera, ma non solo: ha preso decisioni in settori nei quali finora ogni intervento sembrava impraticabile: il mandato di cattura europeo, le misure contro il riciclaggio di danaro sporco. Ma è in prospettiva che si vedrà meglio il ruolo europeo. L'allargamento dell'Unione darà un contributo fortissimo alla globalizzazione "democratica", cioè a un dinamismo che valorizza le opportunità di apertura e di partecipazione. Pensiamo a che cosa significa un'Europa con un 30 per cento di popolazione in più, a cui accedono paesi meno privilegiati. Pensiamo a che cosa significa la presenza di paesi a cui l'Ue potrà offrire aiuti per consentire l'ammodernamento dell'economia, ma che apriranno uno spazio economico capace di fare da volano alla crescita. La nuova equità consiste anche in questo: in un equilibrio fra la crescita dei nuovi e quella dei vecchi». Dubbi e riserve sull'allargamento, o sulle sue scadenze, non mancano. «L'allargamento non ritarderà di un solo giorno. Entro la fine del prossimo anno concluderemo i negoziati con i paesi candidati all'adesione così che i più pronti tra loro possano entrare nell'Unione prima delle prossime elezioni europee. Non c'è nessun elemento per metterlo in discussione. Ci gioco il mio mandato, la mia posizione, la mia faccia. Ma soprattutto ci si gioca una prospettiva storica». Qualcuno si chiede qual è l'interesse dell'Italia relativamente all'allargamento dell'Unione. Ci ritroveremo concorrenti in casa. «È fuori dubbio che l'allargamento implica un dare e un avere. Si perde qualcosa come individualità di nazione, ma si guadagna come ritmo di crescita». Va bene, ma uno scettico obietterebbe: un paese come l'Italia, con le sue debolezze strutturali, la sua assenza di grandi imprese, i suoi squilibri interni, ha davvero interesse a trovarsi i "late comer" come competitori? «Non dimentichiamo la funzione di cerniera che il nostro paese ha avuto rispetto all'Europa centro-orientale. Già oggi, l'Italia esporta a Est quanto Francia e Gran Bretagna insieme. Il suo ruolo come economia di frontiera può essere determinante. La sfida dell'allargamento, per noi, è un appuntamento fondamentale, pareggiato solo dalla priorità della costruzione di un rapporto con la riva sud del Mediterraneo, che per tradizione e per geografia rappresenta l'altro grande compito del paese». Che cosa occorre all'Italia per poter giocare questa funzione di cerniera? «Ci vuole un paese che sappia individuare le sue priorità. La prima priorità è un colossale investimento nelle risorse umane, moltiplicato in modo esponenziale rispetto a oggi e rispetto a ieri. L'altra priorità consiste nella capacità di ridisegnare il sistema delle regole. Perché finora si è fatto un faticoso lavoro di liberalizzazione e di smantellamento dei monopoli. Occorre rendere ancora più mobile il sistema, intervenire anche sul mercato del lavoro, fare in modo che domanda e offerta si incontrino con efficacia, che tutto il sistema economico funzioni in modo fluido. Ma nello stesso tempo, abbiamo l'obbligo politico e morale di reinventare il sistema delle regole. Finora la priorità era stata il laissez-faire. Oggi dobbiamo riuscire a immaginare il mercato come comunità civile, quindi presidiato dalle regole. Regole moderne, ma regole. Perché se non si ha il coraggio di pronunciare questa parola, regole, la forza delle cose sconfigge la politica».
L'Espresso, 01/11/2001
Prigioniero del doppiopetto
Saranno gli impacci del doppiopetto. Basta che Silvio Berlusconi metta piede all'estero per assistere a qualche scivolone. L'intempestiva dichiarazione di superiorità occidentale, l'altezzosa lite d'ambasciata con i belgi, la trafelata trasferta alla Casa Bianca, le rivendicazioni della «nostra alleanza con il presidente Bush», l'affannosa offerta di truppe: ciò che al capo del governo riesce benissimo entro i confini domestici, cioè l'autopresentazione come leader carico di compiti storici, sul piano internazionale si affloscia. In questo senso, lo "schiaffo di Gand", cioè il pre-vertice esclusivo fra Chirac, Blair e Schröder, rappresenta solo la glossa a margine di un decalogo europeo e atlantico secondo cui il governo italiano va benissimo quando si allinea, ma va malissimo quando solleva il torace e alza pretese. Era un vieto provincialismo, quello che faceva pronunciare agli esponenti della Casa delle libertà proclami impettiti secondo cui l'Italia «deve contare di più in Europa», ed è una ritorsione provinciale anche la sottovalutazione stizzosa di Berlusconi del nuovo "direttorio" europeo («Avranno parlato di affari loro»). Ci sarà pure un motivo se il capo del centrodestra italiano sembra diverso perfino antropologicamente dai suoi colleghi europei. Sarà ostinazione puerile riscontrare questa diversità anche nell'abbigliamento, eppure non cessa di stupire, ogni volta, l'apparizione del doppiopetto berlusconiano in mezzo a una sequenza di giacche europee a petto unico. Perché il doppiopetto è un capo impegnativo, che segnala un sovrappiù di impegno cerimoniale; oppure indica un senso della personalità che pretende di manifestarsi con un tratto di esteriorità irrinunciabile. Minuzie, ma erano minuzie anche le mutande e le fioriere del G8. La prudenza e la furbizia di un governante ultimo arrivato dovrebbero consigliare capacità di mimetizzazione. Mentre Berlusconi non ha mai nascosto l'irrefrenabile soddisfazione per avere instaurato rapporti di fervida amicizia con i leader mondiali, fino a convincersi che il suo humour e la sua personale esuberanza lo avevano imposto definitivamente fra le «teste coronate» (ipse dixit). Solo che la caratura internazionale non si inventa con le barzellette e neanche con l'entusiasmo velleitario dei parvenu. La dignità europea dell'Italia è stata riguadagnata prima dal faticoso lavoro di Prodi e Ciampi, con il duro risanamento irriso allora dal centrodestra, e poi dalla credibilità internazionale di D'Alema sul Kosovo. Oggi un ruolo più rilevante del "quarto grande" dell'Ue potrebbe essere assunto con una tessitura paziente, con dimostrazioni assidue di affidabilità, piuttosto che con pretese di protagonismo fuori luogo. La Casa delle libertà stenta a capirlo, e di fronte al ripetersi di botte sul muso reagisce con mediocri mugugni dalla provincia profonda, o con piazzate di regime a stelle e strisce. Qualcuno, a cominciare da Renato Ruggiero, potrebbe avviare qualche lezione alla Farnesina per spiegare che per conseguire prestigio non è il caso di gonfiare il petto. Neanche se doppio.
L'Espresso, 01/11/2001
C’era una volta Lupetto Benni
Superati i cinquant'anni agli scrittori italiani, compreso il versatile bolognese Stefano Benni, viene voglia di scrivere l'autobiografia. Subito dopo, fanno le smorfie per non mostrare di scriverla: compreso il ritroso Benni. Il quale, anche se non lo mettono nelle grandi raccolte del racconto italiano, tipo i tre Meridiani di Enzo Siciliano, è comunque uno scrittore dal talento micidiale, e per evitare di scrivere la storia della sua vita l'ha trasformata direttamente nel suo ultimo romanzo, che si chiama "Saltatempo" ed è stato pubblicato come al solito da Feltrinelli. Ineluttabile successo di pubblico, perché Benni, come il "ragazzo mucca" Michele Serra, ha una sua tribù di idolatri, che ogni anno e a ogni libro lo portano in processione come la Madonna pellegrina della sinistra al tramonto. Quanto alla critica, bah. Per fuggire dall'autobiografia Benni si è inventato una storia forse rabelesiana, e cioè che al se stesso ragazzino appare un enorme e puzzolente dio pagano, che gli regala un orologio supplementare, un "orobilogio", cioè un orologio doppio, che gli permetterà di saltabeccare nel tempo e di vedere il futuro. L'invenzione più che altro incasina la storia. Ma Benni deve avere pensato che per essere riconosciuto finalmente come grande scrittore deve insistere sul lato favolistico, sulla vena lunatica e bizzarra, sacrificando un po' lo humour alla bolognese che gli viene così bene: e quindi ha organizzato una storia che comincia laggiù, in quegli anni Cinquanta, quando una qualche valle sopra Bologna è effettivamente ancora una terra di prodigi, di miracoli contadini, di prodezze da caffè: e il paese è un catalogo di caratteri tipicamente locali e quindi universali, insomma "glocal" come si direbbe saltando nel tempo con l'orobilogio. Ma l'invenzione gratuita serve a Benni per dimostrare che a dispetto di tutto lui una sua coscienza sociale e politica ce l'aveva fin da allora, e quindi il superfluo orobilogio è invece utile per incrociare il Che Guevara e Elvis Presley, per prevedere il degrado cementizio della sua valle, il capitalismo galoppante, la corruzione, la speculazione, le frane che si portano via mezzo paese; e anche per presentire la strage di piazza Fontana, e per partecipare al maggio francese, con l'euforia irresistibile di trovarsi a Parigi nel maggio '68 in un clima talmente artistico che anche le merde di cane «mi sembravano pennellate impressioniste». E vabbè, Parigi è una parentesi: nella storia di paese saremmo dalle parti di "Mondo piccolo" e di Macondo, fra un Guareschi scafato e un García Márquez padano, schivando qualche trappola di Pennac con la consapevolezza istintivamente politica e poetica «che anche noi eravamo pesciolini e da un momento all'altro una grande pietra poteva calare sulla nostra vita». E con la conclusione inevitabile, che in fondo è una premessa ideologica ed esistenziale: «Capii che nella vita non volevo diventare come certe persone, e avrei cercato con tutta la mia forza di essere come certe altre». Solo che Benni non si accontenta di farcire ogni paragrafo di invenzioni lessicali e trovate che fanno impallidire la creatività media degli autori da classifica non solo italiani («Qua è come pulirsi il culo a revolverate», per dire del masochismo, o dell'inadeguatezza). E non si placa nemmeno dopo che in ogni occasione ha infilato la sua digressione da ragazzo da Bar Sport, i suoi exploit surreali o iperrealisti: il che basterebbe a un autore fiduciosamente sopravvalutato e implicitamente pipparolo come Nick Hornby per andare a nascondersi. No, il Benni furioso e favolistico sente anche il bisogno di popolare le sue storie di gnomi, elfi, nanetti, cani umanizzati. Non gli bastava la piccola epopea del papà comunista, dello zio illuminista, del sindaco canaglia, del farmacista e del medico proto-gay, delle generose donne del paese, dei compagni di scuola che finiranno a fare i chitarristi nella band internazionale degli "Scrapers" o che faranno i milioni brevettando una macchina pelagalline. Non bastava neanche la storia d'amore con la ragazza Selene, figlia di compaesani inurbati, che attraversa tutto il romanzo, e che per amore gli rifà clamorosamente lo strip sulle note di "Quarantaquattro gatti" (perché la radio al momento non passa di meglio). Ci voleva la dimensione mitica. Con tutta la mitologia, però, qualcosa si perde. Perché proiettata nei cieli di Propp, la storia di Benni si confonde con il fantasy e il sorcery, mentre la sua dote principale sarebbe una felliniana capacità di fare dell'amarcord sui tipi umani (la galleria dei maestri e dei professori, dei frequentatori del caffè, dei colleghi nel giornale di provincia che lo istruiscono sul giornalismo). Se la deve essere presa, Benni. Ah sì? Non mi mettete nelle antologie, nelle storie della letteratura, nel canone italiano? Padronissimi: e io vi frego creando una specie di presepio infinito, una storia circolare come quella di "c'era una volta un re, che disse alla sua serva". Una romanzeria popolare, ammesso che ci sia ancora il popolo. Benni si impegna a crederci, che il popolo c'è. Un popolo disposto ad accettare che il protagonista di un racconto contemporaneo possa chiamarsi Lupetto e prendere il nome di Saltatempo, e a trasformare la politica in alluvionale affabulazione. Una favola in cui il protagonista è uno qualunque, anarchico quanto basta, né figo né sfigato, anche se «ero brutto: pieno di brufoli di ogni colore e forma, cuspidati, col craterino, a fico spremuto, a capezzolo...». Tanto ironicamente brutto, con il naso adunco e i capelli irti, che «tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago». Eppure la bruttezza del bambino si incarna nella voracità anarchica dell'adolescente e del giovane che scopre le città, le discoteche, il sesso, le tortuosità del potere: sempre con uno sguardo leggermente attonito, come se il mondo fosse qualche cosa di inafferrabile. Scopre le donne e la loro logica diversa, si infila in comici collettivi politici di estrema sinistra dove tutti si accusano a vicenda di deviazionismo di destra. Si accorge alla fine che il suo paese è «sospeso fra due età», in attesa di diventare definitivamente un non-luogo come tutti gli altri. Respinge l'intimismo di Michele Serra, l'elaborazione del lutto di Nanni Moretti. Della triade ufficiale della sinistra creativa, Benni è l'unico ad avere ancora voglia di buttarsi golosamente nelle cose. Avesse avuto il rigore di eliminare, discernere, aspettare, tagliare, eliminare i cali di ritmo e le ridondanze, forse saremmo qui a parlare di un nuovo Luigi Meneghello. Siccome non ha pazienza, resta il divertimento country, matto e sconclusionato, solo qua e là irresistibile, del solito capolavoro sfiorato.
pagina
di 66